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PARTE PRIMA
II.
Il figlio di Olì nacque a Fonni, al cominciare della
primavera. Per consiglio della vedova del bandito, che lo tenne a battesimo, fu chiamato
Anania: egli passò a Fonni la sua infanzia, e ricordò sempre con nostalgia quel bizzarro
paese adagiato sulla cima d'un monte come un avoltoio in riposo. Durante il lungo inverno
tutto era neve e nebbia; ma in primavera l'erba invadeva anche i ripidi viottoli del
paese, selciati di grosse pietre, dove gli scarafaggi si addormentavano beatamente al
sole, e le formiche uscivano dalle loro buche, e vi rientravano e vi si aggiravano attorno
indisturbate. Le casupole di pietra bruna, coi tetti di scandule sovrapposte a guisa di squame di pesce, aprivano sui
viottoli le porticine nere, i balconi di legno corroso, le scalette talvolta inghirlandate
di vite; il pittoresco campanile della Basilica dei Martiri, emergente dal verde delle
quercie del vecchio cortile del convento, dominava il quadretto del paese, disegnato sul
cielo di cristallo azzurrino.
Un orizzonte favoloso circonda il villaggio: le alte montagne del
Gennargentu, dalle vette luminose quasi profilate d'argento, dominano le grandi valli
della Barbagia, che salgono, immense conchiglie grigie e verdi, fino alle creste ove
Fonni, con le sue case di scheggia e i suoi viottoli di pietra, sfida i venti e i fulmini.
D'inverno il paese era quasi deserto, perché i numerosi pastori
nomadi che lo popolavano (uomini forti come il vento e astuti come volpi) scendevano con
le greggie nelle tiepide pianure meridionali; ma durante il bel tempo un bizzarro viavai
di cavalli, di cani, di pastori vecchi e giovani, animava le straducole.
Anche Zuanne, il figlio della vedova, a undici anni era già
pastore. Durante la giornata conduceva al pascolo attraverso i selvaggi dintorni del paese
un certo numero di capre appartenenti a diverse famiglie fonnesi; all'alba egli passava
fischiando lungo le vie, e le capre, che ne conoscevano il fischio, uscivano dalle case e
lo seguivano mansuete. Verso sera egli le riconduceva fino all'entrata del villaggio; di
là le intelligenti bestie s'avviavano da sole alle case dei loro padroni.
Il piccolo Anania seguiva quasi sempre il suo amico e fratello
Zuanne dalle grandi orecchie: entrambi costantemente scalzi, con ghette e giubboncino di
orbace, lunghi e sudici calzoni di grossa tela, berretto di pelo di montone. Anania aveva
sempre gli occhi malaticci, e in conseguenza cisposi; dal suo nasino rosso colava
continuamente un umore salato che egli non esitava a leccarsi, od a spandere con la manina
sporca, di qua e di là dal naso, formandosi in tal modo due baffi di crosta d'una materia
indefinibile.
Mentre le capre pascolavano nei dintorni montuosi del paese, fra i
cespugli aromatici e le roccie verdi di caprifoglio, i due bambini girovagavano,
scendevano verso la strada per lanciare sassolini a chi passava, penetravano nelle
piantagioni di patate, dove lavoravano le donne solerti, cercavano all'ombra umida dei
noci giganteschi qualche frutto sbattuto dal vento. Zuanne era alto e svelto, Anania più
forte e più ardito. Entrambi bugiardi di una forza unica e agitati da fantasie barbare,
Zuanne parlava sempre di suo padre, lodandolo e proponendosi di seguirne l'esempio e di
vendicarne la memoria, e Anania voleva diventar soldato.
«Io t'arresterò», diceva tranquillamente; e Zuanne rispondeva
con ardore:
«Ed io t'ammazzerò».
Quindi giocavano spesso ai banditi, armati di fucili di
canna. Avevano certo uno sfondo adatto, ed Anania non riusciva mai a scovare il bandito,
sebbene Zuanne, dalla macchia dove si celava, imitasse la voce del cuculo. Un cuculo vero
rispondeva in lontananza, e spesso i due bambini, smessi i feroci propositi, s'avviavano
in cerca del melanconico uccello; ricerca non meno infruttuosa di quella del bandito.
Quando sembrava loro di esser vicini al covo misterioso, il grido triste singhiozzava più
lontano, più lontano ancora. Allora i due fratellini di sventura, affondati fra l'erba e
sdraiati sul musco delle roccie, si contentavano di interrogare il cuculo.
Zuanne era modesto; chiedeva soltanto:
Cuccu bellu agreste,
Narami itte ora est;
e l'uccello rispondeva con sette gridi, mentre invece potevano esser le dieci. Ciò
nonostante Anania slanciava le sue coraggiose domande:
Cuccu bellu 'e mare
Cantos annos bi cheret a m'isposare?
«Cu-cu-cu-cu...»
«Quattro anni, diavolo! Ti sposi presto!...» canzonava Zuanne.
«Sta zitto, ché non ha sentito bene.»
Cuccu bellu 'e lizu
Cantos annos bi cheret a fagher fizu?
Qualche volta il cuculo dava un numero ragionevole; e i due
bimbi, nel silenzio immenso del luogo, interrotto solo dalla voce del melanconico oracolo,
continuavano le domande non sempre allegre:
Cuccu bellu 'e sorre,
Cantos annos bi cheret a mi morrer?
Una volta Anania si avviò solo per la montagna, e salì e
salì per la strada bianca, attraverso le macchie e i blocchi di granito, su per le chine
coperte dai fiorellini violetti del serpillo, finché gli parve d'esser giunto ad una cima
altissima. Il sole era scomparso, ma dietro le montagne turchine dell'orizzonte pareva che
grandi fuochi ardessero mandando in alto, sul cielo tutto rosso, una luce ardentissima.
Anania ebbe paura di quel cielo ardente, dell'altezza ove era giunto, del silenzio
terribile che lo circondava. Pensò al padre di Zuanne, e si guardò attorno con terrore:
ah, benché si proponesse la carriera delle armi aveva paura dei banditi, - mentre Zuanne
desiderava vivamente di vederli, - ed il lungo gabbano nero sulla parete
fuligginosa gli faceva spavento. Ridiscese quasi rotolando dalla cima dove aveva veduto il
cielo tutto rosso e le montagne turchine, e a Zuanne, che lo chiamava urlando, raccontò
dove era stato e che li aveva veduti. Il figlio della vedova, dapprima
irritatissimo, si commosse e guardò Anania con rispetto; poi entrambi rientrarono in
paese pensierosi e taciturni, seguiti dalle capre i cui campanacci risonavano tristemente
nel silenzio del crepuscolo.
Quando non seguiva Zuanne, il piccolo Anania passava la giornata
nel grande cortile della chiesa dei Martiri, coi figli del fabbricante di ceri, il cui
laboratorio era in uno stambugio addossato alla chiesa. Grandi alberi ombreggiavano il
cortile melanconico, circondato di tettoie in rovina: una scalinata di pietra conduceva
alla chiesa, sulla cui facciata semplicissima stava dipinta una croce. Su questa scalinata
Anania ed i figli del fabbricante di ceri passavano ore ed ore, al sole appena tiepido,
giocando con qualche pietruzza, o fabbricando piccoli ceri di creta. Alle finestre
dell'antico convento s'affacciava qualche carabiniere annoiato: nell'interno delle celle
si scorgevano stivali e giubbe militari, e si udiva una voce cantare in falsetto, con
accento napoletano:
A te questo rosario...
Qualche fraticello, - degli ultimi rimasti nell'umido e
decadente luogo, - lacero, sporco, coi sandali rotti, passava nel cortile, pregando in
dialetto: spesso il carabiniere dalla finestra, il frate dalla scalinata, s'intrattenevano
in puerili discorsi coi bimbi del cortile; qualche volta il carabiniere si rivolgeva
direttamente ad Anania chiedendogli notizie di sua madre:
«E cosa fa tua madre?».
«Fila.»
«E altro?»
«Va alla fonte.»
«Dille che venga qui, ché ho da parlarle.»
«Sissignore», rispondeva il piccolo innocente.
E riferiva la cosa ad Olì, ed Olì gli somministrava in risposta
qualche paio di schiaffi e gli proibiva di tornare nel cortile (eppure una volta egli la
vide discorrere con un carabiniere) ma egli naturalmente non obbediva, perché non sapeva
vivere se non con Zuanne o coi figli del fabbricante di ceri.
Tranne la domenica e i giorni della gran festa dei Martiri, in
primavera, una solitudine triste regnava nel grande cortile soleggiato, sotto le tettoie
in rovina, piene d'odor di cera, sotto l'enorme noce che ad Anania sembrava più alto del
Gennargentu, e nell'interno della Basilica, le cui pitture e gli stucchi pareva si
consumassero per l'abbandono e l'oblio in cui erano lasciati; eppure egli ricordò sempre
con dolcezza nostalgica quel luogo deserto, dove in primavera l'avena cresceva fra le
pietre, ed in autunno le foglie rugginose del noce cadevano come ali d'uccelli morti,
Zuanne, che si struggeva per il desiderio di giocare nel cortile, e s'annoiava quando
Anania non lo seguiva, era geloso dei figli del ceraiuolo e faceva di tutto perché
l'amico non li frequentasse.
«Vieni domani con me», diceva ad Anania, mentre arrostivano le
castagne sulle brage del focolare. «T'insegnerò dove si trova un nido di lepri. Ce ne
sono tante, vedi, così piccole che sembrano le dita di una mano: e sono nude, con le
orecchie lunghe. Eh, come sono lunghe quelle orecchie, diavolo!», concludeva, fingendo
meraviglia.
Anania andava in cerca delle lepri e naturalmente non le trovava.
L'altro giurava che prima c'erano, che dovevano essere scappate, e peggio per Anania che
non era andato prima.
«Tu vai con quelli», diceva con disprezzo. «Peggio per
te: ora le lepri fattele di cera! Vedi, se venivi ieri con me!»
«E perché non le hai prese tu?»
«Volevo prenderle con te, ecco; ora vediamo se troviamo il nido
della cornacchia.»
Il piccolo pastore faceva di tutto per trattenere Anania, ma il
bimbo cominciava ad aver freddo lassù, ai piedi del monte già coperto di nebbia, e
tornava in paese. Di sua madre, in quel tempo, egli serbò pochi ricordi perché la vedeva
di rado; ella stava sempre fuori; lavorava a giornata per le case o pei campi, nelle
coltivazioni di patate, e ritornava verso sera, lacera, livida dal freddo, affamata. Da
lungo tempo il padre di Anania non era più tornato a Fonni, anzi il bambino non si
ricordava di averlo mai veduto.
Chi faceva un po' da madre al piccolo bastardo era la vedova del
bandito: essa lo aveva cullato, lo aveva addormentato tante volte con la nenia melanconica
di strane canzoni; tante volte gli aveva pulito la testa, tante volte tagliato le unghie
dei piedini e delle manine terrose, e gli aveva soffiato violentemente il naso. Ogni sera,
filando accanto al fuoco, ella narrava le gesta eroiche del bandito; i bambini ascoltavano
avidamente, ma Olì non si commoveva più, anzi spesso rintuzzava la vedova, o abbandonava
il focolare e andava a coricarsi nel suo giaciglio. Anania dormiva con lei, ai piedi del
letto: spesso trovava sua madre già addormentata, ma fredda, gelida, e cercava di
riscaldarle i piedi coi suoi piedini caldi.
Talvolta la sentiva singhiozzare, nel silenzio della notte, ma non
osava chiederle che avesse, perché aveva soggezione di lei: però si confidò con Zuanne,
che a sua volta gli spiegò certe cose.
«Devi sapere che tu sei un bastardo, cioè tuo padre non è
marito di tua madre. Ce ne sono molti così, sai.»
«E perché non l'ha sposata?»
«Perché ha un'altra moglie: la sposerà quando questa muore.»
«E quando muore, questa?»
«Quando Dio vuole. Devi sapere che tuo padre prima veniva a
trovarci, io lo conosco, sai.»
«Com'è?» chiedeva Anania, corrugando le ciglia, con un impeto
di odio istintivo verso quel padre sconosciuto che non veniva a trovarlo, e certo che sua
madre piangeva per il suo abbandono.
«Ecco», diceva Zuanne, interrogando i suoi ricordi, «è bello,
alto, sai, con gli occhi come lucciole. Ha un cappotto da soldato.»
«Dove si trova?»
«A Nuoro. Nuoro è una città grande, che si vede dal
Gennargentu. Io conosco il Monsignore di Nuoro perché mi ha cresimato.»
«Ci sei stato tu, a Nuoro?»
«Sì, io ci sono stato», mentiva Zuanne.
«Non è vero, tu non ci sei stato. Io mi ricordo che tu non ci
sei stato.»
«Io ci sono stato prima che tu nascessi; ecco, se vuoi saperlo!»
Anania, dopo questi discorsi, seguiva volentieri Zuanne anche
quando aveva freddo, e continuamente gli domandava notizie di suo padre, di Nuoro, della
strada che bisognava percorrere per arrivare alla città. E quasi ogni notte sognava
questa strada, e vedeva una città con tante chiese, con palazzi, circondata da montagne
ancora più alte del Gennargentu.
Una sera, agli ultimi di novembre, Olì, dopo essere stata a Nuoro
per la festa delle Grazie, litigò con la vedova; già da qualche tempo ella si
bisticciava con tutte le persone che incontrava, e percuoteva i bambini.
Anania la sentì piangere tutta la notte, e sebbene il giorno
prima ella lo avesse bastonato, provò una grande pietà per lei: avrebbe voluto dirle:
«Tacete, mamma mia: Zuanne dice che se fosse come me, quando sarebbe grande andrebbe a
Nuoro per cercare il padre e imporgli di venirvi a trovare: io ci voglio andare ora,
invece: lasciatemi andare, mamma mia...».
Ma non osava fiatare.
Era notte ancora quando Olì si alzò: scese in cucina, risalì,
ritornò a scendere, rientrò con un fagotto.
«Alzati», disse al ragazzetto.
Poi lo aiutò a vestirsi e gli mise intorno al collo una catenella
dalla quale pendeva un sacchettino di broccato
verde, fortemente cucito.
«Cosa c'è dentro?» chiese il bimbo, palpando il sacchettino.
«Una ricetta che ti porterà fortuna; me la diede un
vecchio frate che incontrai in viaggio... Tieni sempre il sacchettino sul seno nudo; non
perderlo mai.»
«Come era il vecchio frate?», chiese Anania, pensieroso. «Aveva
una lunga barba? Un bastone?»
«Sì, una lunga barba, un bastone...»
«Che fosse lui?»
«Chi lui?»
«Gesù Cristo Signore...»
«Forse...», disse Olì. «Ebbene, promettimi che non perderai
né darai mai a nessuno il sacchettino. Giuramelo.»
«Ve lo giuro, sulla mia coscienza!», rispose Anania gravemente.
«È forte la catenella?»
«È forte.»
Olì prese il fagotto, strinse nella sua la manina del fanciullo e
lo condusse in cucina dove gli diede una scodellina di caffè e un pezzo di pane. Poi gli
gettò sulle spalle un sacchetto logoro e lo trascinò fuori.
Albeggiava. Faceva un freddo intensissimo; la nebbia riempiva la
valle, copriva l'immensa chiostra dei monti: solo qualche alta cresta nevosa emergeva
argentea simile al profilo d'una nuvola bianca, ed il monte Spada appariva or sì or no
come un enorme blocco di bronzo tra il velo mobile della nebbia.
Anania e la madre attraversarono le viuzze deserte, passarono
davanti al grande panorama occidentale sommerso nella nebbia, cominciarono a scendere lo
stradale grigio e umido che si sprofondava giù giù, in una lontananza piena di mistero.
Anania si sentì battere il cuoricino: quella strada grigia, vigilata dalle ultime case di
Fonni i cui tetti di scheggie parevano grandi ali nerastre spennacchiate, quella strada
che scendeva continuamente verso un abisso ignoto colmo di nebbia, era la strada per
Nuoro.
Madre e figlio camminavano frettolosi: spesso il bambino doveva
correre, ma non si stancava. Era abituato a camminare, ed a misura che scendeva si sentiva
più agile, caldo, vispo come un uccello. Più volte chiese:
«Dove andiamo, mamma mia?».
«A cogliere castagne», diss'ella una volta, e poi: «in
campagna: lo vedrai».
Anania scendeva, correva, inciampava, rotolava: ogni tanto si
palpava il petto in cerca del sacchettino. La nebbia diradavasi; in alto il cielo appariva
d'un azzurro umido solcato come da grandi pennellate di biacca: le montagne si delineavano
livide nella nebbia. Un raggio giallo di sole illuminava finalmente la chiesetta di Gonare
sulla cima del monte piramidale, che sorgeva su uno sfondo di nuvole color piombo.
«Andiamo là?», domandò Anania, additando un bosco di castagni,
umidi di nebbia e carichi di frutti spinosi spaccati. Un uccellino strideva nel silenzio
dell'ora e del luogo.
«Più avanti», disse Olì.
Anania riprese le sue corse sfrenate: mai s'era spinto tanto
avanti nelle sue escursioni, ed ora questo continuo scendere a valle, la natura diversa,
l'erba che copriva le chine, i muri verdi di musco, le macchie di nocciuoli, i cespugli
coperti di bacche rosse, gli uccellini che pigolavano, tutto gli riusciva nuovo e
piacevole.
La nebbia svaniva, il sole trionfante schiariva le montagne; le
nuvole sopra monte Gonare avevano preso un bel colore giallo-roseo, sul cui sfondo la
chiesetta appariva chiara e sembrava vicina a chi la guardava.
«Ma dov'è questo diavolo di luogo?», chiese Anania, volgendosi
a sua madre con le manine aperte, e fingendosi sdegnato.
«Subito. Sei stanco?»
«Non sono stanco!», egli gridò, rimettendosi a correre.
Arrivò però il momento in cui egli cominciò a sentire un
piccolo dolore alle ginocchia: allora rallentò la corsa, si pose a fianco di Olì e
cominciò a chiacchierare; ma la donna, col suo fagotto sul capo, il viso livido e gli
occhi cerchiati, gli badava appena e rispondeva distratta.
«Torneremo stanotte?», egli chiedeva. «Perché non me lo avete
lasciato dire a Zuanne? È lontano il bosco? È a Mamojada?»
«Sì, a Mamojada.»
«Ah, a Mamojada? Quando c'è la festa a Mamojada? È vero che
Zuanne è stato a Nuoro? Questa è la strada di Nuoro, io lo so, e ci vogliono dieci ore,
a piedi, per arrivare a Nuoro. Voi siete stata a Nuoro? Quando è la festa a Nuoro?»
«È passata, era l'altro giorno», disse Olì, scuotendosi. «Ti
piacerebbe stare a Nuoro?»
«Altro che! E poi... e poi...»
«Tu sai che a Nuoro c'è tuo padre», rispose Olì, indovinando
il pensiero del fanciullo. «Ti piacerebbe stare con lui?»
Anania ci pensò; poi disse con vivacità, corrugando le
sopracciglia:
«Sì!.»
A che pensava egli dicendo quel «sì»? La madre non indagò
oltre; chiese soltanto:
«Vuoi che ti conduca da lui?».
«Sì!»
Verso mezzogiorno si fermarono presso un orto dove una donna, con
le sottane cucite fra le gambe a guisa di calzoni, zappava vigorosamente: un gatto bianco
le andava dietro, slanciandosi di tanto in tanto contro una lucertola verde che appariva e
scompariva fra le pietre del muro.
Anania ricordò sempre questi particolari. La giornata s'era fatta
tiepida, il cielo azzurro; le montagne, come asciugantisi al sole, apparivano grigie,
chiazzate di boschi scuri; il sole, quasi scottante, riscaldava l'erba e faceva
scintillare l'acqua dei ruscelli.
Olì sedette per terra, aprì il fagotto e chiamò Anania che si
era arrampicato sul muro per guardare la donna ed il gatto.
In quel momento apparve allo svolto della strada la corriera
postale di Fonni, guidata da un omone rosso coi baffi gialli.
Olì avrebbe voluto nascondersi; ma l'omone, che pareva ridesse
continuamente perché aveva le guancie gonfie, la vide e gridò:
«Dove vai, donnina?».
«Dove mi pare e piace», ella rispose a voce bassa.
Anania, ancora arrampicato sul muro, guardò entro la vettura, e
vedendola vuota disse al carrozziere:
«Prendetemi, zio Battista, prendetemi nella vettura,
prendetemi».
«Dove andate? Dunque?», gridò l'omone, rallentando la corsa.
«Ebbene, che tu sii sbranato, andiamo a Nuoro. Vuoi farci la
carità di prenderci un po' in vettura?», disse Olì, mangiando. «Siamo stanchi come
asini.»
«Senti», rispose l'omone, «va al di là di Mamojada, intanto
che io faccio la fermata. Vi prenderò.»
Egli tenne la promessa: giunto al di là di Mamojada fece sedere
in serpe accanto a lui i due viandanti e cominciò a chiacchierare con Olì.
Anania, veramente stanco, sentiva un vivo piacere nel trovarsi
seduto fra sua madre e l'omone che scuoteva la frusta, davanti ai freschi paesaggi dallo
sfondo azzurrino che si disegnavano nell'arco del mantice.
Le grandi montagne erano scomparse, scomparse per sempre, ed il
bambino pensava a quello che avrebbe detto Zuanne sapendo di questo viaggio. «Quando
tornerò quante cose avrò da dirgli!», pensava. «Gli dirò: io sono stato in carrozza e
tu no.»
«Perché diavolo vai a Nuoro?», insisteva l'omone, rivolto ad
Olì.
«Ebbene, vuoi saperlo?», ella rispose finalmente. «Vado per
mettermi a servire. Ho già fatto il contratto con una buona signora. A Fonni non potevo
più vivere; la vedova di Zuanne Atonzu mi ha cacciato di casa.»
«Non è vero», pensò Anania. Perché sua madre mentiva? Perché
non diceva la verità, che cioè andava a Nuoro per cercare il padre di suo figlio? Basta,
se ella diceva le bugie doveva aver le sue buone ragioni; e Anania non indagò oltre,
tanto più che aveva sonno. Chinò la testina sul grembo della madre e chiuse gli occhi.
«Chi c'è ora nella cantoniera?», chiese ad un tratto Olì.
«Mio padre non c'è più?»
«Non c'è più.»
Ella diede un profondo sospiro: la vettura si fermò un momento,
poi riprese la sua corsa, ed Anania finì di addormentarsi.
A Nuoro egli provò una forte delusione. Era questa la città?
Sì, le case erano più grandi di quelle di Fonni, ma non tanto come egli s'era
immaginato: le montagne poi, cupe sul cielo violaceo del freddo tramonto, erano
addirittura piccole, quasi per far ridere. Inoltre i bambini che s'incontravano per le
strade, le quali, a dire il vero, gli parevano molto larghe, lo impressionavano
stranamente perché vestivano e parlavano in modo diverso dai bambini fonnesi.
Madre e figlio girovagarono per Nuoro fino al cader della sera, ed
infine entrarono in una chiesa. C'era molta gente; l'altare ardeva di ceri, un canto dolce
s'univa ad un suono ancor più dolce che veniva non si sa da dove. Ah, ciò parve
veramente bello ad Anania, che pensava a Zuanne ed al piacere di narrargli quanto ora
vedeva.
Olì gli disse all'orecchio:
«Vado a vedere se c'è l'amica presso cui andremo a dormire; non
muoverti di qui finché non torno io...».
Egli rimase solo in fondo alla chiesa; sentiva un po' di paura, ma
si distraeva guardando la gente, i ceri, i fiori, i santi. Eppoi l'incoraggiava il
pensiero dell'amuleto nascosto sul suo seno. Ad un tratto si ricordò di suo padre. Ah,
dov'era egli? Perché dunque non andavano a trovarlo?
Olì tornò presto; attese che la novena fosse terminata, prese
Anania per la mano e lo fece uscire per una porta diversa da quella ov'erano entrati.
Camminarono per diverse vie, finché non vi furono più case: era già sera, faceva
freddo, Anania aveva fame e sete, si sentiva triste e pensava al focolare della vedova ed
alle castagne ed alle chiacchiere di Zuanne.
Arrivarono in un viottolo chiuso da una siepe, dietro la quale si
vedevano le montagne che avevano colpito il bimbo per la loro piccolezza.
«Senti», disse Olì, e la voce le tremava, «hai visto
quell'ultima casa con quel gran portone aperto?»
«Sì.»
«Là dentro c'è tuo padre: tu vuoi vederlo, non è vero? Senti:
ora torniamo indietro, tu entri nel portone, di fronte al quale vedrai una porta pure
aperta: tu entri là e guardi; c'è un molino ove fanno l'olio; un uomo alto, con le
maniche rimboccate, a capo scoperto, va dietro al cavallo. Quello è tuo padre.»
«Perché non venite dentro anche voi?», domandò il bimbo.
Olì cominciò a tremare.
«Io entrerò dopo di te: tu va innanzi; appena entrato dici:
"Io sono il figlio di Olì Derios". Hai capito? Andiamo.»
Ritornarono indietro; Anania sentiva sua madre tremare e battere i
denti. Giunti davanti al portone ella si chinò, accomodò il sacchetto sulle spalle del
bimbo, e lo baciò.
«Va, va», disse, spingendolo.
Anania entrò nel portone; vide l'altra porta, illuminata, ed
entrò: si trovò in un luogo nero nero, dove una caldaia bolliva sopra un forno acceso, e
un cavallo nero faceva girare una grande e pesante ruota oleosa entro una specie di vasca
rotonda. Un uomo alto, con le maniche rimboccate, a capo scoperto, con le vesti sudice,
nere di olio, andava appresso al cavallo, rimuovendo entro la vasca, con una pala di
legno, le olive frantumate dalla ruota. Altri due uomini andavano e venivano, spingendo in
avanti e indietro una spranga infilata in un torchio, dal quale colava l'olio nero e
fumante.
Davanti al fuoco stava seduto un ragazzetto con un berretto rosso;
e fu questo ragazzetto che primo si accorse del bimbo straniero. Lo fissò bene, e
credendolo un mendicante gli impose aspramente:
«Va via!».
Anania, timido, immobile sotto il suo sacchetto, non rispose.
Vedeva tutto confuso ed aspettava che sua madre entrasse.
L'uomo dalla pala lo guardò con occhi lucenti, poi s'avanzò e
chiese:
«Ma che cosa vuoi?».
Quello era suo padre? Anania lo guardò timidamente, pronunziando
con vocina sottile le parole suggeritegli da sua madre:
«Io sono il figlio di Olì Derios».
I due uomini che giravano il torchio si fermarono di botto, e uno
di essi gridò:
«Tuo figliooo!».
L'uomo alto gettò per terra la pala, si curvò su Anania, lo
fissò, lo scosse, gli chiese:
«Chi... chi ti ha mandato? Cosa vuoi? Dove è tua madre?».
«È fuori... adesso verrà...»
Il mugnaio corse fuori, seguìto dal ragazzetto col berretto
rosso; ma Olì era scomparsa e nulla più si seppe di lei.
Avvertita del caso accorse zia Tatàna, la moglie del mugnaio,
una donna non più giovane, ma ancora bella, grassa e bianca, con dolci occhi castanei
circondati di piccole rughe, e un po' di baffi biondi sul labbro rialzato. Ella era
tranquilla, quasi lieta; appena entrò nel molino prese Anania per gli omeri, si chinò,
lo esaminò attentamente.
«Non piangere, poverino», gli disse con dolcezza. «Or ora ella
verrà. E voi zitti!», impose agli uomini e al ragazzetto che si immischiava forse un po'
troppo nella faccenda e fissava Anania con due piccoli occhi turchini cattivi e un sorriso
beffardo nel rosso visino paffuto.
«Dov'è andata? Non viene dunque? Dove la ritroverò?», si
domandava con disperazione il piccolo abbandonato, piangendo sconsolatamente.
Ella avrà avuto paura. Dove sarà adesso? Perché non viene? E
quell'uomo lurido, oleoso, cattivo, quello è suo padre?
Le carezze e le dolci parole di zia Tatàna lo confortarono
alquanto; cessò di piangere, si leccò le lagrime e se le sparse di qua e di là delle
guance, col gesto che gli era abituale; poi subito pensò alla fuga.
La donna, il mugnaio, gli uomini, il ragazzetto, tutti gridavano,
imprecavano, ridevano e si bisticciavano.
«È proprio tuo figlio. Tale e quale!», diceva la donna, rivolta
al mugnaio.
E il mugnaio gridava:
«Non lo voglio, no, non lo vogliooo!...».
«Sei ben scomunicato, sei senza viscere. Santa Caterina mia, è
possibile che vi sieno uomini così malvagi?», diceva zia Tatàna, un po' scherzando, un
po' sul serio. «Ah, Anania, Anania, sei sempre tu!»
«E chi dunque vuoi ch'io sia? Ora vado subito in Questura.»
«Tu non andrai in nessun posto, stupido! Tu vuoi tirar fuori di tasca le tue corna per mettertele sul capo!»,
osservò energicamente la donna.
Ma siccome egli insisteva, ella disse:
«Ebbene, andrai domani. Ora finisci il tuo lavoro, e ricordati
ciò che diceva il re Salomone: "La furia della sera lasciala alla
mattina..."».
I tre uomini tornarono al lavoro: ma spingendo sotto la ruota la
pasta delle olive frante, il mugnaio gridava, borbottava, imprecava, mentre gli altri lo
deridevano e la moglie gli diceva tranquillamente:
«Via, non prenderti poi la
porzione più grande. Dovrei arrabbiarmi io, Santa Caterina mia! Ricordati, Anania,
che Dio non paga il sabato».
«Taci, figliolino mio», disse poi al bimbo, che singhiozzava
nuovamente, «domani aggiusteremo tutto. Ecco, così gli uccelli volano dal nido appena
hanno le ali.»
«Ma sapevate voi che quest'uccellino esisteva?», chiese ridendo
uno dei due uomini che spingevano la spranga.
«Dove sarà andata tua madre? Com'è fatta, dimmi?», domandò il
ragazzetto, mettendosi davanti ad Anania.
«Bustianeddu», gridò il mugnaio, «se non te ne vai ti mando
via a calci...»
«E provate un po'!», diss'egli, spavaldo.
«E diglielo dunque tu come è fatta Olì!», esclamò uno dei due
uomini.
L'altro rise tanto che dovette abbandonar la spranga e premersi il
petto.
Intanto zia Tatàna, premurosa e carezzevole, interrogava il
bimbo, esaminandogli le povere vestine. Egli raccontò tutto con vocina incerta e
lamentosa, ogni tanto interrotta da singhiozzi.
«Poverino, poverino! Uccellino senz'ali: senz'ali e senza
nido!», diceva pietosamente la donna. «Taci, anima mia; tu avrai fame, non è vero?
Adesso andiamo a casa, e zia Tatàna ti darà da mangiare, e poi ti manderà a letto, con
l'angelo custode, e domani aggiusteremo tutte le cose.»
Con questa promessa ella lo condusse in una casetta vicina al
molino, e gli diede da mangiare pane bianco e formaggio, un uovo ed una pera.
Mai Anania aveva mangiato tanto bene: e la pera, dopo le carezze
materne e le dolci parole di zia Tatàna, finì di confortarlo.
«Domani...», diceva la donna.
«Domani...», ripeteva il fanciulletto.
Mentre egli mangiava, zia Tatàna, che preparava la cena per il
marito, lo interrogava e gli dava buoni consigli, avvalorandoli con l'affermare che erano
già stati dettati dal re Salomone ed anche da Santa Caterina.
Ad un tratto, sollevando gli occhi ella scorse alla finestruola il
visetto paffuto di Bustianeddu.
«Va via», disse, «va via, piccola rana. Fa freddo.»
«Lasciatemi dunque entrare», egli supplicò. «Fa freddo
davvero.»
«Va dunque al molino.»
«No, c'è mio padre che mi ha mandato via. Ih, quanta gente è
venuta là!»
«Entra dunque, povero orfano, anche tu senza madre! Che cosa dice
zio Anania? Grida ancora?»
«E lasciatelo gridare!», consigliò Bustianeddu, sedendosi
accanto ad Anania, e raccogliendo e rosicchiando il torso della pera, abbastanza
rosicchiato e già buttato via dal piccolo straniero.
«Son venuti tutti», raccontò poi, parlando e gestendo come un
uomo maturo. «Maestro Pane, mio padre, zio Pera, quel bugiardone di Franziscu Carchide,
zia Corredda, tutti vi dico insomma...»
«Che cosa dicevano?» chiese la donna con viva curiosità.
«Tutti dicevano che dovete adottare questo bambino. E zio Pera
diceva ridendo: "Anania, e a chi dunque lascerai i tuoi beni, se non tieni il
bambino?". Zio Anania lo rincorse con la pala; tutti ridevano come pazzi.»
La donna dovette esser vinta dalla curiosità, perché ad un
tratto raccomandò a Bustianeddu di non lasciar solo Anania ed uscì per tornare al
molino.
Rimasti soli, Bustianeddu cominciò a fare qualche confidenza al
piccolo abbandonato.
«Mio padre ha cento lire nel cassetto del canterano, ed io so
dove è la chiave. Noi abitiamo qui vicino, e abbiamo un podere per il quale paghiamo
trenta lire di imposta: ma l'altra volta venne il commissario e sequestrò l'orzo. Cosa
c'è qui, dentro il tegame, che fa cra-cra-cra? Ti pare che prenda fumo?», sollevò il
coperchio e guardò. «Diavolo, ci son patate. Credevo fosse altro. Ora assaggio.»
Con due ditina prese una fetta bollente, ci soffiò sopra più
volte, se la mangiò; ne prese un'altra...
«Che cosa fai?», disse Anania, con un po' di dispetto. «Se
viene quella donna!...»
«Noi sappiamo fare i maccheroni, io e mio padre», riprese
imperturbato Bustianeddu. «Tu li sai fare? E il sugo?»
«Io no», disse Anania, melanconico.
Pensava sempre a sua madre, assediato da tristi domande. Dove era
andata? Perché non era entrata nel molino? Perché lo aveva abbandonato e dimenticato?
Adesso che aveva mangiato e sentiva caldo, egli aveva voglia di piangere ancora, di
fuggire. Fuggire! Cercar sua madre! Questa idea lo afferrò tutto e non lo lasciò più.
Poco dopo rientrò zia Tatàna, seguìta da una donna lacera,
barcollante, che aveva un gran naso rosso ed una enorme bocca livida dal labbro inferiore
penzolante.
«È questo... è questo... l'uccellino?...», chiese balbettando
l'orribile donna: e guardò con tenerezza il piccolo abbandonato. «Fammi vedere la tua
faccina, che tu sii benedetto! È bello come una stella, in verità santa! E lui non lo
vuole? Ebbene, Tatàna Atonzu, raccoglilo tu, raccoglilo come un confetto...»
Si avvicino e baciò Anania, che torse il viso con disgusto
perché l'enorme bocca della donna puzzava d'acquavite e di vino.
«Zia Nanna», disse Bustianeddu, facendo cenno di bere, «oggi
l'avete presa giusta!»
«Co... co... cosa sai tu? Che fai qui? Moscherino, povero orfano,
va a letto.»
«Anche tu dovresti andare a letto!», osservò zia Tatàna.
«Andate, andate via tutti e due: è tardi.»
Spinse dolcemente l'ubriaca, ma prima d'uscire ella chiese da
bere. Bustianeddu riempì d'acqua una scodella e gliela porse: ella la prese con buona
grazia, ma appena v'ebbe guardato dentro, scosse il capo e la rifiutò. Poi andò via
traballando. Zia Tatàna mandò via anche Bustianeddu e chiuse la porta.
«Tu sarai stanco, anima mia; adesso ti metterò a dormire»,
disse ad Anania, conducendolo in una grande camera attigua alla cucina e aiutandolo a
spogliarsi. «Non aver paura, sai; domani tua madre verrà, o andremo a cercarla noi. Sai
farti il segno della croce? Sai il Credo? Sì, bisogna recitare il Credo
tutte le notti. Poi io ti insegnerò tante altre preghiere, una delle quali per San
Pasquale che ci avvertirà dell'ora della nostra morte. E così sia. Ah, tieni anche la rezetta?
E come è bella! Sì, bravo, San Giovanni ti proteggerà: sì, egli era un bimbo ignudo
come te, eppure battezzò Gesù Signore Nostro. Dormi, anima mia: in nome del Padre, del
Figliuolo e dello Spirito Santo. Amen.»
Anania si trovò in un gran letto dai guanciali rossi; zia Tatàna
lo coprì bene ed uscì, lasciandolo al buio. Egli mise la manina sull'amuleto, chiuse gli
occhi e non pianse, ma non poté dormire.
Domani... Domani... Ma quanti anni erano trascorsi dopo la
partenza da Fonni? Che pensava Zuanne non vedendo ritornare l'amico? Pensieri confusi,
immagini strane gli passavano nella piccola mente; ma la figura della madre non lo
abbandonava mai. Dov'era andata? Aveva freddo? Domani la rivedrebbe... Domani... Se non lo
conducevano da lei egli fuggirebbe... Domani...
Sentì il mugnaio rientrare e litigare con la moglie: il cattivo
uomo gridava:
«Non lo voglio! Non lo voglio!».
Poi tutto fu silenzio. Ad un tratto qualcuno aprì l'uscio,
entrò, camminò in punta di piedi, s'avvicinò al letto e sollevò cautamente la coperta.
Un baffo ispido sfiorò lievemente la guancia di Anania, ed egli, che fingeva di dormire,
socchiuse appena appena un occhio e vide che chi l'aveva baciato era suo padre.
Pochi momenti dopo zia Tatàna entrò e si coricò nel gran letto,
a fianco di Anania, che la sentì lungamente pregare bisbigliando e sospirando.
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