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PARTE SECONDA
VI.
Prima di scendere a cena, egli s'affacciò al finestruolo della
sua cameretta e rimase colpito dal silenzio profondo che regnava nel cortile, nel
vicinato, nel paese. Gli parve d'essere diventato sordo. Ma la voce di zia Tatàna
risuonò nel cortile, sotto il sambuco.
«Nania, figlio mio, scendi.»
Egli scese in cucina e sedette davanti al piccolo tavolo
apparecchiato solo per lui, mentre i suoi «genitori», al solito, cenavano seduti per
terra, intorno ad un canestro colmo di focacce e di vivande.
La cucina era sempre la stessa, povera e scura, ma pulita, col
focolare nel centro, i muri adorni di spiedi e di taglieri, di grandi canestri, di vagli e
di setacci e d'altri arnesi per pulir la farina; in un angolo c'erano due sacchi di lana
colmi d'orzo; accanto alla porticina spalancata stava appesa la tasca di cuoio per
le sementi e le provviste da campagna del contadino.
Un porchetto grugniva lievemente e sbuffava e sospirava, legato al
sambuco del cortile.
Un gattino rossastro andò tranquillamente a mettersi accanto al
piccolo tavolo, e cominciò a sbadigliare, sollevando i grandi occhi gialli verso Anania.
Egli si guardava attorno quasi con stupore. Ah, nulla era mutato; eppure egli provava
l'impressione di trovarsi per la prima volta in quell'ambiente, con quel contadinone dagli
occhi ancora fosforescenti e i lunghi capelli oleosi, e con quella graziosa vecchia,
grassa e bianca come una colomba.
«Finalmente siamo soli», disse Anania grande, che
mangiava l'insalata prendendola e stringendola fra due pezzi di focaccia. «Ora non ti
lasceranno più in pace, vedrai! Atonzu di qua, Atonzu di là. Sì, oramai tu sei un uomo
importante, perché sei stato a Roma. Anche io quando tornai dal servizio militare...»
«Eh, che paragoni son questi!» protestò un po' scandolezzata
zia Tatàna.
«Ebbene, lasciami dire! Mi ricordo che provavo difficoltà a
parlare in dialetto. Mi pareva d'essere in un mondo nuovo!»
Lo studente guardò suo padre e sorrise.
«Anch'io!», disse.
«Oh, meno male! Io però, dopo, mi abituai di nuovo, mentre fra
tre giorni tu sarai stufo di restare in questo paese pettegolo... e... e...»
La vecchia lo guardò corrugando le sopracciglia, ed egli cambiò
discorso.
«Che c'è dunque? Raccontatemi: che cosa dicono di me?»,
domandò Anania.
«Ma niente, ma niente! Lascia gracchiare le cornacchie...»,
rispose la vecchia.
Egli si turbò; per un momento dubitò che si sapesse a Nuoro
qualche cosa di Maria Obinu. Depose la forchetta attraverso il piatto e dichiarò che non
avrebbe continuato a mangiare se non parlavano...
«Come sei impetuoso! Sempre tu», osservò la vecchia. «Diceva
re Salomone che l'uomo impetuoso è simile al vento...»
«Oh, c'è ancora re Salomone!», disse Anania con voce acerba.
La vecchia tacque, addolorata: il marito la guardò, poi guardò
Anania e volle castigarlo:
«Re Salomone diceva sempre la verità». Indi aggiunse: «Eh,
dicono a Nuoro che tu fai all'amore con Margherita Carboni».
Anania arrossì: riprese la forchetta, ricominciò a mangiare e
borbottò:
«Che stupidi!».
«Senti, no, non sono stupidi,» riprese il mugnaio guardando
entro il bicchiere a metà colmo di vino. «Se la cosa è vera, hanno ragione di
mormorare, perché tu devi dichiararti francamente al padrone e dirgli: "Benefattore
mio, io oramai sono un uomo; mi perdoni se finora le ho nascosto le mie speranze come le
ho nascoste ai miei stessi genitori".»
«Tacete! Voi non sapete nulla!», proruppe adirato ed infiammato
il giovine.
«Ah, santa Caterina mia!», sospirò zia Tatàna, «lascialo
dunque in pace quel povero ragazzo stanco. C'è sempre tempo a parlare di queste cose, e
tu sei un contadino e sei un uomo ignorante che non capisce niente.»
Il contadino bevette, scosse la mano per accennare «calma,
calma», poi parlò con voce tranquilla:
«Sì, io sono ignorante e mio figlio è istruito, va bene. Ma io
sono più vecchio di lui. I miei capelli, ecco qui (se ne tirò un ciuffo sugli occhi,
cercò e strappò un capello bianco), cominciano ad incanutire. L'esperienza della vita,
moglie mia, rende l'uomo più istruito d'un dottore. Ebbene, figlio mio, io ti dico una
sola cosa: interroga la tua coscienza e vedrai che essa ti risponderà che non si deve
ingannare il proprio benefattore».
Lo studente batté sul tavolo il bicchiere, così forte che il
gattino trasalì.
«Sì, figlio», proseguì il contadino, ricacciandosi indietro
sulla testa i capelli oleosi, «tu devi andare dal padrone, devi baciargli la mano e
dirgli: "Io sono figlio di contadini, ma per grazia vostra e del mio talento
diventerò dottore, ricco e signore. Io amo Margherita e Margherita mi ama: io la renderò
tanto felice, che essa dimenticherà di essersi abbassata a scegliere per isposo il figlio
del suo servo. La Signoria Vostra ci benedica, nel nome del Padre, del Figliuolo e dello
Spirito Santo"».
«E se invece di benedirlo lo scaccia via come un cane!»,
domandò la vecchia.
«Va là, femminuccia», esclamò il contadino, versandosi ancora
da bere, «il tuo re Salomone diceva che le donne non sanno quel che dicono! Se io invece
parlo ho già pesato le mie parole. Il padrone benedirà».
«Ma se non è vero niente!», proruppe Anania, pieno di gioia. Si
alzò, s'avvicinò alla porta e si mise a fischiare: non capiva più nulla, sentiva il
cuore battergli forte. «Il padrone benedirà!» Se il contadino parlava così doveva
avere le sue ragioni. Ma perché Margherita non aveva mai accennato alle buone
disposizioni di suo padre? E se le ignorava lei, come poteva conoscerle il servo?
«La vedrò fra poco», pensò Anania, e tutti i suoi dubbi, le
ansie, la stanchezza del viaggio, la gioia stessa delle nuove speranze, tutto dileguò
davanti al dolce pensiero: «La vedrò fra poco».
Al lieve tocco della sua mano il portone s'aprì
silenziosamente.
«Ben tornato», mormorò la serva che favoriva la corrispondenza
dei due innamorati. «Ella verrà subito.»
«Come stai?» egli chiese con voce commossa. «Ecco, prendi un
ricordo che ti ho portato da Roma.»
«Ma che cosa hai fatto!», ella disse, prendendo subito
l'involtino. «Ti disturbi sempre, tu! Aspetta.»
Egli attese, appoggiato al muro ancora tiepido del cortile, sotto
il cielo velato della notte silenziosa. Margherita apparve, ma più che vederla, egli la sentì:
sentì la guancia liscia e calda, il cuore balzante contro il suo, la vita agile, le
labbra molli, e gli sembrò di svenire.
Follemente, cominciò a baciarla sui capelli, sul volto, accecato
da una inestinguibile sete di baci.
«Basta e basta!», ella disse, riavendosi per la prima. «Come
stai, dunque? Sei guarito?»
«Sì, sì! Ah, Dio, finalmente! Senti come mi batte il cuore.
Ah», proseguì, respirando a stento, e stringendosi la mano di lei al petto, «non posso
neppure parlare... E neppure ti vedo! Ah, se tu portassi un lume!»
«Che dici, Nino! Ci vedremo poi domani; ora ci sentiamo»,
ella rispose, ridendo piano piano, mentre sotto la palma della mano che Anania si premeva
sul petto sentiva il cuore di lui palpitare convulso. «Come batte il tuo cuore! sembra
quello d'un uccello ferito. Ma sei guarito davvero, dimmi?»
«Guarito, guarito!... Margherita, dove sei? Ma siamo davvero
assieme?»
Egli cercava di distinguere i lineamenti di lei nell'oscurità
della notte velata. Grandi nuvole nere passavano incessantemente sul cielo grigiastro; di
tanto in tanto un lembo ovale di firmamento chiaro, circondato di cupe vaporosità,
appariva come un viso misterioso, con due stelle rossastre per occhi, e pareva spiasse
gl'innamorati. Anania sedette sulla panchina e attirò la fanciulla sulle sue ginocchia.
«Lasciami», ella disse, «peso troppo; sono troppo grassa...»
«Sei leggera come una piuma», egli affermò. «Ma è dunque vero
che ti ho con me? Ah, mi pare un sogno! Quante volte ho sognato questo momento, che mi
pareva non dovesse giungere più! Ed ora eccoci assieme, uniti, uniti, capisci, uniti! Mi
pare d'impazzire. Ma sei davvero tu, Margherita? ma è proprio vero che ti ho qui, sul mio
cuore? Parla, dimmi qualche cosa, altrimenti mi par di sognare.»
«Tocca a te raccontare. Io ti scrissi tutto, tutto; parla tu,
Nino; sai parlare così bene tu! Raccontami di Roma; parla tu, io non so parlare...»,
ella mormorò, turbata.
«No, invece! no, tu sai parlare benissimo. Tu hai una voce così
dolce! Io non ho mai sentito una donna parlare come parli tu...»
«Non dir bugie...»
«Ti giuro che non mentisco. Perché dovrei mentire? Tu sei la
più bella, tu sei la più gentile, la più dolce tra le fanciulle. Se tu sapessi come
pensavo a te quando le mie padroncine, a Roma, nei primi tempi, si buttavano addosso a me
ed a Battista Daga! Mi pareva d'essere accanto a creature appestate, e pensavo a te come a
una santa, soave, pura, fresca e bella.»
«Ma anche io, adesso...»
«Non bestemmiare, Margherita», egli proruppe. «Noi siamo sposi:
non è dunque vero che siamo sposi? Dimmi di sì.»
«Sì.»
«Dimmi che mi ami.»
«Sì.»
«Non sì soltanto. Dimmi così: Ti... amo!»
«Ti... a... mo... Se non ti amassi sarei forse qui?» ella chiese
poi, animandosi. «Ti amo, sicuro! Io non so esprimermi, ma ti amo, forse più di quanto
mi ami tu.»
«Non è possibile! Ma anche tu mi ami, lo so», egli riprese,
«tu che sei bella e ricca...».
«Ricca... chissà! E se non lo fossi?»
«Sarei più contento.»
Tacquero seri entrambi quasi dividendosi per seguire ciascuno il
proprio pensiero.
«Sai dunque», egli disse ad un tratto, timidamente, seguendo il
filo delle sue idee, «mi han riferito che la tua famiglia sa del nostro amore. È vero?»
«Vero», ella rispose, dopo breve esitazione.
«Ah, cosa mi dici? Tuo padre dunque non sarebbe contento?»
Margherita esitò di nuovo; poi sollevò il capo e rispose con
freddezza: «Non lo so», e dall'accento di lei Anania intuì qualche cosa di triste,
d'insolito; e la sua mente corse a lei, al fantasma che forse si intrometteva fra
lui e la famiglia di Margherita.
«Senti», disse, pensieroso, carezzandole distrattamente le mani:
«devi rispondermi con franchezza. Che cosa succede? Posso o no aspirare a te? Posso
sempre sperare? Tu sai bene quello che io sono: un povero, un beneficato dalla tua
famiglia, il figlio d'un tuo servo».
«Ma che cosa dici!», ella esclamò, impaziente più che
addolorata. «Tuo padre non è affatto un servo, e quando lo fosse è un uomo onorato e
basta!»
«Un uomo onorato!», ripeté fra sé Anania, colpito nell'anima.
«Oh, Dio, ma lei non è una donna onorata.» «Margherita», insisté sforzandosi
invano a restar calmo, «bisogna che tu mi apra tutta l'anima tua, e che mi guidi e mi
consigli. Dimmi tu che cosa devo fare. Devo aspettare? Devo agire? Il mio orgoglio e la
mia coscienza mi imporrebbero di presentarmi a tuo padre e dirgli tutto: altrimenti egli
può considerarmi come un traditore, un uomo senza onore e senza lealtà. Però io
seguirò i tuoi consigli, tutto fuorché perderti. Sarebbe la mia morte questa, la mia
morte morale. Io sono ambizioso, vedi, e lo dico altamente, perché, ove tu non venga a
mancarmi, la mia non sarà un'ambizione sterile. Tu sei lo scopo della mia vita! Se tu mi
venissi a mancare, io non avrei più forza né volontà di far bene... Se tu però mi
dicessi: "Io amo un altro", ebbene, io...».
«Basta! Taci ora!», comandò Margherita. «Sei tu che bestemmi,
adesso! Piove?»
Una goccia d'acqua era caduta sulle loro mani intrecciate.
Entrambi sollevarono il viso e guardarono le nuvole che ora passavano più lente, più
dense, mostri nebulosi e torpidi.
«Senti, dunque», disse Margherita, parlando un po' distratta e
frettolosa, come per paura che la pioggia interrompesse il convegno. «Noi non siamo più
ricchi come prima. Gli affari di mio padre vanno male. Egli, poi, ha prestato denari a
tutti quelli che glieli hanno chiesti e che... non glieli restituiranno mai. Egli è
troppo buono. La nostra lite col comune di Orlei, quell'eterna lite per le foreste
incendiate, va male per noi: se la perderemo, e purtroppo pare così, io non sarò più
ricca.»
«Perché non mi hai scritto mai questo?»
«Perché dovevo scrivertelo? Eppoi io stessa, fino a pochi giorni
fa, ignoravo certe cose. Oh, ma piove davvero! Vattene, adesso...»
Si alzarono e si rifugiarono sotto la tettoia. I lampi brillarono
fra le nuvole, e al loro chiarore violetto Anania poté finalmente veder Margherita,
pallida come la luna.
«Che hai? Che hai?», chiese stringendola a sé. «Non aver paura
dell'avvenire. Se non sarai più tanto ricca sarai però felice. Non temere.»
«Oh no! Tremo perché mia madre, che ha paura dei fulmini, può
alzarsi da letto. Vattene, adesso...», ella rispose, respingendolo dolcemente.
«Vattene...».
Egli dovette ubbidire, ma rimase un bel po' sotto il portone
aspettando che la pioggia cessasse. Impeti di gioia gli illuminavano l'anima, a
intervalli, violentemente, come la luce dei lampi illuminava la notte. Ricordò quel
giorno di pioggia, a Roma, quando il pensiero della morte gli aveva solcato l'anima come
il guizzo d'una folgore. Sì: il dolore e la gioia si rassomigliano: tutti e due bruciano.
Ma mentre si dirigeva a casa sua sotto gli ultimi spruzzi di
pioggia, egli pensò:
«Come sono vile! Mi rallegro della sventura del mio benefattore.
Che cosa lurida è il cuore umano!».
L'indomani mattina per tempo scrisse a Margherita esponendole
molti progetti, uno più eroico dell'altro. Voleva dare lezioni per proseguire gli studi
senza essere oltre di peso al suo benefattore; voleva presentarsi al signor Carboni per
fargli la domanda di matrimonio; voleva infine far capire alla famiglia di Margherita che
egli sarebbe stato il suo conforto ed il suo orgoglio.
Mentre finiva di scrivere la lettera, davanti alla finestra aperta
donde penetrava la fragranza delle campagne rinfrescate dalla pioggia notturna, sentì
alle sue spalle uno scoppio di riso represso. Nanna, lacera e tentennante, con gli occhi
pieni di lagrime e l'orribile bocca livida spalancata al riso, s'avanzava, con una tazza
in mano.
«Buon giorno, Nanna, come va? Sei viva ancora?»
«Buon giorno alla Vossignoria. Ecco che non mi è riuscito di
sorprenderla! Ho chiesto in grazia a zia Tatàna di portarle il caffè. Eccolo qui. Ho le
mani pulite, Vossignoria. Oh, che consolazione, che consolazione!»
«Dov'è l'Eccellenza con cui parli? Da' qui il caffè, e dammi
tue notizie.»
«Ah, noi viviamo nelle tane, come bestie feroci che siamo. Come
posso dare del tu alla Vossignoria, che è un sole risplendente?»
«Oh, non sono più un confetto?», egli disse, sorbendo il caffè
dall'antica chicchera filettata d'oro.
«Che tu sii benedetto!... Ah, mi scusi! Ah, ricorda la prima
volta che ritornò da Cagliari? Sì, Margheritina aspettava alla finestra. Come la luna
non può aspettare il sole?»
Anania si alzò e depose la chicchera sul davanzale della
finestra; poi respirò forte. Come si sentiva felice! Come il cielo era azzurro, come
l'aria odorava! Che grandiosità nel silenzio delle umili cose, nell'aria non ancora
sfiorata dal soffio e dal rombo della civiltà! Anche zia Nanna non era più la donna
orribile e nauseante di un tempo; sotto l'involucro immondo di quel corpo nero e puzzante,
palpitava un'anima poetica...
«Senti questi versi!», egli gridò agitando le braccia:
Ella era assisa sopra la verdura,
Allegra; e ghirlandetta avea contesta:
Di quanti fior creasse mai natura
Di tanti era dipinta la sua vesta.
E come in prima al giovin pose cura
Alquanto paurosa alzò la testa:
Poi con la bianca man ripreso il lembo
Levossi in piè con di fior pieno un grembo.
Nanna ascoltava, senza capire una parola, e apriva la bocca per
dire... per dire... lo disse infine:
«Li ho sentiti altra volta».
«Da chi?», gridò Anania.
«...Da Efes Cau!»
«Non dire bugie; raccontami piuttosto tutto ciò che è accaduto
a Nuoro durante quest'anno.»
Nanna cominciò, ritornando ogni tanto a Margherita. Ella era la
rosa delle rose il garofano, il confetto. E i suoi vestiti! Oh, Dio non se n'erano visti
mai di più meravigliosi: quando ella passava la gente la guardava come si guarda una
stella filante. Un signore aveva incaricato lei, Nanna, di rubare il laccio della scarpa
di Margherita; la serva della famiglia Carboni diceva che tutte le mattine la sua
padroncina trovava sulla finestra lettere d'amore legate con nastrini azzurri...
«Ma la rosa è una sola e non può unirsi che al garofano...
Ebbene, dammi qui la chicchera... ah!», concluse l'ubriacona, dandosi un pugno sulla
bocca. «È inutile, perdio! io ho visto la Vossignoria quando aveva la coda ed ora non
posso abituarmi a darle del lei...»
«Ma quando è che io avevo la coda?», gridò Anania minaccioso.
La donna scappò, tentennando, ridendo, turandosi la bocca; e dal
cortile disse, rivolta alla finestra di Anania:
«La coda della camicia...».
Egli continuò a minacciarla; ella continuò a barcollare ed a
ridere. Il porchetto, slegatosi, andò a fiutarle i piedi; una gallina saltò sul collo
del porchetto, piluccandogli le orecchie; un passero si posò sul sambuco, dondolandosi
elegantemente sull'estremità d'una fronda.
E lo studente si sentì così felice che si mise a cantare altri
versi del Poliziano:
Portate, venti, questi dolci versi
Dentro all'orecchio della Ninfa mia...
E gli sembrava di essere agile e leggero come il passero
sull'estremità della fronda. Più tardi andò nell'orto, dove poté consegnare alla serva
di Margherita la lettera già preparata.
L'orto ancora umido per la pioggia notturna esalava un forte odore
di terra bagnata e di vegetazione secca. I bruchi avevano ridotto i cavoli a mazzi di
strani merletti grigiastri; le altee, filogranate di bocciuoli e adorne di fiori violacei
senza stelo, tagliavano lo sfondo azzurro del cielo coi loro disegni bizzarri.
Sull'orizzonte perlato le montagne sorgevano vaporose, coi picchi più lontani immersi in
nuvole d'oro. In un angolo dell'orto Anania trovò Efes Cau ubriaco, invecchiato, ridotto
ad un mucchio di stracci, e lo toccò col piede: l'infelice sollevò il volto, che pareva
una maschera di cera affumicata, aprì un occhio vitreo e mormorò il suo verso favorito:
Quando Amelia sì pura e sì candida;
poi ricadde, senza aver riconosciuto lo studente. Più in là zio Pera, cieco del
tutto, si ostinava ad estirpare le male erbe, che riconosceva al tatto e all'odore.
«Come state?», gridò Anania.
«Sono morto, figlio mio», rispose il vecchio. «Non vedo più.
Non sento più.»
«Coraggio, guarirete...»
«Nell'altro mondo, nel mondo della verità, dove tutti guariremo,
dove tutti vedremo e sentiremo; ah, figlio mio, non importa, quando io vedevo con gli
occhi del corpo la mia anima era cieca; adesso invece io vedo, vedo con gli occhi
dell'anima. Ma raccontami: hai veduto il papa?»
Uscito dall'orto Anania girovagò per il vicinato: sì, quel
cantuccio di mondo era sempre lo stesso; ancora il pazzo, seduto sulle pietre addossate ai
muri cadenti, aspettava il passaggio di Gesù Cristo, e la mendicante guardava di sbieco
la porta di Rebecca, sul cui limitare la misera creatura tremava di febbre e fasciava le
sue piaghe; e maestro Pane fra le sue ragnatele segava le tavole e parlava fra sé ad alta
voce, e nella bettola la bella Agata civettava coi giovani e coi vecchi, ed Antonino e
Bustianeddu si ubriacavano e di tanto in tanto scomparivano per qualche mese e
ricomparivano con volti un po' sbiancati dal servizio
del re. E zia Tatàna preparava ancora i dolci per il suo diletto «ragazzino»,
sognando il giorno della sua laurea e già numerando col desiderio i presenti che
amici e parenti gli avrebbero inviato; ed Anania grande, nei giorni di riposo,
ricamava una cintura di cuoio, seduto in mezzo alla strada, e pensava ai tesori nascosti
nei nuraghes.
No, niente era cambiato; ma lo studente vedeva le cose e gli
uomini come ancora non li aveva veduti, e tutto gli sembrava bello, d'una bellezza triste
e selvaggia. Passava e guardava come uno straniero; e nel quadro di quei tuguri neri e
cadenti, in mezzo a quelle figure semplici primitive, gli sembrava di essere un gigante di
passaggio. Sì, gigante ed uccello: gigante per la sua superiorità, uccello per la sua
gioia.
Agli ultimi di agosto, dopo vari convegni, Margherita permise
che Anania rivelasse il loro amore al signor Carboni.
«Dunque posso sperare!», egli esclamò colpito, quasi avesse
fino a quel momento disperato. «È proprio vero? Sarà vero?»
«Ma siiì!», ella disse, vezzeggiando, accarezzandogli i capelli
con affetto quasi materno.
Egli la strinse a sé, chiuse gli occhi, nascose il viso
sull'omero di lei, concentrandosi per vedere tutta l'immensità della sua fortuna.
Era mai possibile? Margherita sarebbe diventata sua? Sua davvero? Sua nella realtà come
lo era sempre stata nel sogno? Ricordò il tempo in cui egli non osava confessare il suo
amore neppure a se stesso: ed ora?
«Quante cose succedono nel mondo!», cominciò a pensare. «Ma
che cosa è il mondo? Che cosa è la realtà? Dove finisce il sogno e dove comincia la
realtà? E non può essere tutto sogno? Chi è Margherita? Chi sono io? Siamo vivi? E che
cosa è la vita? Che cosa è questa gioia misteriosa che mi solleva tutto, come la luna
solleva le onde? E il mare che cosa è? Sente il mare? È vivo? E la luna che cosa
è? Ed è vero tutto questo?»
Sollevò la testa e sorrise delle sue domande. La luna illuminava
il cortile, e nella notte diafana il canto tremulo dei grilli faceva pensare ad un popolo
di folletti minuscoli, ciascuno dei quali suonasse un violino scordato, accompagnando con
quel motivo monotono il mormorio delle foglie umide di rugiada.
Tutto era sogno e tutto era realtà. Anania credeva di vedere i
folletti suonatori e nello stesso tempo scorgeva distintamente la camicetta rosea, la
catenella e gli anellini di Margherita. Le strinse il polso, premé un dito sulla perla di
uno dei suoi anelli, le guardò le unghie, distinguendone le macchiette bianche: sì,
tutto era vero, visibile, tangibile. La realtà ed il sogno non avevano confine: tutto si
poteva vedere, toccare, raggiungere, dal sogno più folle all'oggetto meno visibile...
In quel momento pareva ad Anania che, come toccava l'anellino di
Margherita, avrebbe potuto, stendendo il braccio, sfiorare la luna o stringere nel pugno
il canto dei grilli...
Ma poche parole pronunziate da Margherita gli segnarono nuovamente
i confini tra il sogno e la realtà.
«Cosa dirai a mio padre?», ella chiese, sempre un po'
canzonandolo. «Dimmi dunque che cosa gli dirai. "Signor padrino... io... e... e sua
figlia... sua figlia Margherita... fa... facciamo una... una cosa..."»
Egli arrossì: capì che non avrebbe mai avuto il coraggio di
presentarsi al padrino per rivelargli il suo amore.
«Io non potrò mai...», confessò subito. «Gli scriverò.»
«Oh, questo poi no!», disse Margherita, facendosi seria.
«Bisogna assolutamente parlargli: egli si piegherà di più. Se non puoi tu, mandagli
qualcuno.»
«Ma chi?»
Margherita disse timidamente:
«Tua madre».
Egli capì che ella alludeva a zia Tatàna, ma il suo pensiero
corse all'altra e gli parve che anche Margherita ci pensasse. L'ombra lo riavvolse:
ah, sì, la realtà ed il sogno erano ben divisi da terribili confini: un vuoto, eguale a
quello che divide la terra dal sole, li separava.
«Tuttavia...», egli pensò, «se potessi in questo momento
parlare! Questo è l'attimo: se me lo lascio sfuggire forse non lo ritroverò mai più. Il
vuoto si può varcare...»
Aprì le labbra. Sentì il cuore battergli forte, ma non poté
parlare: l'attimo passò.
Qualche sera dopo zia Tatàna, molto sbalordita, ma altrettanto
orgogliosa, e fiduciosa nell'aiuto del Signore, dopo aver lungamente pregato e fatta la
salita trascinandosi ginocchioni dalla porta all'altare della chiesa del Rosario, fece
la sua ambasciata.
Anania rimase a casa, aspettando con ansia il ritorno della
vecchia. Per un bel po' stette sdraiato sul letticciuolo, leggendo un libro di cui non
ricordava assolutamente il titolo.
«Ma io sono tranquillo!» pensava. «Che posso temere? La cosa è
più che sicura...»
Intanto leggeva, senza capire una sillaba, e il suo pensiero
seguiva la vecchia.
«Zia Tatàna cammina lentamente, tutta compresa dalla solennità
della sua missione. Ha anche un po' di paura, la buona vecchia colomba candida e soave;
ma, pazienza! Con l'aiuto del Signore e di Santa Caterina e di Maria Santissima del
Rosario qualche cosa si farà... Per l'occasione ella ha indossato le sue vesti più
belle; la tunica orlata da tre nastrini, - verde-bianco-verde - il corsetto di
broccato verdolino, la cintura d'argento, il grembiule ricamato, la benda tinta con lo
zafferano. E non ha dimenticato gli anelli, no; i grandi anelli preistorici, ornati di
cammei, di pietre gialle e verdi, di cornìole incise. Così, grave e adorna, simile ad
una vecchia madonna, ella si avanza lentamente, salutando con solenne compostezza le
persone che incontra. Cade la sera; l'ora sacra a queste gravi missioni d'amore. Al cader
della sera la paraninfa è sicura di trovare a casa il capo della famiglia al quale reca
il messaggio arcano.»
«Zia Tatàna va... va sempre più grave e lenta... Pare che abbia
paura di arrivare; e giunta al fatale limite, davanti al portone chiuso, silenzioso e
scuro come la porta del destino, esita un momento, si accomoda gli anelli, il nastro del
grembiule, la cintura; cinge il mento col lembo della benda, e infine si decide e batte al
portone...»
Parve ad Anania che quel colpo si ripercotesse sul suo petto.
Balzò in piedi, sollevò la candela e si guardò nello specchio.
«L'ho detto io! Sono pallido. Guarda che stupido! Ebbene, non
voglio pensarci più...»
S'affacciò alla finestra. Nel cortile chiuso, illuminato
dall'ultimo barlume del giorno, il sambuco immobile disegnava una macchia scura. Silenzio
perfetto. Le galline dormivano già, ed anche il porchetto dormiva. Le stelle scaturivano,
scintille d'oro, fra la cenere azzurrognola del caldo crepuscolo. Al di là del cortile,
nella straducola, passava un piccolo mandriano a cavallo, cantando in dialetto:
Inoche mi fachet die
Cantende a parma dorata...
Anania pensò alla sua infanzia, alla vedova, a Zuanne. Che
faceva il fraticello sul suo alto convento?
«E dire che voleva diventare un bandito! Sarei curioso di
vederlo! Lo vedrò. Entro questo mese mi recherò certamente a Fonni.»
Ah! D'un colpo il suo pensiero tornò là, dove si decideva il suo
destino. «La vecchia colomba è nello studio semplice e ordinato del signor Carboni.
Ecco, quella è la scrivania dove una sera lo studente ha frugato e... Oh, Dio, è mai
possibile che egli abbia commesso una così vile azione? Sì, quando si è ragazzi non sì
è coscienti; tutto è facile, tutto è possibile. Come siamo pazzi, da fanciulli!
Potremmo anche commettere un delitto con la massima incoscienza! Basta; zia Tatàna è
là. Ed anche il signor Carboni è là, grasso, tranquillo, con la catena d'oro
scintillante attraverso il petto.»
«Ma che cosa dunque dice quella vecchietta?», pensò Anania,
sorridendo nervosamente. «Sarei curioso di vedere come se la cava. S'io potessi esser
là, non veduto! Se avessi l'anello che rende invisibili; ecco, lo infilerei al dito e...
via... subito là... Ma se il portone fosse chiuso, come farei? Ebbene, picchierei,
diamine! Mariedda aprirebbe, stizzita contro i ragazzi che picchiano al portone e
scappano. Io... Ma come sono pazzo a pensar queste cose puerili! Uff! non voglio pensarci
più!...»
Si tolse dalla finestra, prese la candela, scese in cucina, andò
a sedersi davanti al focolare acceso. Ma d'un tratto ricordò che era d'estate e si mise a
ridere: poi guardò a lungo il gattino rosso che stava davanti al forno, immobile e
pronto, coi baffi irti e la coda tesa, aspettando il passaggio di un topo.
«No», disse Anania, pensando allo strazio del topolino, «per
stasera non te lo lascio prendere: neppure un topolino, deve stasera soffrire in questa
casa. Usciu, usssciuu!», gridò
balzando in piedi e correndo verso il gattino che vibrò tutto e saltò sopra il forno.
Sempre agitato da una inquietudine nervosa, Anania si mise a
camminare su e giù per la cucina; di tanto in tanto palpava i sacchi ricolmi d'orzo e
mormorava:
«Mio padre non è poi tanto povero; egli è un mezzadro del
signor Carboni, non il suo servo. No, egli non è povero; ma non potrebbe certo restituire
quello... che spendo io, se non avvenisse ciò che... deve avvenire. Ma avverrà poi? Che
cosa si combina in questo momento?
Ecco, zia Tatàna ha parlato... Che ha detto? Ah, no, no, no, non
bisogna neppure pensarci... Bisogna piuttosto pensare alla risposta che darà, che dà, il
benefattore... Che dirà egli, l'uomo più leale del mondo, sapendo che il suo protetto ha
osato tradire così la sua buona fede? Ecco, egli cammina pensieroso attraverso la stanza:
zia Tatàna lo guarda, pallida, oppressa...».
«Dio, Dio, che accade mai?», gemé Anania, stringendosi il capo
fra le mani. Gli pareva di soffocare; uscì nel cortile, si sporse sul muricciuolo di
cinta, attese, ascoltò... Niente, niente.
Solo, dopo un quarto d'ora circa, due voci risuonarono dietro il
muricciuolo; poi una terza, una quarta: erano i vicini che si riunivano così ogni notte
davanti alla bottega di maestro Pane, per godersi il fresco e chiacchierare.
«Nostra Signora mia», diceva la voce stridula di Rebecca, «ho
visto cinque stelle cadere sul cielo. Ah, ciò non è invano... Deve succedere qualche
disastro...»
«Che tu stii per mettere al mondo l'anticristo?», chiese la voce
ironica di un contadino. «Dicono che deve nascere da un animale.»
«L'anticristo lo metterà al mondo tua moglie, animale
schifoso!», rispose adirata la ragazza.
«Prenditi questa, garofano!», disse la bella Agata che mangiava
rideva e parlava nello stesso tempo.
Il contadino cominciò a dire parole insolenti; il vecchio
falegname s'irritò e gridò:
«Se non la finisci ti butto un sasso, faina pelata».
Ma il contadino proseguì nella sua bella impresa: allora le donne
si allontanarono e andarono a sedersi sotto il muricciuolo del cortile, e zia Sorichedda -
una vecchietta che quaranta anni prima era stata serva in casa dell'Intendente, -
cominciò a raccontare per la millesima volta la storia della sua padrona.
«Era una marchesa. Suo padre era amico intimo del re di Spagna, e
le aveva dato in dote mille scudi in oro. Quanto fanno mille scudi?»
«E cosa sono mille scudi?», disse Agata con disprezzo.
«Margherita Carboni ne ha quattro mila...»
«No», osservò Rebecca, «altro che quattro mila! Quaranta
mila».
«Voi non sapete quel che dite!», gridò zia Sorichedda. «Mille
scudi in oro non li possiede neppure don Franceschino.»
«E andate! Siete rimbambita!», gridò Agata, accalorandosi.
«Che cosa contano mille scudi? Se li ha Franziscu Carchide in suole di scarpe!»
La questione diventò seria; le donne cominciarono a ingiuriarsi:
«Lo sai tu perché vanti il tuo Franziscu Carchide, questa
immondezza rifatta!...».
«Immondezza siete voi, vecchia peccatrice.»
«Ah!»
Foglia di gelso,
Chi la fa la pensa...
Anania ascoltava, e ad un tratto, nonostante l'inquietudine che
lo agitava, scoppiò a ridere.
«Oh», gridò Agata, affacciandosi al muricciuolo, «buona notte
alla Vossignoria. Che cosa fai lì al buio, pipistrello? Fa vedere il tuo bel viso».
«Prego!» egli rispose, avvicinandosi e pizzicandola al braccio,
mentre Rebecca, che all'udire la risata del giovane s'era accoccolata per terra, quasi
volendo nascondersi, pizzicava Agata alla gamba.
«Al diavolo chi vi ha formati!», imprecò la bella ragazza.
«Questo è un po' troppo! Lasciatemi o... svelo!»
Ma i due la pizzicarono più forte.
«Ahi! ahi! Al diavolo! Rebecca, è inutile che tu faccia la
gelosa... ahi! zia Tatàna stasera... è andata a chiedere... parlo o no? Ah!...»
Anania si ritrasse, chiedendosi come mai la indiavolata Agata
sapeva...
«Cuoricino mio, un'altra volta rispetta zia Agata!», ella disse
sogghignando, mentre Rebecca, che aveva capito, taceva, impietrita, e zia Sorichedda
domandava:
«Fammi il piacere, Nania Atonzu, dimmi, chi a Nuoro può avere
mille scudi in oro?».
Anche il contadino s'avvicinò e chiese:
«Dimmi, Nania, è vero che il papa ha settantasette donne ai suoi
comandi?...».
Anania non rispose, forse non intese neppure: vedeva una figura
avanzarsi dal fondo della straducola e si sentiva venir meno. Era lei, la vecchia colomba
messaggera, era lei che tornava portando fra le pure labbra, come un fiore di vita o di
morte, la parola fatale.
Egli si ritirò e chiuse la porticina che dava sul cortile, mentre
zia Tatàna rientrava dall'altra parte e chiudeva la porta di strada. Ella sospirava ed
era ancora un po' pallida e oppressa; s'avvicinò al focolare, e i suoi primitivi
gioielli, i suoi ricami, la cintura, gli anelli, scintillarono al riflesso del fuoco.
Anania le corse incontro e la guardò ansioso, e siccome ella
taceva le domandò con impazienza:
«Che cosa vi hanno detto?».
«Pazienza, figlio del Signore! Ora ti dirò...»
«No, Dite subito. Mi vogliono?»
«Sì! Ti vogliono, sì, ti vogliono!», annunziò la vecchia,
aprendo le braccia.
Egli sedette, sbalordito, e si prese la testa fra le mani: zia
Tatàna lo guardò e scosse la testa, mentre con le mani un po' tremule si slacciava la
cintura.
«Mi vogliono! Mi vogliono! È mai possibile?», ripeteva fra sé
Anania.
Davanti al forno il gattino aspetta ancora il passaggio del
topo, e deve già sentire qualche rumore perché la sua coda freme: infatti, dopo un
momento, Anania sente uno stridio, un piccolo grido di morte. Ma adesso la sua felicità
è così completa che egli non ricorda più che nel mondo esiste il dolore.
La relazione particolareggiata di zia Tatàna gettò un po'
d'acqua fredda su quel grande incendio di gioia.
La famiglia di Margherita non si opponeva all'amore dei due
giovani, ma, naturalmente, non dava ancora un consentimento pieno, irrevocabile. Il
«padrino» aveva sorriso, aveva battuto le mani e scosso la testa come per dire: «me
l'hanno fatta quei due!». Aveva anche detto: «Fanno presto a metter le ali questi
ragazzi!», ma poi era diventato serio e pensieroso.
«Ma, infine, che avete concluso?», gridò Anania, facendosi
anch'egli serio e pensieroso.
«Che bisogna aspettare, Santa Caterina bella! Non hai ancora
capito? Ma la padrona disse: "Bisognerebbe interrogare anche Margherita".
"Eh, credo proprio che non occorra", rispose il padrino, battendo le mani. Io
sorrisi.»
Anche Anania sorrise.
«Abbiamo dunque concluso... Va via, gatto!», gridò zia Tatàna,
tirando il lembo della tunica, sul quale il gattino s'era comodamente adagiato leccandosi
i baffi con orribile soddisfazione. «Abbiamo concluso che bisogna aspettare. Il padrone
mi disse: "Che il `fanciullo' pensi a studiare ed a farsi onore. Quando egli avrà un
posto onorevole noi gli daremo la nostra figliuola: intanto si amino pure, e che Dio li
benedica". Ecco, tu ora cenerai, spero!»
«Ma, infine, posso presentarmi in casa loro come fidanzato?»
«Per adesso no: per quest'anno no! Tu corri troppo, galanu meu!
La gente direbbe che il signor Carboni è rimbambito, se permettesse una tal cosa: bisogna
che tu prenda la laurea, prima...»
«Ah», gridò Anania, adirandosi, «è dunque meglio...» Stava
per dire: «è dunque meglio che ci vediamo di notte, di nascosto, per non urtare la falsa
suscettibilità della gente?»; ma subito pensò che vedersi di notte, di nascosto da
soli, era forse meglio che vedersi di giorno e alla presenza dei genitori, e si calmò
completamente. Peggio per loro, dunque!
Per consolarsi ricominciò le visite la notte stessa: la fantesca,
appena socchiuse il portone gli augurò la «buona fortuna» come se le nozze fossero già
celebrate, ed egli le diede la mancia e attese trepidando la sposa. Essa venne, cauta e
silenziosa, profumata d'ireos, con un abito chiaro biancheggiante nella notte diafana. Si
abbracciarono a lungo, silenziosi, vibrando assieme, ebbri di gioia: il mondo era loro.
Per la prima volta Margherita, ormai sicura di potersi abbandonare
senza paure né rimorsi all'amore del bel giovane che impazziva per lei, si mostrò
appassionata e ardente, quale Anania non osava sognarla: ed egli uscì dal convegno
barcollando, cieco, fuori di sé.
La notte appresso, il convegno fu ancora più lungo, più
delirante. La terza notte la serva, che vigilava nella cucina, forse stanca di vegliare,
fece il segno convenuto in caso di sorpresa e gl'innamorati si lasciarono alquanto
spaventati.
L'indomani Margherita scrisse: «Ho paura che ieri notte il babbo
si sia accorto di qualche cosa. Badiamo di non comprometterci, ora appunto che siamo tanto
felici: è bene, quindi, che per qualche giorno non ci vediamo. Abbi pazienza, e sii anzi
coraggioso come lo sono io, che faccio un enorme sacrifizio rinunziando, per qualche
tempo, alla immensa felicità di vederti: mi pare di morire, perché ti amo ardentemente,
perché mi sembra di non poter più vivere senza i tuoi baci, ecc., ecc.».
Egli rispose: «Adorata mia, tu hai ragione: tu sei una santa, per
bontà e per saviezza, mentre io non sono che un pazzo, pazzo d'amore per te. Non so, non
vedo più quel che faccio. Ieri notte potevo compromettere tutto il nostro avvenire e non
me ne accorgevo neppure. Perdonami: quando sono vicino a te perdo la ragione. Ho la
febbre; mi consumo tutto, mi pare che entro di me arda un fuoco distruttore. Rinunzio con
spasimo alla suprema felicità di vederti per qualche sera; e siccome ho bisogno di moto,
di svago, di un po' di lontananza, per attutire alquanto questo fuoco che mi divora e mi
rende incosciente e malato, penso di fare un'escursione sul Gennargentu. Tu vuoi, non è
vero? Rispondimi subito, cara, adorata, mio spasimo e mia gioia. Ti porterò sul cuore:
dalla più alta cima sarda ti manderò un saluto, griderò ai cieli il tuo nome e il mio
amore, come vorrei gridarlo dalla più eccelsa cima del mondo affinché tutta la terra ne
restasse attonita. Ti abbraccio, ti porto con me, unita a me, per tutta l'eternità».
Margherita diede graziosamente il suo permesso.
Altra lettera di Anania: «Parto domani mattina con la corriera
per Mamojada-Fonni. Passerò sotto la tua finestra alle nove. Vorrei vederti stanotte...
ma voglio essere prudente. Vieni, vieni con me, Margherita, adorata mia, non lasciarmi un
solo istante, vieni qui, sul mio cuore, ardi del mio fuoco d'amore, fammi morire di
passione».
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