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PARTE PRIMA
VIII.
A Cagliari Anania frequentò il Liceo e per due anni
l'Università: studiava leggi.
Quegli anni furono come un intermezzo, nella sua vita; un
intermezzo pieno di dolcezza e di armonia.
Già in treno, mentre attraversava i solitari paesaggi sardi resi
più tristi dall'autunno egli sentiva una nuova vita. Gli pareva di esser un altro; di
aver cambiato vestito, smettendone uno lacero e stretto per uno nuovo, soffice e comodo.
Era il bacio di Margherita che lo rendeva felice, o l'addio a tutte le piccole e misere
cose del passato, o la gioia un po' paurosa della libertà, o il pensiero del mondo ignoto
verso cui correva?
Egli non sapeva, né cercava sapere.
Un'ebbrezza profonda, fatta di orgoglio e di voluttà, lo
avvolgeva come un vapore odoroso, attraverso il cui velo egli intravedeva orizzonti mai
prima sognati. Come era bella e facile la vita! Egli si sentiva forte, bello, vittorioso:
tutte le donne lo amavano, tutte le porte della vita si aprivano davanti a lui.
Lungo il viaggio da Nuoro a Macomer stette sempre sul terrazzino
del vagone, scosso fortemente dall'urto dispettoso del piccolo treno. Poca gente saliva o
scendeva nelle stazioni desolate, e le acacie, lungo la linea, pareva aspettassero il
treno per gettargli contro nembi di foglioline gialle.
«Ecco», dicevano le acacie al treno, «prendi, piccolo mostro
dispettoso: noi stiamo sempre ferme e tu cammini. Che cosa pretendi di più?»
«Sì», pensava lo studente, «la vita è nel moto.»
E gli pareva di sentire la forza gioconda dell'acqua agitata,
mentre fino a quel giorno la sua anima era stata una piccola palude con le sponde
soffocate da erbe fetide. Sì, le acacie smarrite nelle immote solitudini sarde avevano
ragione: sì, muoversi, andare, correre vertiginosamente, questa era la vita.
Eppure!... passando sotto un nuraghe nero su un'alta
roccia, simile ad un nido d'uccelli giganteschi, Anania desiderò di trovarsi lassù con
Margherita, soli tra le rovine e i ricordi che spiravano col selvaggio odor del
lentischio; soli, suggestionati da ombre e da fantasmi di età epiche. Ah, come si sentiva
grande!
Ma ecco che le cerule montagne della Barbagia natìa svaniscono
all'orizzonte: una sola cresta dell'Orthobene appare ancora, dietro altre cime, violacea
sul cielo pallido; ancora un lembo, una punta, una pietra... più niente. Anche i monti
tramontano come il sole e la luna, lasciando un triste crepuscolo nell'anima di chi si
allontana dal paese natìo.
Addio, addio. Anania si sentì triste, ma per scuotersi pensò
intensamente al bacio di Margherita, il cui ricordo, del resto, non lo abbandonava un
istante.
A momenti però trasaliva. Non era stato tutto un sogno? Se ella
dimenticava o si pentiva? Ma subito l'orgoglio gli ridonava la speranza.
La sua ebbrezza durò parecchi giorni, finché durò lo
stordimento della nuova esistenza.
Tutte le cose gli andavano a seconda; appena arrivato a Cagliari
trovò una bellissima camera con due balconi, da uno dei quali si godeva un paesaggio
chiuso da colline e dal mare luminoso, talvolta così calmo che i piroscafi ed i velieri
si disegnavano come incisi sull'acciaio, e dall'altro il panorama della rosea città, che
coi suoi bastioni, il suo Castello, i palmizi, i giardini, rassomigliava ad una città
moresca.
Di fronte al palazzo nuovo dove egli abitava, sorgeva una fila di
casette antiche ritinte di rosa, con balconi spagnuoli pieni di garofani e di stracci
stesi ad asciugare al sole; ma egli non guardava laggiù; i suoi occhi ammaliati correvano
sullo stupendo scenario della città, e si fermarono sulla linea dei bastioni e dei
palazzi medioevali che chiudevano l'orizzonte grandioso. Tutto lassù era leggenda e
poesia.
Agli ultimi di ottobre faceva ancora caldo: l'aria odorava di
alghe e di fiori; e le signore che passavano sotto il balcone d'Anania vestivano di
mussolina e di stoffe leggere. Allo studente pareva di essere in un paese incantato, e
l'aria fragrante e snervante, e le comodità nuove della sua camera, e le dolcezze della
nuova vita, gli davano un senso di mollezza e di languore. Fu preso da una specie di
sonnolenza voluttuosa: tutto gli sembrava bello e grande; e ricordando il molino e le
sudice figure che vi si raccoglievano, si domandava come aveva potuto per tanto tempo
vivere laggiù. La vita umile del povero vicinato proseguiva certamente il suo corso
melanconico, mentre qui, nei caffè lucenti, nelle vie luminose, nelle alte case battute
dal sole, dal riflesso del mare, tutto era luce, gioia, poesia.
L'arrivo della prima lettera di Margherita accrebbe la sua gioia
di vivere: era una lettera semplice e tenera, scritta su un gran foglio bianco, con
caratteri rotondi, quasi maschili. Veramente Anania si aspettava una letterina azzurra,
con un fiore dentro; e sul principio gli parve che Margherita volesse fargli sentire la
sua superiorità e volesse dominarlo; ma poi, dalle espressioni semplici e affettuose
della fanciulla, che pareva continuasse con quella lettera una lunga e ininterrotta
corrispondenza, s'accorse che ella lo amava sinceramente, con ingenuità e con forza, e ne
provò una dolcezza inesprimibile.
Ella gli scriveva: «Ogni sera sto lunghe ore alla finestra, e mi
sembra che tu debba da un momento all'altro passare, come usavi prima di partire; mi
dispiace molto la nostra lontananza, ma mi conforto pensando che tu studi e prepari il
nostro avvenire».
Poi gli indicava dove indirizzare la risposta, e lo pregava del
più gran segreto, perché naturalmente la famiglia di lei, venendo a sapere del loro
amore, vi si sarebbe opposta.
Anania rispose subito tutto vibrante d'amore e di felicità,
sebbene un tantino oppresso dal rimorso di tradire il suo benefattore. Però sofisticava
già:
«Se amandola io rendo felice la figlia, non faccio male al
padre...».
Le descrisse le meraviglie della città e della stagione.
«Mentre scrivo sento le rane gracidare ancora negli orti lontani,
e vedo la luna salire come un volto d'alabastro sul cielo verdognolo del crepuscolo
tiepido. È la stessa luna che vedevo salire sul solitario orizzonte nuorese, è lo stesso
viso rotondo e melanconico che vedevo affacciarsi sopra le roccie dell'Orthobene, ma come
ora mi sembra più dolce, diverso, quasi sorridente!»
E di nuovo, appena impostata questa prima epistola, egli sentì un
impetuoso desiderio di correre all'aperto, e salì sul colle di Bonaria.
Una dolcezza orientale calava con la sera splendida; il viale che
conduce al Santuario era deserto, e la luna cominciava a brillare attraverso gli alberi
immobili: il cielo di un azzurro verdastro prendeva, sopra la linea madreperlacea del
mare, una tinta d'un verde inverosimile, e nuvole rosse e violette lo solcavano.
Pareva un sogno.
Anania si fermò davanti al Santuario, e guardò il mare: le onde
riflettevano la luminosità del cielo, delle nuvole colorate e della luna, e venivano ad
infrangersi sotto il colle, come enormi conchiglie di madreperla che arrivate alla riva si
scioglievano in liquido argento. E le barche veliere, allineate sullo sfondo luminoso,
parevano ad Anania immense farfalle scese a riposarsi sull'acqua.
Mai egli si sentì felice come in quell'ora: gli pareva che la sua
anima fosse luminosa come il cielo, grande come il mare.
Al bagliore della luna e dell'estremo crepuscolo decifrò qualche
frase della lettera di Margherita; poi baciò il foglio, ed a malincuore si decise a
ritornare in città. La luna seminava il viale di monete e disegni argentei; s'udivano
ancora le rane e i canti dei pescatori; tutto era dolcezza, ma arrivato davanti alla sua
casa, Anania udì grida, urli, strilli di donne, e voci d'uomini che pronunziavano parole
infami: si volse e vide, davanti alle casette rosee che si scorgevano dal suo balcone, un
gruppo di persone accapigliate. Alle finestre dei palazzi non si affacciava nessuno;
pareva che gli abitanti del quartiere fossero abituati alla scena, all'ossessione di
quella gente che si accapigliava in una mischia infernale, gridando le più luride
ingiurie che l'uomo possa pronunziare contro il suo simile.
Davanti al giardino un grosso uomo vestito di velluto nero,
immobile alla luna, si godeva la scena con aria quasi beata.
«Ma le guardie? Perché non vengono le guardie?», gli chiese
Anania, turbato.
«Che fanno le guardie?», rispose l'uomo senza guardare lo
studente.
«Ogni settimana son qui le guardie! Spintoni di qua, spintoni di
là, tutto finisce e poi tutto ricomincia il giorno dopo. Bisogna mandar via quelle
donne», riprese l'omone, minacciando da lontano i rissanti. «Aspettate, ve la do io,
adesso! Aspettate che tutti abbiano firmato il ricorso alla questura!»
«Ma che cosa è?»
L'omone lo guardò con disprezzo.
«Son donne perdute, dunque!»
Anania rientrò a casa pallido e ansante, e la padrona si accorse
del suo turbamento.
«Ma che cosa ha?», gli disse. «Si è spaventato? Son donne
allegre, coi loro... giovanotti; e si azzuffano per gelosia. Ma le faranno andar via;
abbiamo ricorso alla questura.»
«Di che paese sono?», egli domandò.
«Una è cagliaritana; l'altra, credo, del Capo di Sopra.»
Le urla raddoppiavano; si distingueva la voce d'una donna che si
lamentava quasi l'avessero ferita a morte... Dio, che orrore! Anania tremava, e attratto
da una forza irresistibile corse ad aprire il balcone. In alto, sul cielo purissimo, la
luna e le stelle: in basso, ai piedi del vaporoso quadro della città, quel gruppo di
demoni, quelle grida di rabbia, quelle parole abbominevoli... Ed Anania stette a guardare
angosciosamente, con l'anima oppressa da un tremendo pensiero...
«Fate che ella sia morta, Dio mio, Dio mio! Abbiate pietà di me,
Signore!», singhiozzava egli a tarda notte, tormentato dall'insonnia e dai tristi
pensieri.
L'idea che una delle due donne che abitavano le casette rosee
potesse essere sua madre era svanita, dopo le informazioni date, durante il pranzo, dalla
padrona di casa; ma che importava? Se non qui, là, in un punto ignoto ma reale, a
Cagliari, a Roma od altrove, ella viveva e conduceva, o aveva condotto, una vita
simile a quella delle donne che gli abitanti di Via San Lucifero volevano scacciare dal
loro quartiere.
«Perché Margherita mi ha scritto?», egli pensava, «e perché
le ho risposto? Quella donna ci dividerà per sempre. Perché ho sognato? Domani
scriverò a Margherita, le dirò tutto. Ma che posso dirle? E se quella donna fosse
morta? Perché devo rinunziare alla felicità? Non lo sa, forse, Margherita, che io sono
figlio del peccato? Se si fosse vergognata di me non mi avrebbe scritto. Sì, ma
certamente ella crede che mia madre sia morta, o che per me sia come morta; mentre io sento
che è viva, e non rinunzio al mio dovere, che è quello di cercarla, trovarla, trarla dal
vizio... E se si è emendata? No, essa non si è emendata. Ah, è orribile; io la odio...
La odio, la odio!»
Visioni truci gli attraversavano la mente: vedeva sua madre
accapigliata con altre donne, con uomini luridi e bestiali, udiva grida terribili, e
tremava d'odio e di disgusto.
Verso mezzanotte ebbe una crisi di lagrime; soffocò i singhiozzi
mordendo il guanciale, torse le braccia, si graffiò il petto; si strappò dal collo
l'amuleto datogli da Olì il giorno della loro fuga da Fonni, e lo scaraventò contro il
muro: oh, così avrebbe voluto strappare e buttare lontano da sé il ricordo di sua madre!
Ad un tratto si meravigliò d'aver pianto; s'alzò e cercò l'amuleto, ma non lo rimise
più al collo: poi si domandò se, senza il suo amore per Margherita, avrebbe sofferto
egualmente al pensiero di sua madre: si rispose di sì.
Di tanto in tanto avveniva una specie di vuoto nella sua mente;
stanco di tormentarsi, allora egli vagava col pensiero dietro visioni estranee al crudele
problema che lo urgeva: la voce del mare gli pareva il muggito di mille tori cozzanti
invano contro la scogliera; e per contrapposto pensava ad una foresta scossa dal vento e
inargentata dalla luna, e ricordava i boschi dell'Orthobene dove tante volte, mentre egli
coglieva viole, il rumore del vento sugli elci gli aveva dato appunto l'illusione del
mare. Ma all'improvviso il crudele problema tornava.
«...E se si fosse emendata? È lo stesso; è lo stesso. Io devo
cercarla, trovarla, aiutarla. Ella mi ha abbandonato per il mio bene, perché altrimenti
io non avrei avuto mai un nome, mai un posto nella società. Rimanendo con lei sarei
andato a mendicare; sarei vissuto nella vergogna, forse; forse sarei diventato un ladro,
un delinquente... Sì... e così come sono non è la stessa cosa? Non sono perduto lo
stesso?... No, no! Non è lo stesso! Così sono figlio delle mie azioni. Però Margherita
non vorrà esser mia, perché... Ma perché? ma perché? Perché non vorrà esser mia?
Sono io forse disonorato? Che colpa ho io? Ella mi vuole, sì, ella mi vuole, appunto
perché sono figlio delle mie azioni. Chi sa, del resto, che quella donna non sia
morta? Ah, perché mi illudo? Essa non è morta, lo sento; è viva, è giovane ancora,
quanti anni ha adesso? Trentatré anni, forse; ah, è ben giovane!»
Quest'idea lo inteneriva alquanto.
«Se ella avesse cinquant'anni non potrei perdonarle. Ma perché
mi ha ella abbandonato? Se mi avesse tenuto con sé non sarebbe più caduta: io avrei
lavorato, a quest'ora sarei un servo, un pastore, un operaio. Non conoscerei Margherita,
non sarei infelice... Mio Dio, mio Dio, fate che ella sia morta! Ma perché faccio questa
stupida preghiera? No, ella non è morta. Ma perché dovrei io cercarla? Non mi ha ella
abbandonato? Io sono un pazzo, e Margherita riderebbe se sapesse ch'io combatto una così
stupida lotta. Ebbene, sono io forse il primo o l'ultimo figlio della colpa, che si
innalza e si fa stimare? Sì, ma lei è l'ombra. Io devo cercarla e farla vivere
con me, e una donna onesta non vorrà mai vivere con noi: io e lei saremo la
stessa persona. Domani io devo scrivere a Margherita. Domani. Se ella mi volesse
egualmente?»
Questo pensiero lo colmò di dolcezza; ma subito dopo ne sentì
tutta l'assurdità e ricadde nella disperazione.
Né l'indomani né poi egli poté svelare a Margherita il segreto
proposito che lo incalzava, lo sollevava e lo avviliva continuamente.
«Glielo dirò a voce» pensava, ma sentiva che tanto meno a voce
avrebbe avuto il coraggio di spiegarsi, e s'adirava per la sua viltà, ma nello stesso
tempo si confortava nella vergognosa certezza che la sua viltà appunto gli avrebbe
impedito di compiere quella che egli chiamava la sua missione. A volte, però,
questa missione gli appariva così eroica che l'idea di rinunziarvi lo rattristava.
«La mia vita sarebbe inutile, come per la maggior parte degli
uomini, se io rinunziassi a ciò!» pensava. Ed in quei momenti di romanticismo non gli
dispiaceva la lotta fra il suo dovere terribile e il suo amore ingrandito morbosamente
dalla lotta.
Dopo la sera della rissa non s'affacciò più al balcone sulla
strada; la vista delle casette, dalle quali neppure i ricorsi alla questura riuscivano a
snidare le triste inquiline, gli faceva male; tuttavia, rientrando a casa, egli vedeva
spesso le due donne, o sul balcone, fra i garofani e gli stracci, o sedute sul limitare
della porta.
Una specialmente quella del Capo di Sopra alta e snella, coi
capelli nerissimi e gli occhi d'un turchino vivo, attirava la sua attenzione. Si chiamava
Maria Rosa; era quasi sempre ubriaca e a giorni vestiva miseramente e girava per le strade
scarmigliata, scalza o in ciabatte rosse, a giorni usciva elegantemente vestita, in
cappello, in mantellina di velluto viola guarnita di piume bianche, qualche volta si
metteva sul balcone, fingendo di cucire, e cantava, con voce rauca, graziosi stornelli del
suo paese, interrompendosi per gridare insolenze ai passanti che la molestavano coi loro
scherzi, o alle vicine con le quali litigava continuamente perché ne seduceva i mariti ed
i figli.
La sua voce giungeva fino alla camera di Anania, ed egli
l'ascoltava con dolore.
Maria Rosa gli destava rabbia e pietà, e sebbene la sapesse del
tal paese, della tale famiglia, qualche volta egli tornava nella folle supposizione che
ella potesse essere sua madre. Sì, dovevano per lo meno rassomigliarsi... Ah, che triste
e terribile ossessione!
Una sera poi, Maria Rosa e la compagna lo fermarono in mezzo alla
strada, invitandolo a seguirle; egli fuggì, preso da un tremito di disgusto e d'orrore.
Dio! Dio! Gli pareva fosse stata lei a fermarlo...
Egli studiava con ardore e scriveva lunghe lettere a Margherita.
Il loro amore era perfettamente simile a centomila altri amori fra
studenti poveri e signorine ricche: ma ad Anania pareva che nessuna coppia al mondo
potesse amarsi come si amavano loro, e che nessun uomo avesse mai amato con l'ardore con
cui egli amava. Nonostante il dubbio che Margherita potesse abbandonarlo se egli ritrovava
sua madre, era felice del suo amore; la sola idea di riveder la fanciulla gli dava
vertigini di gioia.
Contava i giorni e le ore; in tutto il suo avvenire misterioso e
velato non scorgeva che un punto luminoso: l'incontro con Margherita, al suo ritorno per
Pasqua.
Anche a Cagliari, durante il primo anno di liceo, egli non ebbe
amici e neppure conoscenti; quando non studiava o non vagava solitario in riva al mare,
sognava sul balcone, come una fanciulla.
Un giorno, verso il tramonto, salì sulle colline di monte Urpino,
al di là dei campi ove i mandorli fiorivano dal gennaio, e s'inoltrò nella pineta. Sul
musco dei viali abbandonati il sole calante tra i pini rosei gettava riflessi delicati; a
sinistra s'intravedevano prati verdi, mandorli in fiore, siepi rosse al tramonto; a destra
boschetti di pini, e chine ombrose coperte di iris.
Egli non sapeva dove fermarsi, tanto i posti erano deliziosi;
colse un fascio d'iris, e infine salì sopra una cima verde di asfodeli, dalla quale si
godeva la triplice visione della città rossa al tramonto, degli stagni azzurrognoli e del
mare che pareva un immenso crogiuolo d'oro bollente. Il cielo ardeva; la terra esalava
delicate fragranze; le nuvole azzurrastre, che disegnavano sull'orizzonte d'oro profili di
cammelli e figure bronzee, davano l'idea d'una carovana e ricordavano l'Africa vicina.
Anania si sentiva così felice che sventolò il fazzoletto e si
mise a gridare salutando un essere invisibile, - che era l'anima del mare, del cielo, lo
spirito dei sogni: Margherita.
D'allora in poi le pinete di monte Urpino diventarono il regno dei
suoi sogni: a poco a poco egli si considerò talmente padrone del luogo che si irritava
quando incontrava qualche persona nei viali solitari: spesso rimaneva nella pineta fino al
cader della sera, assisteva ai rossi tramonti riflessi dal mare, o seduto fra le iris
guardava il sorgere della luna, grande e gialla, fra i pini immobili. Una sera, mentre
stava seduto sull'erba di una china, al di là di un piccolo burrone, udì un tintinnio di
greggie pascenti, e fu assalito da un impeto di nostalgia.
Davanti a lui, al di là del burrone, il viale perdevasi in una
lontananza misteriosa: i pini rosei sfumavano sul cielo puro, il musco aveva riflessi di
velluto; Venere splendeva sull'orizzonte roseo, sola e ridente, quasi affacciatasi prima
delle altre stelle per godersi la dolcezza della sera senza essere disturbata.
A che pensava la solitaria stella? Aveva un amante lontano? Anania
osò rassomigliarsi all'astro radioso, così solo nel cielo come egli era solo nella
pineta. Forse in quell'ora Margherita guardava la stella della sera. E che faceva zia
Tatàna? Il fuoco ardeva nel focolare, e la buona vecchia preparava melanconicamente il
pasto della sera, pensando al suo caro fanciullo lontano. Ed egli, egli non pensava quasi
mai a lei; egli era un ingrato, un egoista. Ah, ma che poteva farci? Se al posto di zia
Tatàna ci fosse stata un'altra donna, il suo pensiero sarebbe volato costantemente a lei.
Invece quella donna... Dove era quella donna? Che faceva in quell'ora? Scorgevano anche i
suoi occhi la stella della sera? Era morta? Era viva? Era ricca o mendicante? E se fosse
in carcere?
Egli si meravigliò di non arrossire a questo pensiero. Per la
prima volta, dopo tanti anni, provò un senso di pietà, come quando, bambino, cercava di
scaldare coi suoi piedini i piedi gelati di Olì...
Finalmente il giorno del ritorno arrivò. Egli partì, quasi
oppresso dalla sua felicità: aveva paura di morire in viaggio, di non arrivare a rivedere
le care montagne, la nota strada, il dolce orizzonte, il viso di Margherita...
«Se però io morissi ora», pensava, con la fronte appoggiata
alla mano, «se morissi ora ella non mi dimenticherebbe mai più...»
Fortunatamente arrivò sano e salvo; rivide le care montagne, le
valli selvaggie, il dolce orizzonte, il viso paonazzo di Nanna venuta ad incontrarlo alla
stazione.
Ella aspettava da più di un'ora; appena vide il bel volto di
Anania aprì le braccia e cominciò a piangere.
«Figliuolino mio! Figliuolino mio!»
«Come la va? Prendi!», egli gridò, e per impedirle di
abbracciarlo le gettò addosso la valigia, un involto, un cestino. «Avanti! Avanti! Va
avanti, passa di qui; io devo passar di là. Andiamo.»
Si mise quasi a correre, e sparve, lasciando la donna stupefatta.
Ecco, ecco. Egli deve rivedere la nota strada: ella lo aspetta alla finestra, e non
hanno bisogno di testimoni per rivedersi. Come le case di Nuoro sono piccole e le strade
strette e deserte! Meglio! Fa quasi freddo, a Nuoro! La primavera c'è, ma è ancora
pallida e delicata come una fanciulla convalescente. Ah, ecco alcune persone che
s'avanzano: fra esse è Franziscu Carchide che, riconoscendo lo studente, comincia a far
gesti di gioia. Che rabbia!
«Ebbene, come stai? Ben tornato! Come ti sei fatto grande! Ed
elegante, poi! E che scarpette da damerino! quanto le hai pagate?»
Finalmente Anania è libero. Avanti, avanti! Il suo cuore batte,
batte sempre più forte. Una donna s'affaccia al limitare di una porta, guardando
curiosamente; ma Anania passa, fugge, e da lontano sente esclamare: «È lui, sì, proprio
lui!». Ebbene, sì, è proprio lui, che vi importa? Ah, ecco, ecco; ecco la strada che
conduce all'altra, alla nota, alla cara strada. Finalmente: non è un sogno? Anania sente
dei passi e si stizzisce; è un bambino che attraversa di corsa la strada, lo urta, vola
via. Egli vorrebbe correre così, ma non può, non deve. Prende anzi un aspetto rigido,
composto, si accomoda la cravatta, si sbatte con due dita i risvolti del soprabito. Già;
egli ha un soprabito lungo, chiaro, elegante che lei non ha ancora veduto. Lo
riconoscerà subito con quel soprabito? Forse no. Ecco finalmente la nota strada! Ecco il
portone rosso, ecco la casa bianca con le finestre verdi. Margherita non c'è! Perché?
Perché, Dio mio?
Egli si ferma, palpitando. Fortunatamente la strada è deserta:
solo una gallina nera passeggia, alzando molto le zampe prima di posarle per terra, e si
diverte a battere il becco sul muro... Basta, bisogna passare oltre, a scanso di essere
notato da qualche occhio curioso. Egli comincia a camminare lentamente come la gallina; e
benché le finestre rimangano vuote egli non cessa di fissarle un istante, e si commuove e
sente il cuore saltargli in gola.
Ad un tratto gli parve di svenire. Margherita s'era affacciata,
pallida di passione, e lo guardava con occhi ardenti. Egli impallidì e non pensò neppure
a salutare, a sorridere; non pensò a nulla, e per parecchi istanti non vide che quegli
occhi ardenti dai quali gli pioveva una voluttà ineffabile.
Camminò automaticamente, voltandosi ad ogni passo, seguito da
quegli occhi inebbrianti; e solo quando Nanna, con la valigia sul capo, l'involto in una
mano e il cestino nell'altra, apparve ansante in fondo alla strada, egli trasecolò,
sorpreso, e affrettò il passo.
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