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PARTE SECONDA
V.
Era vicino il giorno della partenza.
«Zia Varvara», diceva lo studente alla vecchia serva che
preparava il caffè, «come sono felice! Fra pochi giorni... addio! Mi pare di aver le
ali. Adesso salto sulla finestra, faccio zsss... e via, spicco il volo e sono in
Sardegna».
«Aaah!», gridò la vecchia, comicamente spaventata. «Non
montare sulla finestra, cuore mio! Bada che caschi...»
«Ebbene, datemi una tazza di caffè, allora! Come è buono il
vostro caffè! Solo mia madre, a Nuoro, riesce a farlo altrettanto buono. Volete venire
con me, a Nuoro?»
La vecchia sospirò: ah, se non ci fosse stato il mare!
«Sei molto ricco?»
«Eh, altro!»
«Quante tanche hai?»
«Sette od otto, non ricordo bene.»
«E alveari ne hai? E servi pastori?»
«Tutto, tutto, zia Varvara, ho tutto!»
«Ma allora perché studi?»
«Perché la mia innamorata vuole ch'io diventi dottore.»
«E chi è la tua innamorata?»
«La figlia del barone di Baronia.»
«Ah, vivono ancora i baroni di Baronia? Io ho sentito narrare che
nel loro castello s'aggirano i fantasmi. Una volta un taglialegna passò la notte sotto le
mura del castello e vide una dama con una lunga coda d'oro che pareva una cometa. Oh,
Nostra Signora mia del Buon Consiglio, tu mi rovini... bada che ti farà male tutto questo
caffè!»
«Raccontate dunque, zia Varvara. Quando il taglialegna vide la
dama cosa fece?»
Zia Varvara raccontava. Confondeva le leggende del castello di
Burgos con le leggende del castello di Galtellì, mischiava ricordi storici, diventati
oramai tradizioni popolari, con avvenimenti accaduti durante la sua lontana infanzia.
«E i nuraghes, poi! Quanti tesori nascosti! Sai, quando i
mori venivano in Sardegna per rapire le donne e gli armenti, i Sardi nascondevano le
monete nei nuraghes.»
Anania pensava a suo padre, che anche ultimamente gli aveva
scritto pregandolo di visitare i musei «dove si conservano le antiche monete d'oro».
«Una volta», ricominciava zia Varvara, «io andai a cogliere
spighe intorno ad un nuraghe; mi ricordo come fosse oggi. Avevo la febbre, e verso
sera dovetti coricarmi fra le stoppie, aspettando che passasse qualche carro che mi
conducesse in paese. Ed ecco cosa vedo. Il cielo, dietro il nuraghe, era tutto
color di fuoco: pareva un drappo di scarlatto; ad un tratto un gigante sorse sul patiu e cominciò a cacciar fumo dalla bocca.
In breve tutto il cielo si oscurò. Che paura, Nostra Signora mia del Buon Consiglio! Ma
ad un tratto vidi San Giorgio con in testa la luna piena, ed in mano una leppa
lucente come l'acqua. Tiffeti, taffati!», concluse la vecchia, roteando un
coltello da cucina. «San Giorgio tagliò la testa al gigante, e il cielo ritornò
sereno.»
«Era la febbre.»
«Ebbene, sarà stata la febbre, ma io vidi il gigante e Santu
Jorgj: sì, li vidi con questi occhi.»
Anania ascoltava con piacere i suggestivi racconti di zia Varvara.
Sentiva, nelle parole nostalgiche della vecchia esiliata, l'aroma della terra natìa, il
soffio carico delle essenze selvagge dell'Orthobene e del Gennargentu.
«Ah, come mi divertirò, queste vacanze!», diceva alla vecchia.
«Voglio recarmi a tutte le feste, voglio visitare il mio paesello natìo: voglio salire
sul Gennargentu, su Monte Rasu, sui monti di Orgosolo.»
«E lei non viene più in Sardegna?», chiese una sera a Maria
Obinu.
«Io?», ella rispose, un po' cupa. «Mai più!»
«Perché? Venga qui alla finestra, signora Maria, guardi che
bella luna! Ebbene, non le piacerebbe fare un pellegrinaggio alla Madonna di Gonare,
così, con una luna splendida? Salire a cavallo piano piano, pei boschi, pei dirupi,
avanti, sempre avanti, mentre la chiesetta si disegna sul cielo, in alto, in alto, in
alto!...»
Maria scuoteva la testa con indifferenza; zia Varvara, al
contrario, sussultava tutta e sollevava gli occhi, quasi per cercare con lo sguardo la
chiesetta campeggiata sull'azzurro tenero del cielo lunare, in alto, in alto, in alto!...
«Salvo lei e le persone che le vogliono bene...», maledì Maria,
«e salvo le chiese e i devoti di Maria Santissima!... ma il fuoco passi per la Sardegna
prima che io ci ritorni».
Anania interrogava spesso zia Varvara sul passato di Maria, e sul
perché dell'odio di questa per il paese natìo.
«Ah, cuoricino mio, ella ha ben ragione! Laggiù l'hanno
assassinata...»
«Ma se è ancora viva, zia Varvara!»
«Ah, tu non sai! È meglio assassinare una donna che
tradirla...»
Egli pensava a sua madre, e il dubbio, la chimera e il sogno lo
riafferravano tutto.
«Zia Varvara, voi avete detto che ella è stata tradita da un
signore... Ditemi, dunque, come si chiama quel signore... cercate di saperlo... Ditemi, ha
delle carte la signora Maria? Io potrei aiutarla, cercare il suo seduttore.»
«Perché?»
«Perché la aiuti...»
«Ma essa non ha bisogno d'aiuto: ha dei soldi, sai! Lasciala in
pace, piuttosto, perché ella non vuole che si ricordi la sua sventura. Non una parola,
sai! Mi strangolerebbe se sapesse che io parlo di lei con te...»
«E dei suoi figli non si sa niente?»
«Ma pare sia una figlia, solo. Credo stia coi parenti di lei.
Maria manda spesso denari, in Sardegna.»
Ma Anania non abbandonava l'idea che Maria e Olì potessero
formare la stessa persona.
«Eppure bisogna sapere», pensava, camminando distratto per le
vie animate da una folla sempre più scarsa. «Se non è lei perché mi tormento? Ma dove,
dove è lei? Che fa? È vicina o lontana? Al fragore della città, a questo rombo che mi
sembra la voce di un mostro dalle mille e più mila teste, è mescolato il respiro, il
gemito, il riso di lei? E se non qui, dove?»
Una notte egli ebbe un po' di febbre, e nell'incubo gli parve di
vedere più volte la figura di Maria curva sul suo guanciale. Era delirio o realtà? Il
chiarore della lampada rischiarava la camera. Egli vedeva altre figure fantastiche, ma
pensava «ho la febbre» e solo la figura di Maria Obinu gli sembrava reale.
Visioni apocalittiche sorgevano, s'incalzavano, si mescolavano,
sparivano, come nuvole mostruose, intorno a lui. Fra le altre cose egli vedeva il nuraghe
col gigante ed il San Giorgio del sogno febbrile di zia Varvara; ma la luna si staccava
dalla figura del Santo e volava sul cielo; altre due lune, rosse e immense, la seguivano.
Era imminente un cataclisma. Una folla enorme si pigiava su una spiaggia di mare in
tempesta. Le onde erano cavalli marini che lottavano contro spiriti invisibili. Ad un
tratto un urlo salì dal mare, Anania sussultò d'orrore, aprì gli occhi e gli parve di
averli azzurri.
«Che stupidaggini!», pensò. «Ho la febbre.»
Maria Obinu riapparve nella camera, si avanzò, silenziosa, si
curvò sul lettuccio. Allora Anania cominciò a delirare.
«Ti ricordi, mamma, tu mi insegnavi la piccola poesia:
Luna luna
Porzedda luna
Perché non vuoi dirmi che sei la mia mamma, tu? Dimmelo
dunque; tanto io lo so, che tu sei la mia mamma, ma devi dirmelo anche tu. Ricordi
l'amuleto? Possibile che tu non ricordi quella mattina, quando scendevamo... e il
fringuello cantava fra i castagni umidi e le nuvole volavano via dietro il monte Gonare?
Ma sì che ti ricordi! dimmelo dunque... non aver paura... Io ti voglio bene, vivremo
assieme. Rispondi.»
La donna taceva. Il sofferente fu assalito da un vero spasimo di
tenerezza e d'angoscia.
«Madre... madre, parla; non farmi soffrire oltre: sono stanco
ormai. Se tu sapessi che pena! Tu sei Olì, non è vero? E inutile che tu dica il
contrario; tu sei Olì. Che cosa hai fatto sinora? Dove sono le tue carte? Ebbene, non
parliamo del passato; tutto è finito. Ora non ci lasceremo più... ma tu vai via? No, no,
Dio, aspetta... non andartene...»
E si sollevò sul letto, con gli occhi spalancati, mentre la
figura si allontanava lentamente e scompariva...
Soltanto pochi minuti prima di partire prese la solenne
decisione di lasciare in sospeso, fino al ritorno, tutte le ricerche e tutti i vani
progetti. Si sentiva stanco, disfatto; il caldo, gli esami, la febbre, le fantasticherie
lo avevano esaurito.
«Mi riposerò», pensava, preparando rapidamente la valigia e
ricordando i lunghi preparativi della sua prima partenza da Nuoro. «Ah, quanto vorrò
dormire queste vacanze! Non voglio diventare nevrastenico. Salirò sulle montagne natìe,
sul Gennargentu vergine selvaggio. Da quanto tempo sogno quest'ascensione! Visiterò la
vedova del bandito, il fraticello Zuanne, il figlio del fabbricante di ceri. E il cortile
del convento?... E quel carabiniere che cantava A te questo rosario?»
Il pensiero poi di riveder fra poco Margherita, di immergersi
tutto nel fresco amore di lei come in un bagno profumato, gli dava una felicità così
intensa che lo faceva spasimare.
Pochi momenti prima della partenza zia Varvara gli consegnò un
piccolo cero, perché lo offrisse per lei alla Basilica dei Martiri, a Fonni, e Maria gli
diede una medaglia benedetta dal pontefice.
«Se lei non la vuole, miscredente, la porti alla sua mamma», gli
disse, sorridendo, un po' commossa. «Addio, dunque, e buon viaggio e buon ritorno. Si
ricordi che la camera resta a sua disposizione. E faccia da bravo, e mi scriva subito una
cartolina.»
«Arrivederci!», egli gridò dal basso della scala, mentre Maria,
curva sulla ringhiera, lo salutava ancora con la mano.
«Figlio del cuoricino mio», disse zia Varvara, accompagnandolo
fino alla porta, «saluta per me la prima persona che incontri in terra sarda. E buon
viaggio e ricordati del cero.»
Lo baciò lievemente sulla guancia, piangendo, ed egli fu tentato
di risalire le scale per vedere se anche Maria Obinu piangeva: poi sorrise della sua idea,
abbracciò zia Varvara, chiedendole scusa se qualche volta l'aveva fatta stizzire, e si
allontanò.
Tutto sparve; la vecchia che piangeva il suo esilio dalla patria
diletta, la strada melanconica, la piazza in quell'ora deserta e ardente, il Pantheon
triste come una tomba ciclopica; e Anania, col viso accarezzato dal vento di ponente,
provò un senso di sollievo, come svegliandosi da un incubo.
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