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Parenti: seduta 23

Parenti: seduta 23
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Pagina 633
       PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TIZIANA PARENTI
                          INDICE
Audizione del dottor Giancarlo Caselli, procuratore della
Repubblica, e del dottor Guido Lo Forte, procuratore aggiunto
presso la procura della Repubblica di Palermo:
  Parenti Tiziana, Presidente ...............  635, 640, 644
                           648, 655, 660, 666, 678, 681, 682
  Arlacchi Giuseppe ..............................  657, 669
  Ayala Giuseppe ............................  655, 657, 659
  Bertoni Raffaele .....................  652, 654, 655, 674
                                          675, 676, 681, 682
  Bonsanti Alessandra .................................. 678
  Brutti Massimo .............. 650, 663, 670, 674, 675, 680
  Caccavale Michele ..............................  671, 678
  Caselli Giancarlo, Procuratore della Repubblica di
Palermo ................................  635, 642, 645, 647
                 651, 655, 657, 659, 660, 662, 663, 664, 665
                 666, 667, 672, 674, 675, 676, 678, 681, 682
  Garra Giacomo ...................  676, 679, 680, 681, 682
  Grasso Tano .......................................... 679
  Imposimato Ferdinando ..........................  644, 647
  Lo Forte Guido, Procuratore aggiunto presso la procura
della Repubblica di Palermo ............................ 641
                      642, 648, 652, 654, 660, 668, 670, 678
  Manconi Luigi ........................................ 679
  Scivoletto Concetto .................................. 676
  Scozzari Giuseppe ..................... 654, 657, 660, 663
                                          665, 666, 667, 681
Pagina 634
Pagina 635
  La seduta comincia alle 19.
   (La Commissione approva il processo verbale della
seduta precedente).
Audizione del dottor Giancarlo Caselli, procuratore della
Repubblica, e del dottor Guido Lo Forte, procuratore aggiunto
presso la procura della Repubblica di Palermo.
  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del
dottor Giancarlo Caselli, procuratore della Repubblica di
Palermo, accompagnato dal procuratore aggiunto, dottor Lo
Forte.
   Come già programmato dal gruppo di lavoro 1, l'audizione
del procuratore della Repubblica di Palermo viene svolta dalla
Commissione plenaria sul tema generale dei collaboratori di
giustizia e, più in particolare, sulla problematica che si
apre con riferimento alla loro gestione. Il dottor Caselli
farà un'introduzione che verrà completata dal dottor Lo Forte,
cui seguiranno le domande dei commissari: mi raccomando,
ovviamente, che le domande siano formulate in maniera tale da
consentire ai nostri ospiti di rispondere, anche con
riferimento ai tempi.
   Do la parola al dottor Caselli.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Quello odierno è per noi un esordio, almeno da
quando lavoro negli uffici della procura di Palermo: è un
esordio che riteniamo molto importante e significativo, di cui
non possiamo che ringraziare la Commissione tutta ed il suo
presidente. Consideriamo infatti da sempre estremamente
importante ed utile il rapporto con la Commissione
parlamentare antimafia, pur naturalmente nella diversità delle
nostre competenze, per avere indicazioni, s'intende non di
carattere tecnico-giuridico ma di supporto generale al nostro
intervento, e per poter offrire da parte nostra indicazioni
che nascano dall'esperienza e possano servire al vostro
lavoro.
   Avrebbe dovuto essere insieme a noi anche il dottor
Aliquò, il procuratore aggiunto che, nella ripartizione dei
compiti all'interno del nostro ufficio, si occupa un po' più
degli altri delle problematiche relative ai pentiti, ma a
Palermo serpeggia una gravissima forma influenzale, di cui ho
personalmente qualche segno indosso, mentre il dottor Aliquò è
addirittura allettato e quindi nell'impossibilità di essere
presente in questa sede. Cercheremo, comunque, per quanto
possibile, sulla base della nostra esperienza, di supplire
alla sua assenza.
   In alcune delle cose che diremo, vi saranno a volte
accenti critici per disfunzioni o per meccanismi che avrebbero
potuto, o dovrebbero, o potrebbero funzionare meglio: sia
chiaro fin da subito, non come clausola di stile o come
esercizio di retorica, ma come convinzione autentica, che non
vi sarà mai l'intenzione di criticare
Pagina 636
i singoli operatori di un determinato servizio, di una
determinata struttura, di un determinato settore. Chi deve
curare, seguire, realizzare la sicurezza e l'assistenza dei
pentiti e dei loro familiari - credo che sia persino banale
ricordarlo - deve assolvere a un compito estremamente
difficile, con mezzi molto scarsi, considerato il numero dei
pentiti e dei loro familiari, con una preparazione specifica
che a volte è quella che è per la mancanza d'integrazione di
altri saperi: per esempio, gli assistenti sociali, gli
psicologi, che sarebbero estremamente importanti in questo
tipo di lavoro, probabilmente, sono non numerosissimi, se non
del tutto assenti. Non saranno mai, quindi, critiche ai
singoli, od osservazioni in qualche modo collegabili al
comportamento di questo o quel soggetto, di questo o quel
funzionario: saranno semmai considerazioni da proiettare
sempre ed unicamente sul meccanismo, sull'articolazione
obiettiva del sistema di protezione così come delineato
dall'attuale disciplina legislativa e regolamentare.
   Va peraltro tenuto conto, in ogni caso, che, benché sia
passato un po' di tempo, per quanto riguarda l'esperienza del
nostro paese, siamo pur sempre in una fase iniziale, che se
non è propriamente di rodaggio è quanto meno di
sperimentazione, anche se ormai avanzata e protratta; ma
proprio perché ancora, per certi profili, di sperimentazione,
è una fase che fisiologicamente ed inevitabilmente non può non
comportare esigenze di assestamento, e quindi anche momenti di
disfunzione.
   Per rendere assolutamente insopportabile questa premessa,
aggiungo un altro capitolo, sempre introduttivo e preliminare:
in ogni caso, la nostra conoscenza di magistrati, ancorché del
pubblico ministero e della procura di Palermo, relativa ai
problemi legati alla sicurezza e all'assistenza è parziale.
Credo di potermi spiegare ricorrendo alla mia passata
esperienza di quando, in qualità di giudice istruttore a
Torino, mi occupavo principalmente di inchieste su fatti di
terrorismo: di pentiti e di problemi di sicurezza ce ne sono
stati moltissimi anche allora, anche se si trattava di
problemi lontani mille miglia da quelli che si devono
affrontare con la criminalità organizzata di tipo mafioso.
Personalmente non ho mai voluto sapere - ed ancora oggi non so
e spero di non sapere mai - per esempio dove viva Patrizio
Peci, perché, secondo me, sono cose che, non rientrando nella
sua competenza, il magistrato non deve sapere. Poiché tali
elementi sono pertinenti alla sicurezza del pentito, il
magistrato non è tenuto a conoscerli, ed anzi, se non li
conosce, dal mio punto di vista è meglio sia per lo stesso
magistrato sia per tutti. La nostra conoscenza del modo in cui
tali fenomeni vengono disciplinati e tali problemi vengono o
non vengono risolti è soltanto parziale, e molte volte risente
delle componenti patologiche, delle tensioni: il magistrato
viene coinvolto in queste problematiche quando le cose non
funzionano, quando è necessario rivolgersi ad un soggetto
terzo per vedere se si riesce a farle funzionare meglio, ma
non è assolutamente detto che nel momento in cui ci si rivolge
al magistrato la campana che suona sia obiettiva; soprattutto
non è assolutamente detto che facendo suonare
contemporaneamente altre campane il concetto complessivo non
finisca per essere diverso da quello che la conoscenza
parziale - ribadisco la parzialità della nostra conoscenza -
finisce per attribuirci.
   Esaurita questa premessa, per entrare subito nel tema che
la presidente ci ha proposto, credo che si debbano ricordare
le forti tensioni che si sono manifestate nello scorso mese di
settembre. Ci sembra che i problemi siano in fase di
sostanziale superamento, pur se le notizie che abbiamo in
merito al loro avvio a soluzione sono frammentarie; credo che
spetti principalmente alla Commissione - anche se non tocca
sicuramente a me indicare cosa quest'ultima debba o non debba
fare -, poiché essa ha i poteri, le competenze ed i mezzi,
registrare la situazione di malessere che si è verificata a
settembre ed appurare se i problemi che l'avevano determinata
siano in fase di irreversibile soluzione.
Pagina 637
   Le nostre considerazioni sono incentrate nella realtà di
Cosa nostra perché la nostra esperienza di lavoro è ad essa
circoscritta (ammesso che si possa parlare di un lavoro
circoscritto a proposito di Cosa nostra); è anche vero che
quest'ultima rappresenta - dico cose che loro certamente sanno
meglio di me - un unicum nel panorama complessivo della
criminalità organizzata. Questo non perché consideriamo
Palermo come l'ombelico del mondo o la procura di Palermo come
l'ombelico degli uffici giudiziari; forse qualche volta,
inconsapevolmente, ci capita di ragionare in questi termini,
ma sicuramente, al di là di quella che può essere una sorta di
ipervalutazione di noi stessi, Palermo rappresenta una realtà,
anche per quanto riguarda i problemi dei pentiti, che
purtroppo non ha eguali in nessun'altra città d'Italia e forse
del mondo. E' a Palermo che si sono registrati tutti gli
omicidi cosiddetti eccellenti: magistrati, prefetti,
carabinieri, poliziotti, politici e, da ultimo, sacerdoti; è
soprattutto a Palermo che si è verificata una preoccupante
quantità di omicidi trasversali nei confronti di parenti di
pentiti, a cominciare da Buscetta per proseguire con Marino
Mannoia, e riteniamo che purtroppo questa tecnica di
intervento criminale non si sia esaurita. Mi riferisco
esclusivamente alle notizie che sono state pubblicate anche
dalla stampa, perciò a notizie considerate pubbliche ed alla
prospettazione che di questi fatti è stata data - e
conseguentemente alla pubblicità di questi fatti mi richiamo
-, citando un fatto qualificabile come di lupara bianca ai
danni di un certo Rendo (se non ricordo male il cognome), che
è stato prospettato da alcuni organi di stampa come possibile,
forse probabile, vendetta trasversale nei confronti di un
pentito, per così dire, dell'ultima generazione, un pentito di
primaria importanza. Anche di recente molti giornali hanno
parlato, sia pure per incidens, delle vicende del figlio
di Di Matteo Mario Santo, che è sicuramente stato, e
probabilmente si trova ancora, in una situazione
strumentalmente usata dalla mafia ai fini di suo esclusivo
interesse criminale.
   E' su Palermo che c'è stata questa concentrazione vuoi di
omicidi eccellenti, che fanno di Cosa nostra un unicum
anche da questo punto di vista, vuoi di vendette trasversali
nei confronti dei familiari dei pentiti: intere famiglie
decimate o abbattute proprio perché nel pentitismo Cosa nostra
ha sempre visto, e sicuramente continua a vedere, un nemico
esiziale della sua compattezza, della sua solidità e della sua
capacità di rimanere forte e con quella caratteristica di
espansività che ne fa uno dei punti di forza e di
caratterizzazione rispetto alle altre organizzazioni
criminali. Questa specialità, questo essere un unicum
che caratterizza Cosa nostra fa sì che i pentiti siano anche
loro di qualità particolare: sarebbe persino ipocrita non
ricordarlo nel momento in cui si affronta il capitolo dei
rapporti fra mafia e politica, tutto da verificare. I giudizi
devono ancora cominciare oppure sono ancora di là da venire
perché le indagini preliminari sono ancora in corso, ma si
tratta di un capitolo che i pentiti di Cosa nostra hanno
aperto. Anche i problemi di sicurezza posti dai grandi pentiti
di Cosa nostra - grandi per il contributo, sia pure tutto o in
parte da verificare o in corso di verifica - sono sicuramente
speciali, senza volersi assolutamente considerare l'ombelico
del mondo, né togliere nulla all'importanza, alla delicatezza
ed alla complessità dei problemi che i pentiti pongono ovunque
altrove.
   Ho ricordato il disagio e la tensione registrati nello
scorso mese di settembre: c'è stato un momento in cui le
preoccupazioni si moltiplicavano in misura tale che si era
deciso di farne un piccolo dossier, che poi non abbiamo
utilizzato, se non per nostra conoscenza interna, perché ci è
sembrato che i problemi stessero avviandosi a soluzione, anche
soltanto prospettandoli verbalmente o discutendone con le
autorità competenti, alle quali erano ben presenti, e per i
quali esse per prime si preoccupavano di trovare una
soluzione. Leggendo una pagina a caso in cui si parla di
disagio, tra le tante che erano state redatte in quel periodo,
vediamo che le principali lamentele erano: inadeguatezza delle
misure di protezione (in questa specifica fase, che,
Pagina 638
come vedremo, era di transizione, con problemi che ora
sostanzialmente dovrebbero essere in via di soluzione);
eccessiva burocraticità del rapporto con i responsabili del
servizio; lentezza nell'affrontare alcuni problemi; il
problema del cambio di generalità costantemente irrisolto;
difficoltà di inserimento scolastico dei figli dei
collaboratori; lungaggini nelle procedure di rimborso delle
spese sostenute dai medesimi.
   Se volessimo far parlare, nel linguaggio certamente non
particolarmente colto, ma forse più significativo, uno di
questi soggetti, ascolteremmo frasi come "assoluta
irrisolutezza di tutti i miei problemi", oltre al riferimento
a delusione, a interventi tampone e non organici, a
spostamenti nel corso dei quali la tutela viene assicurata da
due soli uomini senza molta esperienza, alla mancanza di
un'auto blindata, in particolare in aeroporto, e così via. Vi
è poi soprattutto, reiterato, insistito - rappresenta
praticamente una costante - il riferimento alla mancanza di
documenti di copertura oppure a documenti di copertura non
particolarmente utilizzabili, oltre al problema, che è sullo
sfondo, del cambio di identità.
   Questo malessere - definiamolo così - del settembre 1994
si ricollegava ad un momento di ristrutturazione delle
concrete modalità di funzionamento del Servizio centrale di
protezione, ristrutturazione che comportava anche un
decentramento; parlo - lo ripeto - per grandi linee, perché,
per i motivi che ho premesso, non conosco analiticamente e
specificamente i particolari. Parlando per grandi linee, ci è
sembrato di capire che il nuovo schema fosse non più quello
del servizio che va dal collaborante, dal pentito, ma che in
una certa misura fosse quest'ultimo a dover andare verso le
strutture periferiche, verso i terminali periferici del
Servizio; ciò significa che il pentito doveva portarsi
personalmente presso commissariati, caserme dei carabinieri,
uffici, appunto, periferici e, recandosi personalmente in
questi luoghi, affrontare e risolvere i suoi problemi, con
tutta una serie di conseguenze obiettive che i pentiti non
facevano difficoltà ... Ricordiamo (chiedo scusa se mi
permetto di usare questo linguaggio) che un dato obiettivo
assolutamente ineludibile quando si fanno queste riflessioni
sul problema del pentimento con riferimento a Cosa nostra è
rappresentato dal fatto che i pentiti di tale organizzazione
sono condannati a morte, sanno di esserlo, conoscono Cosa
nostra, sanno che essa aspetta anche dieci anni, come nel caso
di Leonardo Vitale, ma alla prima occasione esegue la condanna
a morte.
   Essi sono vissuti in Cosa nostra, l'hanno praticata, si
sono identificati con essa per anni e anni commettendo
svariati omicidi; la loro identità è quella dell'uomo d'onore
che da Cosa nostra ha avuto tutto; essi conoscono le regole di
Cosa nostra, le hanno vissute, praticate e applicate come
nessun altro e le ricordano ancora anche nel momento in cui si
sono dissociati; sanno quindi di essere dei condannati a morte
e sono consapevoli che, non appena vi siano gli spazi tecnici,
oltre che la decisione di carattere tattico o strategico,
questa condanna a morte sarà eseguita. Essi allora vivono
costantemente in una situazione che li rende particolarmente
avvertiti e sensibili, qualche volta anche ipersensibili
(questo si può anche capire, dal punto di vista psicologico),
ai rischi ed ai problemi che corrono, all'aumento del tasso di
rischio e di pericolo a causa della mutata situazione di
sicurezza, di protezione, di rapporto con il Servizio di
protezione.
   Il fatto che sia lo stesso pentito a dover andare presso
la struttura, sia pure periferica, del Servizio, dovendosi
così esporre di più a causa della necessità di frequentare
persone che non sono sempre le stesse, ma magari diverse di
volta in volta, e a dover frequentare strutture frequentate
anche da terzi, anche da gente che va in quegli uffici per le
sue normali esigenze, uffici - me lo sono sentito dire molte
volte - in cui lavorano anche ragazzi di leva, che quindi sono
sottoposti ad una selezione ben diversa da quella propria di
un servizio centrale di protezione, tutto questo è sembrato
anche a noi non un fatto campato in aria, inventato, né frutto
di
Pagina 639
suggestione, ma un problema reale e obiettivo che si traduce
in un aumento del tasso di rischio.
   Consentitemi di fare riferimento a una certa esperienza
che ho maturato come giudice istruttore a Torino quando mi
occupavo di inchieste sul terrorismo. Per dire come queste
cose siano obiettivamente, effettivamente pericolose e non si
tratti soltanto di paure e sensazioni individuali, ricordo che
mi porto dentro un'esperienza che mi pesa ancora, tanto per
fare un po' di autocoscienza (così si dice): capitò a me e ad
altri colleghi di Torino, giudici istruttori e pubblici
ministeri, di interrogare un ragazzo militante di Prima linea
ed in quel momento sapevamo ancora pochissimo di tale
organizzazione. Questo ragazzo ci disse delle cose che in quel
momento letteralmente non capimmo: parlò di un tizio - fummo
in grado di capirlo soltanto dopo mesi - rivelandocene anche
il nome di battaglia; era un comandante di livello molto alto
nell'ambito di Prima linea, uno dei capi principali
dell'organizzazione. Non avevamo però, in quel momento,
elementi di conoscenza e dati sufficienti per capire quanto
questo ragazzo ci aveva detto; sapevamo di una sua posizione
marginale e conseguentemente, come le carte processuali (per
usare questo orribile linguaggio burocratico, visto il seguito
della storia) ci imponevano, gli concedemmo - se non ricordo
male - la libertà provvisoria o comunque egli recuperò una
situazione di libertà, con obbligo di presentazione periodica
in una caserma dei carabinieri o in un commissariato di
polizia. Prima linea, che in realtà sapeva benissimo che cosa
egli avesse detto e quali chiavi di lettura, in progresso di
tempo, avremmo potuto utilizzare, lo considerò un pentito,
anche se non lo era; proprio perché obiettivamente, se non
soggettivamente, pentito, in quella fase di primo affacciarsi
di pentimenti sul versante del terrorismo, l'organizzazione
decise di punirlo e potè colpirlo facilmente proprio
utilizzando l'obbligo, che noi gli avevamo imposto, di
presentarsi periodicamente, con la conseguente facilità nel
seguirne i percorsi e nel tendergli un agguato che, nel caso
di specie, fu mortale.
   Voglio dire che l'obbligatorietà, la burocratizzazione, in
una certa misura, di tutto ciò che direttamente o
indirettamente influisce sulla sicurezza diminuisce la
sicurezza medesima. Quello che ho ricordato del militante di
Prima linea è sicuramente un caso limite, ma l'ho ricordato
soprattutto per cercare di sottolineare e di rendere quanto
più possibile evidente che se, anziché instaurare il rapporto
inverso, ossia del Servizio che avvicina riservatamente,
sempre e soltanto con gli stessi uomini, il soggetto, si
obbliga invece il soggetto stesso ad andare verso il Servizio,
che magari può essere ogni volta diverso nelle sue
articolazioni, questo può rappresentare un problema,
soprattutto se il fatto di doversi recare al Servizio si
collega alla mancanza di documenti di copertura (il discorso
ritorna) e di una nuova identità; ne deriva quindi
un'automatica esposizione di sé, per esempio, come Giancarlo
Caselli o Guido Lo Forte di fronte a coloro che di Giancarlo
Caselli e Guido Lo Forte, residenti e domiciliati in quella
certa zona, cittadina o città, nulla dovrebbero sapere, perché
non facenti parte del Servizio centrale di protezione.
   Il problema principale della sicurezza dei pentiti, cioè
la mimetizzazione, finisce per essere posto a rischio, reso
assai più difficile e ostacolato con questo tipo di
ristrutturazione.
   A nostro avviso, il cardine fondamentale di tutta questa
problematica resta quello del cambio di identità; tutti i
paesi del mondo che hanno dovuto affrontare e affrontano
problemi di questo tipo, di collaboratori di giustizia da
proteggere, con un servizio che può chiamarsi marshal o
in qualunque altro modo, risolvono preliminarmente e mettono
da parte il problema del cambio di identità, perché ciò è
conditio sine qua non per poter poi procedere
seriamente. Se non si risolve questo problema tutto diventa
più difficile, più complicato e, se non insolubile,
particolarmente intricato.
   Detto tutto questo e fattolo risalire a non molto tempo fa
(al settembre scorso),
Pagina 640
va detto che vi sono molti segnali, anche se - lo ribadisco -
da noi frammentariamente conosciuti, i quali ci inducono a
ritenere che la situazione sia sostanzialmente in fase di
rasserenamento e che quello stato di malessere, di disagio,
quanto meno di timore circa una diminuita sicurezza, sia in
gran parte sostanzialmente rientrato.
   Dovrebbe essere avviato a soluzione il problema della
disciplina con un apposito regolamento del cambio di identità
e dovrebbe essere stato realizzato, dovrebbe essere in atto un
forte impegno, un forte sforzo da parte del Servizio centrale
di protezione di razionalizzazione e quanto meno di
eliminazione delle punte più spigolose, più pericolose del
sistema, ricollegabile soprattutto alla fase di transizione,
alla fase di nuova strutturazione, alla fase di ricerca di
nuovi schemi di intervento per la tutela e la sicurezza dei
pentiti.
   Un po' presuntuosamente, perché insegnare agli altri che
cosa fare e che cosa non fare è davvero molto presuntuoso -
loro sanno che i magistrati soffrono di delirio di
onnipotenza, o per lo meno vengono accusati di delirio di
onnipotenza o di straripamento continuo -, vorrei permettermi
(fuor di scherzo, perché non c'è molto su cui scherzare in
questa materia) di ricordare come, già ai tempi di Falcone, la
questione del cambio di identità, ad esempio, fosse
prospettata come ormai risolta, come questione la cui
soluzione era ormai questione di giorni, se non di ore, ai
fini della sua traduzione in cifra legislativa o
regolamentare, e come, viceversa, siamo ancora qua, e due anni
dopo Capaci, a porci questo problema, per noi davvero
fondamentale, il problema cardine di tutta la problematica
della sicurezza dei pentiti.
   Credo allora che la Commissione debba essere sempre
noiosa, sempre petulante, sempre alla ricerca di costanti
verifiche che questo discorso, che questo problema - se
naturalmente fosse condivisa, come mi auguro, l'importanza che
noi connettiamo al problema del cambio di identità - sia non
soltanto avviato a soluzione, ma definitivamente e
irreversibilmente ridotto. Se questo, infatti, dovesse
avvenire, allora uno strumento che consideriamo molto
complesso e molto difficile, per il quale si devono esercitare
tutta la nostra attenzione, il nostro scrupolo, la nostra
verifica quasi maniacale di ogni dichiarazione, di ogni
risvolto di ciascuna dichiarazione e di tutti gli interstizi
che tra dichiarazione e dichiarazione possono presentarsi, con
tutte queste difficoltà, con tutte queste complessità, che
sono il nostro mestiere (per alcuni di noi, se non da sempre,
da parecchi anni a questa parte), rimarrà uno strumento
insostituibile allo stato degli atti, soprattutto con
riferimento a Cosa nostra, laddove, essendo essa prima di ogni
altra cosa un'organizzazione particolarmente efficiente,
soltanto chiavi di lettura del suo assetto organizzativo e
quindi interne all'organizzazione ed offerte dai pentiti in
quanto già militanti dell'organizzazione stessa ed in quanto
trovatisi in condizioni tali da potersi impadronire dei suoi
meccanismi di funzionamento interno, soltanto con questo
contributo è possibile - allo stato degli atti - impostare una
seria strategia di risposta a Cosa nostra.
   Mi fermerei a questo punto, se quanto ho detto appare
sufficiente, restando a disposizione per rispondere alle
domande che loro riterranno di porre.
  PRESIDENTE. A noi interessa, anche al fine di completare
quanto lei ha detto con l'apporto del dottor Lo Forte,
ascoltare proposte sul sistema di protezione nel suo
complesso, e quindi fin dall'inizio.
   Inoltre, alla Commissione e più specificamente al primo
gruppo di lavoro (che si interessa delle verifiche normative
in materia di legislazione antimafia) interessa l'eventuale
indicazione di collaboratori di giustizia che possano essere
significativi relativamente a problematiche che si possano
porre e che non siano ancora sufficientemente note.
   Resta inteso che, se dovessero essere trattati argomenti
non ancora pubblici, potrà essere sospesa l'attivazione del
sistema audiovisivo a circuito chiuso.
Pagina 641
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la Procura
della Repubblica di Palermo. Credo che il fatto che questo
problema, cioè la realizzazione di un efficace e moderno
sistema di protezione dei pentiti, dei collaboratori di
giustizia in Italia, non sia di facile soluzione derivi di per
sé da un fatto assolutamente positivo: è inutile ripetere che
la moltiplicazione quantitativa delle dissociazioni dalle
organizzazioni criminali costituisce un fatto di grandissima
importanza nel progresso della strategia di contrasto dello
Stato contro la criminalità organizzata.
   Oggi possiamo veramente dire che, se rimangono saldamente
ferme determinate condizioni del quadro legislativo ed
istituzionale generale, è possibile cominciare a parlare non
più di una strategia di contenimento e di contrasto, ma
addirittura di una strategia di attacco al crimine
organizzato. Lo Stato è passato all'offensiva e deve
assolutamente continuare e proseguire in una strategia
d'attacco e non di semplice contrasto: deve intensificare ed
affinare l'offensiva per far sì che in tempi ragionevoli il
fenomeno del crimine organizzato in Italia, in particolare
quello di Cosa nostra, si riduca quanto meno nei limiti
fisiologici di una moderna società occidentale.
   Non è possibile certamente eliminare il crimine dalle
società moderne, dalle società democratiche, ma è certamente
possibile ridurre il fenomeno criminale ad un fatto per così
dire fisiologico, ad una realtà che sia soltanto criminale e
non sia invece capace, com'è adesso, di inquinare, attraverso
la disponibilità di enormi capitali, il tessuto economico e
civile e, virtualmente, anche istituzionale di uno Stato.
   Non a caso, gli Stati europei, ad esempio la Francia e la
Germania in particolare, sono molto preoccupati ed attenti
alla evoluzione della fenomenologia del crimine organizzato in
Italia ed alle strategie di contrasto che si attuano in
Italia, non perché ovviamente in Francia o in Germania
qualcuno pensi di temere un radicamento o la possibilità di un
radicamento territoriale della criminalità organizzata analogo
a quello che noi abbiamo nelle regioni meridionali, ma perché
si teme, e fondatamente, l'enorme capacità di inquinamento del
mercato finanziario ed economico, sapendo che questo
altererebbe il regime della libera concorrenza e sarebbe
virtualmente capace di inquinare anche il rapporto, che in
quei paesi non ha mai presentato particolari margini di
rischio, tra fenomeni criminali e tessuto istituzionale.
   Noi abbiamo attualmente qualcosa di più di 900
collaboratori di giustizia ed alcune migliaia di congiunti da
tutelare. Il dato quantitativo, che è un dato molto importante
e positivo - perché significa che stiamo abbastanza avanti nel
processo di disarticolazione delle organizzazioni criminali -
crea però un problema che non trova situazioni analoghe in
nessun paese del mondo, neanche negli Stati Uniti. Si tratta
di un problema quantitativo.
   Evidentemente, il concepire l'organizzazione di un
efficace sistema di protezione a fronte di un dato
quantitativo di tale tipo (dobbiamo peraltro auspicare, far
sì, creare le condizioni, mantenerle e rafforzarle, perché il
numero dei collaboratori cresca; il numero dei collaboratori
non deve certamente preoccuparci ed anzi occorre far di tutto
perché aumenti) fa sì che il problema non possa essere
affrontato con una sorta di omogeneità burocratica, senza
pensare al metodo di lavoro e a un dato qualitativo.
   Cosa intendiamo per metodo di lavoro? Inutile dire che non
è possibile prevedere dei sistemi di sicurezza attivi (vetture
blindate, vigilanza continua, scorte e così via) come metodo
generale del sistema di protezione. Naturalmente questo dovrà
realizzarsi allorché vi siano particolari e contingenti
condizioni di rischio, che possono essere neutralizzate
soltanto con un sistema di protezione attiva. Non dico nulla
di nuovo quando affermo che la strada da seguire è quella
dell'assoluta segretezza del mutamento di identità, quella che
oggi si chiama mimetizzazione del pentito e dei suoi
familiari. Non si tratta più di un problema quantitativo; la
realizzazione efficace di un tale obiettivo non presuppone la
predisposizione di un corpo
Pagina 642
con 10 mila o 100 mila uomini, ma l'adozione di un metodo di
lavoro, un determinato tipo di preparazione, l'acquisizione e
l'interiorizzazione di una cultura professionale ed un certo
regime giuridico di autonomia all'interno dell'organizzazione
dello Stato.
   Voglio fare l'esempio concreto del sistema dei
marshal tipico degli Stati Uniti. Quando si va ad
interrogare un collaboratore di giustizia che risiede negli
Stati Uniti, naturalmente in regime di rogatoria
internazionale, quindi con l'assistenza e sotto la direzione o
di un procuratore distrettuale, come è accaduto diverse volte,
ovvero addirittura di un rappresentante del dipartimento di
giustizia, a seconda della sede in cui avviene
l'interrogatorio, posso affermare, sulla base della mia
esperienza diretta (mi riferisco ai casi di Marino Mannoia e
Tommaso Buscetta) che neppure il procuratore distrettuale
presso il quale deve svolgersi la rogatoria, fino al preciso
momento della presentazione del collaborante accompagnato dai
marshal, sa dove si trovi, da dove provenga e quando
arriverà il collaboratore. Il procuratore distrettuale degli
Stati Uniti - ripeto - ignora totalmente, fino all'ultimo
minuto, quale sia il programma di viaggio, i tempi ed altre
informazioni connesse, perché il corpo dei marshal non
gli fornisce assolutamente alcuna informazione dalla quale lo
stesso procuratore possa anche indirettamente desumere la
durata del viaggio e la distanza presumibile del luogo di
residenza del collaborante da quello in cui deve svolgersi
l'audizione. Peraltro il procuratore distrettuale non si
meraviglia affatto che i marshal non gli dicano nulla,
perché questo rientra nel tipo di cultura esistente negli
Stati Uniti (forse difficilmente comprensibile dal punto di
vista italiano), per cui nessuno si offende se le informazioni
vengono tenute riservate per ragioni di sicurezza.
   E' questo il dato importante: sebbene il sistema dei
marshal sia inquadrato sostanzialmente nel dipartimento
di giustizia, il vincolo di segretezza, lo scrupolo ossessivo
della segretezza, vale anche per i rappresentanti del
dipartimento di giustizia. In altre parole, pur essendovi un
incardinamento organico del corpo all'interno del dipartimento
di giustizia, esiste una riconosciuta e praticata autonomia in
funzione della massima sicurezza. Mentre si svolgono gli
interrogatori alla presenza costante del procuratore
distrettuale (cito esperienze vissute), o del rappresentante
del dipartimento di giustizia, due uomini o donne del corpo
dei marshal non si allontanano, neppure per un istante,
dalla sede dell'audizione, quindi non perdono di vista neanche
per un momento la persona della cui sicurezza sono
responsabili.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Fanno finire l'interrogatorio.
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. C'è di più.
Addirittura - e di questo vi è traccia in un interrogatorio di
Tommaso Buscetta svoltosi a Washington nel settembre del 1992
- l'ufficio della procura di Palermo dava atto che
l'interrogatorio poteva durare soltanto tre ore perché i
marshal, per necessità di sicurezza dovevano portar via
il collaboratore. Sebbene il rappresentante del dipartimento
di giustizia fosse certamente disponibile, nello spirito di
collaborazione, a consentire la prosecuzione
dell'interrogatorio alla sua presenza, egli si è dovuto
arrendere alle esigenze di sicurezza dei marshal.
   Ho voluto riportare tale esempio per richiamare non tanto
le regole, che pure sono codificate, quanto lo spirito di quel
sistema, basato su una preparazione professionale
assolutamente eccezionale degli addetti al corpo dei
marshal, sia dal punto di vista militare sia dal punto
di vista delle tecniche di sicurezza, sia da altri punti di
vista. Tale preparazione è talmente elevata che i
marshal sono considerati negli Stati Uniti, nel loro
genere e per i loro compiti, uno dei corpi di massima
specializzazione. Si evidenzia, quindi, innanzi tutto la
preparazione ed anche la cultura della segretezza che implica
l'aspetto della responsabilità della sicurezza del
collaborante; al
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riguardo negli Stati Uniti, come in tutti i paesi di moderna
cultura occidentale, vige il principio della responsabilità
personale. Pertanto, se accade qualcosa (che non deve
accadere) riguardante il collaborante, ne risponde non una
istituzione o una categoria in generale, ma la persona, o le
due persone, investite specificamente della responsabilità
della sicurezza. Vi è, quindi, una riconosciuta autonomia
all'interno dello stesso dipartimento di giustizia.
   Credo che per risolvere il problema sul piano del metodo,
posto che la mimetizzazione e la sicurezza rappresentano in
generale le uniche soluzioni per risolverlo, sia necessario
creare un corpo specializzato; ma non occorrono numeri
esorbitanti, bensì la qualità delle persone, la loro
responsabilità e il riconoscimento, in diritto e in fatto,
della cultura della segretezza, in funzione della
sicurezza.
   Sempre affrontando la questione in termini qualitativi e
non quantitativi, pongo l'accento su un altro versante. Non si
può disconoscere che, nell'ambito di più di 900 collaboratori
di giustizia, vi siano situazioni profondamente diverse; non
alludo assolutamente all'ipotesi di pentiti di serie A, B o C:
ciascun soggetto che decide di collaborare con la giustizia e
di fornire un contributo per la sconfitta di una
organizzazione criminale, moralmente e giuridicamente merita
la tutela e il riconoscimento dello Stato nei limiti delle
leggi in vigore. Tuttavia, non si può disconoscere
l'importanza del contributo, la sua durata nel tempo,
l'effetto oggettivo del contributo sull'organizzazione
criminale di appartenenza ed un rischio che cambia a seconda
della variazione di questi fattori.
   Per fare un ulteriore esempio pratico, se a collaborare
con la giustizia è un soggetto appartenente ad una
associazione per delinquere finalizzata al traffico di
stupefacenti, ma non di carattere mafioso o comunque non
organicamente integrata in un'organizzazione di tipo mafioso,
evidentemente il contributo è importante, il risultato
giuridico è altrettanto importante, però quell'organizzazione
ha una vita limitata nel tempo. Lo stesso vale per
un'organizzazione di per sé dedita al traffico di stupefacenti
e per tutte le organizzazioni criminali comuni: si tratta di
organizzazioni che si scompaginano e dalle quali, pertanto, in
progressione di tempo i rischi di reazione vengono meno.
   Vi è poi l'organizzazione criminale paramafiosa - per
"paramafiosa" intendo non un'organizzazione storica, cioè
insediata storicamente su un territorio, bensì
un'organizzazione criminale che ha adottato strutture, regole
e modelli di comportamento di tipo mafioso - la quale è una
organizzazione transeunte, non permanente. Certamente è capace
di reazioni violente, ma si tratta comunque di
un'organizzazione che può avere una fine, che può essere
disarticolata in breve tempo e le cui capacità di reazione
sono minori.
   Altra cosa è evidentemente Cosa nostra, altra cosa è la
'ndrangheta, altra cosa sono le organizzazioni facenti parte
della storia di un territorio o di una regione, le quali
costituiscono una istituzione illegale, nel senso che
controllano quel territorio con una struttura capillare, con
gerarchie, competenze e così via. Di conseguenza, quando un
collaborante fornisce un contributo notevole contro quella
organizzazione, non soltanto questa non verrà sgominata e
continuerà sempre ad esistere - ci auguriamo che si arrivi ad
una svolta su questo versante, ma nessuno si illuda che vi sia
la possibilità di annullare o annientare queste organizzazioni
in tempi brevi - ma oltretutto avrà una capacità di reazione
enormemente superiore a quella delle comuni organizzazioni
criminali. Perché? Innanzitutto in quanto la capacità di
reazione può essere esercitata non soltanto dai soggetti
organicamente inseriti nell'organizzazione, ma anche da un
numero molto superiore di fiancheggiatori dell'organizzazione
medesima. Possono altresì essere acquisite informazioni e
notizie perché un'organizzazione del genere ha possibilità di
infiltrazione, di corruzione e di collusioni con i settori
sociali ed istituzionali; è in grado - come l'esperienza
dimostra - di acquisire una serie di informazioni che possono
più facilmente consentire di colpire l'obiettivo.
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   Inoltre, è un'organizzazione che deve applicare la sua
sanzione. Il procuratore Caselli diceva giustamente un attimo
fa che rispetto alla sentenza di condanna emessa, il problema
sta nel momento della sua esecuzione. Le sentenze di condanna
sono già state emesse: erano state emesse per i prefetti, per
i giudici, per i funzionari di polizia, per i carabinieri e
sono state emesse anche per i pentiti. La sentenza di condanna
a morte per il collega Falcone era stata emessa nel 1984 a
seguito del mandato di cattura Buscetta, ma è stata eseguita
nel 1992. La sentenza di condanna a morte del pentito Leonardo
Vitale, emessa nel 1973, è stata eseguita nove anni dopo; la
sentenza di condanna a morte del dottor Cassarà era stata
emessa allorché Cassarà si sforzò di impostare organicamente
un serio programma di cattura dei latitanti.
   Cosa vuol dire che in questo momento - come sento dire
talvolta - nessuno viene colpito? Cosa nostra decide di
colpire non solo quando ci sono gli spazi tecnici per farlo,
ma anche quando c'è l'opportunità "politica" (dal punto di
vista della sua politica), allorché può colpire con il massimo
dei vantaggi ed il minimo dei danni. Quindi, sono le
condizioni politiche, sociali, culturali e civili generali ad
agevolare o ritardare l'esecuzione della condanna.
   Normalmente, come l'esperienza dimostra, quando vi è una
grande e forte coesione delle istituzioni e della società
contro la criminalità organizzata, la condanna non viene
eseguita; quando invece Cosa nostra avverte la sensazione che
non vi sia una forte coesione delle istituzioni e della
società civile contro di lei, quando ritiene che possano
verificarsi dei processi di graduale isolamento, la condanna
viene più facilmente eseguita.
   Questa è la lezione che si può trarre dai dati conoscitivi
acquisiti in tanti processi, soprattutto con riferimento agli
omicidi eccellenti. I pentiti sono condannati a morte ed il
fatto che allo stato la sentenza non venga eseguita dipende
sia dagli spazi tecnici per l'esecuzione della sentenza che
non sono ampi, perché lo Stato è impegnato a garantire la
protezione - abbiamo dei servizi che fanno il possibile e va
dato atto che se non si colpisce è gran parte merito delle
istituzioni addette alla protezione, le quali adempiono il
loro dovere nel miglior modo possibile, nelle condizioni
attuali -, sia perché Cosa nostra aspetta migliori opportunità
per eseguire la sentenza.
  PRESIDENTE. Passiamo alle domande dei colleghi.
  FERDINANDO IMPOSIMATO. Desidero innanzitutto ringraziare
il procuratore della Repubblica Caselli e il procuratore
aggiunto Lo Forte per le puntuali e interessanti relazioni.
Passo immediatamente alle domande: vorrei sapere se la cattura
e l'arresto di alcuni vertici di Cosa nostra abbiano
comportato l'individuazione, il sequestro e la confisca dei
beni di cui questi erano titolari, oppure se i patrimoni sono
sfuggiti alla confisca, per cui tali persone hanno conservato
intatta la loro capacità di corruzione nei confronti di
pubblici ufficiali o di politici.
   Vorrei altresì sapere se dalle dichiarazioni dei pentiti
emerga la permanenza di un rapporto tra mafia e politica che
sia attuale e se vi siano delle resistenze, delle perplessità
da parte di alcuni pentiti nel parlare di questo rapporto.
   La domanda si collega ad un altro quesito: numerose
persone a più riprese hanno evidenziato la necessità di
imporre una regola in base alla quale i pentiti debbono essere
posti nelle condizioni di rendere le loro dichiarazioni a
scadenza fissa, cioè entro un termine fissato addirittura per
legge. L'esperienza dimostra che in passato vi sono stati dei
casi - quello di Buscetta è il più clamoroso - in cui il
pentito non ha reso dichiarazioni sui rapporti tra mafia e
politica perché purtroppo alcuni politici dei quali doveva
parlare potevano essere al vertice del potere politico o
perché il funzionario di polizia o il magistrato ai quali ci
si riferiva erano, in qualche modo, coinvolti nelle
indagini.
   Non citerò casi particolari in quanto tutti sanno che vi
sono stati dei procedimenti penali riguardanti alcuni uomini
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politici, alcuni funzionari di polizia e qualche magistrato.
Ciò detto, ritenete opportuno prevedere per legge che un
pentito debba rendere dichiarazioni subito oppure entro un
termine fissato per legge? O che rispetto a certe situazioni,
vi sia l'esigenza di giustificare il ritardo con cui il
pentito rilascia le dichiarazioni?
   Vorrei chiedere, inoltre, se vi sia la possibilità di
ascoltare alcuni pentiti sui rapporti tra mafia e politica,
ovviamente senza che questo comporti un pregiudizio per le
indagini in corso.
   Infine, vorrei sapere se siate a conoscenza del fatto che
vi sono ordinamenti giuridici di altri paesi in cui
addirittura il reato di riciclaggio non è previsto dalla
legge, per cui non è possibile inseguire alcuni patrimoni nei
paesi nei quali questo reato - come del resto quello di
associazione per delinquere di stampo mafioso - non è
previsto. Vorrei sapere se sia possibile svolgere un'indagine
su questi paesi, al fine di consentire alla Commissione
antimafia di sollecitare le Nazioni Unite o altri organismi
internazionali ad invitare tali paesi ad introdurre forme di
sanzione, a prevedere questo reato, che è il più grave che
attualmente viene commesso e che non è perseguito - secondo me
- proprio perché gli strumenti legislativi e anche le
strutture giudiziarie non sono in grado di inseguire i
capitali mafiosi nei vari luoghi dove si rifugiano.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Proverò a rispondere ad alcune delle domande del
senatore Imposimato e poi Guido Lo Forte interverrà per
rispondere a quelle che avessi tralasciato o che non avessi
sufficientemente trattato.
   Mi sembra di ricordare che la prima domanda fosse: i
vertici di Cosa nostra arrestati sono stati attaccati anche
sul versante dei patrimoni? La risposta è sostanzialmente
affermativa, almeno per quanto riguarda i patrimoni che siamo
riusciti ad intravvedere e conseguentemente ad aggredire. La
procura di Palermo si è strutturata formando anche una sezione
cosiddetta delle misure di prevenzione, che è coordinata dal
collega Ignazio De Francisci, uno dei colleghi più validi sia
per anzianità di servizio sia per professionalità sia per
dedizione (non sono qui per tessere le lodi di nessuno ma
Ignazio De Francisci è, credo, personaggio sulla breccia da
troppo tempo perché si possa pensare che voglia parlarne bene
per qualunque altro motivo che non sia puramente e
semplicemente il fatto che è bravo). Questa sezione misure di
prevenzione è una delle più attive - almeno se è consentito
giudicarsi dall'interno di un certo ufficio - del nostro
ufficio. Per Riina, per Ganci, per Graviano e per quanti altri
siano stati in questo biennio arrestati, sempre, accanto
all'accertamento propriamente penale, si è sviluppato
l'accertamento patrimoniale per le misure di prevenzione, con
risultati che, per quanto riguarda Riina e Ganci (per quanto
Graviano credo che siano ancora in corso), possono essere
ritenuti - naturalmente, non tocca a noi giudicarci -
abbastanza significativi. E' ovvio che la procedura è in
itinere; tutto questo dovrà poi eventualmente portare ad un
provvedimento di confisca. Quindi i provvedimenti di sequestro
ottenuti dal tribunale delle misure di prevenzione
costituiscono procedure in corso.
   Naturalmente sono tutte sub iudice, perché le nostre
sono indagini preliminari; credo che non sia neanche
intervenuta la richiesta di rinvio a giudizio. Su questo
versante, estremamente significativa è stata - naturalmente
dal punto di vista dell'ipotesi di accusa, dell'impostazione
di una ricerca di elementi di accusa - un'inchiesta che
riguarda una serie di imprenditori, soprattutto edili,
considerati molte volte nell'ipotesi di accusa,
nell'impostazione di accusa - sottolineo la parzialità e
provvisorietà, ovviamente, di questa prospettiva - prestanome
o comunque collegati o strettamente intrecciati con personaggi
di vertice della mafia. Quella di cui parlo è una delle
inchieste (se non ricordo male, avviata poco prima
dell'estate), a nostro modo di vedere - nostro di
rappresentanti dell'accusa, si intende, e quindi è necessario
attendere le necessarie verifiche dibattimentali da parte
degli organi
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giudicanti a ciò deputati -, più significative proprio sul
versante dell'attacco, dell'aggressione tecnico-giuridica al
profilo patrimoniale di Cosa nostra, oltre a tutte quelle che
man mano, arresto per arresto, si avviano quasi
meccanicamente. L'arresto di personaggi di speciale rilievo
comporta immediatamente la ricognizione dei beni posseduti e
l'intervento, così come la legge consente di fare, su questi
beni.
   Permanenza di un rapporto attuale fra mafia e politica.
Ferdinando Imposimato ha fatto il giudice istruttore per
tanti, tantissimi anni e sa sicuramente - e non è piaggeria -
meglio di noi che il nostro compito è un po' di archivisti, il
nostro compito è di ricostruire fatti del passato. Accertare
quel che stia attualmente ed eventualmente accadendo o quel
che si stia articolando con possibili concretizzazioni domani
o dopodomani più che compito del giudice è compito del
sociologo o del giudice che domani dovrà, dei fatti che oggi
sono dinamicamente in evoluzione, occuparsi.
   L'unica cosa che ad un magistrato, ad un procuratore della
Repubblica, ad un rappresentante dell'accusa credo sia
consentito dire con riferimento a questa domanda è forse la
seguente: la mafia, Cosa nostra in particolare, non
costituisce soltanto un'organizzazione criminale, non è
soltanto un problema di ordine pubblico, è qualcosa di più e
di diverso, è il risultato dell'interazione di molti fattori,
politici, economici, finanziari. Cosa nostra in particolare è
forte, è diventata sempre più forte, è diventata un problema -
noi riteniamo - anche per il regolare funzionamento delle
regole democratiche, perché è riuscita, con intelligenza
criminale molte volte sofisticata, ad intrecciarsi con pezzi e
con segmenti della società civile, con pezzi e con segmenti
della politica, con pezzi e con segmenti dell'economia, con
pezzi e con segmenti della finanza. In questo intrecciare sé
con pezzi o segmenti di ciò che rappresenta complessivamente
la legalità sta una delle ragioni di forza, una delle ragioni
che caratterizzano come un unicum di speciale
pericolosità Cosa nostra rispetto alle altre organizzazioni
criminali anche mafiose.
   Se questa è una caratteristica di Cosa nostra, difficile
pensare che essa abbia improvvisamente subito una mutazione
genetica per cui non sia più alla ricerca di questo tipo di
collegamento, di questo tipo di rapporto con pezzi e con
segmenti che caratterizzano un po' tutta la sua storia e che
sono elemento di forza.
   Alla domanda se ci sia resistenza o perplessità da parte
dei pentiti nel parlare di questo rapporto è difficile
rispondere perché non esiste, secondo me, la categoria dei
"pentiti". Ciascun "pentito" - usiamo questo termine per
abitudine ma è assolutamente improprio - è storia a sé. C'è
chi si pente - questo discorso vale per i pentiti di
terrorismo come per i pentiti di mafia - perché è davvero in
crisi, davvero non si riconosce più in un certo passato, in
determinati valori, in un'identità che si era data militando
in certi gruppi, in certe formazioni, raccordandosi con
determinate persone; c'è chi invece si pente puramente e
semplicemente perché sta facendo dei calcoli molto concreti,
molto solidi, sulla maniera migliore per uscire con il minor
danno da una situazione di difficoltà nella quale è venuto a
trovarsi per effetto dell'arresto, per effetto della
detenzione. Ma tra questi due poli ci sono mille gamme
intermedie, in cui le motivazioni sono le più diverse, questa
o quell'altra prevalente, o altre ancora, di carattere
individuale, familiare, collegata anche alle persone con le
quali da ultimo si è parlato e che possono aver fatto scattare
determinati meccanismi. Esistono motivazioni che formano una
specie di mélange irripetibile per un altro, valido
soltanto per quel singolo pentito preso in considerazione.
Dunque, nel caso di un collaboratore di giustizia che sia
informato di questioni che possano anche interessare sotto il
profilo del rapporto tra mafia e politica, la domanda se ci
siano resistenze nel parlare non consente, secondo me, una
risposta di carattere generale; il problema è squisitamente
individuale, collegato al modo di formazione e di maturazione
del pentimento del soggetto.
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   Per quanto riguarda le dichiarazioni "a rate", so che
Guido Lo Forte ha scritto un capitolo, che personalmente
giudico molto convincente, di un nostro documento; lascio
quindi che sia lui a parlarne.
   Poiché ancora una volta si tratta di cose pubbliche e
davvero, come magistrati, abbiamo una mania incorreggibile,
devo dire che non è del tutto vero che Buscetta a suo tempo
non abbia parlato. Recentissimamente un quotidiano italiano ha
pubblicato l'intervista - che non mi risulta sia stata
smentita - resa da un pubblico ministero americano molto
autorevole e conosciuto, il quale afferma che già nel 1985
Buscetta aveva fatto un certo nome.
  FERDINANDO IMPOSIMATO. Non con Falcone, però.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Certo. Comunque, questo ci porterebbe del tutto
fuori strada. Scusatemi, non avrei neanche dovuto cominciare a
parlare di queste cose.
   Mafia e politica, pregiudizio per le indagini in corso:
ferme restando tutte le considerazioni di carattere generale
che ho fatto prima, non avverto, allo stato degli atti,
pregiudizio per le indagini in corso. Credo che nella fase
storica che stiamo vivendo le indagini abbiano il loro
regolare corso.
  FERDINANDO IMPOSIMATO. Il disagio dei pentiti, però,
nasce da questo.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Sì, sì, ma il pregiudizio per le indagini è cosa
diversa dal disagio dei pentiti. Una delle cose che molte
volte ci siamo chiesti, e per la quale, in fondo, non abbiamo
risposte sicure, essendoci una serie incredibile di variabili
(riteniamo che si debba fare un discorso molto più ampio e
possiamo farlo anche dopo) è perché da qualche tempo a questa
parte, d'improvviso, senza alcuna ragione che obiettivamente
lo giustificasse, il problema dei pentiti anziché essere
affrontato soltanto sotto l'aspetto tecnico-giuridico, con la
freddezza e razionalità che uno strumento di lavoro
investigativo esigerebbe, è tornato ad essere affrontato da
parte di alcuni come già era accaduto in passato: più come
guerra di religione, come contrapposizione tra posizioni
filosofiche diverse - a volte addirittura a livello di litigio
tra tifosi da stadio - che non, ripeto, con la freddezza di
analisi e di messa a punto delle varie componenti del problema
per trovare, razionalmente e tecnicamente, la soluzione
migliore. Nel momento in cui questo è successo, nel momento in
cui è stato sollevato il problema del pentimento, del suo
valore, della sua portata, da parte di alcuni della necessità
di un suo ridimensionamento, di una sostanziale revisione
della legislazione e dei benefici da questa previsti, tutto
ciò ha indubbiamente determinato preoccupazione e disagi nei
pentiti già tali. E' chiaro che nelle sedi formali, nelle sedi
di interrogatorio, quesiti a questo riguardo sono stati posti
da parte dei pentiti e preoccupazione dei magistrati è stata
quella di tranquillizzare, tra virgolette, affermando che non
c'è nulla di concreto, al di là delle polemiche anche forti,
se non progetti ed intenzioni. Si è detto che, riguardo a
questi progetti ed a queste intenzioni, ci sarà da parte di
coloro che la pensano diversamente, sia all'interno sia fuori
dalla magistratura, la contrapposizione di altre idee e di
altre opinioni per cui alla fine, come sempre succede, si
vedrà chi ha più ragione, più spago da tessere.
   Ci siamo anche chiesti se il numero dei pentiti che
avrebbe teoricamente potuto esserci senza queste polemiche,
queste perplessità e queste tensioni, sarebbe stato superiore
a quello che si è obiettivamente avuto pur in presenza di
queste polemiche e, qualche volta, di questa guerra di
religione. Di nuovo è impossibile rispondere, perché ogni
pentimento è storia a sé e quel che può valere per Tizio, non
vale per Caio, per Mevio o per Sempronio. Quindi, se in una
situazione meno tormentata dal punto di vista delle polemiche
ci sarebbero stati più o meno pentiti di quanti non se ne
siano avuti è assolutamente impossibile dirlo. Un dato di
fatto è che, se si sono
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sentiti in difficoltà coloro che già si erano pentiti (che
quindi erano titolari, per così dire, di diritti acquisiti),
non dovrebbe essere del tutto azzardato pensare - è
psicologismo di bassa lega, se vogliamo, ma forse ci si può
azzardare anche in queste forme di psicologismo - che chi
stava in quel momento decidendo se pentirsi o meno, visto
l'infuriare di determinate polemiche, ci abbia pensato molto
più approfonditamente di quanto avrebbe fatto in una diversa
situazione. Se poi qualcuno si sia pentito lo stesso e se
qualcun altro non lo abbia fatto a causa delle polemiche credo
proprio sia impossibile dirlo. Non voglio affermare che le
polemiche non ci debbano essere: è chiaro che debbono esserci
quando sono in buona fede e finalizzate a trovare le migliori
soluzioni. Di fatto, però, le polemiche, e soprattutto quelle
che prefigurano soluzioni nettamente penalizzanti, rispetto
alla legislazione vigente, per chi compia la scelta di
pentirsi, non aiutano di certo il pentimento. Si tratta di un
dato psicologico di un'ovvietà persino banale, e chiedo scusa
se lo prospetto.
   Per quanto riguarda l'ordinamento di paesi nei quali il
reato di riciclaggio non sia previsto, credo che Guido Lo
Forte abbia più dati di esperienza professionale di quanti ne
possieda io.
  PRESIDENTE. Mi pare che il senatore Imposimato le abbia
chiesto anche di attuali pentiti in materia di mafia e
politica. Preciso che, se lo ritiene opportuno, possiamo
interrompere la trasmissione audiovisiva a circuito chiuso
della seduta; poiché un gruppo di lavoro della Commissione si
occupa di questo argomento, approfitteremmo della sua presenza
per avere alcune indicazioni, naturalmente ove sia possibile e
procedendo in seduta segreta.
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. Per quanto riguarda le
cosiddette dichiarazioni a rate non esiterei a dire (cercherò
poi di spiegare il senso dell'affermazione) che questo è
assolutamente un falso problema o un problema non
correttamente impostato, per un duplice ordine di motivi.
Innanzitutto, il metodo di lavoro: cos'è un collaborante? E
qui bisogna ancora una volta distinguere tra collaborante e
collaborante, cioè tra un soggetto che ha vissuto
un'esperienza criminale, sia pure organizzata, limitata nel
tempo ed un soggetto che, invece, come nel caso degli
appartenenti a Cosa nostra, alla 'ndrangheta e ad altre
organizzazioni territoriali storiche, è vissuto all'interno di
una società criminale le cui attività sono molteplici e si
adattano nel tempo. Ebbene, ciascun soggetto di questo secondo
tipo è in primo luogo portatore di un vissuto criminale in cui
la commissione di delitti, dai più gravi come gli omicidi alla
routine delle estorsioni e del traffico di stupefacenti,
costituisce normale attività quotidiana che, in quanto tale,
non rimane particolarmente impressa nella memoria con dati o
particolari di eccezionalità.
   Questi sono i soggetti con i quali noi trattiamo; quindi,
già da questo punto di vista si comprende come sia abbastanza
teorico presumere di poter raccogliere e completare la
ricostruzione di un'esperienza criminale di questo tipo in
tempi limitati o precostituiti.
   La cosa più importante, che si tende a dimenticare, è
rappresentata dall'individuazione della tecnica che presiede
alle indagini condotte dal pubblico ministero. Nel momento in
cui si verifica un fenomeno di dissociazione, il ruolo del
pubblico ministero non è quello di un "intervistatore" o di
una persona chiamata a scrivere un romanzo: il pubblico
ministero, proprio perché ha il dovere di fare il magistrato e
di porre in essere un'attività di repressione penale
nell'interesse della società, si pone invece obiettivi
gerarchicamente individuabili. Innanzitutto, deve cercare di
acquisire il massimo di informazioni possibili sui fatti
criminosi più gravi rimasti impuniti: questa è la prima
priorità. In secondo luogo, il pubblico ministero si deve
preoccupare di acquisire il massimo di informazioni sulla
struttura militare, ai fini dell'individuazione dei killer
in libertà, i quali si muovono giorno
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per giorno. Si pone quindi l'esigenza fondamentale di
individuare e, se possibile, di catturare gli assassini che
operano indisturbati per le nostre strade. Sotto questo
profilo, non credo si tratti di una valutazione di ordine
pubblico ma, piuttosto - di questo siamo convinti -, di una
giusta graduazione dell'urgenza legata all'esigenza di
repressione, a sua volta connessa all'interesse sociale.
   Ulteriore obiettivo è quello di individuare la situazione,
il più possibile aggiornata, dei quadri di comando -
situazione, naturalmente, in continua evoluzione - giacché
sarebbe inutile eliminare il killer se si lasciasse intatto il
cervello o il cuore dell'organizzazione. Un altro obiettivo
consiste nell'individuazione delle fonti economiche di
approvvigionamento, in pratica della forza economica
dell'organizzazione: a tale riguardo, l'indagine deve essere
mirata sulle estorsioni, sui suoi autori, sui settori colpiti,
sul traffico degli stupefacenti, sui fatti di riciclaggio.
   Se quella descritta è una corretta tecnica di indagine, si
può facilmente notare come il semplice approfondimento di
tutti gli obiettivi indicati in ordine gerarchico di priorità
richieda un tempo ben superiore a quello che si potrebbe
immaginare. Vanno considerati, tra gli altri, i limiti di
resistenza umana; in particolare, vi è l'assoluta necessità di
evitare che vi siano ricordi imprecisi, sovrapposizioni di
ricordi, oppure che la stanchezza o l'assillo possano
inquinare inconsapevolmente la genuinità dell'informazione. Vi
è, insomma, l'esigenza tecnica di non assumere in maniera
continuativa una messe di informazioni, apparendo più
opportuno verificare le stesse di volta in volta, in modo
graduale, per accertare costantemente l'attendibilità del
collaborante e per acquisire ulteriori elementi utili
all'indagine.
   Se questa è e deve essere la tecnica investigativa del
pubblico ministero, è facile immaginare che vi possano essere
tempi fissi entro i quali occorre raccogliere tutto il
patrimonio di conoscenze e di informazioni di un collaborante,
ma bisogna riconoscere che questo orientamento è abbastanza
teorico e non si confà assolutamente alle tecniche
professionali di indagine. Possiamo parlare di un falso
problema anche da un diverso punto di vista. A prescindere dal
fatto che, sotto il profilo giuridico, la previsione di un
limite temporale alle dichiarazioni di un collaborante sarebbe
certamente in contrasto con il principio dell'obbligatorietà
dell'azione penale, si potrebbe configurare addirittura un
contrasto con le esigenze del diritto di difesa. Cosa
accadrebbe, ad esempio, se tra i mille ricordi dell'esperienza
criminale di un collaborante ne affiorasse casualmente uno -
si tratta, del resto, di un'ipotesi che abbiamo riscontrato
nella realtà - che portasse a scagionare un imputato
condannato ingiustamente? Ebbene, di tale dato, ai fini di una
possibile revisione del processo, non dovremmo tener conto?
Pensiamo, inoltre, all'ipotesi di un'informazione ricordata a
distanza di tempo e poi oggettivamente riscontrata: in questo
caso non dovremmo tenerne conto e non dovremmo esercitare
l'azione penale?
   Al di là di questo, ciò che conta è la oggettiva,
scrupolosa e puntuale verifica, secondo tutte le possibilità e
nei limiti offerti dalla tecnica investigativa, delle
dichiarazioni del collaborante. Non importa se tali
dichiarazioni siano rilasciate il giorno iniziale del rapporto
di collaborazione o dopo cento giorni da quel momento.
Andrebbe considerata, a tale riguardo, l'evoluzione
psicologica di un collaborante nella progressione del suo
rapporto di affidamento agli interlocutori istituzionali; quel
che conta sotto il profilo processuale, tuttavia, è se
l'informazione fornita sia riscontrata oppure no, a
prescindere dal momento in cui essa è stata fornita (non
cambia nulla se ciò sia avvenuto il primo o il millesimo
giorno). D'altra parte - a tale riguardo dico subito che vi
sono elementi che possono essere tratti dal diritto comparato
-, negli Stati Uniti un problema del genere non si è mai posto
(in considerazione dello spirito pragmatico degli
investigatori e dei magistrati statunitensi) proprio perché in
quel paese quella dei collaboranti è considerata alla stregua
di una questione di mera tecnica investigativa. In sostanza,
essendo l'interesse concentrato
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sull'obiettivo delle indagini, si evita ogni ricostruzione
storica della vita del pentito, limitandosi ai riscontri utili
ai fini delle indagini. Ciò che conta è, appunto, se una certa
informazione sia o meno riscontrata: questo è l'unico metodo
affidabile.
   In definitiva, ritengo che il problema non sia riferibile
alle dichiarazioni cosiddette a rate ma sia piuttosto
riconducibile alla professionalità delle indagini ed
all'accuratezza nella ricerca dei riscontri.
  MASSIMO BRUTTI. Vorrei rivolgere alcune domande al
dottor Caselli e al dottor Lo Forte. Anzitutto, vorrei fosse
trattato il problema della struttura di Cosa nostra, che in
qualche modo si collega alla questione dei collaboratori di
giustizia. In sede giudiziaria abbiamo constatato più volte
l'emergere di notizie concernenti l'esistenza di strutture
segrete all'interno di Cosa nostra, fin dall'epoca della
vecchia organizzazione risalente al periodo precedente alla
fine degli anni settanta. Sembra, per esempio, che i cugini
Salvo avessero un particolare tipo di affiliazione che non li
rendeva noti come mafiosi alla gran parte degli uomini
d'onore. Questo tipo di struttura segreta all'interno di Cosa
nostra è cresciuto e si è sviluppato? Qual è l'analisi che
oggi formulate al riguardo? E' evidente che una struttura
segreta rappresenta un'utile risposta al pericolo e al rischio
della collaborazione con la giustizia e della defezione.
   Vorrei inoltre porre una domanda, diciamo così, di
scenario, che naturalmente non è volta ad acquisire
informazioni che siano oggetto di indagini o coperte da
segreto. In particolare, vorrei conoscere la vostra
valutazione circa il rapporto esistente tra Cosa nostra e le
associazioni di tipo massonico coperte, particolarmente
riservate. Vi chiedo di fornirci, insomma, una risposta di
carattere molto generale con riguardo al punto in cui sono le
rilevazioni e le indagini sul problema cruciale del rapporto
tra due tipi di organizzazioni eversive: Cosa nostra da un
lato e le organizzazioni occulte dall'altro.
   I collaboratori di giustizia sono attualmente circa 900.
Quali sono le identità dominanti e le tipologie di queste
persone? Appartengono tutti al settore "militare"? Sono tutti
riconducibili alla tipologia di collaboratori che conosciamo
perché la Commissione antimafia li ha ascoltati nella
precedente legislatura oppure vi è una diversificazione di
collocazione all'interno dell'organizzazione? Vi sono
collaboratori di giustizia - diciamo così - con il colletto un
po' più bianco, che non siano direttamente partecipi
dell'organizzazione militare e che rappresentano qualcos'altro
e quanti sono?
   Vorrei poi porre alcune questioni brevissime che
riguardano più specificamente il tema dei collaboratori di
giustizia. Ho l'impressione - correggetemi se sbaglio - che
impostare il problema della protezione, in particolare
dell'ammissione al programma speciale di protezione, dei
collaboratori di giustizia a partire dal tema attendibilità
del pentito sia fuorviante, che si tratti cioè di uno
pseudoproblema, nel senso che non esiste - credo - la
possibilità (non mi sembra legittimo, e non è la sede
giudiziaria né altra sede quella opportuna per farlo) di
formulare una valutazione complessiva sull'attendibilità del
pentito. Il problema non è questo, il problema è quello
dell'attendibilità riscontrata attraverso l'indagine
giudiziaria, facendo leva sulla professionalità dei giudici,
delle singole dichiarazioni accusatorie che il pentito
formula.
   Ricordo che in un'audizione davanti alla Commissione
antimafia venne rivolta a Mutolo una domanda su chi avesse
fatto la strage di Portella delle Ginestre: è evidente che
Mutolo non poteva far altro che ripetere una vecchia storia
legata alla tradizione orale all'interno dell'organizzazione
mafiosa, ma non aveva nessuna conoscenza diretta, nel senso
che sul tema della strage di Portella delle Ginestre egli era
completamente inattendibile; ma il punto è che su altre cose,
invece, era attendibile. Un altro pentito, Spatola, su
questioni relative al traffico di droga mi risultava essere
considerato da Borsellino come un collaboratore attendibile,
mentre su altre questioni lo stesso Borsellino lo considerava
meno attendibile.
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   Allora, l'ammissione al programma speciale di protezione
non muoverà da una valutazione circa l'attendibilità del
pentito bensì da una valutazione che si ispira ad altri
criteri, cioè in primo luogo il contributo dato alle indagini
(che deve essere valutato quindi da chi abbia esperienza e
conoscenza del meccanismo delle indagini, da chi abbia
maturato una professionalità specifica per valutare cosa
significhi contributo alle indagini, che è cosa diversa
dall'attendibilità del pentito); inoltre sarà valutato sulla
base del rapporto di quel collaboratore con l'organizzazione,
tenendo anche conto di che tipo di organizzazione si tratti,
perché è certo che la protezione si pone in termini diversi a
seconda che si tratti di un'organizzazione transeunte, come
quella di cui parlava il dottor Lo Forte, oppure di
un'organizzazione consolidata, capace di vendette a distanza
di lungo tempo, e così via.
   Quindi, mi sembra - e vorrei verificare questa mia
valutazione formulata naturalmente molto dall'esterno rispetto
al vostro lavoro - che l'ammissione al programma speciale di
protezione debba organizzarsi sulla base di criteri
profondamente diversi da quelli della valutazione giudiziaria,
finale del contributo che il pentito offre.
   A che punto è la separazione, di cui da tempo parliamo,
tra struttura e personale addetti alle indagini e struttura e
personale addetti invece alla protezione dei pentiti? Si
tratta di un punto chiave nell'ambito delle questioni che
stiamo trattando. Cosa bisogna fare per realizzare una reale
autonomia del Servizio di protezione dai corpi di polizia
addetti alle indagini? Siamo d'accordo sul fatto che questo
sia comunque il traguardo da raggiungere, perché evita gli
intimismi investigativi e le commistioni che non
contribuiscono ad una corretta gestione del pentito.
   Cosa pensate della custodia in carcere dei collaboratori?
Si era parlato a suo tempo del recupero di almeno alcune
carceri mandamentali a questo fine: è secondo voi una via che
può essere perseguita, sia pure naturalmente con un regime, un
trattamento più mite, differenziato in meglio rispetto al
trattamento previsto per il mafioso non collaborante?
   Inoltre, nella gestione processuale, vi sono problemi per
quanto concerne il coordinamento tra i pubblici ministeri
interessati? Quali vie si seguono? Qual è il metodo volto ad
evitare la sovrapposizione, l'accaparramento del collaboratore
e ad instaurare un coordinamento nel lavoro tra i pubblici
ministeri?
   Inoltre, quando viene meno il programma di protezione
speciale? Nel caso in cui si sia accertata la calunnia o
un'azione di depistaggio da parte del collaboratore? Vorrei
comprendere se vi sia, per così dire, un requisito, una
condizione che fa cadere il programma di protezione
speciale.
   Infine, quanto al meccanismo sanzionatorio, si era parlato
della necessità di introdurre maggior certezza per gli sconti
di pena. Oggi per quanto riguarda l'ergastolo vi è
un'oscillazione da 12 a 20 anni e anche per la riduzione delle
pene temporanee si era pensato ad una riduzione in misura
fissa. Poiché se ne è discusso in questi anni, vorrei
conoscere il vostro pensiero in proposito.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Comincerò a rispondere io, anche se mi limiterò
davvero a poche battute.
   Cerco di spiegarmi con una battuta: quando si affronta il
problema dell'utilità o meno della regolamentazione
obbligatoria dell'uso della stenotipia o della
videoregistrazione quando si interroga un pentito, una delle
opinioni che vengono espresse è quella che ancora una volta si
richiama all'esperienza; cioè è difficile (anche se la cosa è
molto seria e deve essere discussa con grande attenzione)
rendere obbligatorio questo sistema perché noi abbiamo ben
presente, a me hanno insegnato ad avere ben presente, quello
che è un modo di esprimersi di un grosso pentito, il quale
ebbe a dire a chi lo interrogava: guardi che noi, quando
decidiamo di lasciare Cosa nostra e di collaborare, siamo come
un americano che cerca di diventare italiano, perché ci vuole
tempo
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perché impariamo la lingua, la cultura, i costumi e le
abitudini della nuova nazionalità.
   La stessa cosa vale per me. Faccio questo lavoro da
neanche due anni, qualche parola della nuova lingua la sto
imparando, ma il vocabolario nella sua interezza lo possiede
di più, per molte delle questioni che sono state prospettate,
chi lavora in Sicilia a queste inchieste da molto più tempo di
quanto non faccia io. Così, sulla struttura di Cosa nostra, in
particolare sulla presenza di componenti segrete di questa
struttura, dirà meglio Guido Lo Forte.
   In ordine alla valutazione del rapporto tra Cosa nostra e
massoneria ed a che punto siano le rivelazioni, faccio
presente che tutti sappiamo per aver letto dichiarazioni di
questo o quel collaborante, ordinanze e sentenze di rinvio a
giudizio (anche di primo grado o di grado successivo, quando
inquadrino il fenomeno e non si facciano soltanto carico delle
specifiche, singole, individuali posizioni), che un'ipotesi
frequentemente prospettata è proprio quella di intrecci in
qualche modo, in una certa fase storica, cominciati e poi -
sempre secondo questa ipotesi - consolidatisi e sviluppatisi
tra componenti di Cosa nostra e momenti, profili certamente
deviati rispetto alle regole, alle tradizioni della
massoneria, ma in qualche modo, sia pure in maniera perversa e
deviata, alla massoneria riconducibili. Queste sono
conseguentemente ipotesi di lavoro che da sempre o da molto
tempo a questa parte sono sul tappeto; sono allora ipotesi di
lavoro che non possono non essere tenute presenti anche da chi
attualmente lavori...
  RAFFAELE BERTONI. Ipotesi o realtà?
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Sto arrivando. A che punto siano le rilevazioni
non è cosa, con riferimento ad un qualche elemento di
concretezza, su cui la procura di Palermo possa fornire una
risposta utile, che non sia puramente filosofia o riaggancio
ad ipotesi di lavoro basate su rivelazioni del passato.
   Lo stesso vale per quanto riguarda le identità dominanti,
le tipologie dominanti dei pentiti. Si è chiesto se si tratti
di pentiti appartenenti soltanto all'ala militare o anche ai
colletti bianchi. Vi possono essere figure che risentono un
po' dell'una e un po' dell'altra tipologia di militante di
Cosa nostra. La distinzione non è mai così netta: un pentito
come Baldassare Di Maggio è certamente collocabile sul
versante militare, ma come autista ed uomo di fiducia di
Salvatore Riina aveva una serie di contatti e di collegamenti
che non ne fanno soltanto un uomo d'onore inquadrabile nella
casella militare. Conseguentemente, anche per quanto riguarda
le tipologie dominanti, è difficile una linea di demarcazione
netta fra militare e colletto bianco: non esiste forse mai
qualcosa o qualcuno, per lo meno per quanto risulta allo stato
degli atti, che sia esclusivamente collocabile nell'una o
nell'altra categoria. Credo che il collega Lo Forte possa
integrare le mie osservazioni.
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. Per quanto riguarda la
domanda sulle strutture segrete di Cosa nostra, innanzitutto,
quando si parla di segretezza, o di novità a tale riguardo, è
chiaro che si parla di segretezza interna, e non esterna, dato
che Cosa nostra è di per sé e per definizione
un'organizzazione segreta rispetto all'esterno.
   Vi è un fatto di segretezza interna che è del massimo
interesse e della massima importanza, anche perché rifluisce
direttamente sulla impostazione delle metodologie delle
indagini e della strategia di contrasto in questo momento. Un
fenomeno di segretezza interna, cioè di creazione di uomini
d'onore - definiti riservati, o in maniera simile - la cui
identità non veniva palesata agli altri uomini d'onore è
abbastanza antico nel tempo: era una prassi corleonese e,
proprio per questa prassi, i Corleonesi erano riusciti non
soltanto ad infiltrarsi nelle altre famiglie ma anche ad
incutere un particolare terrore
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all'interno dell'organizzazione, perché si sapeva che
disponevano di piccole squadre della morte interne
assolutamente sconosciute, per cui avevano una capacità di
intervento militare, o di eliminazione, assolutamente
privilegiata rispetto agli uomini delle altre famiglie e dalla
quale non era possibile difendersi.
   Ricordo una frase abbastanza significativa di Michele
Greco, il quale, quando gli proponevano delle affiliazioni
riservate, diceva all'incirca: "Consideriamola però
un'eccezione; è vero che i Corleonesi fanno così, ma non
dobbiamo fare così anche noi". Avevamo, quindi, questo
fenomeno di segretezza interna per i killer segreti dei
Corleonesi; avevamo inoltre un fenomeno di segretezza interna
per gli uomini d'onore che costituivano il momento di
collegamento fra l'organizzazione militare e la società, cioè
per quegli uomini d'onore che avevano incarichi in settori
della società civile, il cui compito non consisteva nel
prestarsi indiscriminatamente all'esecuzione di attività
delittuose (comuni omicidi, traffico di stupefacenti,
estorsioni, incendi, danneggiamenti e così via) ma nel fornire
un supporto all'organizzazione nello specifico ambito del
settore sociale, professionale o di attività di propria
competenza. Questi venivano normalmente tenuti riservati: si
tratta di un fenomeno abbastanza noto.
   Il fenomeno che, invece, si sta verificando da qualche
anno a questa parte è diverso: è quello della sempre più
rigida compartimentazione interna delle conoscenze all'interno
dello stesso gruppo corleonese egemone. Questa strategia ha
anche una funzione specifica: quella di prevenire ulteriori
gravi pregiudizi da ulteriori dissociazioni. Nel momento in
cui - questa è la svolta storica - ha collaborato con la
giustizia il primo Corleonese, Giuseppe Marchese; nel momento
in cui ha collaborato con la giustizia Baldassare Di Maggio,
che era l'uomo nelle cui mani Salvatore Riina affidava la sua
vita, usandolo come autista; nel momento in cui ha collaborato
con la giustizia Gioacchino La Barbera della famiglia di
Altofonte, cioè del cuore stesso della realtà corleonese, uno
degli autori materiali della strage di Capaci; nel momento in
cui, addirittura, ha collaborato con la giustizia un
componente della commissione come Salvatore Cancemi, da
decenni fidatissimo amico e sodale di Raffaele Ganci, che era
uno degli uomini più fidati di Riina, evidentemente, si è
posto all'interno dell'organizzazione il problema della tenuta
anche all'interno dei quadri considerati più fedeli.
   Credo che oggi nessun Corleonese - questo è uno degli
effetti estremamente positivi del pentitismo, anche al di là
degli stessi contributi processuali - sia assolutamente sicuro
che l'uomo che siede accanto a lui e nel quale ha nutrito la
massima fiducia da vent'anni non possa tradirlo, perché gli
esempi di Marchese, La Barbera e quant'altri dimostrano che
questo è possibile. Ciò comporta che la segretezza interna non
è più di una famiglia rispetto alle altre famiglie, ma
addirittura è all'interno delle famiglie corleonesi: questo ha
prodotto la creazione - riscontrata per quanto subito dirò -
di soggetti la cui identità di uomini d'onore è probabilmente
conosciuta soltanto da una o due persone. Si tratta, quindi,
di soggetti che possono essere utilizzati in qualsiasi
emergenza interna per un assestamento di potere, di soggetti
che possono essere utilizzati per qualsiasi delitto contro
l'esterno, perché non sono conosciuti, e soprattutto di
soggetti che non saranno conosciuti neanche dai futuri
pentiti. Qui sta l'ultima finalità della strategia.
   Il dato dell'esistenza di soggetti di questo tipo - mi
limito semplicemente a dirlo, senza entrare in dettaglio - è
oggettivamente riscontrato da alcuni esiti delle indagini
sulle stragi verificatesi fuori della Sicilia nel 1993, per le
quali è stata accertata l'utilizzazione di soggetti che non
solo non erano conosciuti da nessuno dei collaboranti, anche
più recenti ed a più alto livello dell'organizzazione, ma che
addirittura, in alcuni casi, non erano mai stati sfiorati da
indagini precedenti. Si tratta di soggetti per i quali non
sappiamo neanche se sia possibile ipotizzare una cerimonia di
affiliazione formale, perché tale tipo di cerimonia
normalmente presuppone la
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presenza di un numero, sia pure limitato, di soggetti della
stessa famiglia; si potrebbe quindi pensare che si sia
addirittura rinunciato, in alcuni casi, a procedere ad una
cerimonia formale...
  RAFFAELE BERTONI. Questa è un'ipotesi oppure i soggetti
sono conosciuti?
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. Vi sono dei dati dai
quali risulta che sono stati utilizzati per fatti di
straordinaria gravità, che quindi presupponevano una
straordinaria affidabilità, soggetti che sono assolutamente
sconosciuti a tutti i pentiti, compresi i più recenti.
   Dal punto di vista generale, quello che conta per il
futuro della strategia di contrasto antimafia è la deduzione
che bisogna trarre da questo nuovo scenario; un futuro che
sarà sempre fondamentalmente affidato al contributo dei
collaboratori di giustizia, ma che fin da questo momento deve
essere impostato tenendo conto del fatto che di fronte a
questa strategia il livello di conoscenza che potrebbe essere
acquisito grazie al fenomeno della dissociazione sarebbe
sempre molto importante, ma potrebbe non riguardare le cose
più gravi. Da qui deriva l'esigenza di una combinazione sempre
più stretta - che credo la procura di Palermo stia provando a
realizzare, e che ha già realizzato in alcuni procedimenti
specifici, che finora hanno avuto esito positivo per quanto
riguarda lo stato attuale della verifica delle tesi di accusa
- fra le informazioni che provengono dall'interno e le
investigazioni oggettive, che non vorrei definire
tradizionali. Sono tradizionali nel senso che sono
investigazioni di polizia giudiziaria, ma non sono
tradizionali nel metodo, perché oggi, per il reperimento delle
prove, la tecnologia ci offre possibilità di investigazione
oggettiva di cui prima non si disponeva. Ad esempio, tanto per
illustrare il processo che riguarda il retroterra economico e
finanziario di Raffaele Ganci, alle indicazioni dei
collaboratori si sono aggiunte - e si sono rivelate decisive -
prove oggettive consistenti in filmati, in osservazione del
territorio, di luoghi, in intercettazioni ambientali e così
via.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Raffaele Ganci è il boss di
Sciacca?
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. No, è il capo del
mandamento della Noce.
   Se questa è la via del futuro - e credo che tutto ciò
giovi in generale all'equilibrio complessivo della strategia
di contrasto contro la criminalità organizzata - occorre uno
sforzo maggiore per potenziare dal punto di vista quantitativo
e qualitativo la disponibilità delle tecnologie. Vorremo far
svolgere le indagini il più possibile con questa tecnica, ma
purtroppo spesso urtiamo contro la scarsità di strumenti - mi
riferisco a telecamere, microspie e quant'altro offre la
tecnica moderna - per poter impiegare al meglio gli organi
investigativi.
   Per quanto riguarda il coordinamento degli uffici del
pubblico ministero, credo che siano stati compiuti passi in
avanti nella soluzione del problema, che comunque esisterà
sempre ed è fisiologico che esista, perché finché vi sarà la
giusta autonomia e la giusta distinzione fra i pubblici
ministeri è evidente che esisteranno sempre problemi di
coordinamento. Comunque la Procura nazionale si è molto - e
fattivamente - impegnata su questo fronte (non posso citare il
caso specifico), realizzando positivamente il coordinamento in
episodi di grande rilievo.
   Quanto all'incidenza di menzogne o di violazioni sulla
revoca del programma, credo che i problemi siano due: quello
del programma e quello dei benefici. Per quanto riguarda il
programma, virtualmente qualunque violazione di una clausola
del contratto può legittimarne la risoluzione, secondo una
corretta ottica civilistica; tuttavia non può non esservi un
margine di discrezionalità esclusivamente affidato all'organo
competente, cioè la commissione, previa acquisizione dei
pareri e delle informazioni opportune, perché
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il programma viene predisposto essenzialmente per una
funzione di protezione. Pertanto, se un pentito mente una
volta, ma permane in una situazione di gravissimo rischio per
quello che ha già detto, evidentemente il giudizio dovrà
essere commisurato alla permanenza della necessità di evitare
la soppressione del pentito stesso.
   Altra questione è quella dei benefici, perché la legge in
Italia stabilisce chiaramente come, in caso di menzogne o
quant'altro, non soltanto non vengano concessi i benefici, ma
vengano anche revocati quelli precedentemente concessi. In un
caso si tratta di una situazione di sconti di pena in cui la
menzogna non paga, ed anzi con la menzogna si paga, ma il
programma è un'altra questione, perché l'ottica è quella della
sicurezza ed anche di fronte ad un mentitore bisogna valutare
se vi sia o meno il rischio che egli venga ucciso. Si tratta
di valutazioni di tipo squisitamente amministrativo, in cui
debbono essere ponderati la personalità ma anche il rischio
che il pentito venga eliminato.
  PRESIDENTE. Mi sia consentito tornare per un attimo a
quanto affermava il senatore Bertoni: poiché ritengo che la
Commissione antimafia, senza violare alcun tipo di segreto,
abbia bisogno di elementi specifici - diversamente vi è il
rischio di ottenere soltanto un quadro generale che non ci
permette molti approfondimenti - faccio presente che se in
questo momento i nostri ospiti non sono in grado di
rispondere, ove ritengano che vi siano segreti al momento non
superabili, successivamente sarà cura del presidente o del
coordinatore del gruppo di lavoro competente richiedere loro
la necessaria documentazione.
  RAFFAELE BERTONI. La legge ci consente di chiedere ai
giudici - come dei giudici possono fare nei confronti di altri
giudici - notizie sui processi in corso; saranno poi i
magistrati ad opporre motivate ragioni per non rispondere alle
nostre domande. Tuttavia, se ci manteniamo in termini generali
a proposito di queste problematiche, rischiamo di apprendere
cose già note: se il dottor Caselli avesse avuto modo di
leggere il resoconto stenografico dell'audizione del prefetto
De Gennaro, probabilmente egli si sarebbe risparmiato la
fatica di ipotizzare quanto quest'ultimo ci ha già detto.
  PRESIDENTE. Veramente questo mi sembra al di sopra delle
righe!
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Scherzando, potrei dire che mi hanno fatto una
domanda trabocchetto!
  RAFFAELE BERTONI. Non era una domanda trabocchetto, ma
uno scherzo cattivo: ti hanno fatto dire delle cose che De
Gennaro aveva già detto.
  PRESIDENTE. Questo non è vero, ci ha offerto ulteriori
elementi. E' importante che emergano indicazioni precise sulle
quali la Commissione antimafia, nella sua autonomia anche
rispetto agli organi giudiziari, possa sviluppare un'indagine
o quanto meno una forma di conoscenza. Diversamente rischiamo
di restare nel vago, in un quadro del tutto generico; abbiamo
dunque bisogno di questa collaborazione.
  GIUSEPPE AYALA. Il mio intervento sarà molto breve
perché devo resistere ad una forte propensione ad approfondire
molte cose che ho ascoltato e che trovo estremamente
interessanti. La domanda che avevo previsto di porre era
incentrata sul problema della compartimentazione, al quale ha
fatto riferimento, da ultimo, il dottor Lo Forte e in ordine
al quale trova conferma un'ipotesi già ventilata da qualche
anno, che ha avuto dei riscontri; oggi, naturalmente, mi
ritengo più che soddisfatto di quanto ha detto il dottor Lo
Forte e quindi lascio cadere questa domanda perché non saprei
che cosa chiedere.
   Vi è però un'altra questione relativamente ad una
strategia che comporta questa scelta che, come purtroppo Cosa
nostra ci ha abituato spesso a verificare (devo dire la
verità), è una strategia estremamente
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intelligente: mi riferisco al problema del
depistaggio, in ordine al quale gradirei sapere, senza
ovviamente pretendere di conoscere alcuna specifica vicenda
processuale, se, in base all'esperienza più recente, sia
possibile ritenere che, accanto alla compartimentazione, che è
un modo per costruire un argine al rischio del pentitismo (se
così la vogliamo definire), vi sia qualche segnale o
addirittura qualche specifica vicenda processuale che faccia
ritenere che, accoppiata a questa, vi sia stata
l'infiltrazione (se così la vogliamo chiamare) nel novero dei
pentiti, dei collaboratori, di persone che più o meno
palesemente intendono creare problemi alle indagini e
contribuire a quell'operazione di delegittimazione del
pentitismo, che abbiamo constatato essere una realtà attuale,
sulla quale naturalmente sorvolo perché sarebbe facile
scivolare in polemiche che non giovano sicuramente a nessuno.
Vi pongo comunque la domanda dal punto di vista della
strategia di Cosa nostra.
   Per quanto riguarda la strategia, alla quale faceva
riferimento anche il dottor Lo Forte, che potremmo definire
omicida, vorrei sapere se il fatto che vi sia, per fortuna
(questa circostanza va accolta con somma soddisfazione), un
minor ricorso a questo tipo di consumazione di delitto non
possa (se così è, le ultime acquisizioni processuali
potrebbero averlo confermato) iscriversi anch'esso in un
ulteriore aspetto della strategia attuale di Cosa nostra: ho
sempre ritenuto che la cattura di Riina abbia segnato la
sconfitta dell'uomo ma anche quella della strategia, che era
incentrata su una visibilità eccessiva di Cosa nostra, in
quanto era legata ad una consumazione eccessiva di fatti
criminosi sia interni all'organizzazione (per risolvere i
problemi interni) sia, in maniera ancora più drammatica, nei
confronti delle istituzioni.
   Da qualche tempo, mi viene fatto di pensare che si sia
tornati alla strategia tradizionale di Cosa nostra, che è
quella del massimo livello possibile di clandestinità e quindi
del minimo livello possibile di visibilità, che - lo ripeto -
non è certamente interrotto da un grande traffico
internazionale di stupefacenti ma è sicuramente interrotto da
trecento omicidi l'anno, come in occasione della guerra di
mafia dell'inizio degli anni ottanta, o da attentati o stragi
contro rappresentanti delle istituzioni. Vorrei sapere se, a
vostro avviso, questo tipo di strategia sia stata oggi attuata
o meno da Cosa nostra.
   Quanto al problema della sicurezza dei pentiti, io sono un
"fossile" della materia, anche se in fondo sono uscito
soltanto da quattro anni dall'ufficio in cui voi ancora
lavorate. Tuttavia, il problema della gestione del pentito
("gestione" è una brutta parola, ma la usiamo per comodità) ha
sempre comportato (adesso si parla di novecento pentiti ma
ricordo che all'inizio ce n'era uno, poi due, e sembrava una
cosa incredibile; novecento, tra l'altro è il numero
complessivo dei collaboratori, non tutti appartenenti a Cosa
nostra) tutta una serie di problemi ai quali si è fatto
riferimento in maniera molto puntuale e pertinente, come in
realtà fanno sempre sia il procuratore Caselli sia il dottor
Lo Forte. Mi riferisco, in particolare, alla gestione
processuale del pentito e a quella della sua sicurezza. Il
magistrato si occupa ovviamente della gestione processuale,
mentre quella della sicurezza del pentito compete ad altri
organi (su questo si è detto molto).
   Desidero aggiungere soltanto una breve parentesi per poi
formulare un'ultima domanda. Mi riferisco alla questione della
segretezza: è fuori discussione che la strada da seguire sia
quella e devo dire che il capo della polizia ci ha parlato in
questa sede di una giusta equazione tra segretezza e
sicurezza.
   Dottor Lo Forte, conosco benissimo anch'io l'esempio degli
Stati Uniti, dove gli interrogatori di Buscetta avvenivano
addirittura dopo che  un elicottero da un luogo ignoto lo
portava, per esempio, in una certa villa, la quale, stando
alla carta geografica si capiva grosso modo che non era
lontana da New York, mentre noi arrivavamo con un altro
elicottero e nessuno dei due sapeva dove si andava. D'altra
parte, eravamo ben felici di non saperlo a scanso di ogni
equivoco. Comunque, in America vi
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è una tradizione, una cultura, che da noi non è facile
inventare; non c'è da puntare il dito contro nessuno, perché
queste cose non si improvvisano dall'oggi al domani.
  GIUSEPPE ARLACCHI. I luoghi in cui si svolgono gli
interrogatori si leggono normalmente sui giornali.
  GIUSEPPE AYALA. Mi esprimo in sintesi, ma sull'argomento
si potrebbe fare un lungo discorso. Ho sempre ritenuto - e
credo di non essere il solo - che vi sia anche un problema di
tipo geografico: infatti, poiché l'America è un continente
sterminato con 250-300 milioni di abitanti, non è molto
difficile fare "scomparire" Buscetta in chissà quale paesino
anonimo dell'Oregon (tiro a indovinare e spero di non aver
detto dove egli realmente viva); invece, far scomparire un
pentito e i suoi familiari in Italia è un po' più complicato,
tenuto conto anche dell'assetto geografico e delle dimensioni
del nostro paese.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Il collega Caccavale li vede
passeggiare nel suo paese.
  GIUSEPPE AYALA. Non si può dire che fosse una cosa
segreta perché, come giustamente hai detto, è notorio; ci
sembrava una cosa segreta ma in realtà non lo era affatto,
perché era segreta soltanto per noi ma non certamente per la
comunità in cui il pentito era inserito. Al di là della facile
battuta, si tratta di un problema che si è affacciato già da
molto tempo e costituisce, a mio avviso, uno dei dati da
tenere presenti nella strutturazione di una strategia di
questo tipo. Su tale questione vorrei conoscere il vostro
pensiero.
   Desidero infine porre un'ultima domanda, che è poi quella
che più mi preme, alla quale per la verità lei, dottor
Caselli, ha già risposto in parte, ma le chiedo di essere più
preciso. Mi riferisco al problema attuale della situazione dei
pentiti, naturalmente da un punto di vista squisitamente
processuale (la sicurezza non compete a voi come
responsabilità diretta). Mi collego comunque a quanto lei ha
già detto, in modo che la domanda sia più breve e possa
esserlo anche la risposta: il contatto tra magistrati e
pentiti, per le ragioni indicate anche dal dottor Lo Forte in
relazione all'ipotetica determinazione di un lasso di tempo
entro il quale la collaborazione può valere ed oltre il quale
non vale più (è stato sgomberato il campo anche con
argomentazioni giuridiche di tipo costituzionale, per cui è
inutile tornare su questo), costituisce (soprattutto per i
pentiti di Cosa nostra ed in particolare quelli di buon
livello se non di grande livello) un rapporto che si protrae
nel tempo, naturalmente per esigenze processuali, non di altro
genere. Ciò consente (questa è l'esperienza personale che ho
sempre vissuto) anche di tastare il polso della situazione
psicologica, della disponibilità a collaborare, dello
spessore, del mantenimento o meno di questa disponibilità;
talvolta essa si incrementa positivamente perché, per esempio,
il rapporto fiduciario viene avvertito dal pentito in maniera
più positiva, mentre talvolta tende a scemare o addirittura si
interrompe, perché questo rapporto entra in qualche modo in
crisi. La casistica sarebbe lunga ma evidentemente possiamo
ometterla dandola per scontata.
   Vorrei sapere se oggi, negli ultimi due o tre mesi, i
pentiti che voi "trattate" (possiamo usare questo eufemismo)
vi consentano di raccogliere segnali di mutamento in meglio o
in peggio, oppure di nessun cambiamento, dal punto di vista
del mantenimento del tasso di collaborazione.
   Un'ultima questione riguarda la quantità di persone che
varcano la frontiera della collaborazione: nell'ultimo periodo
si è verificato un calo (non lo so, ma mi sembrava che le sue
parole si potessero interpretare in questo senso). Vorrei
avere, al riguardo, un dato preciso: che voi ricordiate,
quando si è pentito l'ultimo collaboratore appartenente a Cosa
nostra?
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Comincerò a rispondere dall'ultima domanda, o
meglio dalla penultima, ossia se i pentiti di Cosa nostra
"trattati" dalla procura di Palermo abbiano dato negli ultimi
mesi segnali di mutamento in peggio o in meglio ovvero si
comportino in modo stazionario. Per
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quanto riguarda il comportamento concreto, cioè la
formalizzazione del rapporto attraverso la formulazione delle
domande e la verbalizzazione delle risposte, la collaborazione
non è sostanzialmente mutata.
   Ci sono però (con speciale intensità nel settembre scorso,
ma sempre serpeggianti sullo sfondo) preoccupazioni: infatti,
certezze che sembravano (dal loro punto di vista e qualche
volta anche dal nostro punto di vista) consolidate e non
suscettibili di essere messe in discussione in difetto di
fatti nuovi, in difetto di accadimenti storicamente e
obbiettivamente nuovi, sono invece state messe in forse, sono
state sottoposte a forti scossoni da tensioni e polemiche.
   C'è una situazione fluida, una situazione che potrebbe
rimanere ancora stazionaria, ma che potrebbe, teoricamente - è
un'ipotesi che non si può assolutamente escludere - involversi
in peggio.
   Certo non mi sembra che in questo momento ci siano quelle
condizioni straordinariamente favorevoli che esistevano, che
si sono completamente realizzate e che hanno prodotto
risultati imponenti subito dopo le stragi di Capaci e di via
D'Amelio. La rabbia, la ribellione della gente, la risposta
fortissima dello Stato, che finalmente ha saputo darsi quelle
leggi che proprio Falcone e Borsellino chiedevano, hanno avuto
come effetto contestuale, collaterale, conseguente (non lo so,
ma certamente come effetto) anche una stagione di pentimenti
che è stata forse la più florida che mai si sia avuta. Pentiti
nuovi e pentiti vecchi hanno deciso di riferire una serie di
cose che prima avevano taciuto ritenendo il momento, la fase
non ancora congrua, non ancora conveniente e tale da non
consentire ancora tutto questo.
   Tutto questo ha nomi e cognomi. L'arresto di Riina
significa anche la collaborazione di Baldassare Di Maggio, e
la collaborazione di Baldassare Di Maggio significa l'arresto
di Di Matteo Mario Santo, che sarà il primo pentito a rivelare
Capaci.
   Il tutto si combina con una speciale efficienza delle
forze di polizia: la cattura di Ganci Raffaele e dei suoi
figli; l'operazione della DIA in via Ughetti, che porta a
catturare La Barbera e Gioè e per la prima volta a sentire
dalla viva voce di costoro frasi, spezzoni di frasi riferite
all'"attentatuni" e quindi di nuovo a Capaci; poi la cattura
dei fratelli Graviano e la costituzione di Cancemi che, come
ha già ricordato Guido Lo Forte, è estremamente importante.
   Poi, davvero esplodono le collaborazioni, oltre a quelle
già in atto. Prima Di Matteo, che ci manda in bianco (per
usare un'espressione del tutto atecnica) due volte: appena
arrestato sembra che voglia pentirsi e ci si precipita,
procuratore in testa - perché questo è il nostro dovere - per
vedere se effettivamente questa impressione degli organi di
polizia giudiziaria sia buona, e invece niente. Ricordo
personalmente - credo di non rivelare assolutamente nulla che
non possa essere rivelato (per di più in questa sede tutto può
o deve essere rivelato) - che una seconda volta mi sono
precipitato su convocazione della polizia giudiziaria, che
aveva appena svolto un colloquio investigativo, perché di
nuovo sembrava che Di Matteo volesse collaborare e invece egli
improvvisa un verbale di cui francamente devo ancora capire il
reale scopo adesso: o voleva studiare me o aveva cambiato
improvvisamente idea, non so cosa. Arriverà però poi la terza
volta e francamente questa volta ci sono andato ... Mi ero
detto che la prossima volta non ci sarei andato più, perché
una delle ipotesi che facevo è che volesse vedere se mi
muovevo per intercettarmi con qualche amico fuori galera a
mezza strada, ma questo fa parte della emotività di ciascuno
di noi. Invece, decido di andarci e questa volta è la volta
buona. Per la prima volta sento raccontare la strage di Capaci
e chiaramente la mattina dopo passo tutto ai colleghi di
Caltanissetta che svilupperanno, come hanno saputo fare, tutto
quanto il discorso.
   Viene di seguito la collaborazione di La Barbera. Anche
Cancemi, che fino a quel punto di Capaci non aveva parlato, ne
parla. C'è un vero e proprio fiorire di pentimenti di medio ed
alto livello. E soprattutto Mutolo, Buscetta, Marino Mannoia,
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che fino a quel momento avevano toccato i rapporti
mafia-politica solo per accenni, dicendo che ne sapevano,
dicendo che esistevano, ma che non ritenevano possibile
parlarne per timore di intimidazioni o per timore che fosse
messa in dubbio addirittura la loro credibilità e che tutta la
costruzione (nel senso tecnico-giuridico) accusatoria potesse
essere vanificata, potesse essere demolita - "per non passare
per pazzi": queste sono le parole, mi pare, che usano -
decidono che la drammaticità, la rottura assoluta che Capaci e
via D'Amelio rappresentano impongano moralmente e dal punto di
vista della coerenza di collaboranti con le autorità dello
Stato di dire tutto quello che sanno.
   I risultati vengono. Non voglio accennare ai processi più
importanti e anche più complessi, perché quello riguardante
Contrada è in fase dibattimentale e quello che riguarda il
senatore Andreotti è alla vigilia di essere trattato dal GIP,
ma penso ai rinvii a giudizio per l'omicidio Lima, per
l'omicidio Salvo, per l'omicidio Grassi, per l'omicidio
Cassarà, per padre Puglisi ed a cento e cento altri omicidi
che vengono ad essere chiariti. Penso alle inchieste che
toccano, riguardano, comportano l'incriminazione e
l'accertamento di responsabilità - sempre dal punto di vista
dell'accusa e sempre con riserva di verifica da parte
dell'autorità giudicante - di medici, avvocati, notai,
bancari: la cosiddetta zona grigia, che è l'elemento di forza
di Cosa nostra. Penso ai grandi imprenditori, soprattutto in
campo edile, di cui abbiamo parlato prima. Penso ad un
risultato che Palermo aveva già conosciuto con il pool
di Falcone e Borsellino. E' il crollo del mito dell'impunità
di Cosa nostra e questa volta non soltanto di Cosa nostra
militare (ma neppure allora si trattava solo di Cosa nostra
militare), ma di Cosa nostra militare e non, in misura e
dimensioni superiori a quelle di allora.
   Ecco, una stagione come questa in questo momento non c'è.
E se non vi sia perché quella stagione si è esaurita di per sé
stessa, se non vi sia perché sono cambiati i fattori che
possono favorirla, francamente non lo so. Stiamo ancora
vivendo questa fase per poter avere delle risposte sicure su
quel che sta accadendo e sul perché stia accadendo in un certo
modo.
   Di collaborazioni ce ne sono ancora. Se proprio dobbiamo
dare un dato cronologico, anche abbastanza recenti.
  GIUSEPPE AYALA. Nuove?
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Sì, nuove. Non dell'importanza e dell'imponenza
che hanno quelle che ho citato, però ci sono.
   Allora, si apre il discorso relativo all'articolo
41-bis dell'ordinamento penitenziario. Sono sicuro che
molti considereranno queste mie parole ciniche, però il
41-bis, laddove viene applicato (c'è tutto il discorso
sul 41-bis scatola vuota, mero involucro all'interno del
quale, per una serie di motivi, per il fatto che particolari
processi che devono essere celebrati comportano permanenze
protratte all'Ucciardone e non più in istituti adatti) laddove
funziona è indubbiamente - potranno sembrare ciniche queste
parole, ma sono soltanto realistiche, perché il 41-bis
non è altro che un trattamento di rigore, finalmente, nei
confronti di detenuti mafiosi per i quali, fino all'entrata in
vigore di questa legge dello Stato, di trattamento di rigore
non vi era lontanamente da parlarne - un fattore ancora
incentivante le collaborazioni.
   Vi era poi la domanda relativa al depistaggio. La procura
di Palermo, allo stato delle conoscenze, non può riferire
episodi concreti in questa direzione. Certo, è un profilo dei
tanti problemi connessi alla collaborazione che - sia dal
punto di vista teorico sia per le cose che, grazie allo
scambio di informazioni e di dati con altri colleghi, si
sentono dire e prospettare un po' più concretamente - non può
non essere tenuto presente come eventualità di accadimento. Ma
allo stato degli atti e delle conoscenze della procura di
Palermo ...
  GIUSEPPE AYALA. Episodi concreti, tipo il caso
Pellegriti, per intenderci.
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  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. La procura di Palermo non ne ha ancora
avvertiti.
  PRESIDENTE. Il direttore del Servizio di protezione ci
ha detto che ci sono oltre trenta pentiti in più al mese. Voi
avete registrato questa evenienza?
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Non per la procura di Palermo.
  PRESIDENTE. Per altre procure.
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. Circa la domanda
relativa ai trenta pentiti in più al mese, desidero rilevare
che i pentiti possono essere dissociati da organizzazioni
criminali di vario tipo. Per quanto riguarda i dissociati
dall'organizzazione criminale Cosa nostra, certamente i numeri
sono diversi.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Ritengo straordinario il contributo
che questa sera la Commissione sta ricevendo dal procuratore
della Repubblica e dal procuratore aggiunto di Palermo. Uno
degli elementi più importanti che devono guidare la
Commissione antimafia, infatti, è proprio il continuo scambio
di opinioni, volto a finalizzarne l'attività. Se da un lato la
procura della Repubblica, che è radicata nel territorio,
indaga e promuove l'azione penale nei confronti dei mafiosi,
dall'altro la Commissione antimafia deve essere guidata,
attraverso l'interconnessione di informazioni sul territorio,
nelle battaglie politiche e legislative che deve portare
avanti al fine di dare man forte a chi è in prima linea.
   Rivolgerò ai nostri ospiti domande che vanno oltre la
vicenda dei collaboratori, perché tanti problemi sono già
stati posti e perché ritengo di dover sottoporre quesiti
precisi utili sia al gruppo di lavoro che si occupa degli
strumenti legislativi sia ai fini della comprensione delle
strategie in alcuni settori nei quali opera Cosa nostra.
   La prima domanda che desidero porre concerne gli attentati
agli amministratori siciliani. E' ormai chiara la matrice
mafiosa di questi attentati; tuttavia, riesce difficile a
volte capirne, anche se si intuisce, la chiave di lettura.
Tutti la intuiamo, ma per voi che state vivendo il dramma dei
gravi attentati a questi amministratori, da Corleone a Piana
degli Albanesi, la chiave di lettura è molto precisa. In
questa direzione mi chiedo (peraltro io sono di Agrigento) in
che termini debba svolgersi l'azione della Commissione
parlamentare antimafia affinché l'isolamento diminuisca. Forse
è facile intuire anche questo, ma al riguardo chiediamo un
parere del procuratore della Repubblica di Palermo.
   Il secondo problema che intendo trattare concerne i
collaboratori non pentiti né mafiosi. In Sicilia ne abbiamo
diversi: si tratta, per esempio, di quei commercianti onesti
che hanno detto "basta" all'estorsione ed hanno deciso di
collaborare con la magistratura. Nel corso della sua audizione
il dottor De Gennaro ha affermato che anche loro stanno
vivendo una situazione molto difficile. I casi che
personalmente mi risultano - peraltro sono avvocato di parte
civile in alcuni di questi - sono parecchi e diversi; in che
cosa - è questa la mia domanda - è carente la legislazione che
dovrebbe essere di ausilio a questi soggetti, che certamente
non sono mafiosi e non lo sono mai stati e meritano tutela ed
attenzione da parte dello Stato? In che termini, dunque, è
possibile aiutare questi soggetti?
   Nella mia esperienza personale di avvocato - pongo
un'altra questione - ho assistito numerosi collaboratori. A
tale proposito devo dire che i tempi di risposta della
commissione centrale erano disastrosi. Quali sono oggi i tempi
e come può adoperarsi la Commissione antimafia, ove sussistano
ancora questi lassi di tempo disastrosi, per un intervento dal
punto di vista economico ed anche dell'assistenza ai
familiari? In che termini possiamo muoverci e quali questioni
dobbiamo sollecitare affinché questi strumenti vengano
definiti in tempi più rapidi?
   Desidero porre brevemente un'altra puntuale domanda in
relazione alla strategia posta in essere contro la Chiesa. Lo
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scopo lo abbiamo capito: laddove la Chiesa svolge un ruolo di
sensibilizzazione forte delle coscienze, viene ad essere
duramente attaccata e colpita, come è accaduto nei confronti
di padre Puglisi e come è accaduto, e purtroppo non abbiamo
potuto fare nulla e per primo me ne dolgo, nei confronti di
padre Zambolin, che è stato costretto a lasciare Palermo. In
rapporto a quest'ultima vicenda abbiamo anche noi, componenti
la Commissione antimafia, una grave responsabilità perché non
ci siamo adoperati nella misura più efficace e giusta. Lo
stesso vale per quello che sta accadendo a Termini Imerese. In
che termini, allora, è possibile signori procuratori, alzare
la tensione? Molte volte il grido di allarme della procura di
Palermo è stato da noi - almeno da me - letto con grave
disagio e con fortissimi sensi di colpa. In che termini è
possibile contrastare quanto sta avvenendo nei confronti della
Chiesa e di chi è esposto in prima linea ad educare le
coscienze?
   Per quanto riguarda la confisca dei beni chiedo, in
maniera molto precisa, cosa sia necessario fare per
velocizzare non tanto la confisca, perché essa dipende dalla
velocità dei processi, ma quantomeno l'immediata acquisizione
dei beni, anche se questa può essere temporanea e sottoposta
ad un probabile o possibile giudizio, sia di assoluzione sia
di condanna. Dico questo perché molte volte dopo il sequestro
purtroppo il bene sequestrato è stato affidato in custodia ai
familiari del presunto mafioso. Questo crea un effetto
nell'immaginario collettivo e nella società, nel senso che
induce ad affermare che non è cambiato nulla perché se un bene
sequestrato viene ridato in uso e la società civile, la gente,
constata che in realtà la famiglia del mafioso continua ad
usufruirne, il segnale che si invia è assolutamente negativo.
Bisogna allora capire cosa fare per velocizzare i tempi,
perché anche in questo caso si sconta un'alta
burocratizzazione nell'acquisizione dei beni.
   Meno di un mese fa, insieme alla presidente Parenti,
abbiamo fatto una visita ad Agrigento nel corso della quale
abbiamo incontrato i magistrati che vivono in prima linea la
lotta alla mafia, sia perché sono molto esposti con le
inchieste sul riciclaggio e gli stupefacenti, sia perché si
celebrano nella città i processi di mafia, sia perché vivono,
come loro stessi l'hanno definita, una sorta di emarginazione
rispetto ai territori nei quali si fanno le inchieste di
mafia. Quei magistrati ci hanno fornito delle idee e poiché
anche in questo caso il problema implica una riforma
legislativa, desidero conoscere il parere del procuratore
della Repubblica di Palermo su due aspetti fondamentali.
   Abbiamo registrato un primo parere negativo nei confronti
dei tribunali distrettuali. Il parere è negativo perché, come
ci è stato riferito, nel momento in cui si centralizza anche
l'effettuazione dei processi a Palermo, per Agrigento è come
se si effettuasse una sorta di abbandono di una parte del
territorio. Non solo: ne deriverebbero anche disagi dal punto
di vista dell'effettuazione dei processi stessi perché a
Palermo si avrebbe un ipercarico sia da un punto di vista
logistico sia dal punto di vista della velocità dei processi.
I magistrati di Agrigento sostengono che in fondo si può
ovviare a questo problema mantenendo i tribunali nelle sedi
distaccate, quindi aumentando la presenza dello Stato "in
periferia" (lo dico tra virgolette perché la lotta alla mafia
non deve conoscere la periferia) ed utilizzando anche il
meccanismo delle deleghe. Ad Agrigento l'ultimo processo di
mafia condotto dal bravo dottor D'Ambruoso, sostituto
procuratore presso quella procura, si è risolto con numerosi
ergastoli e numerosi anni di condanna nei confronti dei
mafiosi. Anche lì lo Stato ha vinto, nonostante il processo
sia stato celebrato in una città che non è quella della
procura distrettuale. Al riguardo desidero conoscere
l'orientamento del procuratore Caselli.
   E' stata poi avanzata la richiesta di far partecipare
d'ufficio i procuratori ordinari presso la procura
distrettuale antimafia. Più di un procuratore lo ha
evidenziato e il motivo è semplice: molte volte le inchieste
possono essere condotte in base ad un'esatta conoscenza dei
fatti se si opera sul luogo. Il procuratore della Repubblica
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può avere le stesse informazioni che ottiene la centrale
operativa antimafia, nella quale confluiscono tutte le
notizie, ma chi vive sul luogo ha maggiori informazioni
rispetto a chi, pur avendole centralizzate, non vive in quella
realtà.
   Chiedo infine una informazione neutra, che tuttavia può
essere utile alla Commissione. Desidero sapere se il dottor
Ilarda fa parte della procura distrettuale antimafia e se ha
in carico dei processi di mafia.
   Concludo invitando il presidente della Commissione
antimafia a trasmettere il resoconto dell'audizione odierna al
presidente della Commissione giustizia della Camera, onorevole
Maiolo, affinché si renda conto che a volte determinate
dichiarazioni possono essere destabilizzanti nella lotta alla
mafia.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Mi riferirò agli aspetti più complessi che
comportano una risposta secca e schematica: la confisca dei
beni, cosa fare per "velocizzare" e cosa fare perché tutto non
sembri assolutamente uguale a sempre, anche al fine di non
vanificare, quanto meno sotto il profilo dell'immagine offerta
dall'amministrazione della giustizia all'opinione pubblica, la
risposta concreta ed effettiva a Cosa nostra, al suo momento
di potenza economica.
   Non ho dati per rispondere alla domanda ma posso chiedere
una relazione al collega De Francisci, se lo si ritiene utile
ed opportuno, onorevole Scozzari. Il problema è
particolarmente avvertito tanto che negli ultimi tempi se ne è
discusso. Il collega De Francisci, i componenti la sezione
misure di prevenzione e la dirigenza dell'ufficio (i
procuratori aggiunti ed il sottoscritto) hanno dibattuto
sull'opportunità di sedere insieme attorno allo stesso tavolo
- anche se esistono delle difficoltà trattandosi di requirente
e di giudicante - con i magistrati di sorveglianza (e ferma
restando la garanzia, ovvia ed indiscutibile, dell'assoluta
indipendenza e autonomia affinché non vi siano interferenze
degli uni sugli altri), per affrontare il tema della gestione
e dell'amministrazione dei beni prima ancora della confisca.
Ciò affinché questa non venga vanificata con l'affidamento a
soggetti che non garantiscono la rispondenza all'interesse
pubblico.
   Rispondo avanzando la riserva di trasmettere qualcosa di
più articolato. Tuttavia vi è un'attestazione di esistenza del
problema e della relativa cognizione da parte nostra al punto
che stiamo individuando le strade da praticare per discutere
insieme con gli altri organi competenti dello Stato.
   Passo ora a trattare degli attentati agli amministratori
siciliani per poi soffermarmi sui rapporti tra la
distrettuale, le procure ed i tribunali locali.
   Gli attentati agli amministratori siciliani hanno
particolarmente preoccupato le autorità investigative
parlermitane e la procura della Repubblica. Va sottolineata la
sequenza di questi attentati oltre all'arroganza ed alla
iattanza con cui sono stati commessi. Ricordo solo un caso:
quando il ministro Maroni ha organizzato a Piana degli
Albanesi la riunione degli amministratori locali - che è
risultata particolarmente significativa per gli impegni
assunti dal ministro e per le considerazioni svolte dagli
amministratori locali, i quali hanno sentito davvero vicino lo
Stato - nella notte è stato compiuto uno dei più gravi
attentati quale reazione alla presenza fattiva, impegnativa,
forte e significativa dello Stato.
   Vi è preoccupazione perché gli attentati sono magari cento
o centocinquanta (e mi dispiace di non avere dati precisi al
riguardo). Indubbiamente non tutti sono riconducibili alla
stessa matrice, ma c'è un nucleo assolutamente corposo che,
con sicurezza, può essere ricondotto alla strategia mafiosa di
riaffermazione di una presenza arrogante, violenta e criminale
nel territorio. Il che sembra combinarsi con la presenza di
latitanti su questi stessi territori, ciò che rappresenta un
altro punto particolarmente dolente e, al tempo stesso,
estremamente rilevante in ordine alla risposta istituzionale
alla mafia.
   I latitanti, secondo me, si cercano; per quello che posso
avvertire dal mio osservatorio
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e considerato il ruolo svolto dalla procura, posso dire
che è in corso un'intensa attività di ricerca dei latitanti
maggiori, ora fortunata ora meno fortunata (la speranza
ovviamente è che sia fortunata e in tempi brevi). Vi è però un
numero davvero preoccupante di latitanti di medio calibro, i
quali rappresentano la struttura portante dal punto di vista
militare, dei collegamenti, dell'esibizione di sé sul
territorio (latitanti sono persone operative) e della forza di
Cosa nostra.
   Gli attentati agli amministratori sembrano combinati con
la presenza, quantitativamente cospicua, di latitanti che tali
restano nonostante gli sforzi delle forze dell'ordine (dei
quali va dato atto) per catturarli.
   La mimetizzazione dell'uomo d'onore sul territorio è il
portato di una sapienza secolare, di un affinamento
progressivo nel corso degli anni e della militanza. Quella
stessa mimetizzazione che con fatica cerchiamo di realizzare,
e che molte volte costituisce ancora un obiettivo per i
pentiti, in questo caso è un dato di fatto che rappresenta un
punto di assoluta forza.
   Dunque, si avverte molta preoccupazione sia per i fatti in
sé sia per la trama strategica che si intravvede. Da qui la
ricerca di contromisure; per quanto riguarda la procura si
sottolinea la creazione di una squadretta articolata su due
soggetti che lavorano se non a tempo pieno, a tempo semipieno
sugli attentati, e la formazione di una squadra interforze per
intervento del ministro Maroni, davvero molto attento e
sollecito nel dare disposizioni di supporto alle
investigazioni (che però ha funzionato entro certi limiti).
   Vi sono ricognizioni ed investigazioni significativamente
in atto e credo che dal punto di vista tecnico sia difficile
fare qualcosa di più. Speriamo che si producano risultati;
allo stato degli atti non si registrano ancora risultati e
siamo dispiaciuti. Gli attentati sono continuati ed hanno
colpito non solo gli amministratori di una certa parte
politica: evidentemente non c'è distinzione di collocazione
politica dal momento che si prende in considerazione la
serietà...
  MASSIMO BRUTTI. Sono stati interessati anche i
parroci.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Ci siamo ripartiti i compiti. Degli eventi che
hanno interessato la Chiesa parlerà il collega Lo Forte.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Sarebbe opportuna ed utile una visita
della Commissione.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Cosa può fare la Commissione? Certamente
un'attenzione a questi problemi prestata sul posto, come è
stato già sperimentato, male non fa, anzi può essere utile.
   Vi sono alcuni profili che gli amministratori locali
sistematicamente denunciano. Per esempio, le difficoltà di
rapporto con il Coreco, le difficoltà di rapporti con la
regione, le difficoltà proprio di funzionamento della stessa
amministrazione locale che perversamente, senza sicuramente
l'intenzione di nessuno, possono combinarsi con l'attacco
militare esterno. Al riguardo, non so quali siano le
specifiche competenze o le concrete possibilità di intervento
della Commissione, ma se vi fossero, ecco un terreno su cui la
Commissione utilmente e proficuamente potrebbe muovere.
   Dopo aver visitato le sedi cosiddette periferiche, che poi
periferiche non sono per niente, giustamente avete colto e
proposto oggi il tema, molto importante, dei tribunali
distrettuali. Proverei ad articolare il discorso, sia pure per
sommi capi, su tutti i possibili passaggi.
   Anch'io sono assolutamente convinto - parlano i dati; non
è convinzione personale - che i tribunali periferici abbiano
dato e stiano dando ottima prova, non perché le richieste
della procura sono state tutte accolte, ma perché il rigore di
impostazione dell'accertamento dibattimentale - pur in
condizioni che sono obiettivamente meno facili (c'è una
Pagina 664
maggiore vicinanza a determinati soggetti, anche perché le
strutture logistiche sono ben diverse da quelle del palazzo di
giustizia o dell'aula-bunker di Palermo), anzi nonostante
queste difficoltà logistiche - ha portato ad una risposta sul
piano dibattimentale davvero di buon livello, per quanto
riguarda la valutazione dell'accusa. Quindi, questi tribunali
funzionano: quando si solleva il tema dei tribunali
distrettuali non è per insoddisfazione nei loro confronti, ma
per altro tipo di problemi.
   I problemi nascono dal fatto che oggi l'accusa è costretta
ad operare anche presso Trapani, Marsala, Agrigento, Sciacca e
Termini Imerese. Basta l'elenco per comprendere come la
procura distrettuale di Palermo sia un unicum tra le
altre distrettuali: non c'è altra distrettuale in Italia che
debba fare i conti processuali con procure e tribunali come
quelli di Agrigento, Trapani, Marsala, Sciacca e Termini
Imerese. Ciascuna di queste è una piccola Palermo per quanto
riguarda il gettito di produttività - scusate queste
espressioni che fanno un po' ridere - mafiosa. Dico sempre,
quando parlo di queste cose, che la mia città di origine
questi problemi li ha con Mondovì, che se ha trasmesso un
processo alla distrettuale in centocinquanta anni ne ha già
mandato uno di troppo, per fortuna di Mondovì e per fortuna di
Torino! Invece, al 30 settembre 1994, i processi pendenti nel
territorio di Palermo sono 86, di cui 32 per Agrigento, 11 per
Trapani, 18 per Marsala, 3 per Termini Imerese e 3 per
Sciacca. Quindi, il gettito di Agrigento, di Trapani e di
Marsala, in particolare, è consistente: ciascuno di questi
numeri significa molte volte 50 o 100 imputati, in zone che,
prima di Borsellino in particolare, non avevano mai visto -
senza colpa di nessuno, ma per una serie di fattori storici,
eccetera - una risposta significativa.
   Allora, c'è un gettito di lavoro particolarmente
importante, complesso, significativo che ricade sulla procura
distrettuale, la quale non soltanto deve svolgere le indagini
preliminari ma, proprio per la complessità di questi processi,
deve anche sostenere l'accusa al dibattimento. Non è pensabile
che questi processi con 50 o 100 imputati, soprattutto con il
nuovo rito, li faccia il pubblico ministero X in fase di
indagini preliminari e poi si passino, come un pacco da
trasportare, ad un altro pubblico ministero, che potrà essere
il più bravo del mondo, davvero capace di improvvisare o di
capire tutto al volo, ma se non si sono costruite le prove,
che poi al dibattimento soltanto si formeranno
definitivamente, non ci può essere resa al massimo delle
potenzialità del lavoro investigativo della polizia e
istruttorio da parte del PM in fase di indagini
preliminari.
   Però, oggi cosa succede? In questo momento siamo 13
magistrati: il dottor Ilarda non fa parte da molti mesi della
procura, perché su sua domanda ha chiesto ed ottenuto il
trasferimento alla procura generale e non è stato sostituito
alla distrettuale, per una serie di motivi. Quindi, se con il
dottor Ilarda eravamo 14 adesso siamo diventati 13. Questi 13
debbono oggi sopportare un carico di lavoro davvero
massacrante. Siccome francamente speravo in qualche domanda su
questo tema - non è che l'onorevole Scozzari ed io siamo
d'accordo, perché non ci conosciamo - essendo uno dei problemi
che ci angoscia maggiormente, ho chiesto al collega Croce, che
specificamente cura i rapporti con la cosiddetta provincia,
cioè con i tribunali cosiddetti periferici, di aggiornarmi a
stamattina sulla situazione. Se mi consentite, vi leggo il
promemoria che mi ha preparato: "Il 5 dicembre prossimo
venturo avrà inizio dinanzi alla corte d'assise di Agrigento
il procedimento penale nei confronti di Alletto Croce + 79,
imputati dei reati di associazione per delinquere di tipo
mafioso, strage e altro; procedimento penale con ben 73
detenuti che pertanto non potrà svolgersi in locali del
palazzo di giustizia di Agrigento ma nell'aula bunker ricavata
nella nuova casa circondariale di quella città, per la quale i
lavori di adattamento, iniziati nella scorsa estate, non sono
stati ancora ultimati". Fin qui Agrigento ha celebrato i
processi in un'aula "qualunque" che è diventata un po' meno
qualunque grazie allo straordinario impegno del ministro
Conso, perché quando
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siamo andati (procuratore generale, procuratore della
Repubblica, presidente del tribunale di Agrigento e
procuratore di Agrigento) a verificare lo stato dei luoghi,
francamente non me la son sentita di mandare in quella
situazione logistico-ambientale procuratori della
distrettuale, perché i rischi erano incredibili: non c'erano
vetri blindati, non c'erano gabbie per gli imputati...
  GIUSEPPE SCOZZARI. Il presidente l'ha vista. E' una
situazione nota. Devono passare dentro la città!
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Fate uno sforzo e cercate di immaginare cosa fosse
quell'aula senza vetri blindati, senza metal detector
all'ingresso per i parenti, senza nulla di nulla! E i primi
processi per fatti di mafia avrebbero dovuto cominciare così!
L'impegno dei colleghi locali e, per quanto ci competeva,
nostro e la straordinaria attenzione del ministro Conso e del
suo staff (la dottoressa Argento e gli altri che si
occupano principalmente di queste cose) ha consentito in tempi
assolutamente record, inimmaginabili per le nostre
amministrazioni in generale, di provvedere, sia pure in una
maniera insufficiente. Frattanto è proseguita la costruzione
dell'aula-bunker. Credevo fosse ultimata, invece scopro che
non lo è, ma sarà comunque l'unico - diciamolo subito - dei
tanti tribunali periferici che potrà contare su
un'aula-bunker. Vedremo subito dopo che a Sciacca sta per
iniziare un processo e lì non esiste nulla del genere.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Mancano anche i vetri blindati!
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Pubblici ministeri nel procedimento che andrà ad
aprirsi ad Agrigento il 5 dicembre saranno i colleghi
Principato e Teresi - sono cose pubbliche, non credo di venir
meno a nessun dovere nel menzionarli - che sono quelli che
hanno svolto le indagini preliminari. Il promemoria prosegue
ricordando che "il 12 dicembre avrà inizio a Sciacca il
procedimento penale nei confronti di Ganci Salvatore + 23 (11
detenuti), per associazione per delinquere. La pubblica offesa
sarà rappresentata da Teresa Principato e Olga Capasso. Il 9
gennaio 1995 presso la corte d'assise di Agrigento, avrà
inizio il procedimento contro Puzzangaro Gaetano + 5 per
l'omicidio del maresciallo dei carabinieri Guazzelli ed altri;
PM la dottoressa Principato e Vittorio Teresi. E' di tutta
evidenza" - scrive il dottor Teresi - "la grave esposizione a
rischio cui saranno sottoposti i magistrati di questa DDA,
costretti a quotidiani spostamenti tra Palermo, Agrigento e
Sciacca, attraverso strade che non consentono alternative.
Tale esposizione è ancora più preoccupante ove si consideri
che nessuna misura di sicurezza è stata a tutt'oggi adottata
nei locali del tribunale di Sciacca". Segue tutta una
descrizione analitica che credo di dovervi risparmiare perché
se ci siete stati l'avete constatata con mano.
  GIUSEPPE SCOZZARI. La conosciamo molto bene, perché il
procuratore ce l'ha illustrata in modo puntuale.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Allora, in questo momento, i tribunali
distrettuali sono assolutamente necessari ed urgenti per
Palermo, anche se mi rendo conto per primo che, se si esce da
Palermo, è difficile che questa realtà drammatica sia
percepita. L'ho detto al Consiglio superiore quando sono stato
convocato e non posso che ripeterlo oggi: a Torino ero contro
i tribunali distrettuali, ma dopo essere arrivato a Palermo mi
è bastata una settimana, quindici giorni o un mese - non che
io sia particolarmente banderuola - per capire che i tribunali
distrettuali per Palermo sono una necessità, non un
optional. In questo momento sono assolutamente
necessari: necessari per la sicurezza dei magistrati che
devono spostarsi; necessari per la sicurezza dei magistrati
che devono lavorare attualmente nei tribunali periferici, non
essendoci aule-bunker che invece a Palermo ci sono; necessari
anche per le indagini che sono ancora in corso.
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Se tutti questi colleghi debbono necessariamente seguire i
dibattimenti (e contemporaneamente sta cominciando una grande
stagione di dibattimenti anche a Palermo), come procura
corriamo concretamente il rischio di non avere più magistrati
che facciano le indagini. Sono tutti o quasi impegnati nei
dibattimenti.
  PRESIDENTE. Anche se fossero a Palermo sarebbe la stessa
cosa.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. No, se fossero a Palermo avremmo un po' più di
tempo, perché quanto meno non ci sarebbero gli spostamenti.
Economizzeremmo i tempi degli spostamenti e, in ogni caso,
risolveremmo il problema della sicurezza, che è davvero
importante, per non dire decisivo, in questa serie di
valutazioni.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Ecco perché bisogna mobilitarsi con
il Ministero per fare in modo che questi magistrati si
spostino quanto meno in elicottero.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Questo avviene. Ma se l'elicottero è un mezzo di
spostamento un po' più sicuro occorre considerare anche la sua
visibilità... E' proprio lo spostarsi ad udienza fissa, con
preavviso dato, per obbligo di legge, all'universo mondo che
comporta, qualunque sia il mezzo, problemi di sicurezza che
sono in re ipsa. Credo, dunque, che i tribunali
distrettuali siano assolutamente necessari. Però sono
pessimista perché fuori di Palermo è difficile per chi non
vive la realtà di questa città rendersi conto della
drammaticità e dell'urgenza del problema. Mentre sul problema
dei pentiti o è bianco o è nero, nella mia presunzione, perché
sull'utilità di questo strumento non si discute, per quanto
riguarda il problema dei tribunali distrettuali posso capire
che, vivendo una determinata realtà si pensa necessariamente
in un certo modo, mentre non vivendo questa realtà di vede
tutto più sfumato, più semplice, anche se così non è.
   Se i tribunali distrettuali dovessero diventare realtà, è
chiaro che le strutture giudicanti di Palermo dovrebbero
essere potenziate, altrimenti ritroveremmo lì il collo di
bottiglia. Collo di bottiglia che abbiamo già oggi: molte
volte qualcuno, strumentalmente, cercando di mettere procura
contro tribunale, afferma che c'è stato uno sbilanciamento nel
senso di un potenziamento dell'accusa e di una mortificazione
delle strutture giudicanti, in particolare quella dei GIP. Chi
lo afferma strumentalmente, per creare contrapposizioni, per
creare contrasti, per seminare un po' di veleno all'interno
del palazzo di giustizia di Palermo, sbaglia; chi lo dice
avendo come punto di riferimento soltanto la realtà dei
problemi ha perfettamente ragione. Prova ne sia che i primi a
dire che 8 GIP (ora stanno per diventare 14) per Palermo sono
assolutamente insufficienti siamo stati noi (chiedo scuse se
cito ancora una volta noi stessi); ma lo sono anche per le
esigenze dell'accusa, perché molte delle nostre richieste - lo
dico senza volerne dare la colpa a nessuno, perché ad
impossibilia nemo tenetur- restano giacenti per mesi.
Infatti, non essendoci il tempo materiale di studiare
seriamente tutto, i magistrati di Palermo, che sono di
assoluta ed ineccepibile serietà - non tocca a me dirlo - non
mandano avanti cose che non siano assolutamente digerite e
metabolizzate dal punto di vista tecnico-giuridico della
conoscenza completa degli atti da parte dei GIP medesimi.
   Per cercare almeno di toccare tutti i passaggi, resta il
problema dei rapporti tra procure distrettuali e procure
circondariali, territoriali. La prima considerazione da fare
è, secondo me, che la distrettuale è un valore, ha dato una
prova positiva nella sperimentazione concreta di sé, quindi è
una struttura da mantenere. Il concetto ispiratore del
pool di Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino,
quello della concentrazione delle conoscenze in modo da poter
avere una visione organica di Cosa nostra - e avendo questa
visione organica inseguire più facilmente, all'interno del
quadro così formato, le manifestazioni specifiche singole di
criminalità - è il concetto
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che si è cercato di riprodurre con la distrettuale.
Quindi, bisogna avere una visione organica, unitaria, in un
ambito territoriale allargato, essendo sempre più chiaro che
Agrigento, Trapani e Marsala sono serbatoi, retroterra, canali
di alimentazione, posti di reclutamento di Cosa nostra, sono
Cosa nostra, oltre alle manifestazioni di stidda che sono
compresenti.
  GIUSEPPE SCOZZARI. La stidda è un fenomeno tipicamente
agrigentino.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Certo. Dunque, avere una visione unitaria, almeno
per quanto riguarda il distretto, è la riproposizione del
valore del pool e, conseguentemente, è un recupero
rispetto all'abbattimento del pool all'epoca della
famosa polemica Falcone-Meli, quando vinsero determinate
impostazioni, che non erano tanto quelle di una persona contro
l'altra bensì di una cultura di investigazione e di indagine
contro l'altra; mi riferisco alla cultura della
parcellizzazione, della segmentazione, quindi della condanna
degli organi di contrasto dello Stato ad una visione
asfittica, ridotta, parcellizzata, appunto, rispetto a quella
organica e complessiva che poteva consentire di capire di più
e quindi di rispondere più efficacemente.
   Resti fermo, allora, il valore della distrettuale per
quell'intelligence di conoscenza, per quell'organicità,
armonicità, unitarietà di conoscenza che comporta; ma il
problema dei rapporti con le procure distrettuali esiste.
L'onorevole Scozzari ha citato la proposta dei colleghi delle
territoriali: è la nostra proposta. Abbiamo fatto una riunione
in proposito e ci è poi mancato il tempo per farne altre, ma i
primi ad avanzare una proposta che sia in qualche modo di
salvaguardia dei valori della distrettuale ma anche di maggior
coinvolgimento delle territoriali...
  GIUSEPPE SCOZZARI. E' un braccio che si cala nel
territorio.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Esatto. Dal punto di vista ordinamentale, le
risposte sono complicatissime, perché l'ordinamento
giudiziario non facilita risposte di questo tipo. Ma fare del
procuratore di Marsala, di Trapani e di Agrigento l'aggiunto
della distrettuale potrebbe essere una soluzione. Secondo me
non la migliore perché poi, di fatto, nonostante le migliori
intenzioni, si riprodurrebbe una competenza locale che
svuoterebbe della possibilità di una visione organica la
distrettuale. Forse, una soluzione potrebbe essere la
seguente: componenti della distrettuale, che naturalmente
dovrebbe essere potenziata (che lavorino, quando ce ne sia la
necessità, come magistrati stanziali (per usare questa
espressione) in Trapani, Marsala ed Agrigento, con un rapporto
organico e con la distrettuale e con la procura locale, in
modo da assicurare un'osmosi; altrimenti, il rischio che
corriamo è grosso.
   Va bene accentrare nella distrettuale per avere una
visione organica, però è vero - con la presidente Parenti se
ne è già parlato in occasione della sua prima venuta a Palermo
- che la presenza sul territorio consente di avere a
disposizione, per quanto riguarda sia la polizia, sia i
carabinieri, sia i magistrati della procura, dei sensori,
degli elementi di valutazione - proprio perché direttamente
sul territorio - assai più sensibili e più forti di quelli
che, con tutti gli sforzi che si possono fare, si hanno a
Palermo. Anche se i chilometri di distanza sono pochi, la
specificità del territorio non vissuta con l'inserimento nel
territorio stesso non consente di cogliere alcune cose, di
seguirle, intuirle, capirle nel momento della loro formazione,
il che può essere decisivo affinché non lievitino più di
tanto; dunque c'è il rischio che concentrando tutto nella
distrettuale, senza coinvolgere in qualche modo le
territoriali - e la polizia e i carabinieri, oltre alla
magistratura - si finisca per demotivare e non rendere così
attenti e sensibili - come viceversa potrebbero essere essendo
collocati sul territorio - i nostri colleghi, i poliziotti, i
carabinieri. Il valore della distrettuale va dunque, secondo
me, salvaguardato e potenziato, ma studiando e realizzando
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al più presto forme di coinvolgimento delle procure e
delle forze di polizia territoriali, che altrimenti rischiano
di appannare la loro sensibilità, sapendo che, dopo la
primissima battuta, la competenza non è più loro.
   Questo - di nuovo - è un problema particolarmente urgente
per Palermo e forse ha l'uguale soltanto nel caso di Catania e
di Napoli; altre procure distrettuali sono assai più fortunate
e non hanno questi problemi. Per Palermo il rapporto con
Agrigento, Trapani, Marsala, Termini Imerese e Sciacca
comporta, allo stato degli atti, l'esigenza del tribunale
distrettuale e, per un futuro che deve essere, però, il più
possibile immediato, un rapporto più organico e stretto, di
maggior valorizzazione e coinvolgimento con le
territoriali.
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. L'ultima domanda posta
dal deputato Scozzari riguarda il significato profondo degli
atti di intimidazione che si stanno verificando nei confronti
di esponenti della Chiesa, di sacerdoti, di pastori. Credo che
questo, come significato profondo e come espressione del dato
di analisi della realtà attuale della società siciliana,
rappresenti il segnale più terrificante. L'uso di questo
aggettivo - terrificante - non significa che intenda esprimere
un pessimismo totale: dobbiamo tuttavia essere realisti e
renderci conto, evitando di coltivare facili illusioni, del
significato dell'azione perpetrata contro la chiesa.
   Cosa hanno fatto questi sacerdoti? Debbo dire subito che a
mio avviso l'episodio di padre Zambolin, costretto ad
allontanarsi dalla sua parrocchia, è di una gravità
eccezionale che non può essere assolutamente sottovalutata.
Questi sacerdoti, nel rigoroso ambito della loro visione
pastorale ed evangelica, hanno semplicemente raccolto i
giovani dalla strada ed hanno utilizzato, per il loro recupero
e per lo svolgimento di attività sociali, luoghi che un tempo
erano sotto il dominio di Cosa nostra, che li destinava
all'esercizio di attività criminali. Inoltre, come nel caso di
padre Zambolin, hanno esortato i cittadini ed i parrocchiani,
con impegno e con passione, ad aderire alla cultura ed alla
pratica dell'ordinaria legalità: li hanno semplicemente
invitati a vivere legalmente nell'ordinario, a denunciare le
attività illecite che si svolgevano nel loro territorio, a
comportarsi secondo quei criteri di normale, ordinaria
legalità che sono considerati dati assolutamente scontati in
qualsiasi società civile.
   E' bastato, per provocare la reazione, che i sacerdoti
facessero certe cose ed assumessero determinate iniziative.
Queste ultime, del resto, hanno rappresentato moltissimo in
una realtà come quella palermitana: si illudeva chi pensava
che a Palermo parlare di ordinaria legalità fosse un fatto
normale e non, invece, rivoluzionario, così come è ancora oggi
(questo è il dato terrificante ed estremamente preoccupante).
Ancora più terrificante - possiamo dirlo in generale, evitando
di citare casi specifici - è stata la reazione della comunità,
che si è ritratta. Perché è accaduta questa cosa tremenda?
L'aspetto più terrificante è non tanto l'atto di intimidazione
di Cosa nostra, che rientra nelle regole del gioco e che diamo
per scontato, quanto, piuttosto, la reazione della comunità
parrocchiale che, di fronte all'alternativa tra l'esortazione
evangelica ad ispirarsi all'ordinaria legalità e
l'atteggiamento di Cosa nostra, si è ritratta, tanto che il
sacerdote in questione è stato costretto ad andar via. Tutto
questo conferma che nella realtà territoriale palermitana
viene tuttora esercitato un pesante ed arrogante controllo
sociale da parte di Cosa nostra: questo è il dato veramente
terrificante! C'è ancora molto da fare sul piano culturale,
morale e sociale. La lotta che noi, da un punto di vista
tecnico e professionale, consideriamo in uno stadio molto
avanzato (dal momento che individuiamo i criminali, li
arrestiamo e li processiamo), dal punto di vista sociale
generale è ancora agli inizi. In sostanza, il processo di
sradicamento di una certa cultura è ancora in una fase
iniziale.
   Ricordo che questi sacerdoti hanno ribadito il messaggio
che fu già lanciato dal
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generale Dalla Chiesa, il quale aveva compreso la necessità
di partire dalla ordinaria e semplice legalità, dal ripristino
di normali condizioni di convivenza civile. E', questo, un
grande compito, un grande terreno sul quale si può misurare la
capacità di incidenza e di intervento di un organismo
qualificato qual è la Commissione parlamentare antimafia. Si
tratta di un settore nel quale bisogna far sentire il più
possibile la presenza dello Stato, non soltanto nei suoi
aspetti e nelle sue istituzioni repressive (quali sono, per
esempio, per dovere d'ufficio, la polizia, i carabinieri e la
magistratura) ma anche sotto il profilo di una presenza
statale che si configuri come sostegno economico, culturale e
sociale, come affermazione di valori di cultura. Di questo
dato dobbiamo tutti tenere conto nel momento in cui pensiamo
che quello di Cosa nostra sia un problema marginale o in via
di esaurimento: nulla di più falso! E' proprio questa verifica
sul campo dell'attuale rapporto tra Cosa nostra e la società
civile a confermarci come ci sia ancora moltissimo da fare e
come vi siano ancora tanti anni - per lo meno spero che di
anni si tratti e non di decenni - da percorrere nell'azione di
contrasto alla criminalità organizzata.
  GIUSEPPE ARLACCHI. Gentili procuratori, considerata
l'ora "pericolosamente" tarda, mi limiterò a porre tre brevi
domande, di cui due, diciamo così, facili ed una forse un po'
più difficile. La prima domanda è la seguente: poiché il
procuratore Lo Forte si è diffuso ampiamente sulla agenzia dei
marshal americani, quale suggerimento vi sentite di dare
a questa Commissione nella prospettiva di un intervento di
modifica dell'attuale legislazione con riguardo alle strutture
ed alle disposizioni che presiedono al settore dei
collaboratori di giustizia? A vostro avviso è più opportuno
partire dall'attuale Servizio centrale di protezione per poi
svilupparlo (in questo caso ci si troverebbe di fronte al
problema delle "origini" del personale da utilizzare per
sviluppare il servizio, che, come voi sapete, attinge alle
forze di polizia esistenti) oppure ritenete sia più utile che
la Commissione cominci a pensare ad una agenzia completamente
nuova che si ispiri, senza copiarlo, al modello dei
marshal, che abbia cioè una sua autonomia ed un suo
percorso di formazione autonoma rispetto al servizio centrale?
Inoltre, vorrei sapere se, dal punto di vista delle funzioni,
pensiate ad una agenzia che, a differenza dei marshal,
si specializzi nel servizio di protezione, dal momento che i
marshal- come sapete bene - non sono preposti soltanto
a questo aspetto ma sono strutturati come agenzia di servizi
di polizia che si occupa di diversi aspetti (penso, per
esempio, alla ricerca dei latitanti e ad alcune questioni
carcerarie), tra i quali anche quello relativo alla protezione
dei collaboratori di giustizia.
   Vorrei inoltre sapere se vi risulti, a parte il notissimo
caso di Leonardo Messina, l'esistenza di contatti tra
collaboratori di giustizia, nel momento in cui operavano nelle
rispettive società segrete di appartenenza, e agenti dei
servizi di sicurezza del nostro o di altri paesi.
   La terza domanda, quella cioè che ho definito un po' più
"difficile" delle altre, riguarda il riferimento da voi fatto
all'effetto delle informazioni fornite dai collaboratori sul
grado di compartimentazione interna e di circolazione delle
informazioni di Cosa nostra. Si tratta di un aspetto
interessante che rappresenta tuttavia l'accentuazione di una
caratteristica fondamentale già riscontrabile in Cosa nostra.
In un volume che ho scritto dopo i miei colloqui con Buscetta,
ho intitolato un capitolo "Cosa nostra: il regno dei discorsi
incompleti". Ciò proprio per sottolineare questo aspetto
emerso dalle dichiarazioni di Buscetta, secondo il quale
nessun mafioso, nessun uomo d'onore, salvo i capi o chi ha
partecipato direttamente ad un'azione criminale, è in grado di
ricostruire dalla a alla zeta un delitto od un fatto criminoso
rilevante. Questa compartimentazione - dice Buscetta - a volte
fa perdere i collaboratori e produce come effetto che spesso
il lavoro del magistrato e dell'investigatore è finalizzato a
connettere i diversi "pezzi" di informazioni assunti da
diversi collaboratori.
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   La mia domanda è questa: a parte l'effetto, che
indubbiamente c'è, di un'accentuazione della
compartimentazione abbastanza logicamente prevedibile, sul
piano delle gerarchie e della struttura interna di Cosa nostra
(quindi, di tutte le gerarchie che conosciamo: commissione
regionale, commissione provinciale, consiglieri, capi,
sottocapi) e su quello dei processi decisionali, quali sono
gli effetti sia delle informazioni e delle prove raccolte
tramite i collaboratori sia dell'azione dello Stato
conseguente? Abbiamo un processo di concentrazione interna
reale intorno a Riina ed ai suoi o no? Abbiamo una spaccatura
tra gli uomini d'onore reclusi nelle carceri di massima
sicurezza, i quali sarebbero tentati da un inasprimento delle
sanzioni ad adottare una linea - diciamo così - stragista e
quelli che sono fuori, i quali, invece, potrebbero tentare di
imporre una linea che logicamente potrebbe essere più adatta,
cioè quella di una specie di sopravvivenza di basso profilo
nella società tramite l'abbandono della linea stragista? Quali
sono le modifiche di gerarchia e di struttura di Cosa nostra
che riuscite ad intravvedere dai rapporti che avete con i
collaboratori e con i testimoni?
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. Per quanto riguarda
l'evoluzione dell'attuale modello organizzativo per la
protezione dei collaboratori, direi che, si tratti di
un'agenzia nuova o di uno sviluppo dell'attuale servizio, ciò
che conta è che il servizio o l'agenzia siano dotati
qualitativamente di determinate professionalità e che il loro
concreto operare si ispiri a quei principi, come abbiamo
detto, di specializzazione, di autonomia e di assoluta
garanzia di segretezza che costituiscono il modus
operandi dell'agenzia dei marshal. Evidentemente è
necessario che ciò si realizzi; che poi si chiami Servizio
centrale di protezione o venga adottato un nome diverso è un
problema secondario.
   Ritengo che, comunque si chiami, esistano già nel sistema
attuale delle professionalità certamente preziose da
utilizzare in questo organismo e che si tratti semplicemente
di dare ad esso un assetto dal punto di vista qualitativo e
come tecniche operative specificamente finalizzato agli
obiettivi che sono stati indicati. Per quanto riguarda la
questione dei contatti tra collaboratori di giustizia ed
agenti dei servizi e, in particolare, per ciò che concerne il
riferimento a Leonardo Messina, si tratta di dichiarazioni la
cui verifica dal punto di vista delle indagini non era di
nostra competenza e quindi questa domanda per quanto riguarda
specificamente Leonardo Messina potrà essere più utilmente
posta alla procura della Repubblica di Caltanissetta.
   Per quanto io ricordi, però, non di esponenti di servizi
si trattava, ma piuttosto di ufficiali di polizia giudiziaria.
Ripeto, però, per la precisione della risposta, che la domanda
va rivolta alla procura della Repubblica di Caltanissetta. A
noi non risultano contatti di questo tipo tra i collaboratori
di giustizia, le cui dichiarazioni hanno costituito oggetto
delle nostre indagini e verifiche, e strutture del tipo dei
servizi di sicurezza.
  MASSIMO BRUTTI. Desidero segnalare che alla Commissione
antimafia della scorsa legislatura Messina disse che quello
che egli diceva era esattamente ciò che Madonia voleva far
sapere e disse anche che egli teneva informato Madonia di
tutti i suoi contatti con elementi dei servizi.
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. Ripeto che questa
domanda va posta alla procura di Caltanissetta. Per quel che
io ricordo, quando l'episodio venne precisato maggiormente in
sede giudiziaria (ma il mio ricordo è basato su una conoscenza
incidentale della questione, perché si trattava comunque di
fatti riferiti alle attività illegali nel territorio di
Caltanissetta, per cui il mio ricordo è incidentale e può
anche non essere del tutto esatto), la precisazione concreta
dell'episodio conduceva ad altro.
   Sulla compartimentazione interna, è stato chiesto se sia
in corso o si sia già verificato
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un processo di concentrazione delle decisioni. Se ho
ben compreso, la domanda riguarda direttamente la permanenza o
meno nell'attuale momento storico delle strutture gerarchiche
ed ordinamentali tradizionali di Cosa nostra, in particolare
la commissione provinciale di Palermo e la commissione
interregionale. Su questo non possiamo che dare una risposta
dal punto di vista dei magistrati, le cui risposte debbono
essere basate su fatti. Indubbiamente una valutazione
complessiva dei processi attualmente in corso non esclude
teoricamente in maniera assoluta che vi possa essere stata in
punto di fatto una diversa modulazione dei processi
decisionali; tuttavia - lo ripeto - non esclude, ma neppure vi
è alcuna indicazione concreta in tal senso.
   Per quanto ci riguarda, riteniamo molto difficile che vi
siano delle modifiche o dei processi di mutamento, almeno dal
punto di vista istituzionale, dell'organizzazione interna di
Cosa nostra e delle sue strutture gerarchiche, perché Cosa
nostra si identifica con il suo ordinamento e le sue strutture
e, per quella che è l'esperienza processuale, ad esempio il
comportamento di Riina è stato sempre quello di determinare
bensì un processo di concentrazione sostanziale del potere
decisionale, ma è stato altresì quello di osservare sempre e
scrupolosamente - se vogliamo, ipocritamente - le forme e le
regole, e quindi non dismettere mai la formale osservanza
delle regole ordinamentali di Cosa nostra, il che significa
l'informazione dei componenti della commissione.
   Ripeto che queste sono valutazioni di carattere più
psicologico, sociologico che giuridico o processuale. Sotto il
profilo processuale, per quanto ci riguarda, riteniamo che vi
siano dal punto di vista dell'accusa elementi di prova
sufficienti per ritenere che determinate decisioni siano state
adottate dagli organi istituzionali di Cosa nostra almeno fino
alle stragi, certamente fino al maggio del 1992. Per quanto
riguarda il periodo successivo alla stagione delle stragi,
poiché le indagini non si costruiscono soltanto
sull'applicazione automatica di una regola, ma quest'ultima
deve essere confortata da dati di fatto, poiché a nostro
avviso non siamo ancora in possesso di elementi probatori
sufficienti che confortino e dimostrino in maniera
inequivocabile l'applicazione della regola ordinamentale anche
nella seconda metà del 1992 e nell'anno successivo, ci siamo
astenuti (e questo l'abbiamo fatto per quanto concerne i fatti
di competenza della procura di Palermo) dall'affrontare il
problema della commissione ad esempio per quanto riguarda
l'omicidio di Ignazio Salvo, avvenuto nel settembre del 1992 e
che, secondo le regole ordinamentali, è certamente un omicidio
di competenza della commissione. Tuttavia, sulla base di un
metodo di lavoro che vuole coniugare la giusta valutazione
delle regole ordinamentali con i dati di fatto, allo stato
questa è una fase storica in corso di approfondimento
investigativo.
   Per quanto riguarda l'ipotesi di una spaccatura o
distinzione di strategie tra uomini d'onore detenuti e quelli
liberi, evidentemente essa è possibile ed è certamente logico
porsi anche l'ipotesi di distinzioni di interessi (gli
interessi non sempre sono convergenti; anzi gli interessi dei
capi o degli uomini d'onore detenuti e quelli degli uomini
liberi talora sono oggettivamente dissonanti). E' possibile
formulare varie ipotesi al riguardo, che sono allo studio e
costituiscono oggetto di investigazioni. Tuttavia, al di là
delle ipotesi, non vi sono, per quanto ci risulta, dati di
fatto concreti che consentano di affermare con chiarezza e
organicità l'esistenza di una spaccatura tra le due componenti
dell'organizzazione.
  MICHELE CACCAVALE. Il dottor Caselli ha descritto una
situazione che, partendo dal mese di settembre -
caratterizzato per il suo ufficio da malessere e da tensioni
per quei problemi principali che non trovavano soluzione -, si
è andata poi invece rasserenando, si è fatta più serena man
mano che è passato il tempo, fino ai giorni nostri, sia con la
ristrutturazione del Servizio centrale di protezione sia anche
con il nuovo schema che questo ufficio ha applicato per la
protezione dei pentiti.
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   A settembre il suo ufficio ha predisposto un dossier
su questo malessere, caratterizzato dalla esposizione di una
serie di problemi: lei ha parlato di disagio, di lamentele per
l'eccessiva burocraticità, per la lentezza esasperante, per il
cambio di generalità che non arriva ed altro. L'hanno però
rassicurata almeno due segnali che provengono dall'ufficio
centrale di protezione, che sono la razionalizzazione della
fase dei nuovi schemi e il cambio di identità.
   Questo, però, evidentemente non l'ha soddisfatta, dottor
Caselli, perché non ha rinunciato a quella che lei prima ha
definito funzione noiosa e petulante, tanto che ha rilasciato
un'intervista, riportata dal Corriere della Sera di
sabato 12 novembre, nella quale dice: "Mafia, qualcuno rema
contro. Attenti ai cali di tensione, non bastano magistratura
e polizia. Forse c'è l'illusione che tutto possa essere
delegato a magistratura e polizia: sarebbe un errore grave, un
errore che nel passato ha significato isolamento e non solo
isolamento". Prosegue poi: "Il Governo, anche recentemente, ha
assicurato il massimo impegno nella lotta alla mafia, ma
contemporaneamente una certa parte dell'attuale classe
politica ha preso posizione contraria alla collaborazione dei
pentiti, al carcere duro per i boss". Lei prosegue ancora
dicendo che sullo sfondo c'è la polemica sul ruolo dei
pubblici ministeri, c'è una certa confusione e "nella lotta
alla mafia"- dice testualmente - "la confusione è
pericolosa".
   Prima domanda, dottor Caselli: le risulta davvero che una
certa parte dell'attuale classe politica abbia preso posizione
contraria alla collaborazione dei pentiti e al carcere duro
per i boss? A me risulta, dottor Caselli, che l'applicazione
del 41-bis sia stata prorogata in Senato - anche qui il
Presidente del Consiglio aveva preso un impegno preciso - al
1999, con una votazione ed una partecipazione unanimi da parte
di tutti i gruppi.
   Dottor Caselli, in un'altra intervista, che riporta la
Repubblica di domenica 13 novembre, lei fa invece
riferimento a "comandi supernazionali del crimine".
Riferendosi ad "una cupola mondiale", la definisce "una mera
ipotesi di lavoro, sia pure da confrontare con le prime
acquisizioni derivanti da inchieste sul crimine organizzato"
ed auspica che la conferenza dell'ONU sulla criminalità in
programma a Napoli indichi soluzioni. Ecco, io vorrei tornare
sulla mera ipotesi di lavoro per chiederle se sia confortata
dalle dichiarazioni di qualche collaboratore di giustizia, di
qualche pentito.
   Se il Presidente del Consiglio viene qui in audizione, se
tutte le altre figure istituzionali da noi ascoltate hanno
confermato l'impegno dello Stato nella lotta contro la mafia,
se anche questa Commissione sta lavorando contro la mafia (il
suo impegno sicuramente è maggiore del nostro, ma le posso
garantire che anche il mio impegno è a rischio, perché, quando
provo nel mio collegio a tradurre in atti il mio impegno
politico, soprattutto nella lotta contro la criminalità,
avverto le prime reazioni, mi mandano i primi messaggi; mi
dicono che queste reazioni sono un classico), non pensa,
dottor Caselli - questa è l'altra domanda - che anche questo
suo atteggiamento, queste sue dichiarazioni, queste polemiche
che lei innesca contribuiscano a creare disagi, laddove anche
la mafia può inserirsi ed utilizzarle?
   Un'altra domanda: in risposta al senatore Imposimato, lei
riferisce che Buscetta, già nel 1985, ha fatto un certo nome.
Non mi interessa conoscere il nome; ma perché e quando
Buscetta è diventato credibile, se ha riproposto questo certo
nome? (Commenti). Abbiamo parlato di depistaggio e voi
avete escluso che nella procura di Palermo alcun pentito abbia
avuto la possibilità o l'intenzione di indirizzarvi su una
falsa pista. Questo lo dite sulla base di riscontri oggettivi,
perché comunque tutte le rivelazioni fatte da pentiti o da
collaboratori di giustizia sono state già verificate?
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. La ringrazio della domanda non retoricamente o
come clausola di stile.
   Se posso aver dato l'impressione di aver voluto creare
confusione con alcune
Pagina 673
mie recenti dichiarazioni, essa è certamente sbagliata. Ma
nel momento in cui viene così autorevolmente prospettata, dico
che ad ogni modo rifletterò su questo e ne terrò doverosamente
conto per il rispetto che nutro nei confronti di tutte le
istituzioni e, in particolare, di quelle che svolgono, sia
pure nell'ambito delle proprie competenze, più o meno lo
stesso lavoro che facciamo noi, ossia la ricerca delle
migliori risposte alla mafia.
   Mi sono posto il quesito ed ho dato determinate risposte.
Sono stato sostanzialmente zitto da quando sono procuratore
della Repubblica di Palermo, tanto che numerosi miei colleghi,
i quali conoscevano ben altre mie abitudini all'epoca in cui
ero giudice istruttore, componente il Consiglio superiore
della Magistratura o svolgevo attività associativa, hanno
molto pensato su questo silenzio a lungo protratto.
   Ad un certo punto, in una determinata fase, ho ritenuto di
parlare, e non individualmente: a Palermo poche cose si fanno
individualmente, anche quando si è procuratori della
Repubblica. Queste uscite pubbliche sono sempre - come lo sono
in questo caso - il risultato di una discussione e di una
riflessione comuni: a volte "esce" il procuratore della
Repubblica, altre volte "escono" autorevoli esponenti della
procura. Insieme abbiamo avvertito una situazione ritenendo
utile, se non necessaria, una nostra uscita pubblica, una
presa di posizione per invitare tutti alla riflessione - nulla
di più, nulla di diverso - sullo stato degli atti, sulla
realtà, sul momento che si sta attraversando. Siamo convinti
che l'attuale sia un momento molto fluido, un momento
difficile che può evolversi in maniera estremamente positiva
così come potrebbe involversi negativamente. Lo riteniamo a
torto o a ragione, ma in perfetta coscienza.
   Nel momento in cui abbiamo avvertito - ripeto, a torto o a
ragione ma in perfetta coscienza - sintomi minoritari o
maggioritari, secondari o principali (poco importa, lo vedremo
di qui a poco), comunque sintomi di presenze le quali
potrebbero, se non sufficientemente avvertite nelle loro
potenzialità negative di sviluppo, portare ad una involuzione
della situazione, abbiamo ritenuto di uscire. Proprio per non
limitarci a svolgere un lavoro che, se non allargasse il suo
orizzonte, sarebbe necessariamente asfittico, parcellizzato e
settoriale; proprio per tentare di contribuire alla
riflessione sulla fase in atto, magari sbagliando ma in
perfetta coscienza, cercando di individuare e di segnalare le
cose che ci sembra di vedere, abbiamo fatto queste uscite.
Ciò, affinché la fase - le cui potenzialità sono aperte - si
evolva in senso positivo senza subire arretramenti.
   Le chiedo scusa, ma ho chiesto alla Commissione di essere
petulante, ho chiesto alla Commissione di essere
particolarmente asfissiante per quanto riguarda la
continuazione della soluzione del problema della sicurezza dei
pentiti, allo stato degli atti soltanto avviata. Parlando di
petulanza, di asfissia, di marcamento stretto - anche se non
ho usato questa espressione - mi riferivo, esorbitando dalle
mie competenze ed assumendo la veste del grillo parlante, ad
un'attività della Commissione consistente nello "stare
addosso" a questi problemi affinché l'avvio a soluzione si
concretizzi effettivamente senza rimanere a livello di
promessa o di intenzione.
   Mi consenta, ma occorre ripartire dal principio, anche se
per grandi linee. Capaci, via d'Amelio, sdegno, rabbia,
ribellione, reazione, per la prima volta leggi mirate alla
specificità del fenomeno, leggi volute da Falcone e da
Borsellino: una risposta forte, corale, unanime senza
distinzioni di alcun genere, né politiche né di ruoli
all'interno dello Stato, né istituzionali né altro, contro la
mafia! I risultati si producono, sono imponenti,
significativi. Non toccherebbe a me giudicarli perché la mia
procura, la procura nella quale lavoro, è parte di questi
risultati; tuttavia i risultati vengono ed ho cercato di
elencarli.
   Però, se nel momento in cui vengono i risultati cominciano
le polemiche sui pentiti e sull'articolo 41-bis, che
rappresentano il perno dei risultati medesimi, personalmente
rivivo l'esperienza del Consiglio
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superiore della magistratura allorché Falcone e Borsellino,
avendo lavorato, possedendo una cultura di lavoro ed una
strategia vincente...
  MASSIMO BRUTTI. L'intervento di Borsellino è del luglio
1988. Sono passati sei anni e sentiamo le stesse cose.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo....vengono improvvisamente attaccati.
   Ogni qualvolta si riflette su ciò, si dice che la mafia è
costantemente inattaccabile, che gode di una impunità
secolare. Chinnici, Caponnetto, Falcone, Borsellino, Ayala -
mi dispiace citarlo, perché può sembrare piaggeria, ma è così
- e tutti coloro i quali hanno lavorato insieme con queste
persone dimostrano, dandosi una nuova cultura investigativa ed
una nuova metodologia di lavoro, specializzandosi all'interno
del pool ciascuno su un versante, che la mafia non è
affatto invulnerabile, che può essere contenuta e sconfitta
contrapponendo organizzazione ad organizzazione.
   Se in questa fase della storia d'Italia chiedessimo ad un
signore svedese paracadutato in Italia che cosa avrebbe fatto,
preso atto che un moloc assolutamente invulnerabile è stato
finalmente intaccato avendo capito che si poteva sconfiggere
organizzando la risposta, costui avrebbe certamente risposto
di rafforzare il pool, di potenziarlo, di incentivare e
diffondere questa cultura di lavoro, questa nuova metodologia
investigativa.
   Perché nel nostro paese è successo invece che
(professionisti dell'antimafia,  centri di potere, il
maxiprocesso come sentina di tutte le perversità processuali,
i pentiti quali fructum diaboli, la guerra di
religione!) passo dopo passo lo strumento di lavoro del
pool è stato demolito e, conseguentemente, la lotta alla
mafia è tornata indietro di parecchi anni? C'è stato un
congelamento effettivo. Questo non sta assolutamente accadendo
adesso nel nostro paese, sia chiaro; ho detto prima che non
sento alcun pregiudizio sulle investigazioni e vedo
potenzialità ancora fortissime affinché tutto evolva in senso
positivo; però avverto, avvertiamo, anche alcuni sintomi
preoccupanti che, personalmente, mi riecheggiano le passate
esperienze del pool di Falcone e Borsellino.
  RAFFAELE BERTONI. Diglieli a Caccavale ad uno ad uno. E'
questa la domanda che volevo porti.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. La situazione sta cambiando, o è già cambiata,
soprattutto a Palermo. Di nuovo, a Palermo, alcune cose si
respirano, mentre fuori Palermo - poiché quel che si respira è
un po' impalpabile - è difficile rappresentarle, così come è
difficile convincere gli interlocutori. Tuttavia ci sono anche
cose che, pur non vivendo a Palermo, parlano il linguaggio dei
fatti.
   Salto alcuni passaggi e me ne scuso, ma ho utilizzato
l'espressione "certa parte della classe politica" e la
confermo; quanto lei ha letto nell'intervista corrisponde
esattamente al mio pensiero. Giusto o sbagliato che sia, è il
mio pensiero, non è frainteso. Se presidenti di Commissioni
parlamentari, se ministri e sottosegretari parlano, come hanno
fatto, intensamente e ripetutamente, della necessità di
rivedere la legislazione antimafia varata dopo Capaci e via
d'Amelio, che ha funzionato, senza che sia successo nulla, in
termini di accadimenti processuali o investigativi, che
giustifichi questa improvvisa levata di scudi - perché in una
certa fase si è trattato di una levata di scudi, mentre ora
non lo è più dato che tutto è sufficientemente rientrato, ma i
sintomi ancora permangono soprattutto localmente - non si
tratta di fantasie, di invenzioni. Né è l'ipersensibilità di
un magistrato che probabilmente lavorando "in frontiera" di
ipersensibilità ne possiede più d'una: sono realtà!
   Se tutto questo si traduce in un disagio, in una
difficoltà tra i pentiti, si può essere portati a chiedersi:
se questo succede per chi già si è pentito, forse non può
determinare rallentamenti in altri pentimenti? Non lo so, non
ho risposte, l'ho detto, ma
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il problema c'è. Se poi scoppiano le polemiche... mi dispiace
di dover dire queste cose, ma è per intenderci e perché la sua
domanda è di grande serietà e la accetto in questa sua
componente di assoluta serietà e di contributo ad una
discussione franca. Se la commissione sui pentiti può contare
sulla collaborazione di Grasso e di Vigna, che sono
professionisti di primaria levatura, di straordinaria
importanza, e di nuovo, di colpo, praticamente, almeno per
quanto ne so io, senza preavviso - è vero che la decisione è
rientrata ...
  MASSIMO BRUTTI. Non è rientrata.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Tra l'altro non è neanche rientrata. E' vero che
per il momento non è stata attuata, ma è altrettanto vero che
potrei fare tutta la storia di quanto, per ciò che mi risulta,
ci è voluto perché rientrasse, perché non fosse immediatamente
attuata (non per intervento mio, ma per quello che posso
ricostruire io, estraneo a questo tipo di logica, a questo
tipo di meccanismo, a questo tipo di lavori). Se,
d'improvviso, professionalità come quelle di Grasso e di Vigna
vengono sostituite - e tra l'altro circolano nomi, mi pare non
smentiti, di sostituti che sono magistrati bravissimi ma che
certamente non possono avere la professionalità, la
sensibilità, la preparazione di Vigna e di Grasso - e tutto
questo non ha un senso, non si spiega e non viene spiegato, se
non con un criterio di rotazione che francamente a me
personalmente non ha convinto, allora cosa vien fatto di
pensare, non malignamente ma ragionando sui fatti? Che volendo
sostituire Grasso e Vigna con i quattro soggetti che sono
stati elencati, che PM di primo grado non erano (tra questi
c'era anche il dottor Ilarda), c'è un attacco alla funzione
del PM, alla presenza del PM, con la sensibilità di cui questi
può essere portatore, in queste strutture. Si risponde che sì,
è proprio questo che vogliamo, perché i PM sono quelli che
hanno contatto più diretto con il pentito e quindi lì non ci
devono essere. Questa - scusatemi - è clamorosamente una
inesattezza dal punto di vista tecnico-giuridico e
ordinamentale, perché chi decide è il GIP, per quanto riguarda
per esempio la liberazione anticipata o la collocazione in
strutture extracarcerarie del pentito, non il PM, che fa
soltanto le richieste! Chi poi applicherà gli sconti di pena o
deciderà di non condannare o di condannare senza far entrare
in carcere sarà il tribunale, sarà l'organo giudicante! I
quattro sostituti erano tutti GIP o, come il dottor Ilarda,
della procura generale, che con il PM non c'entra proprio
niente.
   Allora, non posso non vedere obiettivamente un discorso di
diminuita professionalità della commissione e quindi di
burocratizzazione della medesima. Con il massimo rispetto per
le altre componenti - sia chiaro - ma la mancanza di due PM
del calibro e dell'esperienza di Grasso e di Vigna, non
sostituiti con altrettante professionalità ma anzi sostituiti
in maniera tutt'affatto diversa, secondo quelle logiche, è un
sintomo secondo me, secondo noi, preoccupante, come a suo
tempo abbiamo rilevato.
   Se poi a tutto questo si aggiungono le preoccupazioni che
ci sono ancora... Il regolamento che dovrà essere varato
ancora non lo conosco.
  RAFFAELE BERTONI. Nessuno lo conosce.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Ho avuto, come tutti, alcune indiscrezioni, alcune
anticipazioni ed anche queste ci preoccupavano, perché
emergeva un privilegiare il momento amministrativo rispetto a
quello giurisdizionale, un burocratizzare il tutto, un
escludere automatismi di scelte e tutta una serie di aspetti -
qui il discorso dovrebbe durare una mezz'ora, per cui lo
sintetizzo al massimo rischiando di essere, me ne rendo conto,
incomprensibile - di linee di riforma che ci sembravano
preoccupanti nella misura in cui potevano - certo al di là
delle intenzioni - concretarsi poi di fatto in un minor
incentivo al pentimento. Quando un soggetto deve prendere da
solo la difficile scelta se pentirsi o no,
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se non ha degli automatismi davanti a sé ma delle
discrezionalità, per di più rimesse non al magistrato con cui
ha rapporto (PM o giudicante) ma ad un organismo
amministrativo o comunque lontano come è la superprocura, ecco
che questo può essere quantomeno psicologicamente un problema
in più per il pentito, può essere un motivo in più per non
pentirsi, almeno in quel momento.
   Tutte queste cose insieme ci hanno preoccupato e ci
preoccupano, perché non c'è stata alcuna smentita; non c'è
nessuno di questi uomini della classe politica - presidenti di
Commissioni parlamentare, ministri, sottosegretari - che abbia
cambiato idea, legittimamente. Evidentemente, il discorso è
ancora aperto. Il Governo ha preso recentemente delle
posizioni importanti. Lei ha letto solo le ultime due
interviste ma io ho dato atto ripetutamente che a Palermo e
altrove il Presidente del Consiglio, il ministro Maroni e -
questa volta - anche il ministro Biondi hanno preso posizioni
univoche per quanto riguarda il problema dei pentiti e il
41-bis. Ma il Governo non è tutto; c'è un'attività
parlamentare dove poi sostenere queste posizioni, c'è
un'attività amministrativa, c'è un clima generale per cui - di
nuovo, mi scusi, senza nessun motivo concreto, storico,
apprezzabile, afferrabile, visibile che giustifichi la guerra
di religione - c'è una componente che la guerra di religione,
la polemica ha di nuovo alimentato.
   Certo, il 41-bis è stato prorogato...
  RAFFAELE BERTONI. L'abbiamo fatta noi la proposta; la
proposta è dei progressisti!
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. E' importante, però, attenzione al 41-bis
così com'è. Il 41-bis rischia di essere, così com'è
oggi, per molti detenuti, tra i più significativi, una scatola
vuota, un formalismo. Perché se non si accompagna, per
esempio, ad una struttura differenziata all'interno
dell'Ucciardone - che non c'è - oppure ad un sistema di
videoconferenza che consenta di celebrare i processi senza
questi continui spostamenti dalle carceri speciali dove il
41-bis può essere effettivamente applicato, il
41-bis rimane una scatola vuota. Ottimo l'impegno di
prorogarlo, però secondo noi va poi in qualche modo riempito e
potenziato.
   Sui pentiti poi è ancora tutto da definire: le polemiche
sono ancora aperte e le posizioni contrastanti. Nel momento in
cui c'è questa situazione che sta modificandosi anche per
quanto riguarda la realtà palermitana: gli attacchi contro gli
amministratori locali, la chiesa che si svuota quando il
sacerdote dice una certa cosa, un altro prete che deve fuggire
e mille segnali di questo tipo... Non vorrei fare polemiche
ma...
  GIACOMO GARRA. Credo che non ci sia un ordine
governativo di sgomberare le chiese!
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. No, ma cosa c'entra! Mi scusi, non lo penso, non
l'ho detto! Considero, mi consenta, leggermente fuorviante che
lei mi faccia questa battuta.
  CONCETTO SCIVOLETTO. Considerato che tutti siamo contro
la mafia!
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Però, il Governo non è tutto il nostro paese. Su
questi problemi intervengono - legittimamente, per carità -
più soggetti (soggetti politici privati e soggetti politici
collettivi); nel momento in cui questi interventi
complessivamente considerati possono prestarsi ad una visione
di incertezza da parte delle istituzioni complessivamente
considerate, allora ecco il motivo di nostra preoccupazione,
ecco la certa confusione di cui ho parlato, in una valutazione
complessiva di posizioni, in un panorama articolato completo
(Governo e non Governo), di area politica che conta, non di
persone che parlano all'angolo della strada o in un parco
inglese sul podio improvvisato. I successi si sono sempre
ottenuti - sia quando c'erano Falcone e Borsellino sia dopo la
loro morte - tutte le volte che le
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istituzioni sono riuscite ad offrire un'immagine unitaria,
compatta, corale di sé; se invece ci sono fratture,
divaricazioni, se invece - senza che ci sia nulla di concreto
che lo giustifichi; torno a ribadirlo - si riprende a
litigare, ecco che si offre un'immagine che comprende anche
delle spaccature, delle fenditure nelle quali la mafia è
maestra, storicamente, ad infilarsi, e di questo bisogna anche
tenere conto. Sul piano locale poi davvero si respira una
certa aria; proprio perché aria è impalpabile ed è
difficilissimo da descrivere in pochi minuti. Ma, non per fare
polemica - non vorrei fare polemica più di tanto perché poi ha
ragione lei, la polemica più di tanto finisce per essere
peggiore del male al quale si vorrebbe rimediare -, se il
problema della costituzione di parte civile a Caltanissetta
per la strage di Capaci viene presentato come sterile
passerella antimafia, francamente mi preoccupo! E questo è
stato detto. Questo è un elemento sintomatico ed anche altri
se ne potrebbero aggiungere, anch'essi sintomatici di un clima
che, se non se ne discute - convincendosi che tali sintomi
sono davvero esistenti e pericolosi, per cui bisogna tutti
insieme trovare le risposte, gli antidoti - potrebbe portare a
quell'involuzione che non è assolutamente certa e scontata e
che il Governo, per le posizioni che ha preso, sembra non
volere. Ma non è l'unico elemento del panorama politico
complessivo.
   Un altro elemento di preoccupazione, ma di nuovo
impalpabile, è che chi è protagonista, causa di questi sintomi
di mutamento quasi sempre è in prima linea nell'accusare di
demagogia chi, invece, segnala tale mutamento ed i pericoli ad
esso connessi. C'è, allora, un clima complessivo che è anche
di confusione, di distrazione, di un inizio - di nuovo - di
sottovalutazione, o per lo meno ci sono tali sintomi. Di nuovo
sembra riaffiorare in alcuni quel gap culturale rispetto
alla specificità e pericolosità di Cosa nostra che,
evidentemente, neanche gli attentati di Capaci e di via
D'Amelio sono riusciti a colmare definitivamente. Inoltre - se
fossi ancora al Consiglio superiore sarei immediatamente messo
in minoranza anche dai miei amici di magistratura democratica
- anche l'attuale precipitosissima riscoperta delle garanzie,
che caratterizza l'oscillazione pendolare della nostra
legislazione e della cultura su questi problemi... ecco, tutto
questo è già stato visto: è questo che ci preoccupa. Sia pure
soltanto in una fase iniziale, sia pure in un segmento che
spero non diventi mai più di un segmento, si ripropone quello
che, sempre come segmento, come inizio, successe ai tempi di
Falcone e Borsellino. Quando Borsellino denunziava che si
stava attaccando il pool, gli si rispondeva che
esagerava, che correva dietro alle ombre; il Consiglio di cui
facevo parte ha cercato di bacchettare Paolo Borsellino,
formalmente, istituzionalmente, perché osava - oltre tutto, si
diceva, non percorrendo le vie istituzionali - denunziare
queste cose.
   Posso sbagliare - non ho certo la convinzione di avere in
tasca le ricette -, posso avere una valutazione non
condivisibile, non convincente, ma sento il dovere, anche per
l'esperienza vissuta in passato, di contribuire a segnalare il
problema perché insieme se ne discuta liberamente,
apertamente. Non si deve pensare che io ce l'abbia con il
Governo o con chiunque altro, perché non ce l'ho con
nessuno.
   L'unica obiezione che mi si potrebbe fare - e che mi è
stata fatta - è che se noi denunziamo l'abbassamento della
guardia, in realtà denunziamo un dibattito che è unicamente
finalizzato ad affinare gli strumenti, non a cancellarli,
quindi vogliamo collocarci fuori del circuito di controllo
della nostra attività. Quest'obiezione, che ho sentito fare, è
seria dal punto di vista culturale, ma infondata dal punto di
vista della realtà delle cose; perché se c'è qualche cosa che
non funziona, le polemiche sono giustificate al fine di farla
funzionare meglio. Ma torno petulantemente, insistentemente,
sicuramente annoiando i miei interlocutori, a dire che tutte
queste cose cominciano senza che ci sia un aggancio reale che
le giustifichi. Le polemiche sui pentiti e quelle
sull'articolo 41-bis non sono, in una prima fase - poi,
magari, il tiro viene aggiustato - per affinare ma per dire
basta da parte di alcune componenti
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del panorama politico complessivo. Sono un temporale fuori
stagione, senza senso, e che per questo deve essere
controbattuto nel momento in cui è ancora in atto e localmente
- le ricadute, e non queste soltanto, si avvertono
pesantemente - perché non si estenda, non si riproduca, non ci
riporti, soprattutto, alla stagione del pool di
Chinnici, Caponnetto, Falcone e Borsellino ed a tutte le
iniziative indipendenti, ma poi alla fine univocamente
convergenti, che hanno portato alla demolizione di quella
struttura che aveva l'unico torto di aver capito che
all'organizzazione bisogna contrapporre altrettanta
organizzazione e che alla cultura della mafia bisogna
contrapporre la cultura unitaria delle istituzioni. Falcone
scriveva che i pentiti vengono fuori quando lo Stato è
credibile; se lo Stato appare diviso, lacerato al suo interno
nella discussione stessa sui pentiti, non vengono più fuori.
Se ne viene qualcuno siamo fortunati, ma il rischio che
corriamo è che non ve ne siano più, mentre sono ancora uno
strumento importantissimo di lavoro. Forse non ce lo possiamo
permettere, è un lusso che non ci possiamo permettere.
  PRESIDENTE. Dottor Lo Forte, deve aggiungere
qualcosa?
  GUIDO LO FORTE, Procuratore aggiunto presso la
procura della Repubblica di Palermo. Credo non ci sia nulla
da aggiungere a quello che è stato detto. Confermo - ed
ovviamente non ce n'è bisogno - che le dichiarazioni che sono
state di volta in volta, ed anche con rarità, rese dal
procuratore capo riflettono una analisi complessiva
dell'ufficio e sono l'esternazione di una riflessione non
soltanto del nostro ma anche di altri uffici del pubblico
ministero. Non c'è nulla di politico in tutto questo, ma
soltanto la volontà di segnalare, sulla base di ciò che la
nostra esperienza puramente professionale ci consente di
individuare, il significato di certi dati a tutti gli
interlocutori che operano nella società e nelle istituzioni e
che intendono contribuire alla lotta contro la criminalità
organizzata. Questo perché il significato a nostro avviso
negativo, o virtualmente negativo, di certi fatti, che può non
essere colto se non alla luce di specifiche esperienze
professionali, non venga sottovalutato.
  MICHELE CACCAVALE. Avevo rivolto una domanda a proposito
della cupola mondiale.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. E' una mera ipotesi di lavoro da verificare come
prima risultanza, un'ipotesi che nasce dal fatto che Cosa
nostra, ad esempio, ha realizzato alleanze di carattere anche
verticale con 'ndrangheta e camorra; quindi non si può affatto
escludere che l'esperienza a livello nazionale venga
riproposta anche a livello internazionale. Tutto qui e niente
di più.
  MICHELE CACCAVALE. Su Buscetta?
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. A questo proposito non posso che citare un dato di
fatto, cioè l'intervista comparsa nel settembre ultimo scorso
su un quotidiano regolarmente stampato, pubblicato e letto in
Italia, se non ricordo male Il Sole-24 ore. La domanda
che lei mi ha rivolto, però, pone problemi di interpretazione,
di valutazione, di rilettura anche della sequenza delle
dichiarazioni rese che la procura della Repubblica ha dato ma
che, in questo momento, sono rimesse a decisioni del GIP.
Commetterei davvero una scorrettezza se... Il dato è
costituito dal fatto che esiste questa intervista in cui si
dice che nel 1985 Buscetta aveva già fatto un nome, credo che
leggendola... Si tratta puramente e semplicemente di un dato
storico, citato in risposta alla domanda che mi era stata
rivolta a proposito delle dichiarazioni a rate, per chiarire
meglio quel concetto.
  ALESSANDRA BONSANTI. Presidente, mi pare che
quest'ultima spiegazione che il dottor Caselli ci ha dato, in
maniera così drammatica e, diciamo, appassionata, riguardo
alle sue preoccupazioni esaurisca molte delle domande che io
avrei voluto
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rivolgergli, per cui rinuncio ad intervenire.
  TANO GRASSO. Rinuncio anch'io, signor presidente.
  LUIGI MANCONI. Anch'io, con tutt'altra intenzione
rispetto a quella del collega Caccavale, intendevo porre una
domanda relativa alle dichiarazioni rese la scorsa settimana
dal dottor Caselli. Le risposte che questi ha fornito mi hanno
completamente soddisfatto, anche per gli accenti che la
collega Bonsanti ha definito, poco fa, di drammatica passione,
e dunque avrei anch'io rinunciato a porre domande; ma le
interruzioni del collega Garra mi inducono ad aggiungere poche
parole ed a fare (dopo tanti anni di polemiche con il dottor
Caselli) una precisazione. La battuta sul Governo che, secondo
gli oppositori, ordinerebbe di svuotare le chiese è davvero
fuori luogo, non solo perché gli oppositori non sono così
insipienti - tanto meno lo è il dottor Caselli - ma perché
rischia di sottovalutare quello che mi sembrava il senso
importantissimo del ragionamento del dottor Caselli, ovvero la
relazione strettissima tra segnali istituzionali, atti
pubblici, misure di Governo e mobilitazione collettiva,
resistenza contro la mafia da parte della società civile,
riduzione del consenso nei confronti della criminalità
organizzata. Credo che il senso del ragionamento del dottor
Caselli - che non dobbiamo dimenticare nemmeno per un attimo -
fosse esattamente questo: ogni atto, realizzato o meno a
livello istituzionale nella dimensione pubblica laddove
operano le autorità e gli organi pubblici, ha e può avere una
relazione diretta, strettissima ed intima con l'atteggiamento
della società civile, con il consenso che la criminalità
organizzata ottiene e conserva o con la riduzione di tale
consenso.
   Come avrete potuto constatare, non ho formulato alcuna
domanda e mi sono semplicemente limitato ad una dichiarazione
di consenso nei confronti del dottor Caselli.
  GIACOMO GARRA. Come deputato siciliano, pensando al
titolo storicamente assegnato alla città di Palermo - Palermo
felix- mi sono chiesto dove fosse la felicità di questa
città. La battuta sarcastica che ho pronunciato (non è certo
il Governo che vi ha ordinato di sgombrare le chiese) ha
voluto rappresentare nel mio intimo una manifestazione di
dolore per un popolo che non mi sembra riesca ad esprimere il
meglio della società civile, così come è accaduto nelle
recenti vicende. Si è trattato quindi di una manifestazione di
rammarico, non polemica nei confronti del procuratore
Caselli.
   Nel recente dibattito svoltosi in questa sede sono stato
il solo ad aver seguito le indicazioni del Presidente del
Consiglio il quale aveva suggerito ai membri della Commissione
di rivolgergli domande per iscritto. Ho accolto l'invito e ho
formulato una domanda scritta alla quale, sia chiaro, attendo
ancora la risposta...
  LUIGI MANCONI. Sono stati in tanti a rivolgere domande
per iscritto al Presidente del Consiglio!
  GIACOMO GARRA. Ho chiesto al Presidente se considerasse
come precondizione per una più intensa ed efficace lotta alla
mafia lo scioglimento anticipato dell'assemblea regionale
siciliana ed ho affermato con estrema chiarezza che
consideravo quest'ultima uno dei santuari della mafia. Mi pare
che non vi possa essere un linguaggio più chiaro e crudo di
questo. La stessa domanda la rivolgo al procuratore
Caselli.
   Quanto agli attentati nei confronti degli amministratori,
se può essere utile, vorrei ricordare quello che mi è accaduto
come sindaco di Caltagirone. Destinatario di lettere minatorie
con le quali mi si preannunciava che sarei stato ucciso
nell'effettuare un certo tragitto, mi sono rivolto - ritenendo
che si trattasse dell'iniziativa più ovvia - all'Arma dei
carabinieri ed alla Polizia di stato. Un capitano dei
carabinieri dotato di una carica di passione civile e di una
buona preparazione professionale avviò le indagini. In un
primo momento
Pagina 680
si poteva pensare a minacce provenienti dall'"onorata
società", ma quel capitano dei carabinieri riuscì ad
individuare un'organizzazione dalla struttura molto semplice.
Premetto che mi ero trovato a svolgere un ruolo abbastanza
deciso - d'altro canto, doveroso - sotto il profilo della
lotta all'abusivismo. Tale atteggiamento mi aveva posto in una
situazione di ovvia impopolarità. Il capitano dei carabinieri,
che si chiama Tommaso Mele (faccio questo riferimento per
dimostrare il fatto che gli attentati agli amministratori
possono provenire da più parti), scoprì che il possessore di
una cava ed un commerciante di ferro e cemento, i quali in una
certa riunione avevano dichiarato che la nuova situazione
venuta a determinarsi in seguito alla seria attività di
contrasto all'abuso edilizio aveva provocato loro gravi danni
economici (si disse, addirittura, che ci sarebbe stata una
perdita di 5 milioni al giorno), avevano fomentato lavoratori,
"appaltatureddi" di paese, personaggi che non sono grandi
imprenditori né semplici artigiani, e che tutto questo aveva
fatto sì che si svolgessero manifestazioni anche molto
colorite dal punto di vista dell'organizzazione (invasione
della città con ruspe, mezzi vari, trattori: era bastato un
semplice fischio perché arrivassero anche persone da
Misterbianco e da Gela, secondo un copione già visto).
  MASSIMO BRUTTI. Tutto questo non avviene senza il
contributo della mafia.
  GIACOMO GARRA. Fu comprovato che la mente di queste
azioni e di queste minacce era riconducibile a due grossi
imprenditori i quali si vedevano toccati nelle proprie tasche,
l'uno perché proprietario di una cava, l'altro perché grande
commerciante di cemento e di ferro. In un brutto episodio è
incorsa anche mia moglie. La vicenda è di una banalità
incredibile, essendo riconducibile al diniego
dell'autorizzazione a tenere un posto di vendita di meloni e
di angurie in estate; a seguito di ciò, si era ritenuto di
dare una lezione... Credo che accanto ai grandi drammi che
derivano dalla presenza della mafia, ci sia anche il dramma,
meno grande ma purtroppo molto diffuso, della illegalità
endemica che si chiama abusivismo edilizio, abusivismo nel
commercio...
  MASSIMO BRUTTI. Scusi se la interrompo, ma intimidazioni
di questo genere non avvengono senza una garanzia o una
copertura da parte della mafia. Mi pare difficile pensare che
sia tutt'altra cosa!
  GIACOMO GARRA. Né io né gli organi inquirenti che si
sono occupati di quella vicenda abbiano avuto questa
sensazione.
   Ho ricordato certe situazioni per fornire un contributo al
dibattito. Considero, in coscienza, precondizione per
l'intensificazione di un'azione contro la mafia il fatto che
non vi sia più quella certezza, che per cinquant'anni è
rimasta tale, di un'assemblea che non risponde a nessuno
perché mai nessuno... L'articolo 41-bis può anche non
essere applicato al cento per cento, ma rappresenta comunque
un deterrente e uno strumento molto importante. Lo
scioglimento anticipato di un'assemblea regionale può anche
non operarsi, ma rappresenta anch'esso un deterrente
importante che induce un consesso formato da 90 persone a non
considerarsi arbitro del destino dei siciliani.
   In definitiva, la mia domanda è volta a sapere se
riteniate che lo scioglimento anticipato o comunque
l'attivazione di strumenti statutari che consentano in ipotesi
lo scioglimento di un'assemblea che potrebbe essere - non dico
che lo è attualmente - il cuore di un'altra organizzazione
esterna... In ipotesi questo è possibile!
   Chiedo inoltre se non riteniate utile tenere presente che
gli attentati agli amministratori possano avere una
diversificazione di componenti e causali, al fine di evitare
che laddove vi siano ragioni del tipo... Ho voluto portare
alla vostra conoscenza la mia esperienza che, certo, non può
essere generalizzata; penso però che non possa essere
generalizzata l'ipotesi di 110 attentati...
Pagina 681
  GIUSEPPE SCOZZARI. Lo ha già detto Caselli!
  GIACOMO GARRA. Purtroppo sono arrivato in ritardo alla
riunione perché ho dovuto svolgere le funzioni di relatore
presso la Giunta delle elezioni in una seduta dedicata alla
convalida degli eletti nella regione Veneto. Chiedo scusa, ma
non ho il dono dell'ubiquità.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Vi è un primo profilo delle sue considerazioni al
quale vorrei riagganciarmi perché mi sembra molto importante:
mi riferisco a quello che lei ha sintetizzato con
l'espressione Palermo felix.
   Avevo terminato l'esperienza di membro del Consiglio
superiore della magistratura e mi ero liberato del professor
Brutti (cosa che per me rappresentava un successo
straordinario...). Facevo tranquillamente il presidente di
corte d'assise a Torino. Poi - per una serie di considerazioni
e di fatti che, come hanno colpito tanti altri, hanno colpito
anche me - la domanda per andare a Palermo, l'accettazione di
essa da parte del Consiglio superiore della magistratura,
l'inizio dell'esperienza palermitana. Un limite grosso di tale
esperienza è che io non posso per tutta una serie di motivi
conoscere la città ed i palermitani. E tuttavia, per quel poco
che posso intravvedere, ma per quel molto che sento esporre
dai miei colleghi, credo - e penso che debba essere detto
anche in questa sede - che la stragrande maggioranza dei
palermitani sia cambiata, stia cambiando in senso estremamente
positivo, i giovani soprattutto, il che non esclude che vi
possano essere - e ancora importanti e ancora pericolosamente
presenti - sacche, presenze forti d'altro tipo.
  GIACOMO GARRA. Me lo auguro anch'io, naturalmente.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Non sarà felix completamente, ma vi sono
delle prospettive di miglioramento soprattutto legate
all'impegno dei giovani che sono di straordinaria importanza.
Anche queste vanno aiutate ad evolversi in senso positivo e a
non involversi, a non arretrare se dovessero riprendere piede
altre tendenze.
   Quanto all'assemblea regionale siciliana, i giudici
vengono accusati di voler fare le leggi, di fare politica non
ne parliamo, figuriamoci se prendessero posizione anche solo
sull'opportunità o meno dello scioglimento di un organo di
rilevanza paracostituzionale come l'assemblea regionale
siciliana. Davvero non possumus.
  RAFFAELE BERTONI. Avrei voluto porre al dottor Caselli,
sia pure da una prospettiva diversa, la domanda che gli ha
rivolto il collega Caccavale ma, se l'avessi posta io, Caselli
non avrebbe avuto la possibilità di rispondere nel modo così
completo, preciso e documentato in cui ha risposto.
   Con riferimento a ciò che ha detto questa sera il
procuratore di Palermo, osservo che chi segue queste vicende e
le segue con cuore antimafia (io mi vanto di essere un
professionista dell'antimafia, alla memoria di Sciascia, e
sono orgoglioso di esserlo) sa che Caselli queste cose le
aveva già dette in modo molto convincente in quelle poche
battute che fece su RAITRE da Corleone, dove era andato a
seguito di ciò che era successo alle targhe in memoria di
Falcone e Borsellino. E' sufficiente aver ascoltato quelle
poche battute per capire cosa stia accadendo in questo
momento.
   E vengo alla domanda. E' uscito in italiano in seconda
edizione un libro di uno scrittore francese; dello stesso
libro è successivamente uscita in Francia una terza edizione
con una postfazione, che io ho letto. In essa si afferma - ed
io desidero sapere solo se vi sia un riscontro giudiziario, in
quanto la notizia mi è sembrata inverosimile - che durante il
periodo elettorale, a ridosso delle elezioni politiche, a
Capaci è sventolata per tre giorni una bandiera tricolore.
  PRESIDENTE. C'è un riscontro giudiziario?
Pagina 682
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. Lo apprendo adesso, non sono in grado di...
  GIACOMO GARRA. Si è detto dei brindisi e delle bottiglie
di champagne.
  GIANCARLO CASELLI, Procuratore della Repubblica di
Palermo. A Capaci durante il periodo elettorale...?
  RAFFAELE BERTONI. ...a ridosso delle elezioni per tre
giorni sventolò una bandiera tricolore, che ovviamente non era
la bandiera d'Italia.
  PRESIDENTE. Avendo terminato l'audizione, ringraziamo il
procuratore Caselli ed il procuratore aggiunto Lo Forte, ai
quali ci rivolgeremo per avere la collaborazione necessaria
per lo sviluppo di determinati argomenti.
  La seduta termina alle 23,25.

 


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