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Madame Bovary, di Gustave Flaubert

I

Yonville-l'Abbaye (così chiamata per via di un'antica abbazia di Cappuccini, le cui rovine non esistevano neanche più) è un borgo situato a otto leghe da Rouen, fra la strada di Abbeville e quella di Beauvais, in fondo a una valle bagnata dal Rieule, un fiumiciattolo che si getta nell'Andelle, dopo aver fatto girare le ruote di tre mulini poco prima del suo sbocco e nelle cui acque vive qualche trota che la domenica i ragazzi si divertono a pescare con le canne.

Si lascia la strada maestra alla Boissière e si procede in pianura fino alla sommità della salita di Leux, dalla quale si domina tutta la vallata. Il fiume che l'attraversa dà origine a due regioni dalla diversa fisionomia: a sinistra prati e pascoli, a destra terreni coltivati. I prati si stendono ai piedi di un semicerchio di basse colline per poi congiungersi ai pascoli della regione di Bray mentre, verso est, la pianura sale dolcemente e, allargandosi, dispiega a perdita d'occhio i biondi campi di grano. L'acqua che scorre in mezzo all'erba divide con una riga bianca il colore dei prati da quello dei solchi, e fa rassomigliare la campagna a un grande mantello spiegato con il collo di velluto orlato da un gallone d'argento. Quando si arriva, all'estremo orizzonte si profilano le querce della foresta d'Argueil contro i dirupi del colle Saint-Jean, segnato dall'alto in basso da strisce rosse irregolari, create dall'acqua piovana; i toni color mattone che risaltano in linee sottili sul grigiore della montagna sono dovuti al gran numero di sorgenti ferruginose che scorrono nella regione circostante.

Ci troviamo sui confini della Normandia, della Piccardia e dell'Ile-de-France, in una regione ibrida, ove la parlata è senza accento come è senza caratteristiche il paesaggio. Qui si producono i peggiori formaggi di tutta la zona di Neufchâtel, qui le colture sono dispendiose in quanto si rende necessaria una gran quantità di concime per rendere fertili queste terre friabili, piene di sabbia e di pietre.

Fino al 1835 non esisteva alcuna strada carrozzabile per arrivare a Yonville ma verso quest'epoca venne costruita una strada vicinale che congiunge la via maestra di Abbeville con quella di Amiens e viene percorsa, talvolta, dai carrettieri, i quali da Rouen vanno nelle Fiandre. Ciò nonostante, Yonville-l'Abbaye, rimane stazionaria a dispetto dei nuovi sbocchi. Invece di migliorare le colture, la gente del luogo, si ostina a produrre foraggi, per quanto, siano disprezzati e la pigra borgata ha continuato, a espandersi con un processo naturale, evitando la pianura verso il fiume. La si vede da lontano, adagiata lungo la riva, come un vaccaro che faccia la siesta vicino all'acqua.

Ai piedi del colle, dopo il ponte, comincia un argine fiancheggiato da giovani pioppi che conduce in linea retta fino alle prime case del paese. Queste ultime sono circondate da siepi, in mezzo a cortili in cui sorgono varie costruzioni, frantoi, rimesse o distillerie, disseminate sotto alberi fronzuti, ai cui rami sono appesi attrezzi vari, quali scale, pertiche o falci. I tetti di paglia, simili a berretti di pelo calcati sugli occhi, scendono, fino a coprire circa un terzo delle basse finestre, i cui grossi vetri convessi sono guarniti da un nodo al centro come quello dei fondi di bottiglia. Contro i muri di gesso, attraversati in diagonale da travicelli neri, cercano sostegno, talvolta, stenti alberelli di pero e le porte al pianterreno sono munite di un cancelletto girevole utile per tener fuori i pulcini che vengono a beccare le briciole di pane ben imbevute di sidro. A mano a mano che si procede, i cortili si fanno più stretti, le case più vicine le une alle altre, le siepi scompaiono; un fascio di felci dondola sotto una finestra, appeso in cima a un manico di scopa; qui c'è la fucina di un maniscalco, più avanti la bottega di un carradore e dinanzi a essa due o tre carretti nuovi ingombrano la strada. Poi attraverso un cancello, appare una casa bianca, al di là di un praticello rotondo in mezzo al quale un Amorino tiene un dito sulle labbra; in fondo a una scalinata, si trovano due vasi di ghisa e sulla porta brilla un'insegna: è la casa del notaio, la più bella del paese.

La chiesa si trova all'altro lato della strada, venti passi più avanti, proprio all'ingresso della piazza. Il piccolo cimitero che la circonda, chiuso da un muretto basso, è così zeppo di tombe che le vecchie lapidi, ormai a livello del terreno, formano un lastricato continuo interrotto soltanto dai riquadri verdi disegnati dall'erba cresciuta spontaneamente. La chiesa è stata ricostruita negli ultimi anni del regno di Carlo X. La volta in legno comincia a imputridire in alto e presenta qua e là buchi neri nel colore azzurro che la riveste. Sopra il portale dove dovrebbe trovarsi l'organo, c'è una galleria per gli uomini alla quale si accede per mezzo di una scala a chiocciola che risuona sotto gli zoccoli.

La luce entra da grandi vetrate a lastra unica e illumina, con i suoi raggi obliqui, i banchi disposti perpendicolarmente alle pareti; qualcuno di essi è reso più confortevole da una stuoia inchiodatavi sopra, che reca scritte a grandi lettere queste parole: Banco del signor Tal dei Tali. Più avanti, nel punto in cui la navata si restringe, sono posti da un lato un confessionale e di fronte, dall'altro, una statuetta della Vergine, vestita di raso con un velo di tulle disseminato di stelle d'argento, sul capo, e dalle gote così colorite da somigliare a quelle di un idolo delle isole Sandwich. Sopra l'altar maggiore, in fondo alla navata una copia della Sacra Famiglia, dono del Ministro degli Interni, fra quattro candelieri, chiude la prospettiva. Gli stalli del coro, in legno d'abete, sono rimasti grezzi, non verniciati.

Il mercato, e cioè una tettoia di tegole sostenuta da una ventina di pali, occupa da solo circa la metà della piazza principale di Yonville. Il municipio, 'costruito su disegno di un architetto di Parigi', è una specie di tempio greco, situato su un angolo, di fianco alla casa del farmacista. Ostenta al pianterreno tre colonne ioniche e al primo piano una galleria a tutto sesto, mentre il timpano che la sovrasta è occupato da un gallo francese il quale appoggia una zampa sulla Costituzione e con l'altra regge la bilancia della giustizia.

Ma ciò che attira di più lo sguardo è la farmacia del signor Homais, di fronte all'albergo del Leon d'Oro. La sera soprattutto, quando la lampada è accesa e i boccali rossi e verdi che adornano la vetrina allungano lontano sul terreno i loro riflessi colorati, si intravede, come in mezzo a fuochi d'artificio, la sagoma del farmacista appoggiato al banco. La sua casa è coperta da cima a fondo da scritte in corsivo, in tondo, in stampatello: Acqua di Vichy, di Seltz e di Barèges, sciroppi depurativi, rimedio Raspail, fecola araba, pastiglie Darcet, pasta Regnault, bende, sali da bagno, cioccolatini purgativi ecc. E l'insegna, che occupa l'intera larghezza della bottega, reca la scritta in lettere d'oro Farmacia Homais. Poi, in fondo alla bottega, dietro le grandi bilance fissate al banco, la parola laboratorio si sciorina sopra una porta a vetri che, a metà altezza, ripete ancora una volta Homais in lettere d'oro su fondo nero.

Non rimane altro da vedere a Yonville. La via (l'unica), lunga non più di un tiro di schioppo e fiancheggiata da qualche bottega, termina bruscamente alla curva della strada maestra. Lasciandola sulla destra e proseguendo ai piedi del colle Saint Jean, ben presto si giunge al cimitero.

Al tempo dell'epidemia di colera, per ingrandirlo, fu abbattuto un tratto di muro e furono acquistati tre acri dei terreni confinanti; ma la parte nuova è quasi del tutto inutilizzata e le tombe continuano come sempre ad ammucchiarsi vicino all'ingresso. Il guardiano, che nello stesso tempo fa il becchino e il sagrestano (ricavando così un duplice utile dai defunti della parrocchia), ha approfittato del terreno libero per coltivarci le patate. Di anno in anno, però, il suo campicello si restringe e, quando sopravviene un'epidemia, egli non sa più se rallegrarsi per i decessi o affliggersi per le sepolture.

"Si nutre di cadaveri, Lestiboudois!" gli disse un giorno il curato.

Queste severe parole lo fecero riflettere e lo trattennero per qualche tempo, ma ancora oggi il guardiano continua a coltivare i tuberi e sostiene perfino, con impudenza, che nascono spontaneamente.

Dopo gli avvenimenti che narreremo, in realtà nulla è cambiato a Yonville. La bandiera tricolore di latta gira sempre in cima al campanile della chiesa; le banderuole di tela stampata della bottega del merciaio si agitano ancora nel vento, i feti del farmacista, simili a fagotti di esca bianca per il fuoco, imputridiscono sempre più nel loro alcool melmoso, e sul portone dell'albergo il vecchio leone d'oro, stinto dalle piogge, continua a mostrare ai passanti la criniera da can barbone.

La sera dell'arrivo dei signori Bovary a Yonville, la vedova Lefrançois, la padrona di questo albergo, era tanto indaffarata da sudare a goccioloni, mentre rimescolava le casseruole. L'indomani era giorno di mercato, per il borgo. Bisognava tagliare in anticipo le carni, preparare i polli, fare la minestra e il caffè. In più doveva pensare ai pasti dei pensionanti, del medico, di sua moglie, e della loro domestica. La sala del biliardo sonava di risate, nella saletta tre mugnai chiamavano per far portare dell'acquavite; il fuoco fiammeggiava, le braci scoppiettavano, e sulla lunga tavola della cucina, fra i quarti di montone crudo, si elevavano pile di piatti che tremolavano alle scosse del tagliere sul quale venivano tritati gli spinaci. Nel pollaio si sentivano gridare i polli che la serva inseguiva per tirar loro il collo.

Un uomo in pantofole di pelle verde, lievemente butterato dal vaiolo, e con in capo una berretta di velluto dalla nappina d'oro, si scaldava la schiena contro il caminetto. Il suo viso esprimeva la più assoluta soddisfazione ed egli aveva l'aria di vivere placido e tranquillo come il cardellino nella gabbia appesa sopra la sua testa: era il farmacista.

"Artémise!" gridava la padrona dell'albergo "spezza un po' di fascine, riempi le bottiglie, servi l'acquavite, sbrigati! Sapessi almeno quale dessert offrire agli ospiti che sta aspettando! Bontà divina! I facchini del trasloco ricominciano la sarabanda nel biliardo! Hanno lasciato il carro sotto il portone! Se arriva la Rondine è capace di sfondarlo! Chiama Polyte perché lo porti nella rimessa!... Da questa mattina avranno fatto una quindicina di partite, signor Homais, e bevuto otto bottiglie di sidro!... Finiranno per strapparmi il feltro..." continuava, guardandoli di lontano, con in mano la schiumarola.

"Non sarebbe poi un gran male," rispose il signor Homais "ne comprerebbe un altro..."

"Un altro biliardo!" esclamò la vedova.

"Dal momento che quello non regge più, signora Lefrançois, le ripeto, lei sbaglia, sbaglia di grosso! E poi gli appassionati adesso vogliono buche strette e stecche pesanti. Non si gioca più alle boccette; è tutto cambiato! Bisogna essere all'altezza dei tempi! Guardi Tellier, piuttosto..."

L'ostessa arrossì di dispetto. Il farmacista soggiunse:

"Lei ha un bel dire, il suo biliardo è più bello di questo; e se a qualcuno venisse l'idea di organizzare una gara patriottica a favore della Polonia o degli alluvionati di Lione..."

"Non sono certo i pitocchi come lui a farci paura!" lo interruppe l'ostessa alzando le larghe spalle "Andiamo! Andiamo! Signor Homais, finché ci sarà il Leon d'Oro la gente ci verrà. A noi non mancano i mezzi! E invece, una di queste mattine potrebbe capitarci di vedere il Caffè Francese chiuso e con un bell'affisso sulle imposte!... Cambiare il mio biliardo!" continuò fra sé e sé "Mi fa così comodo per piegare il bucato, e al tempo della caccia ci ho potuto mettere a dormire fino a sei persone!... Ma quel posapiano di Hivert, che non arriva!"

"L'aspettava per la cena dei suoi ospiti?" domandò il farmacista.

"Aspettarlo? Si figuri il signor Binet! Alle sei in punto lo vedrà entrare, un pignolo uguale a lui non esiste sulla faccia della terra. Bisogna che abbia sempre il suo solito posto nella saletta! Si farebbe ammazzare piuttosto che mangiare altrove! E quanto è schifiltoso! E com'è difficile per il sidro! Non è certo come il signor Léon; quello arriva a qualunque ora, alle sette, le sette e mezzo, e non si accorge nemmeno di quel che mangia. Che bravo giovane! Mai una parola più forte di un'altra!"

"C'è una bella differenza, creda pure, fra chi ha ricevuto una educazione e un ex carabiniere divenuto esattore delle tasse."

Sonarono le sei mentre Binet entrava.

Indossava una finanziera blu che gli cadeva diritta intorno al corpo magro; il berretto di cuoio con i copriorecchi annodati in cima alla testa da un cordoncino lasciava vedere, sotto la visiera rialzata, una fronte calva sulla quale l'elmo aveva impresso il suo segno. Portava un panciotto di panno nero, un colletto rigido, un paio di pantaloni grigi e, in qualsiasi stagione, scarpe ben lucidate, ma deformate da due rigonfiamenti simmetrici dovuti agli alluci sporgenti. Non un pelo rompeva la perfetta armonia della barba bionda, a collare, che gli contornava la mascella, incorniciandogli il viso lungo e scialbo dagli occhi piccoli, e dal naso aquilino. Abile in tutti i giochi di carte, era anche un bravo cacciatore e aveva una bella calligrafia. Possedeva un tornio con il quale si divertiva a fabbricare portatovaglioli: ne aveva la casa piena e li conservava con la gelosia di un artista e l'egoismo di un borghese.

Si diresse verso la saletta: fu necessario prima farne uscire i tre mugnai e, mentre veniva apparecchiata la tavola, Binet rimase per conto suo in silenzio vicino alla stufa. Poi, come sempre, chiuse la porta e si tolse il berretto.

"Non ci saranno i convenevoli a consumargli la lingua!" disse il farmacista appena si trovò solo con l'ostessa.

"Non è mai più loquace di così" rispose lei. "La settimana scorsa sono passati di qui due commessi viaggiatori in stoffe, due giovani pieni di spirito che la sera raccontarono un mucchio di barzellette. Io piangevo dal gran ridere e lui rimase là come un baccalà senza dire una parola."

"Sì," disse il farmacista "nessuna immaginazione, nessuna arguzia, nulla di ciò che caratterizza l'uomo di mondo!"

"Eppure si dice che abbia mezzi" obiettò l'ostessa.

"Mezzi?" replicò il signor Homais "Lui! I mezzi? Quando riscuote le tasse, forse" aggiunse in tono più calmo.

E riprese:

"Capisco che un negoziante con estesi rapporti d'affari, un giureconsulto, un medico, un farmacista, possano essere tanto assorbiti dalle proprie occupazioni da diventare bisbetici e lunatici; di tipi di questo genere è piena la storia. Ma almeno si tratta di gente che pensa a qualcosa. Per esempio, a me, quante volte è capitato di cercare la penna sul banco per scrivere un'etichetta e di accorgermi poi che l'avevo sopra l'orecchio!"

La signora Lefrançois andò intanto sulla porta per vedere se la Rondine stesse arrivando. A un tratto trasalì; un uomo vestito di nero entrò d'improvviso in cucina. Era possibile, nelle ultime luci del crepuscolo, distinguerne il viso rubicondo e la corporatura atletica.

"In che cosa posso servirla, signor curato?" domandò l'albergatrice, tentando di afferrare uno dei candelieri di ottone che si trovavano sul caminetto, così bene allineati da sembrare un colonnato, e forniti di candele "Vuol bere qualcosa? Un dito di amaro, un bicchiere di vino?"

Il sacerdote rifiutò con molta cortesia. Era venuto per il parapioggia, che aveva dimenticato qualche giorno prima al convegno di Ernemont e, dopo aver pregato la signora Lefrançois di farglielo avere al presbiterio in serata, uscì per andare in chiesa mentre le campane suonavano l'Angelus.

Quando l'eco dei passi sul selciato della piazza si fu spenta, il farmacista definì molto sconveniente il modo con il quale si era comportato poco prima il curato. Il rifiuto di accettare una bibita gli sembrava un'odiosa ipocrisia: tutti sanno che i preti sbevazzano di nascosto e cercano di far tornare i tempi delle decime.

L'ostessa prese le difese del curato.

"Già, ma intanto ne vale quattro come lei. L'anno scorso aiutò i nostri uomini a ricoverare il fieno e riusciva a portarne fino a sei balle per volta, tanto è forte!"

"Bravo!" disse il farmacista "Allora mandate pure le vostre figlie a confessarsi da quel pezzo di malanno con un simile temperamento. Se fosse per me, se io fossi al Governo, farei salassare i preti una volta al mese. Sì, signora Lefrançois, tutti i mesi un bel salasso nell'interesse della sicurezza pubblica e del buon costume."

"Ma stia zitto, signor Homais! Queste sono empietà! Lei non ha religione!"

"Io ho una religione" rispose il farmacista. "La mia religione, anzi ne ho più di loro, e senza tante commedie e tanta ciarlataneria! Io adoro Dio, invece! Credo in un Essere Supremo, in un Creatore, quale che sia, non ha importanza, il quale ci ha messi quaggiù per adempiere i nostri doveri di cittadini e di padri di famiglia; ma non ho bisogno di andare in una chiesa a baciare piatti d'argento e a ingrassare di tasca mia un branco di buffoni che mangiano meglio di me. Lo si può onorare benissimo in un bosco, in un campo, o addirittura contemplando la volta celeste come gli antichi. Il mio Dio è lo stesso di Socrate, di Franklin, di Voltaire e di Béranger. Sono d'accordo con la Professione di fede del vicario savoiardo e i principi immortali dell'89! Così io non ammetto un Dio alla buona, che passeggia in giardino con il bastone in mano, alloggia i suoi amici nel ventre delle balene, muore lanciando un grido e risuscita dopo tre giorni: cose assurde in se stesse e d'altra parte in contrasto con tutte le leggi della fisica; e questo dimostra, per inciso, che i preti si sono sempre crogiolati in una torpida ignoranza nella quale tentano di far sprofondare insieme con loro tutti i popoli.

Il farmacista a questo punto tacque, si guardò intorno sicuro di scorgere un pubblico intorno a sé, perché, nel suo fervore, per un momento aveva creduto di essere in pieno consiglio municipale. Ma la padrona dell'albergo non l'ascoltava già più; tendeva l'orecchio a un rotolio lontano. Il rumore di una carrozza misto a uno strepito di ferri allentati che battevano sul terreno si fece distintamente sentire e, dopo poco, la Rondine si fermò davanti al portone.

Era un cassone giallo, sostenuto da due grandi ruote che, arrivando all'altezza del mantice, impedivano ai viaggiatori di vedere la strada e insudiciavano loro le spalle. I vetri dei finestrini, mobili, piccoli e stretti, tremavano nelle intelaiature quando gli sportelli venivano chiusi ed erano costellati qua e là di schizzi di fango, sulla vecchia coltre di polvere che li ricopriva, con una tenacia tale che neppure le piogge più violente riuscivano a far scomparire del tutto. Tiravano la Rondine tre cavalli, il primo dei quali attaccato a bilancino, e nelle discese il fondo della diligenza toccava il terreno a ogni sobbalzo.

Nella piazza si radunarono alcuni abitanti di Yonville: parlavano tutti insieme chiedendo notizie, spiegazioni ed esigendo i propri canestri. Hivert non sapeva più a chi rispondere. Era lui a sbrigare in città le commissioni per tutto il paese. Andava nelle botteghe, portava rotoli di cuoio per il calzolaio, ferri di ogni genere al maniscalco, un barile di aringhe per la padrona, cappellini per la modista, parrucche per il parrucchiere; e, lungo la via del ritorno, distribuiva i pacchetti gettandoli al di sopra dei recinti dei cortili, in piedi in serpa, e gridando a squarciagola mentre i cavalli continuavano a trottare per loro conto.

Era arrivato in ritardo in seguito a un incidente; la cagnolina della signora Bovary era scappata per i campi. Avevano fischiato un buon quarto d'ora per farla ritornare. Hivert era perfino tornato indietro di un mezzo miglio, sperando di rivederla da un momento all'altro. Ma poi aveva dovuto rimettersi in cammino Emma aveva pianto, si era arrabbiata, aveva accusato Charles di quella disgrazia. Il signor Lheureux, negoziante di stoffe, che viaggiava con loro sulla diligenza, aveva cercato di consolarla citandole un gran numero di casi in cui cani sperdutisi avevano riconosciuto il padrone dopo lunghi anni. C'era chi affermava, disse, che uno di essi fosse tornato da Costantinopoli a Parigi. Un altro aveva percorso cinquanta leghe in linea retta e attraversato a nuoto quattro fiumi. Il suo stesso padre aveva posseduto un can barbone il quale, dopo dodici anni di assenza, era riapparso facendogli le feste, per la strada, una sera mentre egli andava a cena fuori.

II

Emma scese per prima, seguita da Félicité, il signor Lheureux, una balia, e poi furono costretti a svegliare Charles che si era profondamente addormentato nel suo angolo non appena si era fatto buio

Il signor Homais si presentò; porse i suoi omaggi alla signora, i suoi complimenti al marito, si dichiarò lietissimo di essere stato loro utile in qualche modo, e, con grande cordialità, aggiunse di aver osato invitarsi da solo anche perché sua moglie era assente.

La signora Bovary non appena entrata in cucina, andò a mettersi vicino al camino. Presa con la punta delle dita la gonna all'altezza del ginocchio, la sollevò fin sopra le caviglie e protese verso la fiamma, al di sopra dell'arrosto che girava sullo spiedo, il piede calzato da uno stivaletto nero. Il fuoco la rischiarava tutta, penetrava con una luce cruda nella trama della veste, le sfiorava la pelle liscia e bianca, e perfino le palpebre degli occhi che di tanto in tanto si abbassavano. Il soffio del vento che entrava dalla porta socchiusa gettava su di lei, a tratti, un gran riverbero rosso.

Dall'altro lato del camino, un giovane biondo la guardava in silenzio.

Il signor Léon Dupuis (l'altro pensionante del Leon d'Oro) si annoiava molto a Yonville, ove era giovane di studio dell'avvocato Guillaumin, e spesso ritardava di proposito l'ora della cena nella speranza che giungesse all'albergo qualche viaggiatore con il quale scambiare quattro chiacchiere durante la serata. Nei giorni in cui non aveva niente da fare, non sapendo come ingannare il tempo, doveva per forza arrivare all'ora esatta e subire, dalla minestra al formaggio, la compagnia di Binet. Accettò quindi con gioia la proposta dell'ostessa di cenare con i nuovi venuti, e tutti andarono nel salone dove la signora Lefrançois, per solennizzare l'occasione, aveva apparecchiato per quattro.

Il signor Homais chiese il permesso di tenere in capo la papalina per paura di raffreddarsi.

Poi si rivolse alla sua vicina:

"La signora si sentirà un po' stanca. Si è così terribilmente sballottati sulla nostra Rondine!"

"È vero," rispose Emma "ma gli scombussolamenti mi divertono sempre: mi piace cambiare città."

"È una cosa tanto noiosa" sospirò l'impiegato "vivere sempre chiusi nello stesso posto!"

"Se foste come me," disse Charles "sempre costretto ad andare a cavallo..."

"Ma" rispose Léon, rivolgendosi alla signora Bovary "non c'è niente di più piacevole, direi" e aggiunse: "quando si può".

"Del resto" disse lo speziale "l'esercizio della medicina non è più faticoso come un tempo. Le buone condizioni delle strade delle nostre regioni consentono l'uso del calesse; inoltre i contadini guadagnano e pagano bene. Dal punto di vista sanitario, a parte i casi di ordinaria amministrazione quali enteriti, bronchiti, coliche biliari eccetera, qualche febbre intermittente nel periodo della mietitura e, tutto sommato, poche malattie gravi, la situazione è buona, a parte i tanti reumatismi, dovuti certo alle deplorevoli condizioni igieniche delle abitazioni dei nostri contadini. Ah! Troverà un gran numero di pregiudizi da combattere, dottor Bovary: molte convinzioni radicate contro le quali i suoi sforzi, sorretti dalla scienza, dovranno scontrarsi quotidianamente. Qui si ricorre ancora alle novene, alle reliquie, al curato, anziché rivolgersi, come sarebbe naturale, al medico o al farmacista. Il clima, bisogna dirlo, non è affatto cattivo, e nel nostro comune vivono addirittura dei novantenni. Il termometro (secondo le mie osservazioni) scende, d'inverno, fino a quattro gradi sotto lo zero e d'estate tocca i venticinque-trenta centigradi al massimo, e cioè ventiquattro Réaumur o, se preferisce, cinquantaquattro Fahrenheit (misura inglese), mai di più! Infatti la foresta d'Argueil ci difende da una parte dai venti del nord, e il colle Saint-Jean dall'altra, da quelli dell'ovest. Questo calore, d'altro canto, a causa del vapore acqueo prodotto dal fiume, e per la presenza di una considerevole quantità di bestiame nei pascoli, che esalano, come ben sapete, molta ammoniaca e cioè azoto, idrogeno e ossigeno (no, azoto e idrogeno soltanto) e, risucchiando l'humus della terra, confondendo tutte queste diverse emanazioni, e riunendole in un fascio, per così dire, e combinandosi da solo con l'elettricità diffusa nell'atmosfera, quando ce n'è, potrebbe, a lungo andare, come nei paesi tropicali, generare miasmi malsani - questo calore, dicevo, finisce con l'essere giustamente temperato proprio dalla parte dalla quale proviene, o piuttosto dalla quale verrebbe; e cioè da sud, grazie ai venti di sud-est, i quali, rinfrescatisi passando sulla Senna, arrivano talvolta all'improvviso fin qui, come brezze dalla Russia!"

"Si possono almeno fare passeggiate nei dintorni?" continuò la signora Bovary, rivolgendosi al giovanotto.

"Oh, assai poche" egli rispose. "C'è un posto, chiamato il Pascolo, in cima al colle, al limitare della foresta. Qualche volta, la domenica, ci vado, e mi fermo là con un libro, a guardare il tramonto."

"Per me non esiste niente di più bello del sole al tramonto, soprattutto in riva al mare" disse Emma.

"Oh! Io adoro il mare" esclamò Léon.

"E poi," continuò la signora Bovary "non trova che lo spirito spazia più liberamente su quella distesa senza limiti, la cui contemplazione eleva l'anima e suggerisce riflessioni sull'infinito, sugli ideali?"

"Succede la stessa cosa in montagna" rispose Léon. "Ho un cugino che l'anno scorso ha fatto un viaggio in Svizzera. Mi diceva che non è possibile farsi un'idea della suggestione poetica dei laghi, del fascino delle cascate, della grandiosità dei ghiacciai. Ci sono pini giganteschi gettati attraverso i torrenti, capanne affacciate su precipizi e, quando le nubi si squarciano, mille piedi sotto di esse si scorgono intere vallate. Questi spettacoli sono fatti per entusiasmare, per indurci alla preghiera e all'estasi. Non mi stupisce che un celebre musicista, per ispirarsi, avesse l'abitudine di suonare il pianoforte di fronte a qualche paesaggio imponente."

"Si diletta di musica?" chiese Emma.

"No, ma mi piace molto."

"Ah, non gli dia retta, signora Bovary" li interruppe Homais chinandosi sul piatto. "È tutta modestia. Ma come, amico mio! L'altro giorno, in camera sua, cantava una romanza, l'Angelo Custode, ch'era un incanto. La sentivo dal laboratorio, la interpretava proprio come un artista."

Léon infatti alloggiava dal farmacista, aveva una stanzetta in casa sua, al secondo piano, sulla piazza. Arrossì al complimento del padrone di casa, che si era già voltato verso il medico e stava enumerandogli, uno dopo l'altro, tutti i cittadini più in vista di Yonville.

Raccontava aneddoti sul loro conto e forniva informazioni Non si sapeva con precisione a quanto ammontasse il patrimonio del notaio, c'erano i Tuvache che si davano delle grandi arie.

"E che genere di musica preferisce?" domandò Emma.

"Oh! La musica tedesca, quella che fa sognare."

"Conosce gli artisti italiani?"

"Non ancora, ma avrò occasione di vederli l'anno prossimo, quando abiterò a Parigi per terminare i miei studi di legge."

"Come avevo l'onore di esporre a suo marito," disse il farmacista "a proposito di quel povero Yanoda che è scappato, lei si troverà a godere di una delle case più confortevoli di Yonville, grazie alle sue follie. Il più grande vantaggio per un medico è quello di avere un ingresso sul vicolo, dal quale sia possibile entrare e uscire senza essere visti. Inoltre la villa è dotata di tutte le comodità desiderabili per una famiglia: lavanderia, cucina con dispensa, stanza di soggiorno, un locale per conservare la frutta, eccetera. Era proprio un tipo che non badava a spese! Si era fatto costruire una pergola in fondo al giardino, vicino al fiume, soltanto per andarci a bere la birra d'estate, e se alla signora piace il giardinaggio potrà..."

"Mia moglie non se ne occupa molto," disse Charles "preferisce, per quanto le si raccomandi di fare del moto, restare sempre in camera sua a leggere."

"Come me!" esclamò Léon "Infatti che cosa c'è di meglio dello starsene la sera, accanto al fuoco, mentre il vento batte ai vetri, sotto la lampada accesa con un buon libro?..."

"Non è vero?" disse Emma, fissandolo con i grandi occhi neri spalancati.

"Non si pensa più a niente" continuò lui "e le ore passano senza che ce ne accorgiamo. Pur rimanendo immobili, viaggiamo in paesi che crediamo davvero di vedere e il nostro pensiero, intrecciandosi con la finzione, si diletta di particolari e segue il filo della trama; si fonde addirittura con i personaggi e si immedesima nelle loro vicende."

"È vero! È vero!" confermò Emma.

"Non le è mai capitato" continuò Léon "di ritrovare in un libro un pensiero già formulato vagamente in noi stessi, un'immagine offuscata, quasi ci tornasse da lontano, e l'intera descrizione dei nostri sentimenti più profondi?"

"Ho provato tutto questo" rispose lei.

"Ecco perché preferisco i poeti, soprattutto. Trovo i versi più dolci e più commoventi della prosa."

"Alla lunga, però, finiscono con lo stancare" osservò Emma. "Adesso, invece, mi appassiono ai racconti che si leggono tutti d'un fiato, quelli che tengono con il cuore sospeso. Detesto i personaggi comuni e i sentimenti moderati, come quelli che si incontrano nella realtà."

"Infatti" convenne l'impiegato "quelle opere che non suscitano emozioni, secondo me, si allontanano dai veri scopi dell'arte. È piacevole, in mezzo alle disillusioni della vita, poter rivolgere i propri pensieri su nobili figure, affetti puri e immagini di felicità. Per quanto mi riguarda, dato che vivo qui, fuori del mondo, la lettura è la mia sola distrazione; Yonville infatti non ha altre risorse!"

"Come Tostes, certo" riprese Emma. "Perciò mi abbonai a una biblioteca circolante."

"Se la signora mi vuol fare l'onore di approfittarne," disse il farmacista che aveva udito queste ultime parole "posso mettere a sua disposizione una biblioteca composta dai migliori autori: Voltaire, Rousseau, Delille, Walter Scott, l'Eco delle pubblicazioni, eccetera e, in più, ricevo vari periodici, fra i quali il Faro di Rouen tutti i giorni, in quanto mi pregio di esserne il corrispondente per le circoscrizioni di Buchy, Forges, Neufchâtel, Yonville e dintorni."

Dopo due ore e mezzo erano ancora a tavola: la serva, Artémise, ciabattava sul pavimento straccamente, portando i piatti uno per volta, dimenticava tutto, non capiva niente e continuava a lasciare socchiusa la porta del biliardo, facendone sbattere la maniglia contro il muro.

Senza accorgersene, nella foga del discorso, Léon aveva posato un piede su un piolo della sedia sulla quale stava seduta la signora Bovary. Emma portava una piccola cravatta di seta blu che teneva diritto, come una gorgiera, un colletto di batista pieghettato; a seconda dei movimenti del capo, il viso vi affondava o ne riemergeva dolcemente. Restando così, uno vicino all'altra, mentre Charles e il farmacista chiacchieravano, si trovarono presi in una di quelle conversazioni vaghe, durante le quali il giro casuale delle frasi porta di continuo a un centro fisso di reciproca simpatia. Spettacoli di Parigi, titoli di romanzi, nuove quadriglie, e il mondo che nessuno dei due conosceva, Tostes, dove lei aveva vissuto, Yonville, dove entrambi si trovavano adesso, presero in esame tutto, fino al termine della cena.

Quando il caffè fu servito, Félicité andò a preparare la camera nella nuova casa, e ben presto tutti si alzarono da tavola. La signora Lefrançois dormiva vicino al camino, e il mozzo di stalla con una lanterna in mano aspettava i signori Bovary per accompagnarli. Aveva una zazzera rossa alla quale si mescolavano pezzetti di paglia e zoppicava sulla gamba sinistra. Prese con la mano libera il parapioggia del curato e si misero in cammino.

Il paese dormiva. I pali della tettoia del mercato allungavano ombre smisurate. Il selciato era grigio, come in una notte estiva.

La casa del medico distava soltanto cinquanta passi dall'albergo, così, quasi subito, si salutarono e la compagnia si sciolse.

Emma, appena entrata nel vestibolo, si sentì cadere sulle spalle, come una camicia bagnata, tutto il freddo delle pareti. I muri erano stati rivestiti di intonaco nuovo e i gradini di legno scricchiolavano. Nella camera, al primo piano, una luce biancastra penetrava dalle finestre senza tende. Fuori, si intravedevano cime d'alberi e più lontano i prati, mezzo affogati nella nebbia, che fumavano al chiaro di luna, lungo la riva del fiume.

In mezzo alla stanza, ammucchiati alla rinfusa, c'erano cassetti di mobili, bottiglie, bastoni di tende, aste dorate, materassi posati su sedie e bacinelle per terra. I due uomini che avevano portato i mobili avevano lasciato là tutto in qualche modo

Per la quarta volta, Emma dormiva in un luogo sconosciuto. La prima volta risaliva al giorno in cui era entrata in collegio, la seconda a dopo l'arrivo a Tostes, la terza alla Vaubyessard: e ognuna di queste occasioni aveva rappresentato nella sua vita quasi l'inizio di una nuova epoca. Non credeva possibile che le cose potessero ripetersi nello stesso modo in luoghi diversi, e poiché la parte di esistenza già vissuta era stata cattiva, certo quella che ancora le rimaneva sarebbe potuta essere migliore.

III

L'indomani, appena alzata, Emma vide il giovane di studio nella piazza. Era ancora in vestaglia e quando lui alzò il capo e la salutò, rispose con un rapido cenno e richiuse la finestra.

Léon, quel giorno, aspettò con impazienza che arrivassero le sei: ma, entrando nell'albergo, si accorse che ad aspettarlo c'era soltanto il signor Binet, seduto a tavola.

La cena della sera precedente aveva costituito per lui un avvenimento importante; non gli era mai accaduto, fino a quel momento, di conversare per due ore di seguito con una 'signora'. Si stupiva di essere riuscito a esporle, e in così bella forma, una quantità di cose che prima d'ora non avrebbe saputo dire. Di solito era timido e manteneva quel riserbo che è al contempo pudore e dissimulazione. A Yonville lo consideravano un giovane di ottime maniere. Ascoltava i discorsi delle persone anziane e non si esaltava per la politica, cosa questa notevole per la sua età. Inoltre aveva qualche talento, dipingeva all'acquerello, leggeva la musica, si occupava volentieri di letteratura, dopo cena, quando non giocava a carte. Il signor Homais lo stimava per la sua cultura, la signora Homais gli era affezionata per la sua compiacenza, in quanto spesso scendeva in giardino con i piccoli Homais, marmocchi sempre sudici, molto maleducati e un po' linfatici come la madre. Per badare a loro, oltre alla domestica avevano Justin, l'allievo farmacista che serviva nello stesso tempo da domestico ed era un lontano cugino del signor Homais, il quale l'aveva accolto in casa per carità.

Lo speziale si dimostrò il migliore dei vicini. Informò la signora Bovary sul conto dei fornitori, fece venire apposta il suo negoziante di sidro, assaggiò egli stesso la bevanda per accertarsi della sua buona qualità, si preoccupò di far sistemare nella maniera migliore i fusti in cantina; indicò il modo di procurarsi una provvista di burro a buon mercato e concluse un contratto con Lestiboudois, il sagrestano, il quale, oltre a svolgere le sue funzioni chiesastiche e mortuarie, si occupava dei più bei giardini di Yonville, a un tanto all'ora o all'anno, a seconda dei gusti di chi lo assumeva.

Non era soltanto il desiderio di aiutare gli altri a indurre il farmacista a tanta ossequiente cordialità; dietro a essa si celava un preciso proposito.

Egli aveva violato la legge del 19 ventoso dell'anno XI, articolo I, che proibisce, a chi non possieda il titolo adatto, l'esercizio della medicina. In seguito a una misteriosa denuncia, il signor Homais era stato chiamato a Rouen, dal procuratore del re, nel suo gabinetto particolare. Il magistrato l'aveva ricevuto in piedi, con la toga, l'ermellino sulle spalle e il tocco in testa. Era una mattina, prima delle udienze. Si udivano nel corridoio i passi pesanti degli stivali dei gendarmi e un rumore lontano di grosse serrature che venivano chiuse. Il farmacista si sentiva ronzare gli orecchi al punto da temere che gli venisse un accidente, si vide in fondo a una segreta, immaginò la sua famiglia nella disperazione, la farmacia venduta, i boccali sparsi ai quattro venti e dovette, per riprendersi, entrare in un caffè e ordinare un bicchiere di rum al seltz.

A poco a poco il ricordo di questa ammonizione si affievolì, ed egli continuò come sempre a visitare illegalmente pazienti nel retrobottega. Ma il sindaco ce l'aveva con lui, i colleghi erano gelosi, si poteva temere il peggio. Fare delle gentilezze al signor Bovary significava assicurarsene la gratitudine e chiudergli la bocca nel caso si fosse accorto di qualcosa. Così, tutte le mattine, Homais gli portava il giornale, e spesso, nel pomeriggio, lasciava la farmacia per un momento e andava a chiacchierare con l'ufficiale sanitario.

Charles era triste: la clientela non si faceva vedere. Se ne stava seduto per lunghe ore senza parlare; andava a dormire nello studio o guardava sua moglie cucire. Per distrarsi si mise a fare l'uomo di fatica in casa e si cimentò a dipingere il solaio con gli avanzi di vernici lasciati dagli imbianchini. Ma lo preoccupava la situazione finanziaria. Aveva speso somme ingenti per le riparazioni della casa di Tostes, per gli abiti della moglie, e per il trasloco; e tutta la dote, più di tremila scudi, era sfumata in due anni. Quante cose poi, si erano rovinate o perdute nel trasporto da Tostes a Yonville, senza contare il curato di gesso, che, a una scossa più violenta del carro, era caduto spaccandosi in mille pezzi sul selciato di Quincampoix.

L'unico pensiero piacevole capace di distrarlo era la gravidanza della moglie. A mano a mano che il termine dei nove mesi si avvicinava, sentiva di amarla sempre di più. Era come se si fosse stabilito un nuovo legame fisico, quasi l'incessante consapevolezza di un'unione più complessa. Quando osservava da lontano la pigra andatura di Emma, quando la vedeva piegarsi mollemente sulle anche non imprigionate nel busto, oppure, standole di fronte, la contemplava a suo agio, mentre lei si abbandonava stanca, seduta nella poltrona, allora la sua felicità diventava incontenibile. Si alzava, l'abbracciava, l'accarezzava sul viso, la chiamava mammina, voleva farla ballare, e, sorridendo con le lacrime agli occhi, le sussurrava tutte le cose scherzose e tenere che gli venivano in mente.

L'idea di aver dato origine a una nuova vita lo deliziava. Conosceva l'esistenza umana in tutte le sue manifestazioni, adesso, e se ne stava affacciato a guardarla con serenità.

Emma dapprima si sentì molto stupita, poi desiderò sgravarsi per sapere che cosa volesse dire essere mamma. Ma, non potendo fare le spese che avrebbe desiderato né avere una culla a barchetta con il velo di seta rosa, e delle cuffiette ricamate, rinunciò a preparare il corredino e, in un momento di amarezza, lo ordinò tutto a una lavorante del villaggio senza scegliere niente e senza discutere. Non si appassionò a questi preparativi nei quali si manifesta la tenerezza delle madri, e il suo affetto, fin dal principio, ne fu forse in qualche modo attenuato.

Eppure, siccome Charles, a ogni pasto, non faceva che parlare del bambino, anche Emma cominciò a pensarvi meno saltuariamente.

Desiderava un maschio; sarebbe stato forte e bruno, e l'avrebbe chiamato Georges e questa idea di avere per figlio un maschio era quasi una rivincita potenziale di tutti i suoi fallimenti. Un uomo è almeno libero; passioni e paesi sono aperti dinanzi a lui, può ignorare gli ostacoli e ghermire le felicità più remote. Una donna, invece, è continuamente impedita. Inerte e flessibile nello stesso tempo, ha contro di sé le debolezze della carne e i dettami delle leggi. La sua volontà, come il velo del cappello, trattenuto da un cordone, palpita a tutti i venti; per ogni desiderio che alletta, v'è una convenienza che trattiene.

Partorì una domenica alle sei, al levar del sole.

"È una bambina!" disse Charles.

Emma voltò la testa e svenne.

Quasi subito accorse la signora Homais e l'abbracciò. Altrettanto fece mamma Lefrançois del Leon d'Oro. Il farmacista, con discrezione, le rivolse soltanto, attraverso la porta so"chiusa, qualche provvisoria felicitazione. Volle vedere la creaturina e la trovò assai ben conformata.

Durante la convalescenza, Emma dedicò parecchio tempo alla scelta di un nome per sua figlia. Innanzitutto passò in rassegna quelli che avevano una desinenza italiana, come Clara, Louisa, Amanda, Atala; le piaceva anche Galsuinde e ancora di più Yseult e Léocadie. Charles avrebbe voluto chiamarla come sua madre, ma Emma si oppose. Fecero passare il calendario da cima a fondo e consultarono anche gli estranei.

"Il signor Léon" diceva il farmacista "si meraviglia che non scegliate Madeleine: è un nome enormemente di moda."

Ma la signora Bovary madre protestò con vivacità per questo nome di peccatrice. Quanto al signor Homais, le sue preferenze andavano a tutti quei nomi che ricordassero grandi uomini, fatti illustri o alti ideali e aveva battezzato i suoi quattro figli in armonia con tali predilezioni. Così Napoleone rappresentava la gloria e Franklin la libertà; Irma era forse una concessione al romanticismo, ma Athalie costituiva certo un omaggio a un immortale capolavoro del teatro francese. Le sue convinzioni filosofiche, è evidente, non ostacolavano gli entusiasmi artistici e in lui la sensibilità non era soffocata dalla razionalità; sapeva discernere fra l'una e l'altra cosa, separare nettamente l'immaginazione dal fanatismo. Di questa tragedia, per esempio, egli biasimava le concezioni, ma ammirava lo stile; riprovava il pensiero, ma plaudiva a tutti i particolari, si esasperava contro i personaggi, ma i loro discorsi lo entusiasmavano. Quando leggeva le scene madri, si sentiva trasportato, ma quando pensava che i preti ne traevano vantaggio per la propria bottega, ne era desolato, e si smarriva in questa confusione di sentimenti desiderando nello stesso tempo incoronare con le proprie mani Racine e discutere con lui per un buon quarto d'ora.

Alla fine Emma ricordò che al castello della Vaubyessard aveva sentito la marchesa chiamare Berthe una giovane; da quel momento la scelta fu fatta e siccome Papà Rouault non poteva venire, il signor Homais fu pregato di fare da padrino. Come regalo offrì prodotti della sua azienda; e cioè: sei scatole di giuggiole, un intero boccale di fecola araba, tre vasetti di pasta di malvarosa e inoltre sei bastoncini di zucchero filato che aveva trovato per caso in un armadio a muro. La sera della cerimonia, venne organizzata una gran cena; c'era anche il curato. Vi fu molta animazione. Il signor Homais, ai liquori, intonò Dio degli uomini buoni, il signor Léon cantò una barcarola e la signora Bovary madre, che era la madrina, una romanza dei tempi dell'impero. Infine il signor Bovary padre volle che si portasse giù la neonata e finse di battezzarla con un bicchiere di champagne, versandolo dall'alto sul capo della bambina. Una tale derisione del primo dei sacramenti indignò l'abate Bournisien; Bovary padre rispose con una citazione dalla Guerra degli dei, il curato se ne voleva andare, le signore imploravano, il signor Homais si interpose e fra tutti riuscirono a trattenere il sacerdote, che sedette e ricominciò a sorbire tranquillamente dal piattino la tazza di caffè rimasta a metà.

Il signor Bovary padre si fermò per un mese a Yonville, abbagliandone gli abitanti con un superbo berretto militare a galloni d'argento che si metteva la mattina per andare a fumare la pipa in piazza. Aveva inoltre l'abitudine di bere molta acquavite e mandava spesso la domestica al Leon d'Oro perché gliene comperasse una bottiglia, facendola mettere in conto a suo figlio; consumò anche tutta la provvista di acqua di Colonia di sua nuora per profumare i propri fazzoletti.

A Emma non dispiaceva la compagnia del suocero. Aveva girato il mondo e le parlava di Berlino, di Vienna, di Strasburgo, di quand'era ufficiale, delle sue amanti, delle gran mangiate che aveva fatto, si comportava con lei con grande amabilità e talvolta addirittura, in giardino o sulle scale, la prendeva per la vita esclamando:

"Sta' attento, Charles!"

A questo punto, mamma Bovary si preoccupò per la felicità del figlio e temendo che suo marito, a lungo andare, avrebbe potuto esercitare un'influenza immorale sulle idee della giovane, si affrettò a cercar di anticipare la partenza. Forse l'angustiavano preoccupazioni più serie. Il signor Bovary era un uomo che non rispettava nulla...

Un giorno Emma fu presa d'improvviso dal desiderio di vedere la sua bambina, che era stata messa a balia dalla moglie del falegname, e, senza controllare sul calendario se le sei settimane della Vergine fossero già trascorse o meno, s'incamminò verso la casa dei Rollet situata all'estremità del villaggio ai piedi del colle, fra la strada maestra e le marcite.

Era mezzogiorno, le case avevano le persiane chiuse, i tetti di ardesia luccicavano sotto la luce violenta del cielo azzurro e i colmi sembrava sprigionassero scintille. Soffiava un vento caldo e saturo di umidità. Emma si sentiva debole mentre camminava, la facevano soffrire i ciottoli del marciapiede; era incerta se tornare indietro o entrare in qualche posto per sedersi.

In quel momento uscì da una porta vicina il signor Léon con un fascio di carte sotto il braccio. Venne a salutarla e si mise all'ombra, sotto la tenda grigia sporgente davanti alla bottega di Lheureux.

La signora Bovary disse che andava a trovare sua figlia, ma che si sentiva stanca.

"Se..." cominciò Léon senza avere il coraggio di andare avanti.

"Ha qualche impegno?" domandò Emma.

Avendo ottenuto una risposta negativa, lo pregò di accompagnarla. La sera, tutta Yonville era a conoscenza del fatto, e la signora Tuvache, la moglie del sindaco, dichiarò alla presenza della domestica che la signora Bovary si stava compromettendo.

Per andare dalla balia, bisognava voltare a sinistra dopo lo stradone, come per recarsi al cimitero, e percorrere un viottolo che correva, fiancheggiato dai ligustri fioriti, in mezzo a casette e cortili. Erano in fiore anche le veroniche, le rose canine, le ortiche e i sottili tralci dei rovi che si protendevano dai cespugli. Dai varchi fra le siepi si scorgevano, presso i casolari, maiali vicini alle concimaie, o mucche impastoiate che strofinavano le corna contro il tronco degli alberi. I due camminavano adagio, fianco a fianco, Emma appoggiandosi a lui e lui accorciando il passo e adeguandolo a quello di lei. Davanti a loro volteggiava e ronzava uno sciame di mosche nell'aria calda.

Riconobbero la casa da un vecchio noce che stendeva la sua ombra su di essa. Era bassa e coperta di tegole scure, e fuori dell'abbaino del solaio pendeva una collana di cipolle. Alcune fascine appoggiate verticalmente contro la cinta spinosa delimitavano un'aiuola quadrata ove crescevano della lattuga, alcune piante di lavanda e i piselli odorosi che si abbarbicavano sulle frasche. Un rivoletto di acqua sporca scorreva e si allargava sull'erba e tutto intorno erano sparpagliati cenci non ben identificabili, calze lavorate a maglia, una camiciola di cotone rosso e un grande lenzuolo di tela ruvida steso lungo la siepe. Al rumore del cancello, comparve la balia, tenendo in braccio un bambino che stava poppando. Con l'altra mano si trascinava dietro un povero marmocchio gracile e dal viso scrofoloso figlio di un cappellaio di Rouen, che i genitori, troppo impegnati con il loro lavoro, lasciavano in campagna.

"Entri," disse "la sua bambina è là che dorme."

La camera al pianterreno, la sola di tutta la casa, aveva in fondo, contro il muro, un gran letto senza tende, mentre la madia occupava il lato della finestra, un vetro della quale era tenuto insieme da un disco raggiato di carta blu. Nell'angolo dietro la porta, zoccoli alti, dai chiodi lucenti, erano allineati sotto la pietra del lavatoio, vicino a una bottiglia piena d'olio con una piuma infilata nel collo. Un lunario Mathieu Laensberg era gettato sul caminetto polveroso, fra pietre focaie da fucile, mozziconi di candele e brandelli d'esca. Il massimo lusso di questa stanza consisteva in un'illustrazione ritagliata certo da qualche cartello pubblicitario di prodotti di profumeria, raffigurante la Celebrità che soffiava in una tromba; era fissata alla parete per mezzo di bullette da zoccoli.

La bambina di Emma dormiva in una culla di vimini, sul pavimento. La madre la prese in braccio con la coperta che l'avvolgeva e si mise a ninnarla cantando sottovoce.

Léon andava su e giù per la stanza; gli sembrava strano vedere questa bella signora dagli abiti eleganti in mezzo a tanta miseria La signora Bovary arrossì ed egli si voltò, temendo che i suoi sguardi potessero apparire impertinenti. Poi Emma riadagiò la piccola che aveva rigurgitato sul bavaglino. La balia andò subito a ripulirla assicurando che non sarebbe rimasta la macchia.

"Ne fa ben altre," disse "non faccio altro che lavare le sue cose. Se avesse la compiacenza di ordinare a Camus, il droghiere, di lasciarmi prendere il sapone quando mi occorre, sarebbe più comodo per lei perché non continuerei a disturbarla."

"Va bene, va bene!" disse Emma "Arrivederci, mamma Rollet."

E uscì, pulendosi i piedi sul gradino della soglia.

La buona donna l'accompagnò fino in fondo al cortile, parlando della fatica che le costava l'alzarsi di notte.

"Mi sento così rotta, che spesso mi addormento sulla sedia. Dovrebbe proprio darmi almeno una libbra di caffè macinato; me lo farei bastare per un mese e lo berrei la mattina con il latte."

Dopo aver subito i suoi ringraziamenti, la signora Bovary se ne andò; aveva percorso soltanto un breve tratto di sentiero quando uno scalpiccio di zoccoli le fece volgere il capo: era ancora la balia.

"Che c'è?"

Allora la contadina, tirandola in disparte sotto un olmo, si mise a parlare del marito, il quale, con il suo mestiere e con i sei franchi all'anno che il capitano...

"Venga al dunque" disse Emma.

"Bene," riprese la balia sospirando a ogni parola "ho paura che se la prenda, se mi vede bere il caffè da sola; sa, gli uomini..."

"Ma le ho detto che le farò avere il caffè" ripeté Emma. "Glielo manderò... Non continui a infastidirmi."

"Ahimè! Cara signora, il guaio è che le sue ferite gli danno dei terribili crampi al petto. Dice che anche il sidro lo indebolisce."

"Ma cerchi di sbrigarsi, mamma Rollet."

"Stavo dicendo," riprese lei facendo un inchino "se non le sembra troppo, se non è chiederle troppo" e si inchinò ancora una volta "quando le farà comodo," e supplicava con lo sguardo "un quartino di acquavite" disse infine "potrei adoperarla anche per strofinare i piedini della sua bambina, che li ha teneri come la lingua."

Liberatasi della balia, Emma si appoggiò di nuovo al braccio del signor Léon. Camminò in fretta per un tratto, poi rallentò e il suo sguardo, ch'ella teneva fisso dinanzi a sé, si posò sulla spalla e sul collo di velluto nero della finanziera del suo accompagnatore. I capelli castani di lui vi ricadevano lisci e ben pettinati. Notò che aveva le unghie più lunghe di come le portavano a Yonville. Una delle maggiori occupazioni del giovane di studio era infatti quella di curarle; e custodiva a questo scopo un temperino tutto particolare nel cassetto della scrivania.

Tornarono a Yonville seguendo la riva del fiume. Nella stagione calda, l'argine, facendosi più largo, metteva allo scoperto fino alla base i muri dei giardini che avevano una breve scala per scendere al fiume. L'acqua scorreva silenziosa, rapida, e guardandola, si aveva un'impressione di freddo, lunghe erbe sottili si curvavano insieme spinte dalla corrente, come capigliature verdi che si abbandonassero libere nella sua limpidezza. Sulla cima dei giunchi o sulle foglie delle ninfee si posavano, o camminavano talvolta, insetti dalle lunghe zampe. Il sole attraversava con i suoi raggi le piccole bolle che si susseguivano e si rompevano, formate dalle onde, i vecchi salici dai rami tagliati, si riflettevano nell'acqua con la corteccia grigia; al di là di essi, tutto intorno, i prati sembravano deserti. Era l'ora del pasto, nelle fattorie, e la giovane signora e il suo compagno non sentivano camminando che il suono dei loro passi sulla terra battuta del sentiero, le parole che essi stessi pronunciavano e il fruscio della gonna di Emma intorno a lei. I muri dei giardini, con la cima munita di cocci di bottiglia erano caldi come le vetrate di una serra. Fra i mattoni erano cresciute le violacciocche selvatiche e, con l'orlo del parasole aperto, passando, la signora Bovary sbriciolava in una polvere gialla qualcuno dei loro fiori appassiti; qualche ramo di caprifoglio o di clematide si protendeva al di sopra del muro e strusciava un momento sulla seta impigliandosi nelle frange.

Stavano parlando di una compagnia di ballerini spagnoli che si sarebbero di lì a poco esibiti al teatro di Rouen.

"Andrà a vederli?" domandò Emma.

"Se mi sarà possibile" rispose Léon.

Non avevano altro da dire? Eppure i loro occhi erano colmi di una gravità degna di parole più serie, e, mentre si sforzavano di trovare frasi banali, si sentivano presi da uno stesso languore. Sentivano dentro di sé come un mormorio profondo, incessante, più forte delle loro stesse voci. Sbigottiti di fronte a questa sconosciuta soavità, non si preoccupavano di confidarsi le sensazioni che suscitava o di scoprirne la causa. Le felicità future, come le spiagge dei Tropici, proiettano sulle smisurate distanze che le precedono i miraggi dei loro propri piaceri, di una brezza profumata, e assopiscono in questa voluttà, senza suscitare ansie per l'orizzonte che non si riesce a scorgere.

A un certo punto il sentiero affondava nel fango a causa del passaggio del bestiame; furono costretti a camminare su grosse pietre verdi regolarmente distanziate. Spesso Emma si fermava un istante per guardare dove metteva il piede e, vacillando sulla pietra malferma, con i gomiti sollevati, la figura inclinata e l'occhio indeciso, rideva della propria paura di cadere nelle pozzanghere.

Appena giunsero davanti al suo giardino, la signora Bovary spinse il cancelletto, salì di corsa i gradini e scomparve.

Léon rientrò allo studio. Il principale non c'era; diede una occhiata agli incartamenti, temperò una penna, poi prese il cappello e uscì.

Se ne andò su al Pascolo, in cima al colle di Argueil, al limitare della foresta; si sdraiò per terra sotto i pini, a guardare il cielo attraverso le dita.

"Come mi annoio!" si ripeteva "Come mi annoio!"

Si commiserava perché viveva in un villaggio avendo Homais come amico e il signor Guillaumin per padrone. Quest'ultimo con gli occhiali d'oro a stanghetta e i favoriti rossi che spiccavano sulla cravatta bianca, tutto preso dagli affari, non capiva niente delle raffinatezze dello spirito, benché affettasse maniere rigide e inglesi che erano riuscite ad abbagliare il giovane nei primi tempi. Quanto alla moglie del farmacista, era la miglior sposa di tutta la Normandia, dolce come un agnello, amava i figli, il padre, la madre, i cugini, era pronta a piangere per le disgrazie altrui, badava alla casa come meglio non si sarebbe potuto e detestava i busti. Ma era così lenta nei movimenti, così noiosa ad ascoltarsi, aveva un aspetto così comune, e una conversazione così limitata che, per quanto avesse solo trent'anni e lui venti, per quanto dormissero porta a porta, per quanto le parlasse ogni giorno, non aveva mai pensato ch'ella potesse essere una donna per qualcuno, né che possedesse del proprio sesso qualcos'altro oltre la veste.

E poi chi c'era? Binet, qualche negoziante, due o tre osti, il curato, e il signor Tuvache, il sindaco, e i suoi due figli, gente ricca, burbera e ottusa, che coltivava da sé i propri terreni, faceva baldoria in famiglia, devota, questo è vero, ma la cui compagnia era del tutto insopportabile.

Sullo sfondo uniforme di tutti questi volti umani, il viso di Emma spiccava isolato e lontano: egli sentiva vagamente che fra se stesso e lei esisteva un abisso.

Da principio era andato spesso a farle visita insieme con il farmacista. Charles non si era dimostrato particolarmente lieto di riceverlo e Léon non sapeva come regolarsi fra la paura di essere indiscreto e il desiderio di un'intimità che riteneva quasi impossibile.

IV

Ai primi freddi, Emma lasciò la sua camera per trasferirsi nella sala, uno stanzone lungo, dal soffitto basso, dove, sopra il caminetto, una fitta madrepora si allargava sullo specchio. Seduta nella poltrona vicino alla finestra, ella guardava passare sul marciapiede la gente del villaggio.

Léon, due volte al giorno, andava dallo studio al Leon d'Oro; Emma lo sentiva arrivare da lontano; si protendeva ascoltando, e il giovane vestito sempre allo stesso modo e senza voltare la testa passava, rapido, al di là della tenda. Ma al crepuscolo, quando lei abbandonava sulle ginocchia il ricamo incominciato e restava lì, con il mento appoggiato alla mano sinistra, spesso l'apparizione di quell'ombra che scivolava all'improvviso la faceva trasalire. Si alzava e ordinava che apparecchiassero la tavola.

Il signor Homais arrivava mentre cenavano. Con la papalina in mano, entrava a passi felpati, per non disturbare nessuno, e ripeteva sempre la stessa frase: "Buonasera a tutta la compagnia!" Poi, quando si era accomodato al suo posto, vicino alla tavola, fra moglie e marito, domandava al medico notizie dei suoi ammalati, e il medico lo consultava per i possibili onorari. In seguito si mettevano a discorrere di quel che riferiva il giornale. Homais, a quell'ora, lo sapeva quasi a memoria; e lo ripeteva integralmente con tutti i commenti dell'articolista e tutte le notizie di catastrofi individuali e collettive accadute in Francia o all'estero. Esaurito l'argomento, non tardava a portare il discorso sulle vivande che vedeva. A volte si alzava a mezzo per indicare con delicatezza alla signora il pezzo più tenero, oppure si rivolgeva alla domestica dandole consigli sulla preparazione di intingoli, e sulla digeribilità dei condimenti; parlava di aromi, di droghe, di succhi e di gelatine in maniera tale da lasciar sbalorditi. Aveva la testa più piena di ricette di quanto la sua farmacia non lo fosse di boccali ed eccelleva nella preparazione di ogni sorta di marmellata, aceti, e liquori dolci; conosceva inoltre tutte le novità in fatto di pignatte economiche, l'arte di conservare i formaggi e di sanare i vini malati

Alle otto veniva Justin a chiamarlo per chiudere la farmacia. Allora Homais lo guardava con aria furba, soprattutto se era presente anche Félicité, perché si era accorto che il suo allievo frequentava volentieri la casa del medico.

"Il mio giovanotto" diceva "comincia a mettersi delle idee in capo, e io credo, che il diavolo mi porti, che si sia innamorato della vostra domestica."

Ma il difetto più grave che Homais gli rimproverava era quello di ascoltare continuamente le conversazioni. La domenica, per esempio, non erano capaci di farlo uscire dal salone, dove la signora Homais l'aveva fatto venire per accompagnare a letto i ragazzini, che si addormentavano sulle poltrone facendo scivolare giù, con la schiena, le fodere di calicò troppo larghe.

Le serate in casa del farmacista non erano molto affollate: la sua maldicenza, le sue opinioni politiche avevano allontanato da lui, poco alla volta, molte persone rispettabili. Léon non mancava mai. Appena sentiva il campanello correva incontro alla signora Bovary, le prendeva lo scialle e metteva in un canto, sotto il banco della farmacia, le grosse pantofole di pezza che ella portava sopra le scarpe quando nevicava.

Facevano prima qualche partita a trentuno, poi il signor Homais giocava all'écarté con Emma; Léon, standole alle spalle, le dava consigli. In piedi, le mani appoggiate allo schienale della sedia, guardava i denti del pettine affondato nello chignon. A ogni movimento che ella faceva per gettare le carte, l'abito, sulla parte destra, si alzava un poco sul collo. Dai capelli raccolti le scendeva sulle spalle una sfumatura scura che si andava man mano schiarendo, perdendosi infine nell'ombra. L'abito le ricadeva dai due lati della sedia, gonfio e pieno di pieghe, fino a terra. Quando Léon per caso si accorgeva di avervi posato sopra la suola di una scarpa, la ritirava in fretta come se avesse calpestato qualcosa di vivo.

Terminata la partita a carte, lo speziale e il medico giocavano a domino mentre Emma, cambiando posto, si appoggiava con i gomiti sulla tavola e sfogliava l'illustrazione. Di solito portava il giornale di mode. Léon le si metteva vicino, guardavano insieme le figure e si aspettavano a vicenda in fondo a ogni pagina prima di voltarla. Spesso Emma lo pregava di recitarle qualche verso; Léon li declamava con una voce strascicata che diveniva diligentemente sospirosa nei punti in cui si parlava d'amore. Ma il rumore dei pezzi del domino lo disturbava. Il signor Homais era forte al gioco e batteva in pieno Charles. Raggiunti i trecento punti, venivano tutt'e due a distendersi davanti al camino e non tardavano ad addormentarsi. Il fuoco moriva sotto la cenere, la teiera era vuota. Léon continuava a leggere, Emma l'ascoltava, facendo girare macchinalmente il paralume di garza della lampada, sul quale erano dipinti pagliacci in carrozza e ballerine sulla corda, tenute in equilibrio dal bilanciere. Léon si interrompeva, indicando con un gesto l'uditorio addormentato; incominciavano allora a parlare a voce bassa e la conversazione sembrava più dolce perché nessuno l'ascoltava.

Venne così a determinarsi fra loro una sorta di associazione, uno scambio ininterrotto di libri e di romanzi. Il signor Bovary poco geloso di carattere, non ci faceva caso.

Per il suo onomastico ricevette in dono una bella testa per studi di frenologia, tutta piena di cifre fino al torace e dipinta di azzurro. Era una cortesia del giovane impiegato. Léon gliene usava molte altre, gli faceva perfino le commissioni a Rouen e, dato che un romanzo aveva lanciato la moda delle piante grasse, ne acquistava per la signora, tenendosele sulle ginocchia durante il viaggio sulla Rondine e pungendosi continuamente le dita con i loro aculei.

Emma fece sistemare, sulla finestra, una fioriera per mettervi i suoi vasi giapponesi. Anche Léon ebbe il suo giardinetto pensile; potevano vedersi da una finestra all'altra, mentre si occupavano entrambi delle loro piantine.

Fra le finestre del villaggio, ve n'era una occupata ancora più spesso: infatti, la domenica, da mattina a sera e ogni pomeriggio, quando il tempo era buono, si vedeva all'abbaino di un solaio il profilo magro del signor Binet chino sul tornio il cui ronzio monotono si faceva sentire fino al Leon d'Oro.

Una sera, rientrando, Léon trovò nella sua camera un tappeto di velluto chiaro su cui erano ricamati tralci di foglie in lana. Chiamò allora la signora Homais, il signor Homais, Justin, i bambini, la cuoca; ne parlò al suo principale; tutti vollero vedere questo tappeto; ma perché la moglie del medico faceva regali al giovane di studio? Questo parve strano, e tutti finirono per convincersi che Emma fosse la sua buona amica.

Léon lo lasciava supporre, tanta era la sua insistenza nel parlare del fascino e dello spirito della signora Bovary, a tal punto che Binet, una volta, gli rispose assai bruscamente:

"Che cosa me ne importa, dal momento che non faccio parte delle sue amicizie?"

Léon si torturava per trovare il modo di dichiararsi; e, sempre incerto fra il timore di dispiacerle e la vergogna di essere tanto pusillanime, piangeva di scoraggiamento e di desiderio. Prendeva decisioni energiche, scriveva lettere che poi stracciava, fissava termini che immancabilmente finiva col rimandare. Spesso si metteva in cammino, deciso a ogni audacia; ma la fermezza dei propositi svaniva subito alla presenza di Emma e, quando arrivava Charles e l'invitava a salire con lui sul carrozzino per andare insieme a visitare qualche malato nei dintorni, accettava senza esitazioni, salutava la signora e se ne andava. Dopo tutto, il marito non era forse qualcosa di lei?

Quanto a Emma, evitava di domandarsi se lo amasse. Era convinta che l'amore dovesse arrivare di colpo, accompagnato da luci e fragori, simile a un uragano celeste che piomba sulla vita, la sconvolge, travolgendo la volontà come foglie secche, e trascina ogni sentimento nell'abisso. Non sapeva che la pioggia a goccia a goccia crea laghetti sulle terrazze delle case, quando le grondaie sono otturate, e avrebbe continuato a credersi al sicuro se d'improvviso non avesse scoperto una falla nelle sue difese

V

Accadde una domenica di febbraio, un pomeriggio, e nevicava. Il signore e la signora Bovary, Homais e Léon avevano deciso di andare tutti a vedere, a una mezza lega da Yonville, nella vallata, una filatura di lino in costruzione. Lo speziale aveva portato con sé Napoleone e Athalie per farli camminare un po', e Justin li seguiva portando in spalla i parapioggia.

Non vi sarebbe potuto essere niente di meno interessante di questa gita. Un grande spazio di terreno nudo, ove si trovavano, sparsi qua e là alla rinfusa, mucchi di sabbia e di ciottoli e alcune ruote di ingranaggi già arrugginite, circondava una lunga costruzione rettangolare forata da un gran numero di piccole finestre. Non era ancora ultimata, e si vedeva il cielo attraverso le assicelle del tetto. Attaccato alla trave più alta del tetto stesso, un mannello di paglia e spighe faceva schioccare al vento i nastri tricolore con i quali era legato.

Homais parlava, spiegando alla comitiva la futura importanza di questo stabilimento; valutava la resistenza dei plafoni, lo spessore dei muri e si rammaricava di non possedere un metro pieghevole come quello che il signor Binet adoperava per suo uso personale.

Emma gli dava il braccio appoggiandosi un po' e guardava il disco del sole il cui splendore, smorzato dalla nebbia, irraggiava debolmente; poi voltò il capo: Charles era là, aveva il berretto calcato fin sulle sopracciglia, e le grosse labbra tremanti aggiungevano una nota di stupidità al suo viso; perfino la schiena, quella sua schiena tranquilla, riusciva a irritarla quando la guardava: le sembrava di vedervi spiegata sopra la finanziera tutta l'insulsaggine che lo caratterizzava. Mentre lei lo considerava in tal modo, provando, nella sua stessa irritazione, una sorta di depravata voluttà, Léon fece un passo avanti. Il freddo lo faceva impallidire e sembrava stendere sul suo viso un languore più dolce: fra la cravatta e il collo, il colletto della camicia, un po' largo, lasciava intravedere la pelle; una ciocca di capelli rivelava la punta di un orecchio e i grandi occhi azzurri, alzati a guardare le nubi, parvero a Emma più belli e più limpidi di quei laghi di montagna in cui si specchia il cielo.

"Disgraziato!" gridò a un tratto lo speziale.

E corse dal figlio che si era precipitato su un mucchio di calce per tingersi di bianco le scarpe. Sommerso dai rimproveri, Napoleone si mise a urlare, mentre Justin cercava di ripulirgli i piedi con una manciata di paglia. Ma ci sarebbe voluto un coltello: Charles offrì il suo.

"Ah!" pensò subito Emma "porta il coltello in tasca come un contadino!"

Cadeva una guazza gelata, e tornarono tutti a Yonville

Quella sera, la signora Bovary non andò dai vicini e quando Charles fu uscito e lei incominciò a sentirsi sola, nella sua mente si ripresentò il confronto fra suo marito e Léon, ma con la nitidezza di una sensazione immediata e con l'ampliamento di prospettiva che il ricordo dà alle cose. Distesa nel letto, mentre guardava il fuoco che ardeva luminoso, vedeva ancora, come laggiù, Léon in piedi, che con una mano piegava, appoggiandovisi, una bacchetta, e con l'altra teneva Athalie la quale succhiava tranquilla un pezzetto di ghiaccio. Lo trovava attraente e non riusciva ad allontanare da lui i propri pensieri; ne ricordava gli atteggiamenti in altre occasioni, le frasi che aveva detto, il suono della voce e la figura; e ripeteva, protendendo le labbra come per un bacio:

"Sì, affascinante! Affascinante!... Amerà una donna?" si domandò "E chi?... Può amare soltanto me!"

In un lampo, tutte le prove di ciò si spiegarono davanti a lei e il cuore le balzò nel petto. La fiamma del camino faceva danzare sul soffitto una luce gaia; si voltò sulla schiena stirandosi le braccia.

A questo punto cominciò la solita lamentela: "Oh! Se il Cielo lo avesse voluto! Perché non è successo? Chi lo ha impedito?..."

Quando Charles, a mezzanotte, rientrò, Emma ebbe l'aria di svegliarsi in quel momento, e siccome lui, nello spogliarsi, fece rumore, si lagnò di avere l'emicrania, poi domandò con indifferenza notizie della serata.

"Il signor Léon" disse Charles "se n'è andato presto."

Emma non seppe trattenere un sorriso, e si addormentò con l'anima piena di una nuova delizia.

L'indomani verso sera, ricevette la visita del signor Lheureux, il negoziante di stoffe, uomo assai abile.

Nato guascone, ma divenuto normanno, univa alla facondia meridionale la cautela delle genti di Caux. Il suo viso sbarbato, grasso e molle, sembrava tinto con un decotto leggero di liquerizia e i capelli bianchi rendevano ancora più vivo il lampo di durezza dei piccoli occhi neri. Nessuno sapeva che cosa fosse stato prima d'ora: merciaio ambulante, diceva taluno, banchiere a Routot, dicevano altri. Una cosa era certa: sapeva fare a mente calcoli così complicati da spaventare lo stesso Binet. Cortese fino a divenire ossequioso, stava sempre con la schiena curva, nella posizione di chi saluta o invita.

Dopo aver lasciato alla porta il cappello ornato da un crespo, posò sulla tavola una scatola verde e cominciò con molta deferenza a lamentarsi di non essere ancora riuscito a ottenere la fiducia della signora.

Una bottega modesta come la sua non era certo adatta ad attirare una signora elegante; e sottolineò la parola. Ciò nonostante lei non aveva che da comandare ed egli si sarebbe incaricato di procurarle tutto quanto potesse desiderare, articoli di merceria, biancheria, cappellini e ogni novità, dal momento che andava in città quattro volte al mese, regolarmente. Aveva rapporti con le case più importanti, si poteva chiedere di lui ai Tre Fratelli, alla Barba d'Oro o al Gran Selvaggio, dappertutto era conosciutissimo. Oggi, trovandosi a passare di lì, era venuto a far vedere alla signora diversi articoli che, grazie a una combinazione veramente rara, era riuscito ad assicurarsi. E tolse dalla scatola una mezza dozzina di colletti ricamati.

La signora Bovary li esaminò.

"Non ho bisogno di niente" disse.

Allora il signor Lheureux tirò fuori con delicatezza tre sciarpe algerine, numerosi pacchetti d'aghi inglesi, un paio di pantofole di rafia e, per ultimi, quattro portauova di cocco, intagliati a trafori dai carcerati. Appoggiò le mani alla tavola, e, con il collo teso, e il corpo chinato in avanti, seguì a bocca aperta lo sguardo di Emma che vagava indeciso sulle mercanzie. Ogni tanto, come per togliere la polvere, dava con l'unghia un colpetto alla seta delle sciarpe spiegate in tutta la loro lunghezza; la stoffa fremeva, con un fruscio lieve, e, alla luce verdastra del crepuscolo, le pagliuzze d'oro del tessuto scintillavano come minuscole stelle.

"Quanto costano?"

"Una miseria," rispose il merciaio "proprio una miseria; ma non c'è fretta; quando vorrà; non siamo ebrei!"

Ella rifletté per qualche istante, e finì col ringraziare ancora il signor Lheureux, il quale replicò senza scomporsi:

"Benissimo, ci metteremo d'accordo un'altra volta; con le signore finisco sempre per intendermi; salvo che con la mia però".

Emma sorrise.

"Questo per dirle" riprese con aria bonacciona, dopo quella facezia "che non è certo il denaro a preoccuparmi... Gliene darei, se le occorresse."

La signora Bovary ebbe un gesto di sorpresa.

"Ah!" fece lui a voce bassa e con vivacità "non avrei bisogno di andar lontano per procurargliene, creda pure!"

E continuò chiedendo notizie di papà Tellier, il padrone del Caffè Francese, che il signor Bovary aveva in cura in quei giorni.

"Che cos'ha, insomma, il vecchio Tellier?... Tossisce tanto da svegliare tutta la casa e temo che presto gli sia più necessario un cappotto d'abete di una camiciola di flanella! Da giovane ha sempre fatto bisboccia! Quella è gente, signora, che non ha mai avuto regola, nella vita. Si è bruciato con l'acquavite! Ma in ogni caso è doloroso vedere andarsene una persona che si conosce."

E, mentre richiudeva la scatola, continuava a discorrere parlando della clientela del medico.

"Sarà il cattivo tempo, certo," disse, e guardò accigliato fuori della finestra "la causa di queste malattie. Anch'io non mi sento del tutto a posto; bisognerà anzi che venga uno di questi giorni a farmi visitare da suo marito, per un dolore alla schiena. Bene, arrivederla, signora Bovary; resto a sua disposizione, servitore umilissimo!"

E richiuse, adagio, la porta.

Emma si fece servire la cena in camera sua, vicino al fuoco, sopra un vassoio. Ci mise molto a mangiare, tutto le sembrava buono.

"Come sono stata accorta!" si diceva, pensando alle sciarpe.

Udì dei passi sulle scale: era Léon. Si alzò allora e prese sul cassettone da un mucchio di strofinacci ai quali si doveva fare l'orlo il primo che le capitò sottomano. Quando egli entrò, sembrava molto occupata.

La conversazione si trascinava, la signora Bovary taceva spesso e Léon sembrava molto imbarazzato. Seduto su una sedia bassa, vicino al caminetto, rigirava fra le dita l'astuccio da lavoro d'avorio. Emma cuciva e di tanto in tanto piegava con l'unghia l'orlo della tela. Non diceva nulla; Léon taceva, soggiogato dal suo silenzio come lo sarebbe stato dalle sue parole.

"Povero ragazzo!" pensava lei.

"In che cosa le dispiaccio?"" egli si domandava.

A un certo punto Léon finì col dire che, uno di quei giorni, si sarebbe recato a Rouen per un affare riguardante lo studio.

"Il suo abbonamento agli spartiti musicali è scaduto, glielo devo rinnovare?"

"No" disse Emma.

"Perché?"

"Perché..."

E, stringendo le labbra, tirò lentamente una lunga gugliata di filo grigio.

Quel lavoro irritava Léon. Emma pareva volesse spellarcisi la punta delle dita; gli salì alle labbra una frase galante, ma non trovò il coraggio di pronunciarla.

"Vuole proprio rinunciarvi?" riprese.

"A che cosa?" disse Emma con vivacità "Alla musica? Mio Dio, sì. Ho già la casa a cui badare, devo occuparmi di mio marito, e di mille altre cose insomma, di tanti doveri più impellenti."

Guardò la pendola. Charles era in ritardo. Si atteggiò allora alla moglie in ansia. Ripeté due o tre volte:

"È tanto buono!"

Il giovane impiegato era affezionato al signor Bovary. Ma quella tenerezza nei suoi confronti lo stupì in maniera spiacevole; e ciò nonostante ne continuò l'elogio, che, a suo dire tutti ripetevano; e in modo particolare il farmacista.

"Ah! È un gran brav'uomo" ricominciò Emma.

"Certo" convenne Léon.

E prese a parlare della signora Homais che si prestava ai loro frizzi, di solito, per via del modo di vestire incredibilmente sciatto.

"Che importanza ha?" lo interruppe Emma "Una buona madre di famiglia non attribuisce troppa importanza al proprio abbigliamento."

Poi ricadde nel silenzio.

Mantenne lo stesso atteggiamento nei giorni che seguirono: cambiò i discorsi, le maniere, tutto. Prese di nuovo a occuparsi del buon andamento della casa, a frequentare con regolarità la chiesa, e a trattare con maggior severità la servetta.

Tolse Berthe alla balia. Félicité gliela portava quando venivano visite e la signora Bovary la spogliava per mostrarne il corpicino. Dichiarava di adorare i bambini, la bambina era la sua consolazione, la sua gioia, la sua mania, ed ella accompagnava le proprie carezze con espansioni liriche tali da ricordare a chi non fosse di Yonville, la Sachette di Notre-Dame di Parigi.

Quando Charles rientrava, trovava le pantofole accanto alla cenere per tenerle calde. I panciotti non avevano più la fodera scucita né mancavano i bottoni alle camicie e inoltre egli aveva il piacere di vedere i berretti da notte ordinati in pile uguali nell'armadio. Sua moglie non era più riluttante come un tempo a fare qualche passeggiatina in giardino; quello ch'egli proponeva veniva sempre accettato e, sebbene i suoi desideri non venissero prevenuti, Emma vi si sottometteva senza fiatare. Léon, quando vedeva il signor Bovary, accanto al fuoco dopo cena, con le mani incrociate sul ventre, i piedi sugli alari, le gote arrossate dalla digestione, gli occhi umidi di felicità, mentre la bimba si trascinava sul tappeto e questa donna dalla vita sottile, da sopra la spalliera della poltrona, si chinava per baciarlo in fronte, finiva col dirsi:

"Che pazzia! Come potevo illudermi di arrivare fino a lei?"

Emma gli appariva così virtuosa e inaccessibile che abbandonò ogni speranza, anche la più vaga.

Ma, grazie a questa rinuncia, la poneva in una posizione straordinaria. Ai suoi occhi Emma si liberava delle qualità materiali dalle quali non gli sarebbe mai stato possibile ottenere nulla, per salire sempre più in alto nel suo cuore, fino a staccarsene come una magnifica apoteosi che ascenda. Si trattava di uno di quei sentimenti puri che non intralciano il corso della vita, che si coltivano perché sono rari, e la cui perdita fa soffrire più di quanto possa far gioire il possederli.

Emma dimagrì, diventò pallida, il viso le si affilò. I capelli neri, i grandi occhi, il naso diritto, il modo di camminare a passettini, il fatto che fosse quasi sempre silenziosa, adesso, davano l'impressione che ella attraversasse l'esistenza sfiorandola appena e recando sulla fronte il segno indistinto di una qualche sublime predestinazione. Era così triste e così calma, al contempo tanto dolce e riservata che accanto a lei ci si sentiva presi da un fascino glaciale, capace di far rabbrividire come capita nelle chiese, ove il profumo dei fiori si unisce al gelo del marmo. Nemmeno gli estranei sfuggivano a questa seduzione. Il farmacista diceva:

"È una donna di grandi qualità, che non sfigurerebbe in una sottoprefettura"

Le borghesi ammiravano in lei il senso dell'economia, i clienti la cortesia, i poveri la carità.

Ma Emma era piena di bramosia, di rabbia, di odio. Quell'abito dalle pieghe diritte nascondeva un cuore sconvolto e le labbra pudiche tacevano le tempeste. Era innamorata di Léon e cercava la solitudine per poter a suo agio dilettarsi con l'immagine di lui. Vederlo di persona significava turbare la voluttà di tale meditazione. Il suono dei suoi passi faceva palpitare il cuore: poi, la sua presenza faceva svanire ogni emozione e in seguito in lei restava soltanto un immenso sbigottimento che si trasformava in tristezza.

Léon non sapeva, quando usciva disperato dalla casa di lei che la signora Bovary correva alla finestra per seguirlo con lo sguardo nella via. Emma si preoccupava per lui, spiava il suo viso, e addirittura inventò tutta una storia per avere il pretesto di vedere la sua camera. Considerava la moglie del farmacista la più felice delle donne perché poteva dormire sotto lo stesso tetto del giovane di studio e i suoi pensieri tornavano sempre a quella casa, come i piccioni del Leon d'Oro che andavano là a bagnarsi nelle grondaie le zampette rosa e le ali bianche. Ma quanto più Emma si rendeva conto di essere innamorata, tanto più cercava di respingere questo amore, di diminuirlo, perché nessuno potesse accorgersene. Soltanto Léon avrebbe dovuto indovinarlo e, affinché ciò fosse possibile, sognava il verificarsi di eventi e catastrofi che avrebbero facilitato le cose. A trattenerla, certo, era la pigrizia, o la paura e anche il pudore. Pensava di averlo respinto ormai troppo lontano, di non essere più in tempo, di aver rovinato tutto. Poi, l'orgoglio, la gioia di poter dire: "Sono una donna onesta" e di guardarsi nello specchio assumendo un'aria rassegnata, la consolavano un po' del sacrificio che credeva di fare.

A questo punto gli appetiti della carne, la bramosia della ricchezza e le malinconie della passione, si confondevano in un'unica sofferenza; la sua mente, invece di distogliersi da questi pensieri, vi si soffermava sempre più, eccitandosi al dolore e cercandone dappertutto le occasioni. Bastavano, per mandarla in collera, una vivanda mal riuscita, una porta socchiusa, il desiderio non realizzabile di possedere un velluto; soffriva per la mancata felicità, perché i suoi sogni erano troppo alti e la sua casa troppo angusta.

A esasperarla più d'ogni altra cosa era il fatto che Charles sembrava non sospettare il suo tormento. La convinzione che egli aveva di renderla felice le sembrava un insulto idiota e la sicurezza che gliene derivava una vera ingratitudine. Per chi, dunque, si manteneva virtuosa? Non era forse lui l'ostacolo a tutte le felicità, la causa di tutti gli affanni, il fermaglio aguzzo alla fibbia di quella cinghia complicata che la serrava da ogni parte?

Concentrò allora unicamente su di lui i molteplici aspetti dell'odio che nasceva dalle sue sofferenze; ogni sforzo per diminuirlo serviva soltanto a farlo crescere sempre più, e questa pena inutile si aggiunse agli altri motivi di disperazione, contribuendo ad allontanare irrimediabilmente Emma dal marito. La stessa mitezza di lui nei suoi confronti la spingeva alla ribellione. La mediocrità domestica le suggeriva capricci lussuosi, l'affetto coniugale desideri di adulterio. Avrebbe voluto che Charles la percuotesse per avere una ragione di detestarlo, per vendicarsene. Si stupiva a volte degli atroci pensieri che le attraversavano la mente: e doveva continuare a sorridere, sentendosi dire quanto era felice, fingere di esserlo e lasciarlo credere.

Eppure quella ipocrisia la disgustava. La prendeva la tentazione di fuggire con Léon in qualche posto, ben lontano di lì, per incominciare una nuova vita; ma vedeva, nell'anima sua, aprirsi davanti a lei un baratro oscuro, dai contorni vaghi.

"Tanto non mi ama più" pensava. "Che cosa potrebbe succedermi, quale aiuto posso aspettarmi, quale consolazione, quale sollievo?"

Rimaneva affranta, ansimante, inerte, singhiozzando sommessamente e versando fiumi di lacrime.

"Perché non dirlo al dottore?" domandava la domestica quando la sorprendeva durante queste crisi.

"Sono i nervi" rispondeva Emma. "Non gliene parlare, gli daresti un dispiacere."

"Ah, sì" riprendeva Félicité "lei è proprio come la Guérine, la figlia di papà Guérin, il pescatore di Pollet, li ho conosciuti a Dieppe, prima di venire da lei. Era così triste, così triste, che, a vederla in piedi sulla soglia di casa, faceva l'effetto di un lenzuolo funebre steso davanti alla porta. La sua malattia, a quanto pareva, era una specie di nebbia che aveva dentro la testa. I medici non potevano farle niente, e il curato nemmeno. Quando la prendeva più forte il male, andava sulla spiaggia, tutta sola, e il tenente della dogana, facendo il suo giro, la trovava là, distesa bocconi sulla ghiaia, a piangere. Poi, dopo sposata, le è passato, dicono."

"Per me, invece," diceva Emma "è cominciato dopo il matrimonio."

VI

Una sera Emma sedeva accanto al davanzale della finestra aperta e guardava Lestiboudois, il sagrestano, che potava i bossi. Sentìa un tratto suonare l'Angelus.

Si era ai primi di aprile, quando spuntano le primule; un vento tiepido scorre sulle aiuole appena vangate, e i giardini come le donne, sembra si agghindino per la festa dell'estate. Fra i pali della pergola e oltre, tutto intorno, si vedeva il fiume che disegnava fra l'erba dei grandi prati le sue curve sinuose ed errabonde. La bruma della sera passava fra i pioppi ancora spogli, sfumandone i contorni con una tinta violetta più pallida e più trasparente di un velo sottile impigliatosi nei rami. Lontano le mandrie si spostavano senza che se ne sentissero lo scalpiccio o i muggiti. La campana suonava sempre, diffondendo nell'aria un tranquillo lamento.

Quello scampanio ripetuto induceva i pensieri di Emma a soffermarsi sui ricordi dell'adolescenza e del collegio. Rammentava i grandi candelabri dell'altare, più alti dei vasi ricolmi di fiori e del tabernacolo a colonnine. Le sarebbe piaciuto confondersi, come un tempo, nella lunga fila di veli bianchi punteggiata di nero, qua e là, dalle cuffie rigide delle suore chine sull'inginocchiatoio; la domenica, alla messa, quando alzava la testa, scorgeva attraverso le volute azzurrognole dell'incenso che salivano verso l'alto, il dolce viso della Vergine. Si sentì prendere dallo struggimento: l'assalirono una stanchezza, un abbandono tali che le parve di essere come una piuma di uccello trascinata dalla tempesta; quasi senza rendersene conto si incamminò verso la chiesa, ansiosa di piegare l'anima sua a una qualsiasi devozione purché l'intera sua esistenza potesse annientarvisi.

Incontrò sulla piazza Lestiboudois, di ritorno. Per non accorciare la giornata, preferiva interrompere il lavoro e riprenderlo poi dopo aver suonato l'Angelus, anche se, così facendo, non rispettava del tutto gli orari. D'altronde, lo scampanio anticipato avvertiva i ragazzi dell'ora del catechismo.

Qualcuno di quelli ch'erano già arrivati giocava alle biglie sulle pietre del cimitero. Qualcun altro, a cavalcioni del muro, agitava le gambe falciando con gli zoccoli le fitte ortiche cresciute fra la cinta e le tombe più vicine. Costituivano l'unico verde del luogo: tutto il resto era soltanto pietre coperte continuamente da una polvere sottile che la granata della sagrestia non riusciva a eliminare.

I ragazzi, con gli scarponi ai piedi, correvano là sopra come su un pavimento fatto apposta per loro; gli scoppi di voci infantili si facevano sentire attraverso il rombo delle campane. Lo scampanio diminuiva con le oscillazioni della grossa corda che, scendendo dall'alto del campanile, trascinava per terra una estremità. Le rondini sfrecciavano lanciando brevi strida, tagliavano l'aria con il loro rapido volo e rientravano svelte nei nidi gialli appesi sotto le tegole della grondaia. In fondo alla chiesa ardeva una lampada, o meglio un lucignolo, in un bicchiere che pendeva dall'alto. Da lontano la sua luce sembrava una macchia biancastra palpitante sull'olio. Un lungo raggio di sole attraversava tutta la navata centrale facendo apparire più buie quelle laterali e gli angoli.

"Dov'è il curato?" domandò la signora Bovary a un ragazzo che si divertiva a scuotere il cancello nel cardine troppo largo.

"Adesso viene" rispose lui.

In quel momento la porta del presbiterio cigolò e l'abate Bournisien apparve; i ragazzi si precipitarono in disordine dentro la chiesa.

"Quei monellacci!" mormorò il sacerdote "Sempre gli stessi!"

E, raccogliendo un catechismo assai mal ridotto che aveva urtato con il piede, esclamò:

"Non rispettano niente!"

In quel momento scorse la signora Bovary:

"Voglia scusarmi," le disse "non l'avevo riconosciuta". Ficcò il catechismo in tasca e si fermò, facendo dondolare fra due dita la pesante chiave della sagrestia.

La luce del sole al tramonto gli batteva sul viso e faceva apparire sbiadita la stoffa della tonaca, lucida sui gomiti e sfilacciata all'orlo. Macchie d'unto e di tabacco accompagnavano sul largo torace, la linea dei bottoncini e diventavano più numerose a mano a mano che ci si allontanava dal colletto clericale sul quale riposavano pieghe abbondanti di pelle rossa disseminata di piccole macchie gialle che sparivano in mezzo ai peli ruvidi della barba brizzolata. Aveva appena mangiato e respirava rumorosamente.

"Come sta?" soggiunse.

"Male" rispose Emma. "Soffro molto."

"Be', anch'io" rispose il sacerdote. "Questi primi caldi abbattono in maniera sorprendente, non le pare? E del resto, siamo nati per soffrire, come dice San Paolo, cosa vuole! Ma il signor Bovary, cosa ne pensa?"

"Lui!" Emma fece un gesto di disprezzo.

"Come!" replicò il brav'uomo tutto stupito "Non le prescrive qualcosa?"

"Ah!" disse Emma "Non sono certo i rimedi materiali quelli di cui ho bisogno."

Il curato, di tanto in tanto, sbirciava dentro la chiesa dove tutti quei monelli inginocchiati si davano spintoni e cascavano come fantocci.

"Vorrei sapere...;" cominciò Emma.

"Aspetta, aspetta, Riboudet" gridò incollerito il sacerdote. "Adesso vengo io a scaldarti gli orecchi, brutto discolo che non sei altro!"

Si rivolse di nuovo a Emma.

"È il figlio di Boudet, il carpentiere; i genitori sono agiati e gli lasciano fare quello che vuole. Eppure, se si mettesse di impegno, potrebbe riuscire bene, perché è intelligente. Qualche volta mi inquieto con lui, col Boudet, e mi vien fatto di dire Col Riboudet (ha presente la collina che si supera per andare a Maromme?) Mi è accaduto di dirlo anche con i ragazzi: "Va' col Riboudet a farmi questa commissione!" Ah! Ah! L'altro giorno l'ho raccontato a monsignore, che ne ha riso... si è degnato di riderne. E adesso lo chiamo spesso così. E il signor Bovary, come sta?"

Sembrava che Emma non lo ascoltasse. Il curato continuò:

"Sempre molto occupato, non è vero? Lui e io, siamo senz'altro le persone più indaffarate di tutta la parrocchia. E mentre suo marito è il medico del corpo," aggiunse con una grassa risata "io lo sono dell'anima".

Emma fissò sul sacerdote uno sguardo supplichevole:

"Sì..." disse "lei può alleviare tutte le miserie".

"Non me ne parli, signora Bovary! Proprio questa mattina sono dovuto andare nel Basso Diauville perché a una mucca si era gonfiato il ventre; credevano che fosse il malocchio. Tutte le loro vacche, non so come... Ma, mi scusi! Longuemarre e Boudet! Sacripante! La volete finire?"

E, con un balzo, si slanciò nella chiesa.

In quel momento i monelli si affollavano intorno al leggio, si arrampicavano sullo sgabello del cantore e aprivano il messale; altri, quatti quatti stavano per azzardarsi perfino a entrare nel confessionale. Ma il curato, senza perder tempo, distribuì su tutti una grandinata di scapaccioni. Li prendeva per il colletto, li sollevava da terra e li rimetteva giù, in ginocchio, sul pavimento del coro, con tanta energia che sembrava volesse piantarceli.

"Eh, sì," disse dopo essere tornato accanto a Emma, mentre spiegava un grande fazzoletto di cotone e se ne metteva un angolo fra i denti "i contadini sono spesso da compiangere!"

"E non sono i soli" ribatté Emma.

"No di certo! Gli operai delle città, per esempio."

"Non è di loro..."

"Mi perdoni, ma ho conosciuto povere madri di famiglia, laggiù, donne virtuose, glielo assicuro, vere sante, che non avevano nemmeno il pane."

"Ma quelle," rispose la signora Bovary (e gli angoli della bocca le guizzavano, mentre parlava) "quelle, signor curato, che hanno il pane, ma non hanno..."

"Il fuoco per scaldarsi, durante l'inverno" disse il prete.

"Ma che importa!"

"Come! Che importa? Mi sembra che, quando uno è ben nutrito, può starsene al calduccio... perché, insomma..."

"Mio Dio! Mio Dio!" sospirò Emma.

"Non si sente bene?" fece lui, avvicinandosi con aria preoccupata "Certo è la digestione! Sarà meglio che torni a casa, signora Bovary, a bere un po' di tè, le darà forza; oppure un bicchiere d'acqua e zucchero."

"Perché?"

Aveva l'aria di chi si svegli all'improvviso da un sogno.

"Ho visto che si passava una mano sulla fronte. Credevo stesse per svenire."

Poi, cambiando argomento:

"Ma non mi aveva chiesto qualcosa? Di che si trattava? Non lo ricordo più".

"Io? Niente... niente..." ripeteva Emma.

E il suo sguardo, che finora aveva lasciato vagare intorno a sé, si volse lentamente sul vecchio che vestiva la tonaca. Si osservarono entrambi, uno di fronte all'altro, senza parlare.

"Bene, signora Bovary," disse infine il sacerdote "mi deve scusare, ma il dovere innanzitutto, lei lo sa bene; è necessario che mi occupi dei miei monelli. Presto ci saranno le Prime Comunioni. Temo che anche questa volta ci coglieranno non ancora del tutto pronti! E così, a partire dall'Ascensione, tutti i mercoledì, puntualmente, li trattengo un'ora in più. Poveri bambini! Non è mai troppo presto per spingerli sulla via del Signore, come del resto ci ha raccomandato lui stesso, per bocca del Suo Divino Figlio... I miei doveri, signora, e molti rispetti al suo signor marito."

Entrò in chiesa facendo dalla porta una genuflessione.

Emma lo vide sparire in mezzo alla duplice fila di banchi, camminava con un passo pesante e teneva le mani semiaperte e scostate dal corpo.

La signora Bovary girò sui talloni, rigida, come una statua su un perno, e riprese la via di casa. La voce grave del curato e quella limpida dei ragazzi giungeva ancora ai suoi orecchi e continuava a seguirla:

"Sei cristiano?"

"Sì, sono cristiano."

"Cosa significa essere cristiano?"

"Cristiano significa essere battezzato... battezzato... battezzato."

Salì i gradini della scala reggendosi alla ringhiera e, appena giunta in camera sua, si lasciò cadere su una poltrona. La luce lattiginosa della finestra si smorzava dolcemente e in modo non uniforme. I mobili, ai loro posti, sembravano fondersi con i muri e perdersi nell'ombra come in un oceano tenebroso. Il caminetto era spento, la pendola ticchettava senza interruzione ed Emma provava un senso di stupore per questa calma delle cose, mentre dentro di lei si agitava un tale tumulto. Ma fra la finestra e il tavolo da lavoro c'era la piccola Berthe, barcollante sulle scarpine di maglia, che cercava di avvicinarsi alla madre per afferrarle i nastri del grembiule.

"Lasciami!" disse Emma, allontanandola con la mano.

La bimba ritornò presto ancora più vicina, contro le sue ginocchia, vi appoggiò le braccia e alzò sulla madre i grandi occhi azzurri, mentre un limpido filo di saliva le colava dalle labbra fin sulla seta del grembiule.

"Lasciami!" ripeté Emma incollerita.

L'espressione del suo viso spaventò la bambina, che incominciò a strillare.

"Ma insomma! Lasciami!" esclamò lei ancora, respingendola con il gomito.

Berthe andò a cadere ai piedi del cassettone, contro la borchia d'ottone che le tagliò la gota facendola sanguinare. La signora Bovary si precipitò a rialzarla, diede uno strattone al cordone del campanello, chiamò la domestica a gran voce, ed era sul punto di maledire se stessa, quando arrivò Charles. Era l'ora di cena, ed egli rincasava.

"Guarda, caro," disse Emma con voce tranquilla "la piccola, giocando, è caduta in terra, e si è ferita."

Charles la rassicurò, non era niente di grave; e andò a prendere un unguento disinfettante.

La signora Bovary non scese in salotto; volle rimanere da sola a vegliare la bambina. Mentre la contemplava - ormai serenamente addormentata - l'inquietudine che ancora restava in lei, andò a poco a poco dissipandosi, ed ella si giudicò molto sciocca e molto buona per essersi agitata tanto, poco prima, a causa di un nonnulla. Berthe, infatti, non singhiozzava più. Il suo respiro sollevava in modo appena percettibile la coperta di cotone. Grosse lacrime rimanevano ferme nell'angolo delle palpebre semichiuse che lasciavano intravedere, fra le ciglia, le pupille chiare infossate; il cerotto applicato sulla guancia tirava in obliquo la pelle tesa

"È strano" pensava Emma "come sia brutta questa bambina."

Quando Charles, alle undici, tornò dalla farmacia (dove era andato, dopo cena, a riportare quel che restava dell'unguento disinfettante), trovò sua moglie ancora alzata vicino alla culla.

"Ma se ti ho detto che non è nulla," disse, baciandola sulla fronte "non ti devi tormentare più, povera cara, finirai coll'ammalarti!"

Si era trattenuto a lungo dallo speziale. Sebbene non si fosse dimostrato molto scosso, il signor Homais aveva cercato ugualmente di rincuorarlo, di rialzargli il morale. Avevano quindi parlato dei pericoli che minacciano l'infanzia e della sbadataggine dei domestici. La signora Homais ne sapeva qualcosa aveva ancora sul petto i segni della scottatura causata da una palettata di brace che la cuoca, una volta, le aveva lasciato cadere nel grembiulino. Per questo in casa sua adottavano innumerevoli precauzioni. I coltelli non venivano mai affilati, non si dava la cera ai pavimenti, le finestre erano munite di inferriate, gli stipiti di robuste sbarre. I piccoli Homais, a scapito della loro indipendenza, non potevano muoversi senza che qualcuno li seguisse per sorvegliarli; al più lieve raffreddore il padre li imbottiva di tisane, e fin dopo i quattro anni portavano tutti inesorabilmente il cercine. Questa era una mania della signora Homais; suo marito si preoccupava, dentro di sé perché temeva che gli organi dell'intelletto potessero venire compromessi da una simile compressione e ogni tanto gli scappava detto:

"Vuoi forse farne dei Caraibi o dei Botocudi?"

Charles aveva tentato più volte di interrompere la conversazione.

"Avrei bisogno di parlarle" aveva sussurrato all'orecchia del signor Léon che si era avviato davanti a lui sulla scala.

"Sospetterà qualcosa?" si domandava il giovane. Gli batteva il cuore e continuava a fare congetture.

Finalmente Charles, dopo aver chiuso la porta, lo pregò di domandare a Rouen quanto potesse costare un bel dagherrotipo; era una sorpresa romantica che voleva fare alla moglie, un pensiero delicato, il suo ritratto in abito nero. Ma voleva prima sapersi regolare per la spesa; sperava di non disturbare il signor Léon con quell'incarico, dato che egli andava in città quasi tutte le settimane.

A quale scopo? Homais supponeva che vi fosse sotto qualche faccenda di giovanotti, un intrigo amoroso. Ma si sbagliava; Léon non coltivava nessun idillio. Era più che mai triste e la signora Lefrançois se ne accorgeva dalla quantità di cibo ch'egli lasciava adesso nel piatto. Per saperne qualcosa, interrogò l'esattore. Binet le rispose con arroganza di non essere pagato per fare il poliziotto.

Eppure aveva notato anche lui qualcosa di strano nel suo compagno, perché; spesso Léon, arrovesciandosi sulla sedia, e allargando le braccia, si lamentava vagamente dell'esistenza.

"Il fatto è che non si prende nessuna distrazione" diceva

"Se fossi in lei, mi procurerei un tornio!"

"Ma io non so tornire" rispondeva l'impiegato.

"È vero!" diceva l'altro, accarezzandosi il mento con un'aria di spregio e di soddisfazione insieme.

Léon era stanco di questo amore senza risultato; incominciava a sentire quell'abbattimento causato da una vita sempre uguale, priva di interessi pressanti, senza speranze che la sostengano. Era così stufo di Yonville e dei suoi abitanti da sentirsi preso da un'irritazione incontenibile soltanto alla vista di talune persone o di certe case. Il farmacista, per quanto fosse quel dabben uomo che era, gli diventò del tutto insopportabile. Tuttavia, la prospettiva di una nuova situazione lo spaventava tanto quanto lo seduceva.

Ma l'apprensione si mutò ben presto in impazienza e allora Parigi fece baluginare in lontananza le fanfare dei balli mascherati e le risa delle sartine. Dal momento che avrebbe dovuto terminarvi gli studi, perché non ci andava? Che cosa glielo impediva? Cominciò a prepararsi dentro di sé; stabilì in anticipo le sue occupazioni, ammobiliò, con l'immaginazione, un appartamento. Vi avrebbe condotto una vita d'artista! Avrebbe preso lezioni di chitarra! Avrebbe portato una veste da camera, un berretto basco, pantofole di velluto blu. E già ammirava, perfino, sul caminetto, due fioretti incrociati sormontati da un teschio e da una chitarra.

La cosa più difficile era ottenere il consenso di sua madre; d'altro canto, niente sarebbe potuto sembrare più ragionevole. Il suo stesso principale lo incitava a far pratica in un altro studio, dove avrebbe potuto ampliare la sua esperienza. Scegliendo una via di mezzo, cercò un posto di secondo scrivano a Rouen. Non trovò nulla e scrisse allora a sua madre una lunga lettera particolareggiata nella quale esponeva le ragioni che lo spingevano ad andare subito ad abitare a Parigi. La madre acconsentì.

Léon se la prese calma. Ogni giorno, e per tutto un mese Hivert trasportò per lui da Yonville a Rouen e da Rouen a Yonville bauli, valigie e pacchi, e quando il nostro giovane ebbe rimesso in ordine il proprio guardaroba, fatto imbottire le sue tre poltrone, acquistato un assortimento di fazzoletti di seta, in una parola, preso un numero di disposizioni maggiore di quelle necessarie per un viaggio intorno al mondo, rimandò la partenza di settimana in settimana, finché non ricevette una seconda lettera dalla madre, la quale lo incitava a partire, dal momento che desiderava dare gli esami prima delle vacanze.

Al momento degli addii, la signora Homais pianse, Justin singhiozzò, il signor Homais, da uomo forte, dissimulò la commozione; volle portare lui stesso il cappotto dell'amico fino al cancello del notaio, che avrebbe condotto Léon a Rouen con la sua carrozza. Il giovane ebbe appena il tempo di andare a salutare il signor Bovary.

Arrivò in cima alla scala e si fermò senza fiato. Quando entrò, la signora Bovary si alzò d'impeto.

"Eccomi di nuovo qui" disse Léon

"Ne ero sicura!"

Emma si morse le labbra e un fiotto di sangue le corse sotto la pelle del viso colorandola di rosa dalla radice dei capelli fino al collettino. Rimase in piedi appoggiando le spalle al rivestimento di legno della parete.

"Suo marito non c'è?" continuò Léon

"È fuori."

Emma ripeté:

"È fuori".

Vi fu un silenzio. Si guardarono: i loro pensieri, confusi nella medesima angoscia, sembravano stringersi in un abbraccio forte e palpitante.

"Vorrei tanto dare un bacio a Berthe" disse Léon.

Emma scese qualche gradino e chiamò Félicité.

Egli gettò un rapido sguardo intorno a sé, uno sguardo che abbracciò le pareti, le scansie, il caminetto, quasi per penetrare tutto, per portare tutto con sé.

Léon la baciò più volte sul collo.

"Addio, povera bambina! Addio, piccola cara, addio!"

E la riconsegnò a sua madre.

"Portala via" disse Emma alla domestica.

Rimasero soli.

La signora Bovary, voltando le spalle, teneva il viso appoggiato a un vetro della finestra. Léon batteva adagio contro una gamba il berretto che aveva in mano.

"Pioverà" disse Emma.

"Ho un soprabito" rispose lui.

"Ah!"

Emma si voltò, il viso basso e il capo in avanti. La luce le scivolava sulla fronte, come sul marmo, fino all'arco delle sopracciglia, e non sarebbe stato possibile dire cosa stesse guardando né cosa pensasse nel più profondo di sé.

"Addio, allora!" sospirò Léon.

Emma rialzò la testa con un movimento brusco.

"Sì, addio... vada!"

Si mossero uno verso l'altra: lui tese la mano, la signora Bovary esitò.

"Bene, salutiamoci come gli Inglesi" disse e gli abbandonò la sua, sforzandosi di ridere.

Léon non appena la sentì fra le dita, si rese conto che la sostanza stessa di tutto il suo essere sembrava concentrarsi in quel palmo umido.

Poi aprì la mano, i loro sguardi si incontrarono ancora una volta ed egli uscì.

Giunto sotto la tettoia del mercato, si fermò, si nascose dietro uno dei pali per contemplare un'ultima volta quella casa bianca e le sue quattro persiane verdi. Credette di vedere un'ombra dietro la finestra, nella camera, ma la tenda, staccandosi dal nappo come se nessuno l'avesse toccata, mosse lentamente le lunghe pieghe oblique, che si stesero di colpo tutte insieme rimanendo diritte e più immobili di un muro di pietra. Léon si mise a correre.

Vide da lontano, sulla strada la carrozza del suo principale; un uomo con un ruvido grembiule le stava di lato tenendo il cavallo. Homais e il signor Guillaumin discorrevano fra loro. Lo aspettavano.

"Mi dia un bacio" disse lo speziale, con le lacrime agli occhi. "Ecco il suo cappotto, mio buon amico, si riguardi dal freddo! Abbia cura di sé e non si strapazzi!"

"Andiamo Léon, in carrozza!" disse il notaio.

Homais si protese al di sopra del parafango e, con voce rotta dai singhiozzi, lasciò cadere queste due tristi parole:

"Buon viaggio!"

"Buonasera" rispose il signor Guillaumin. "Via!"

Partirono e Homais tornò sui suoi passi.

La signora Bovary aveva aperto la finestra che dava sul giardino ed era rimasta a guardare le nubi.

Si ammucchiavano a occidente, dalla parte di Rouen, turbinose, e, dietro le loro volute nere, i raggi del sole si disegnavano in grandi fasci dorati, simili alle frecce d'oro di un trofeo alla parete, mentre il resto del cielo che rimaneva sereno, aveva il colore bianco della porcellana. Ma una raffica di vento fece piegare i pioppi, e d'improvviso cadde la pioggia crepitante sulle foglie verdi. Di lì a non molto, riapparve il sole; le galline cantavano, i passeri battevano le ali nei cespugli bagnati, sulla sabbia i rivoletti d'acqua piovana trascinavano con sé i fiori rosei di un'acacia.

"Come dev'essere ormai lontano!" pensava Emma.

Il signor Homais venne, come al solito, alle sei e mezzo, mentre cenavano.

"Bene," disse, sedendosi "abbiamo appena imbarcato il nostro giovanotto!"

"Sembrerebbe!" rispose il medico. Poi girandosi sulla sedia: "E da lei, che novità ci sono?"

"Non un gran che! Soltanto mia moglie, che si è commossa questo pomeriggio; sa come sono le donne, basta un niente per turbarle! La mia, poi! E non sarebbe giusto rimproverarle, perché il loro sistema nervoso è assai più sensibile del nostro."

"Povero Léon!" diceva Charles "Come se la caverà a Parigi? Ci si abituerà?"

La signora Bovary sospirò.

"Andiamo," disse il farmacista, facendo schioccare la lingua "le cenette in trattoria, i balli mascherati, lo champagne! Ne potrà avere a sazietà di divertimenti ve lo assicuro!"

"Non credo che si guasterà" obiettò il signor Bovary.

"Nemmeno io!" disse vivacemente il signor Homais "Anche se non gli sarà possibile non seguire gli altri; correrebbe il rischio di passare per un gesuita. E lei non immagina la vita che conducono quegli scapestrati, nel quartiere latino, con le attrici! Del resto gli studenti sono molto ben visti a Parigi. È sufficiente possedere soltanto qualcuna delle doti necessarie a far bella figura in società, per essere ricevuti negli ambienti migliori, e si è perfino verificato il caso che una delle dame del Faubourg Saint-Germain si sia innamorata di uno di loro, cosa che ha facilitato in seguito le occasioni di fare ottimi matrimoni."

"Ma io temo" disse il medico "per lui... che laggiù.."

"Ha ragione," lo interruppe lo speziale "c'è anche il rovescio della medaglia! Bisogna continuamente metter mano al borsellino. Così, supponiamo, lei è in un giardino pubblico; si presenta un tizio ben vestito, perfino decorato, tanto che si potrebbe scambiarlo per un diplomatico; le rivolge la parola, vi mettete a chiacchierare, quello comincia a insinuarsi, le offre una presa di tabacco o le raccatta il cappello. Poi la conoscenza si fa più stretta, inviti al caffè, inviti nella sua casa di campagna, presentazioni, fra un bicchiere e l'altro, a ogni sorta di persone, e, per tre quarti del tempo che le dedica, egli non pensa ad altro se non alla maniera migliore di sfruttarla o di trascinarla in qualche faccenda pericolosa."

"È vero," convenne Charles a ma io pensavo soprattutto alle malattie; alla febbre tifoide, per esempio, che contagia gli studenti di provincia."

Emma trasalì.

"A causa del cambiamento di regime," continuò il farmacista "e del turbamento che ne risulta all'equilibrio generale dell'organismo. E poi, l'acqua di Parigi, sapesse! Il vitto dei ristoranti, tutte quelle pietanze piene di spezie, finiscono col riscaldare il sangue, e non valgono, si ha un bel dire, un buon piatto di bollito. Io, per quanto mi riguarda, ho sempre preferito la cucina casalinga: è più sana! E infatti, quando studiavo farmacia a Rouen, mi ero messo in pensione in un convitto; mangiavo con i professori."

E continuò a esporre le sue opinioni generiche e le sue simpatie personali, fino al momento in cui Justin venne a chiamarlo perché c'era da preparare un latte di gallina.

"Non c'è un momento di requie," esclamò "sempre alla catena! Non mi posso allontanare un momento! Bisogna sudare sangue e acqua, sempre sotto le stanghe come un cavallo da tiro. Che giogo penoso!"

Poi, quando fu sulla porta

"Ha saputo la notizia?" disse.

"Quale?"

"È assai probabile" rispose Homais, alzando le sopracciglia e assumendo un'espressione solenne "che le Assemblee Agricole della Senna Inferiore si tengano quest'anno a Yonville-l'Abbaye. Almeno, così si dice in giro. Questa mattina, il giornale accennava qualcosa su questo argomento. Questo, per il nostro dipartimento, sarebbe della più grande importanza! Ma ne riparleremo. Ci vedo, grazie; Justin ha la lanterna."

VII

L'indomani fu per Emma una giornata tristissima. Tutto le sembrava avvolto da una nera atmosfera che galleggiasse confusamente sulla superficie delle cose e il dolore si ingolfava nella sua anima con fiochi ululati come fa il vento d'inverno in un castello abbandonato. Era il dolore causato dal fantasticare su qualcosa che sapeva di sicuro non sarebbe più tornato, dalla stanchezza che prende di fronte al fatto compiuto, quello stesso dolore che si può provare all'interruzione di ogni moto abituale, al brusco arresto di una vibrazione prolungata.

Come al ritorno dalla Vaubyessard, quando le quadriglie le turbinavano nella mente, anche questa volta fu presa da una malinconia cupa, da una sorda disperazione. Léon aveva acquistato ai suoi occhi una nuova dimensione, era più bello più dolce, e nello stesso tempo meno ben definito; benché si trovasse lontano da lei, non l'aveva lasciata, era là e le pareti della casa sembravano custodire la sua ombra. Non riusciva a distogliere gli occhi dal tappeto ch'egli aveva calpestato, da quelle poltrone vuote sulle quali si era seduto. Il fiume continuava a scorrere e a lambire con piccole onde l'argine scivoloso. Quante volte avevano passeggiato lungo la riva, ascoltando questo stesso mormorio delle acque sui sassi coperti di musco! Quante giornate di sole avevano goduto insieme! Quanti pomeriggi, soli, all'ombra, in fondo al giardino! Léon leggeva a voce alta, il capo scoperto, seduto su un rustico sgabello, e il vento fresco che giungeva dai grandi prati faceva tremare le pagine del libro e i nasturzi della pergola. Ah! Se n'era andato e rappresentava per lei la sola attrattiva della vita, la sola speranza di una possibile felicità! Come aveva potuto lasciarsi sfuggire una simile fortuna quando si era presentata? Perché non l'aveva trattenuto con tutte le sue forze, in ginocchio, quando aveva voluto andarsene? Si maledisse per non aver amato Léon, ed ebbe sete delle sue labbra. Si sentì presa dal desiderio di precipitarsi a raggiungerlo, di gettarsi nelle sue braccia dicendogli: "Eccomi, sono tua!" Ma Emma si sgomentava in anticipo, davanti alle difficoltà dell'impresa e i suoi desideri, accresciuti dal rimpianto, diventavano sempre più pressanti.

Da quel momento il ricordo di Léon fu come un centro intorno al quale gravitava tutta la sua noia; risplendeva più di un fuoco abbandonato dai viaggiatori, in mezzo alla neve, in una steppa russa. Emma se ne sentiva attratta, vi si rannicchiava contro, attizzava delicatamente questo focolare ormai vicino a spegnersi, cercando intorno a sé quello che avrebbe potuto ancora ravvivarlo. Le reminiscenze più lontane come gli avvenimenti più prossimi, quello che provava e quello che immaginava, le sue brame di voluttà che si dissolvevano, i progetti di felicità che si spezzavano come rami morti al vento, la sua sterile virtù, le speranze cadute, lo strame ch'era la vita domestica, tutto raccoglieva, tutto prendeva e utilizzava per tenere in caldo la propria tristezza.

A poco a poco le fiamme si placarono, forse perché il combustibile si andava esaurendo, oppure per un accumulo eccessivo dello stesso. L'assenza dell'oggetto amato fece sì che l'amore si estinguesse, un po' alla volta; il rimpianto fu soffocato dall'abitudine e quella luce d'incendio che imporporava il suo pallido cielo si coprì sempre più d'ombra e gradatamente scomparve. Nel torpore della sua coscienza scambiò la ripugnanza per il marito per una bramosia nei confronti dell'amato, le fiamme dell'odio per l'ardore della tenerezza; ma poiché l'uragano infuriava sempre, senza che il sole apparisse neppure per un istante, e la passione continuava a consumarle l'anima fino alle ceneri, senza che vi fosse per lei alcun soccorso possibile, le scese intorno la notte più fonda. Si sentì immersa in un gelo che la penetrava tutta.

I tristi giorni di Tostes ricominciarono. Si sentiva ora assai più disgraziata, aveva vissuto l'esperienza del dolore ed era convinta che tale dolore non avrebbe più avuto fine.

Una donna capace di tali sacrifici poteva anche consentirsi qualche capriccio. Acquistò un inginocchiatoio gotico, sperperò in un mese quattordici franchi in limoni per rendere candide le proprie mani e scrisse a Rouen perché le mandassero un abito di cachemire azzurro; scelse, fra quelle che Lheureux le aveva mostrato, la più bella sciarpa; l'adoperava per annodarla alla vita, sopra la vestaglia, e, così camuffata, rimaneva distesa, leggendo un libro, sul divano, nella stanza dalle persiane sempre accostate.

Spesso cambiava pettinatura: si acconciava i capelli alla cinese, in morbidi riccioli, in trecce avvolte a chiocciola sugli orecchi, e si fece la scriminatura da una parte, piegandoli in sotto come gli uomini.

Volle imparare l'italiano: comperò dizionari, una grammatica, una provvista di fogli bianchi. Provò a leggere libri di storia e di filosofia. A volte, la notte, Charles si svegliava di soprassalto credendo che lo stessero chiamando per una visita.

"Vado" balbettava.

E poi si accorgeva che era soltanto il rumore del fiammifero strofinato da Emma per accendere la lampada. Ma accadde per le letture quello che già era accaduto ai lavori di ricamo i quali ingombravano l'armadio, tutti cominciati ma nessuno terminato. Emma ne prendeva uno per lasciarlo ben presto da parte e iniziarne uno nuovo.

Aveva crisi durante le quali sarebbe stato facile spingerla a commettere stravaganze. Un giorno sostenne con il marito che sarebbe stata capace di bere un bicchiere pieno a metà di acquavite e siccome Charles commise la sciocchezza di sfidarla, Emma lo vuotò fino all'ultima goccia.

A dispetto della sua aria svaporata (come dicevano i cittadini di Yonville), Emma non aveva un aspetto allegro: gli angoli della bocca erano segnati da quelle pieghe amare che caratterizzano il viso delle anziane zitelle e degli ambiziosi decaduti.

Era sempre molto pallida, bianca come un cencio, con i lineamenti tesi e gli occhi che guardavano tutto con uno sguardo vacuo. Dopo essersi scoperta tre capelli grigi sulle tempie, cominciò a parlare di vecchiaia.

Spesso sveniva; un giorno ebbe perfino uno sbocco di sangue. Charles si spaventò e lasciò trasparire la sua inquietudine.

"Ah!" disse Emma "che importanza ha?"

Charles andò a chiudersi nello studio e pianse con i gomiti appoggiati sullo scrittoio, seduto sulla poltrona da ufficio, sotto la testa per gli studi di frenologia. Scrisse alla madre, pregandola di venire, e le loro lunghe conversazioni ebbero Emma come costante argomento. Quali decisioni prendere? Che cosa potevano fare, dal momento che ella rifiutava ogni cura?

"Sai cosa ci vorrebbe per tua moglie?" diceva la signora Bovary madre "Dovrebbe avere delle incombenze che fosse obbligata a svolgere, delle occupazioni materiali! Se fosse costretta a guadagnarsi il pane, non avrebbe tempo per tutte quelle fantasie suggerite dalle innumerevoli idee che le frullano per la testa e dall'inattività in cui vive."

"Eppure è molto occupata" ribatteva Charles.

"Occupata a far cosa? A leggere romanzi, cattivi libri, opere contro la religione, nelle quali ci si burla dei preti con idee prese da Voltaire. Tutto questo porta lontano, ragazzo mio, e chi non ha religione finisce sempre per imboccare una cattiva strada."

Venne deciso allora di impedire a Emma di leggere romanzi. L'impresa non sembrava facile. Se ne incaricò la buona signora. La prima volta che fosse passata da Rouen, doveva andare personalmente dal bibliotecario e comunicargli che la nuora intendeva disdire gli abbonamenti. Non era, del resto, loro diritto rivolgersi alla polizia se questo signore avesse continuato ugualmente nella sua opera corruttrice?

I saluti fra suocera e nuora furono gelidi. Durante le tre settimane in cui erano state insieme, non avevano scambiato quattro parole, escluso qualche ragguaglio e i convenevoli quando si incontravano a tavola o la sera prima di andare a dormire.

L'anziana signora Bovary se ne andò un mercoledì, giorno di mercato a Yonville.

La piazza, fin dal mattino, era ingombra di carretti con le stanghe in aria che formavano file lungo le case, dalla chiesa fino all'albergo. Dall'altro lato c'erano banchetti coperti di teloni, ove si vendevano cotonine, coperte, calze di lana, cavezze per cavalli, e nastri azzurri avvolti su se stessi, ma con un'estremità svolazzante al vento. Ammucchiati per terra si trovavano oggetti metallici d'uso casalingo, fra le piramidi di uova e i panieri del formaggio dai quali sbucavano fili di paglia attaccaticci; accanto alle trebbiatrici starnazzavano le galline, chiuse in gabbie basse fra le sbarre delle quali facevano passare la testa. La folla si accalcava in un punto solo senza accennare a spostarsi, minacciando a volte di sfondare la vetrina della farmacia. Questa, il mercoledì, era sempre gremita, non tanto perché la gente comperasse medicinali, quanto perché tutti chiedevano consigli di carattere medico al signor Homais, la cui fama era grandissima nei villaggi del circondario. La sua incrollabile sicumera aveva affascinato i villici. Vedevano in lui un medico ineguagliabile, il più bravo di tutti.

Emma era affacciata alla finestra (ci si metteva spesso: le finestre, nei paesi, sostituiscono la passeggiata e il teatro), e si divertiva a osservare la ressa dei contadini, quando scorse un signore che indossava una finanziera di velluto verde. Portava guanti gialli, benché calzasse grosse uose, e si dirigeva verso l'abitazione del medico, seguito da un contadino che camminava a testa bassa con aria molto assorta.

"Potrei vedere il medico?" domandò a Justin, che chiacchierava sulla soglia con Félicité, scambiandolo per il domestico "Ditegli che c'è il signor Rodolphe Boulanger de la Huchette."

Non per campanilismo il nuovo arrivato aveva aggiunto al proprio nome il 'de la Huchette', ma soltanto per farsi meglio riconoscere. La Huchette era infatti una tenuta nei dintorni di Yonville, ed egli ne aveva acquistato il castello e due fattorie delle quali si occupava personalmente, senza però darsi troppo da fare. Era scapolo e si diceva che avesse una rendita di quindicimila franchi!

Charles entrò nello studio. Il signor Boulanger gli presentò il proprio famiglio che desiderava essere salassato poiché soffriva di formicolii in tutto il corpo.

"Mi servirà da depurativo" ribatteva a ogni obiezione.

Bovary cominciò col preparare una benda e una bacinella, e pregò Justin di reggerla. Poi si avvicinò al contadino che era già impallidito:

"Non abbia paura, giovanotto".

"No, no," rispose l'altro "faccia pure!"

E, con aria spavalda, tese il braccio muscoloso. Il sangue sprizzò quando la lancetta incise la pelle e andò a imbrattare lo specchio.

"Avvicina la bacinella!" esclamò Charles.

"Ma guarda!" disse il contadino "sembra proprio una fontanella! Che sangue rosso ho! Dovrebbe esser buon segno, no?"

"A volte non sentono niente a tutta prima," commentò l'ufficiale sanitario "poi è facile che si manifesti una sincope, e di solito in individui robusti come costui."

A queste parole il contadino lasciò cadere l'astuccio che rigirava fra le dita. Con un sussulto delle spalle fece scricchiolare lo schienale della sedia e gli cadde il cappello.

"Me lo aspettavo" disse Bovary premendo un dito sulla vena.

La bacinella incominciò a tremare nelle mani di Justin; gli si piegarono sotto le ginocchia e diventò sempre più pallido.

"Emma! Emma!" chiamò Charles.

Emma scese le scale d'un balzo.

"Dell'aceto!" gridò il marito "Santo Cielo, due alla volta."

E, per l'agitazione, non riusciva a bendare il braccio.

"Non è nulla" disse tranquillamente il signor Boulanger, prendendo Justin fra le braccia.

Lo mise seduto sul tavolo, con le spalle appoggiate alla parete.

La signora Bovary gli slacciò la cravatta. Si formò un nodo nei cordoncini della camicia: ella dovette armeggiare per qualche istante con dita leggere sul collo del ragazzo, poi versò un po' di aceto sul fazzoletto di batista e con esso gli tamponò leggermente le tempie, soffiandoci sopra con delicatezza.

Il contadino tornò in sé, ma lo svenimento di Justin durava ancora e le pupille non si vedevano più, restava visibile soltanto la cornea, scialba come fiori azzurri nel latte.

"Sarebbe bene non fargli vedere questa roba" disse Charles.

La signora Bovary prese la bacinella per metterla sotto il tavolo; chinandosi fece un movimento che le allargò la veste tutto intorno, sulle piastrelle dello studio (indossava un abito estivo a quattro balze, giallo, con la vita lunga e la gonna ampia); e mentre, chinata, vacillava un poco allargando le braccia, l'arricciatura della stoffa si apriva di qua e di là, secondo l'inclinazione del busto. La signora Bovary andò poi a prendere una bottiglietta d'acqua, e stava facendovi sciogliere alcune zollette di zucchero, quando arrivò il farmacista. La domestica, durante il trambusto, era andata a chiamarlo; vedendo l'allievo in queste condizioni, ma con gli occhi aperti, Homais tirò un fiato. Poi, girandogli intorno, lo guardò dall'alto in basso.

"Stupidone," gli diceva "grosso sciocco, sciocco a lettere maiuscole! Gran cosa una flebotomia! Un bravaccio che non ha paura di niente, una specie di scoiattolo, come tutti sanno, che sale ad altezze vertiginose per bacchiare le noci. Ah! Sì! Chiacchiera, vantati! Bella dimostrazione di quanto sei adatto a esercitare a suo tempo la farmacia; potrà capitarti di essere chiamato per gravi circostanze, in tribunale, allo scopo di illuminare la coscienza dei magistrati, e in quei casi sarà necessario conservare il sangue freddo, ragionare, essere uomini, oppure passare per imbecilli!"

Justin non rispondeva. Lo speziale continuò:

"Chi ti ha pregato di venire? Importuni sempre i signori Bovary! Oltre tutto, il mercoledì la tua presenza mi è più necessaria che mai. Ci sono adesso in bottega almeno venti persone. Ho abbandonato ogni cosa perché ti sono affezionato. Avanti, vattene di corsa! Aspettami e bada ai boccali!"

Quando Justin ebbe terminato di rivestirsi e se ne fu andato, gli altri rimasero un poco a parlare di svenimenti. La signora Bovary non ne aveva mai sofferto.

"È una cosa straordinaria, per una signora!" disse il signor Boulanger "E del resto, vi sono persone molto sensibili. Ho visto io stesso, in un duello, un padrino svenire soltanto al rumore delle pistole che venivano caricate."

"Per quanto mi riguarda," disse lo speziale "la vista del sangue altrui mi lascia del tutto indifferente; ma la sola idea che anche il mio possa scorrere sarebbe sufficiente, se vi pensassi con intensità, a farmi svenire."

Intanto il signor Boulanger aveva congedato il proprio famiglio incoraggiandolo a tranquillizzarsi, visto che il malore era passato.

"Mi ha procurato inoltre il piacere di fare la sua conoscenza" soggiunse, e così dicendo, guardava Emma

Mise poi tre franchi sull'angolo della tavola, salutò in fretta e se ne andò.

Ben presto raggiunse l'altra riva del fiume (era la strada che doveva percorrere per giungere alla Huchette), ed Emma lo scorse in mezzo ai prati che camminava sotto i filari dei pioppi, rallentando di tanto in tanto come chi sia immerso in profonde riflessioni.

"È molto carina!" si diceva "È molto carina la moglie del medico! Ha bei denti occhi neri, piedi minuscoli e una figuretta da parigina. Da dove diavolo è uscita, costei? E dove mai l'avrà trovata quel pezzo di malanno?"

Il signor Rodolphe Boulanger, un uomo di trentaquattro anni, aveva un carattere duro e un'intelligenza acuta; inoltre, avendole frequentate molto, conosceva bene le donne. Questa gli era sembrata graziosa: ci pensava e pensava a suo marito.

"Mi ha fatto l'impressione di essere uno scemo. E lei ne è certo stufa. Quell'uomo ha le unghie sporche e la barba di tre giorni. Mentre corre da un malato all'altro, la moglie se ne sta in casa a rammendare le calze. E si annoia! Vorrebbe abitare in città e ballare la polka tutte le sere. Povera piccola! Anela all'amore come una carpa su un tavolo di cucina anela all'acqua. Basterebbero tre frasi galanti, per farsi adorare da lei, ne sono certo. Sarebbe qualcosa di dolce, di delizioso!... Già, ma come sbarazzarsene, in seguito?"

Gli inconvenienti del piacere, visti in prospettiva, gli fecero ricordare per contralto la sua attuale amante. Era, costei, una attrice di Rouen che egli manteneva; Rodolphe indugiò con il pensiero su questa immagine il cui solo ricordo gli procurava un senso di sazietà e si disse:

"Ah! La signora Bovary è molto più graziosa di lei, più fresca, soprattutto. Decisamente, Virginie sta ingrassando troppo. Ed è così noiosa, con le sue amenità. E poi, quella sua mania per i gamberetti!"

La campagna era deserta e Rodolphe non udiva altro che il fruscio ritmico delle erbe che gli battevano contro le scarpe, il frinire dei grilli nascosti lontano, nei campi d'avena; rivedeva Emma, là nello studio, vestita con l'abito giallo, e la spogliava.

"Oh! L'avrò!" e, con un colpo di bastone, frantumò una zolla di terra dinanzi a sé.

Poi incominciò a studiare l'aspetto strategico dell'impresa. Si domandava:

"Dove potrei incontrarla? E per quale motivo? Avremo sempre fra i piedi la marmocchia e la domestica, i vicini, il marito e ogni sorta di rompiscatole. Ah," si disse "no, c'è da perderci troppo tempo!"

Ma continuò subito:

"Resta il fatto che ha occhi capaci di penetrare nel cuore come succhielli. E quella carnagione chiara! Io adoro le donne con la pelle chiara! "

In cima al colle d'Argueil la decisione era ormai presa.

"Non mi resta che procurarmi le occasioni. Mi capiterà bene di passare di là qualche volta, manderò loro della selvaggina, del pollame, mi farò salassare, se sarà necessario; diventeremo amici, li inviterò a casa mia... Ah, perbacco," soggiunse "fra non molto si terranno le Assemblee; ci andrà anche lei, la rivedrò. Ci daremo da fare, e decisamente, perché è il sistema più efficace."

VIII

Ebbero infatti inizio queste famose Assemblee. Fin dal mattino del giorno di quel solenne avvenimento, tutti gli abitanti del luogo si fecero sulla porta di casa per occuparsi dei preparativi: la facciata del municipio era stata decorata con ghirlande d'edera, in un prato avevano montato una tenda per il banchetto e in mezzo alla piazza, davanti alla chiesa, una specie di bombarda avrebbe sottolineato l'arrivo del signor prefetto e i nomi degli agricoltori premiati. La guardia nazionale di Buchy (non ne esisteva un distaccamento a Yonville) si era aggiunta ai pompieri, il cui comandante era Binet. Quest'ultimo portava quel giorno un colletto ancora più alto del solito, e, stretto nell'uniforme, teneva il busto tanto rigido e immobile da dare l'impressione che tutta la vitalità della sua persona fosse discesa nelle gambe, le quali si alzavano in cadenza in un'andatura marziale e con un unico movimento. Sembrava che esistesse una sorta di rivalità fra l'esattore e il colonnello; desiderosi entrambi di mostrare la propria abilità facevano manovrare gli uomini, ciascuno dalla propria parte. Si vedevano passare alternativamente le spalline rosse e le cravatte nere. E tutto ciò continuava senza interruzione. Non s'era mai visto un simile sfoggio di solennità. Molti cittadini, il giorno prima, avevano lavato le proprie case, dalle finestre socchiuse pendevano drappi tricolori, tutte le osterie erano gremite e, dato il bel tempo, le cuffie inamidate sembravano più bianche della neve, le croci d'oro scintillavano in pieno sole, e gli scialli variopinti punteggiavano e screziavano la scura monotonia di quella distesa di finanziere e di camiciotti da lavoro blu. Le fattoresse dei dintorni, scendendo da cavallo, toglievano la grossa spilla mediante la quale tenevano la gonna stretta e rimboccata intorno al corpo per timore che si inzaccherasse, mentre i mariti, per salvaguardare i propri cappelli, li coprivano invece con un fazzoletto da tasca, serrandone un angolo fra i denti. La folla, seguendo la strada maestra, arrivava dalle due estremità del villaggio. Si riversava dai vicoli, dai viali, dalle case, e di tanto in tanto si sentivano ricadere i picchiotti delle porte dietro le signore in guanti di filo che uscivano per andare a vedere la festa. La gente ammirava soprattutto due alti cunei coperti di lampioncini che fiancheggiavano la tribuna ove avrebbero preso posto le autorità; contro le quattro colonne del municipio si trovavano altrettante specie di aste, ciascuna con un piccolo stendardo di tela verdastra in cima, arricchito da scritte dorate. Su uno di essi si leggeva: Al Commercio; su un altro: All'Agricoltura; sul terzo: All'Industria e sull'ultimo: Alle Belle Arti.

Ma il giubilo che rallegrava ogni volto, sembrava rattristare la signora Lefrançois, l'albergatrice. In piedi sulla soglia della cucina, ella mormorava fra sé e sé: "Che bestialità! Che bestialità quella loro baracca di tela! Credono forse che il prefetto sarà soddisfatto di mangiare laggiù, sotto una tenda, come un saltimbanco? E chiamano questo pasticcio fare il bene del paese! Non valeva proprio la pena di andare a cercare un taverniere a Neufchâtel! E per chi, poi? Per dei bovari, per dei villani senza scarpe!..."

Passò il farmacista. Indossava una giacca nera e pantaloni cachi, portava scarpe di castoro e, cosa straordinaria, un cappello a cupola bassa.

"Servo suo!" disse "Mi scusi, ho premura."

E siccome la grossa vedova gli domandava dove andasse, rispose: "Le sembrerà ridicolo, vero? Io che resto chiuso nel mio laboratorio come il topo di quel tale nel formaggio".

"Quale formaggio?" fece l'albergatrice.

"No, niente! Non ci faccia caso!" rispose Homais a Volevo dire solo, signora Lefrançois, che me ne sto di solito rintanato per conto mio. Oggi però, data la circostanza, bisogna proprio che..."

"Ah! Va anche lei laggiù?" disse la signora Lefrançois con aria sprezzante.

"Certo che ci vado" replicò lo speziale stupito. "Non faccio forse parte della commissione consultiva?"

Mamma Lefrançois lo squadrò per qualche minuto e finì per rispondergli con un sorriso:

"Ma allora è un'altra cosa! E da quando in qua si occupa di coltivazioni? Se ne intende, dunque?"

"Ma sicuro, me ne intendo perché sono farmacista, vale a dire chimico! E poiché la chimica, signora Lefrançois, studia le azioni reciproche e molecolari di tutti i corpi esistenti in natura, ne consegue che l'agricoltura si trova a essere compresa nel suo campo di interessi. Infatti la composizione dei concimi, la fermentazione dei liquidi, l'analisi dei gas e le influenze dei miasmi, che cosa è mai tutto questo, io le domando, se non chimica pura e semplice?"

L'albergatrice non disse nulla. Homais continuò:

"Per essere agronomo, crede forse sia indispensabile aver lavorato personalmente la terra o aver allevato polli? È più necessario conoscere la composizione delle sostanze che si maneggiano, i giacimenti geologici, l'azione dell'atmosfera, la qualità del terreno, dei minerali, delle acque, la densità dei diversi corpi e la loro capillarità. Che so io? Bisogna avere una profonda conoscenza di tutti i principi igienici per dirigere e giudicare la costruzione degli edifici, il governo degli animali l'alimentazione dei domestici. E non basta, signora Lefrançois, bisogna conoscere la botanica per distinguere le piante una dall'altra. Capisce? Quelle medicinali da quelle velenose, le improduttive dalle utili, se è buona cosa sradicarle da un posto per trapiantarle in un altro, distruggere le une e diffondere le altre. In breve, bisogna tenersi al corrente dei progressi della scienza leggendo libri e pubblicazioni, darsi d'attorno senza respiro per conoscere i miglioramenti e indicarli agli altri..."

L'albergatrice non distoglieva un momento gli occhi dalla porta del Caffè Francese e il farmacista continuò:

"Volesse Iddio che i nostri agricoltori fossero dei chimici o almeno che ascoltassero un po' di più i consigli della scienza! Così, io ho scritto ultimamente un sostanzioso opuscolo, un prontuario di oltre settantadue pagine, intitolato: La lavorazione e gli effetti del sidro, con nuove osservazioni relative alI'argomento e l'ho mandato alla Società d'Agronomia di Rouen; questo mi ha procurato l'onore di essere accolto fra i suoi membri, sezione agricoltura, classe frutticultura. Ebbene, se la mia opera fosse stata divulgata..."

Ma a questo punto lo speziale si interruppe, tanto la signora Lefrançois sembrava preoccupata.

"Ma guardi un po'!" disse l'albergatrice "Non ci capisco più niente! Una bettola simile!"

E, alzando le spalle fino a stirare sul davanti la maglia del corsetto, indicava con ambe le mani il locale del suo antagonista, dal quale usciva in quel momento un suono di canti.

"Del resto non ne avrà per molto," soggiunse "fra meno di otto giorni tutto sarà finito."

Homais indietreggiò per lo stupore. La signora Lefrançois discese tre gradini e, parlandogli all'orecchio, mormorò:

"Ma come? Ancora non lo sa? Questa settimana gli faranno il sequestro. È stato Lheureux a farlo fallire. Lo ha assassinato con le cambiali".

L'ostessa cominciò allora a raccontargli tutta la storia; era venuta a saperla da Teodoro, il domestico del signor Guillaumin, e, per quanto detestasse Tellier, non poteva fare a meno di biasimare Lheureux: era un imbroglione e un arrivista.

"Ah, guardi!" disse "Eccolo là, sotto la tettoia del mercato; sta salutando la signora Bovary, che ha un cappellino verde e dà il braccio al signor Boulanger."

"La signora Bovary!" fece Homais "Devo correre a porgerle i miei omaggi. Forse le farebbe piacere avere un posto nel recinto sotto il colonnato."

E, senza più ascoltare mamma Lefrançois che lo chiamava per finirgli di raccontare il fatto, il farmacista si allontanò a passi rapidi, con il sorriso sulle labbra e i garretti tesi, distribuendo a destra e a manca grandi saluti e occupando molto posto con le ampie falde dell'abito nero che sventolavano al vento dietro di lui.

Rodolphe, avendolo scorto da lontano, si era messo a camminare in fretta, ma alla signora Bovary mancava il respiro ed egli rallentò dicendole senza perifrasi:

"Volevo evitare quell'uomo; sa, lo speziale".

Emma gli diede di gomito.

"Che significa?" si domandò lui.

E la guardava con la coda dell'occhio, continuando a camminare. Il profilo di lei era così placidamente inespressivo da non lasciar indovinare nulla. Si stagliava in piena luce, circondato dall'ala del cappellino guarnito di nastri chiari, simili a foglie di giunco. Gli occhi, dalle lunghe ciglia ricurve, guardavano dinanzi a sé, e, per quanto li tenesse bene aperti, davano l'impressione di perdere un poco del loro risalto a causa del sangue che le arrossava le gote pulsando dolcemente sotto la pelle sottile. Una riga rosea le segnava il setto nasale. Teneva il capo reclinato su una spalla, e, fra le labbra socchiuse, si vedeva la punta madreperlacea dei denti candidi.

"Si burla di me?" pensava Rodolphe.

Il gesto di Emma non aveva voluto essere altro se non un avvertimento, poiché accanto a loro c'era il signor Lheureux che di tanto in tanto si voltava, parlando, nella loro direzione, quasi volesse attaccare discorso.

"Abbiamo una giornata meravigliosa. Tutti sono usciti! Il vento soffia da est."

E la signora Bovary, come del resto Rodolphe, non rispondeva nulla, mentre lui, a ogni più piccolo cenno, si avvicinava un poco, dicendo: "Come?" e portando la mano al cappello.

Quando furono dinanzi alla casa del maniscalco, invece di seguire la strada fino alla barriera, Rodolphe voltò bruscamente in un sentiero, trascinando la signora Bovary e gridando:

"Buonasera, signor Lheureux! Arrivederci!"

"Che modo di congedarlo!" disse Emma ridendo.

"Perché consentire agli altri di essere invadenti?" ribatté lui "E proprio oggi, poi, che ho il piacere di stare con lei..."

Emma arrossì Rodolphe non terminò la frase e si mise a parlare del bel tempo e del piacere di camminare sull'erba. Qua e là erano spuntate le margherite.

"Guardi quante graziose pratoline," disse "sufficienti a dare una risposta agli interrogativi di tutti gli innamorati del paese."

Soggiunse:

"Se ne cogliessi io, che cosa penserebbe?"

"È forse innamorato?" domandò Emma e fu presa da una tossettina.

"Eh! Chi lo sa?" rispose Rodolphe.

Il prato cominciava ad affollarsi e le massaie urtavano i vicini con i grandi parapioggia, i panieri e i ragazzini. Spesso bisognava spostarsi davanti a lunghe file di contadine, di servette dalle calze azzurre, con scarpe senza tacco, con anelli d'argento; sapevano di latte, quando si passava loro accanto. Camminavano tenendosi per mano e occupavano così tutta la larghezza del prato, dal filare dei pioppi fino alla tenda del banchetto. In quel momento venivano giudicati i capi di bestiame e i contadini, uno dopo l'altro, entravano in una specie di pista delimitata da una lunga corda sorretta da paletti.

Le bestie erano là dentro, con il muso verso la corda, allineate confusamente in gruppi disuguali. I porci, mezzo addormentati, affondavano il grugno nella terra. I vitelli muggivano, le pecore belavano; le mucche, con le gambe piegate, appoggiavano sull'erba il ventre, ruminando adagio e chiudendo le palpebre grevi, infastidite dai mosconi che ronzavano loro attorno. Alcuni carrettieri a braccia nude trattenevano per la cavezza gli stalloni impennati che emettevano sonori nitriti in direzione delle giumente. Queste ultime rimanevano impassibili, allungando la testa e lasciando ricadere la criniera, mentre i puledri si riposavano all'ombra delle madri e di tanto in tanto poppavano; sulla lunga ondulazione delle groppe robuste si levava al vento qua e là, simile alla cresta di un'onda, una criniera bianca, oppure spuntavano corna appuntite o teste di uomini che correvano... Più in là, al di fuori del recinto, cento passi lontano, v'era un toro, con la museruola e un grande anello di ferro alle narici, immobile come se fosse di bronzo. Un ragazzo vestito di cenci lo teneva con una corda.

Intanto alcuni signori venivano avanti fra le due file, a passo lento, esaminando ogni animale e consultandosi a bassa voce. Uno di essi, quello che sembrava essere il più autorevole, camminando, prendeva qualche appunto su un taccuino. Era il presidente della giuria, il signor Derozerays de la Panville. Non appena riconobbe Rodolphe, venne in fretta verso di lui e gli disse, sorridendo amabilmente:

"Ma come, signor Boulanger, ci abbandona?"

Rodolphe protestò che stava proprio per raggiungerli, ma quando il presidente si fu allontanato:

"No davvero," disse "non ci andrò affatto. Preferisco di gran lunga, alla sua, la compagnia di una signora come lei". E, facendosi beffe di tutte le assemblee, Rodolphe, per potersi aggirare con tutta comodità, mostrò al gendarme la tessera azzurra e si fermò talvolta davanti a qualche bell'esemplare che la signora Bovary non mostrava in alcun modo di ammirare. Egli se ne accorse e allora cominciò a dire spiritosaggini sulle signore di Yonville, a proposito del loro abbigliamento, approfittandone per scusare la trascuratezza del proprio. Infatti il suo modo di vestire manifestava quell'incoerente accostamento di cose comuni e ricercate che di solito fa credere al volgo, esasperandolo e seducendolo, di intravedervi i segni dell'esistenza eccentrica e del disordine sentimentale di un individuo soggetto alla tirannia dell'arte, e al contempo sprezzante delle convenzioni sociali. Infatti la camicia di batista dai polsini plissettati si gonfiava secondo il capriccio del vento fuori dalla scollatura del panciotto di traliccio grigio, e i pantaloni a righe larghe scoprivano alle caviglie gli stivaletti di tela cachi con i rinforzi di pelle verniciata, così lucidi che l'erba vi si specchiava. Rodolphe calpestava con essi lo sterco di cavallo, una mano in tasca e il cappello di paglia di sghimbescio.

"Del resto, quando si vive in campagna..." soggiunse.

"Non ne vale la pena" disse Emma.

"È vero!" approvò lui "E pensare che non una di queste brave persone capisce qualcosa della linea di un vestito!"

Il discorso scivolò quindi sulla mediocrità della provincia, delle esistenze che riusciva a soffocare, delle illusioni che vi morivano.

"Tutto ciò" disse Rodolphe "mi induce a lasciarmi andare a una malinconia tremenda..."

"Lei?" disse Emma stupita "Ma se io la credevo così felice!"

"Ah! Sì, in apparenza, perché quando mi trovo in mezzo alla gente so mettermi sul viso una maschera beffarda, e d'altronde, più d'una volta, davanti a un cimitero, al chiaro di luna, mi sono domandato se non farei meglio a raggiungere quelli che già dormono il sonno eterno..."

"Oh!" disse Emma "E i suoi amici? Non ci pensa?"

"I miei amici? E quali? Ne ho, forse? Ce n'è qualcuno che si preoccupi di me?"

E accompagnò le ultime parole con una sorta di sibilo delle labbra.

A questo punto furono costretti a dividersi a causa di una catasta di sedie trasportate da un uomo. Ne era così stracarico che di lui rimanevano visibili soltanto le punte degli zoccoli e l'estremità delle braccia, distese. Si trattava di Lestiboudois, il becchino, che trasportava in mezzo alla folla le sedie della chiesa. Pieno di iniziativa per quanto concerneva i suoi interessi, aveva scoperto questo sistema per trarre profitto dalle Assemblee e la sua idea aveva avuto tanto successo che non sapeva più come fare per accontentare tutti. Infatti i contadini accaldati si contendevano queste sedie, la cui paglia sapeva d'incenso, e si appoggiavano agli alti schienali, imbrattati dalla cera delle candele, con una certa venerazione.

La signora Bovary riprese il braccio di Rodolphe, ed egli continuò, come parlando a se stesso:

"Sì, ho sentito la mancanza di moltissime cose nella vita! Sono sempre stato solo! Ah! Avessi almeno uno scopo! Avessi incontrato un affetto, avessi avuto vicino qualcuno... Oh! Come avrei volentieri speso tutte le energie di cui sono capace, come avrei saputo sormontare ogni ostacolo, come sarei riuscito ad abbattere ogni barriera che impedisse il mio cammino!"

"Eppure" interloquì Emma "non mi sembra che lei sia poi tanto da commiserare."

"Ah! Dice?" fece Rodolphe.

"Perché, in fondo," ella riprese "è libero."

Esitò:

"Ricco".

"Non si burli di me" rispose Rodolphe.

Emma lo assicurò che non si stava affatto burlando di lui e in quel momento rimbombò un colpo di cannone; subito tutti si precipitarono in disordine verso il villaggio.

Ma si trattava di un falso allarme. Il prefetto non era arrivato, e i membri della giuria si trovarono nel grave imbarazzo di non sapere se dare inizio alla seduta o aspettare ancora. Finalmente, in fondo alla piazza comparve una grossa carrozza da nolo, tirata da due cavalli magri, frustati con la massima energia da un cocchiere con in capo un cappello bianco. Binet ebbe soltanto il tempo di gridare: "Allarme!", subito imitato dal colonnello. Tutti corsero verso i fucili affastellati, tutti si precipitarono di qua e di là. Qualcuno si dimenticò perfino di abbottonarsi il colletto. Ma l'equipaggio prefettizio parve indovinare lo scompiglio causato con il suo arrivo e la coppia di rozze, dondolando fra le catenelle, giunse al piccolo trotto davanti al colonnato del municipio, proprio nel momento in cui la guardia nazionale e i pompieri si allineavano al rullo dei tamburi, segnando il passo.

"Muovete le braccia!" gridò Binet.

"Alt!" gridò il colonnello "Per fila sinist!"

E, dopo un presentat'arm nel quale il tintinnio delle fascette dei fucili, moltiplicandosi, risonò con un frastuono simile a quello prodotto da un paiolo di rame che rotoli giù per una scala, tutte le armi ricaddero.

Si vide allora scendere dalla carrozza un signore vestito con una giacca corta ricamata d'argento, calvo sulla fronte e con una corona di capelli sulla nuca, dal colorito pallido e dalla più benigna apparenza. Gli occhi, molto grandi e dalle palpebre pesanti, rimasero chiusi a metà, per osservare la folla, mentre alzava il naso appuntito e atteggiava a un sorriso la bocca dalle labbra rientranti. Riconobbe subito il sindaco per via della fascia e gli comunicò che il signor prefetto non era potuto venire e aveva mandato in sua vece lui, un consigliere di prefettura. Aggiunse poi qualche scusa. Tuvache gli rispose con frasi ossequiose; l'altro si dichiarò confuso e i due rimasero così faccia a faccia, con le fronti che quasi si toccavano, in mezzo ai membri della giuria, del consiglio municipale, ai notabili, alla guardia nazionale e alla folla. Il signor consigliere, appoggiandosi al petto un piccolo tricorno nero, reiterò i suoi saluti mentre Tuvache, curvo come un arco, sorrideva a sua volta, balbettava, cercava frasi adatte, protestava la sua devozione alla monarchia, e ringraziava dell'onore che veniva fatto a Yonville.

Hippolyte il mozzo di stalla dell'albergo, venne a prendere per la briglia i cavalli del cocchiere e, zoppicando sul piede sciancato, li condusse sotto il portico del Leon d'Oro, ove si radunarono molti paesani per contemplare la carrozza. Il tamburo rullò, il mortaio tuonò e le autorità salirono in fila sulla tribuna per sedersi sulle poltrone di velluto rosso, prestate dalla signora Tuvache.

Tutta quella gente si somigliava. I loro visi flaccidi, leggermente abbronzati dal sole, avevano il colore del sidro dolce, con i soffici favoriti che sfuggivano dagli alti colletti rigidi sostenuti da cravatte bianche con il nodo ben disteso. Tutti i panciotti erano di velluto, con il collo a scialle; tutti gli orologi portavano, al termine di un lungo nastro, uno di quei sigilli ovali di corniola, tutti appoggiavano entrambe le mani sulle cosce, allargando con cautela il cavallo dei pantaloni di panno apprettato e più lucido del cuoio delle pesanti calzature.

Le signore della buona società stavano dietro di loro, sotto il vestibolo, fra le colonne, mentre il grosso della folla era accalcato di fronte, in piedi o seduto su sedie. Lestiboudois, infatti, aveva portato là tutte quelle che era riuscito a trasportare dal prato e, a ogni minuto, correva ancora in chiesa a prenderne altre, creando un tale ingombro, con il suo commercio, da rendere quasi impossibile per chiunque arrivare alla scaletta della tribuna.

"Secondo me, io trovo" disse il signor Lheureux (avvicinandosi al farmacista, che stava passando per raggiungere il suo posto) "che avrebbero dovuto innalzare là due alberi di navi di tipo veneziano, con qualcosa di severo e di ricco insieme come novità: sarebbe stato un bellissimo colpo d'occhio."

"Certo," rispose Homais "ma, cosa vuole, il sindaco ha disposto tutto da solo. Non ha molto buon gusto, questo povero Tuvache, ed è completamente sprovvisto di quella che si chiama sensibilità artistica."

Nel frattempo, Rodolphe, con la signora Bovary, era salito al primo piano del municipio, nel salone del consiglio, e trovandolo deserto, aveva dichiarato che vi si sarebbero trovati benissimo per godersi lo spettacolo con tutto comodo. Prese tre degli sgabelli situati intorno alla tavola ovale, sotto il busto del re, e, dopo che li ebbe avvicinati a una finestra, sedettero uno vicino all'altra.

Vi fu un gran movimento sulla tribuna, lunghi conciliaboli e sussurri. Infine si alzò il signor consigliere. Nel frattempo si era venuti a sapere che si chiamava Lieuvain e il nome veniva ripetuto da questo a quello fra la folla. Il consigliere, appena ebbe riordinato alcuni fogli, li avvicinò agli occhi per vedere meglio e cominciò:

"Signori,

mi sia anzitutto concesso (prima di intrattenermi sull'argomento della riunione d'oggi, e il sentimento che voglio esternare sono certo sarà condiviso da tutti voi), mi sia concesso dicevo, di rendere omaggio alla superiore amministrazione, al governo, al re, signori, al nostro sovrano, a questo monarca tanto amato, al quale nessun aspetto o particolare della pubblica prosperità è indifferente, e che regge con una così salda e saggia mano il carro dello Stato in mezzo ai continui pericoli di un mare tempestoso, con la capacità, d'altronde, di far rispettare sia la pace sia la guerra, l'industria, il commercio, l'agricoltura, e le belle arti".

"Dovrei spostarmi un po' più indietro" disse Rodolphe.

"Perché?" domandò Emma

Ma in quel momento la voce del consigliere crebbe straordinariamente di intensità, declamando:

"Non è più il tempo, signori, in cui la discordia civile insanguinava tutte le pubbliche piazze, in cui il possidente, il negoziante, l'operaio stesso, addormentandosi di un sonno tranquillo, tremava al pensiero di poter essere svegliato dall'improvviso suono delle campane a martello che avvertivano della presenza di un incendio, in cui le massime più sovversive minavano apertamente le basi..."

"Il fatto è che potrebbero vedermi dal basso" continuò Rodolphe "e sarei costretto a passare almeno quindici giorni a scusarmi; inoltre, con la cattiva reputazione di cui godo..."

"Oh! Lei si calunnia" disse Emma

"No, no, è proprio pessima, glielo assicuro."

"Ma, signori," continuò il consigliere "se allontano dalla mia immaginazione queste fosche visioni e volgo lo sguardo sull'attuale situazione della nostra bella patria, che cosa vedo? Ovunque fioriscono i commerci e le arti, ovunque nuove vie di comunicazione, simili ad altrettante arterie vitali nel corpo dello Stato vi stabiliscono rinnovati rapporti; i maggiori centri manifatturieri hanno ripreso la loro attività, la religione, rinsaldata nei suoi principi, sorride a tutti i cuori, i porti sono gremiti, la fiducia rinasce e, alfine, la Francia respira!..."

"Del resto," soggiunse Rodolphe "forse, dal punto di vista della pubblica opinione, non hanno nemmeno torto."

"Come può essere?" domandò Emma.

"Ma si," disse lui "non sa che esistono anime le quali soffrono senza sosta? A esse sono necessari, alternativamente, il sogno e l'azione, le passioni più pure e i piaceri più travolgenti, e di conseguenza si gettano in ogni sorta di capriccio, di follia."

Emma lo guardò, allora, come si guarda un viaggiatore che abbia attraversato paesi fantastici e osservò:

"Noi, povere donne, non possiamo permetterci simili distrazioni!"

"Distrazioni ben tristi, poiché in esse non v'è felicità."

"Ma esiste la felicità in qualcos'altro?"

"Certo, si può incontrarla un giorno, nella vita."

"Ed è questo che voi avete compreso" diceva il consigliere. "Voi agricoltori e operai delle campagne, voi pionieri pacifici di un'opera di grande civiltà! Voi, uomini del progresso e della moralità, voi avete compreso, io lo affermo, che gli uragani politici sono davvero più temibili delle perturbazioni atmosferiche..."

"Un giorno la si incontra," ripeté Rodolphe "un bel giorno, all'improvviso, e proprio quando ormai si dispera. Allora si schiudono nuovi orizzonti, ed è come se una voce gridasse: "Eccola!" Si sente il bisogno di confidare a questa persona tutta la propria vita, di donarle tutto, di sacrificarle tutto. Non sono necessarie spiegazioni: la si riconosce subito. La si intravede nei propri sogni" (e intanto la guardò). "E finalmente, eccolo il tesoro tanto atteso, davanti a noi, che brilla e risplende. Eppure, ancora non ci si sente sicuri, non si ha il coraggio di credervi, si resta abbagliati, come chi esca dalle tenebre alla luce."

E Rodolphe sottolineò questa frase con una mimica adeguata. Si passò la mano sul viso, quasi si sentisse stordito, poi la lasciò cadere su quella di Emma, che la ritrasse. Intanto il consigliere continuava a leggere:

"E chi potrebbe stupirsene, signori? Soltanto chi fosse così cieco, così immerso (non ho paura a dirlo), così immerso nei pregiudizi di un'altra epoca, da misconoscere anche ora lo spirito nuovo delle popolazioni agricole. Infatti, dove trovare un patriottismo più grande di quello che si incontra nelle nostre campagne, una maggior devozione alla causa pubblica, in una parole, una più viva intelligenza? E non alludo all'intelligenza superficiale, vano ornamento di spiriti oziosi, ma all'intelligenza profonda ed equilibrata che mira soprattutto a conseguire scopi utili, contribuendo in tal modo al bene di tutti, al comune progresso e al consolidamento dello Stato, frutto del rispetto della legge e dell'assolvimento del proprio dovere".

"Ah! Ancora!" disse Rodolphe "Sempre i doveri, sono stufo di questa parola. Sono un branco di vecchi incapaci, in panciotto di flanella, e di bigotte con lo scaldino e la corona del rosario. Continuano a cantarci negli orecchi: "Il dovere! Il dovere!" Eh! Perbacco! Il dovere è capire che cosa è grande, scegliere il bello, non accettare tutte le convenzioni della società, con le ignominie che ci impone"

"Eppure... eppure..." obiettò la signora Bovary.

"Eh, no! Perché inveire contro le passioni? Non sono forse la cosa più bella esistente sulla terra, le sorgenti dell'eroismo, dell'entusiasmo, della poesia, della musica, delle arti, di tutto, in una parola?"

"Ma bisogna pure" disse Emma "rispettare l'opinione della gente e obbedire alla morale."

"Ah! Il fatto è che ce ne sono due" obiettò Rodolphe. "La minore, quella convenzionale, quella degli uomini, che cambia senza sosta, e sbraita a più non posso, che si muove in basso, terra terra, come questa riunione di imbecilli sotto i suoi occhi. E l'altra, quella eterna, che sta tutto intorno a noi e al di sopra di noi, come il paesaggio che ci circonda e il cielo azzurro che ci illumina."

Il signor Lieuvain si asciugò la bocca con il fazzoletto e continuò:

"Sarebbe cosa inutile dimostrare qui l'utilità dell'agricoltura. Infatti, chi provvede ai nostri bisogni? Chi ci fornisce il sostentamento? Non è forse l'agricoltore? L'agricoltore, signori, che, seminando con mano solerte i solchi fecondi dei campi fa nascere il grano, il quale, macinato e ridotto in polvere per mezzo di ingegnosi macchinari, ne esce con il nome di farina, viene trasportato in città e ben presto giunge dal fornaio che lo trasforma in un alimento indispensabile al ricco e al povero. Non è forse l'agricoltore che, per fornirci gli abiti, alleva nei pascoli le greggi numerose? Come potremmo vestirci, invero come potremmo nutrirci, senza l'agricoltura? Ed è forse necessario andare così lontano per trovare degli esempi? Chi non ha mai pensato all'importanza che riveste il modesto animale ornamento dei pollai, che ci dà soffici cuscini per i nostri giacigli, una carne succulenta e le uova? Ma non finirei più se dovessi enumerare uno dopo l'altro i diversi prodotti che la terra ben coltivata, simile a una madre generosa, prodiga ai suoi figli. Qui le vigne, i pometi per il sidro e il ravizzone altrove i foraggi, o il lino, la coltura del quale, in questi ultimi anni, ha avuto uno sviluppo considerevole; e proprio sul lino vorrei richiamare in particolare la vostra attenzione".

Non era affatto necessario richiamarla, perché tutte le bocche della gente rimanevano spalancate, come per bere le sue parole. Tuvache, di fianco a lui, lo ascoltava con gli occhi sgranati; il signor Derozerays, di tanto in tanto, chiudeva dolcemente le palpebre e, più in là, il farmacista, con il figlio Napoleone fra le gambe, teneva una mano a conchiglia sull'orecchio per non perdere neppure una sillaba. Gli altri membri della giuria facevano andare lentamente su e giù il mento sui panciotti, in segno di approvazione. I pompieri, ai piedi della tribuna, si riposavano appoggiati alle baionette e Binet se ne stava immobile con il gomito in fuori e la punta della sciabola in aria. Forse ci sentiva, ma non doveva vedere nulla per colpa della visiera del chepì, che gli arrivava fin sul naso. Il suo luogotenente, il figlio minore del signor Tuvache, aveva esagerato ancora di più scegliendo il proprio copricapo; ne aveva in testa, in precario equilibrio, uno enorme, che lasciava sfuggire un angolo del fazzoletto di tela stampata postovi sotto. Il ragazzo sorrideva, di là sotto, con una dolcezza tutta infantile; il viso di lui, minuto e pallido, rigato da gocce di sudore, aveva un'espressione giubilante, stanca e piena di sonno.

La piazza era piena di gente fino alle case sull'altro lato. Tutte le finestre erano gremite di persone affacciate, altre stavano in piedi sulle porte e Justin, davanti alla vetrina della farmacia, sembrava assorto nella contemplazione di ciò che stava guardando. Per quanto regnasse un relativo silenzio, la voce del signor Lieuvain si perdeva nell'aria. Se ne afferravano brandelli di frasi, interrotti di tanto in tanto dal rumore delle sedie smosse fra la gente; poi, d'improvviso, capitava di sentire alle proprie spalle un lungo muggito, o il belato degli agnelli che si rispondevano dagli angoli delle vie. Infatti, bovari e pastori avevano spinto le proprie bestie fin lì, ed esse, di tanto in tanto, facevano sentire il loro verso, mentre cercavano di catturare con la lingua qualche po' d'erba che pendeva loro dal muso.

Rodolphe si era avvicinato a Emma e le diceva, in un rapido sussurro:

"Questa congiura dei benpensanti non le ripugna? E fosse un solo sentimento a essere condannato! Ma sono gli istinti più nobili, le più pure simpatie a essere perseguitate, calunniate; e se due povere anime finalmente si incontrano, tutto trama perché non possano unirsi. Eppure esse tenteranno, batteranno le ali, si chiameranno. E non importa se, presto o tardi fra sei mesi o dieci anni, riusciranno a unirsi e ad amarsi perché il destino ha stabilito così e perché sono nate per incontrarsi".

Stava con le braccia incrociate sulle ginocchia e, levando il viso verso Emma, la guardava da vicino fissamente. La signora Bovary vedeva nei suoi occhi pagliuzze dorate intorno alle pupille nere e sentiva il profumo della pomata che gli rendeva lustri i capelli. Si sentì presa dal languore, ricordò il Visconte che le aveva fatto ballare il valzer alla Vaubyessard, la barba di lui, che emanava lo stesso profumo di vaniglia e di limone dei capelli di Rodolphe, e, senza volerlo, socchiuse le palpebre per aspirarlo meglio. Ma il movimento per drizzarsi sulla sedia che si trovò a compiere, le fece scorgere lontano, all'orizzonte, la Rondine, la vecchia diligenza che scendeva lentamente il colle di Leux trascinandosi dietro un lungo pennacchio di polvere. Proprio su questo veicolo giallo Léon era tornato tante volte da lei, e proprio per quella strada laggiù se ne era andato per sempre. Le sembrò di vederselo davanti, affacciato alla finestra, poi tutto si confuse, le nubi passarono, le sembrò di volteggiare ancora nel valzer, sotto le luci dei lampadari, fra le braccia del Visconte, le sembrò che Léon non fosse lontano, che stesse per arrivare, e, nello stesso momento, fu conscia della testa di Rodolphe accanto a lei. La dolcezza di questa sensazione si mescolava con i sogni di un tempo, e questi ultimi, come granelli di sabbia a un colpo di vento, turbinarono nel soffio sottile del profumo che le pervadeva l'animo. Dilatò le narici più volte per aspirare profondamente la fragranza dell'edera disposta attorno ai capitelli. Si tolse i guanti e si asciugò le mani, poi si fece vento al viso con il fazzoletto, ascoltando, attraverso il pulsare delle tempie, il brusio della folla e la voce del consigliere che salmodiava le sue frasi. L'oratore stava dicendo:

"Continuate! Perseverate! Non ascoltate la suggestione delle abitudini né i consigli troppo azzardati di un empirismo temerario. Adoperatevi per rendere più fertili i terreni, per avere buoni concimi, per il miglioramento delle razze di cavalli, buoi, ovini e suini. Che queste Assemblee siano per voi simili ad arene pacifiche, ove il vincitore tende la mano al vinto e fraternizza con lui, nella speranza di sempre più grandi successi. E voi, venerabili servitori, umili domestici, il cui penoso lavoro non è stato fino a oggi preso in considerazione da alcun governante, venite a ricevere la ricompensa delle vostre silenziose virtù, e convincetevi che ormai lo Stato tiene gli occhi fissi su di voi, che vi incoraggia, vi protegge, renderà giustizia alle vostre rivendicazioni e alleggerirà, per quanto gli è possibile, il fardello dei vostri penosi sacrifici".

Il signor Lieuvain, a questo punto, si rimise a sedere. Si alzò allora il signor Derozerays e cominciò un altro discorso. Non fu, forse, fiorito come quello del consigliere; ma si fece apprezzare per le argomentazioni più positive, per una competenza più specializzata e per considerazioni di maggior rilievo. L'elogio al governo fu per conseguenza più breve e ne risultarono avvantaggiate l'agricoltura e la religione. Furono presi in esame i rapporti fra l'una e l'altra, e il loro costante contributo al progresso della civiltà. Rodolphe e la signora Bovary parlavano di sogni presentimenti, magnetismo Risalendo alle origini della società, l'oratore descriveva le epoche primitive in cui l'uomo si nutriva di ghiande e viveva nei boschi. Parlò poi di come si fosse spogliato delle pelli di animali per indossare vesti di stoffa, di come avesse cominciato a scavare solchi e a coltivare le viti. Tutto ciò era stato un bene o, in queste scoperte, v'erano più inconvenienti che vantaggi? Il signor Derozerays si poneva questo problema. Dal magnetismo, Rodolphe era arrivato alle affinità e, mentre il presidente citava Cincinnato e il suo aratro, Diocleziano che piantava cavoli e l'imperatore della Cina che inaugurava l'anno nuovo con le seminagioni, il giovane spiegava alla signora come le attrazioni irresistibili debbano la loro origine a qualche esistenza precedente.

"Noi due per esempio," diceva "perché ci siamo conosciuti? Quale fato lo ha voluto? Come due fiumi che scorrono attraverso lontane regioni per ricongiungersi, certo a nostra volta siamo stati spinti, lungo la china della vita, l'uno verso l'altra."

E riprese la mano di lei che non la ritirò.

"Un insieme di colture produttive" gridò il presidente.

"Poco fa, per esempio, quando sono venuto da lei..."

"Al signor Binet di Quincampoix."

"Sapevo forse che l'avrei accompagnata?"

"Settanta franchi!"

"Cento volte sono stato deciso ad andarmene, ma, senza saperlo, la seguivo, e sono rimasto."

"Concimi."

"Così come non me ne andrò stasera, domani, i giorni a venire, tutta la vita!"

"Al signor Caron, d'Argueil, una medaglia d'oro!"

"Perché non ho mai trovato in nessuna donna un fascino irresistibile come quello che lei possiede."

"Al signor Bain, di Givry-Saint-Martin!"

"Così, io serberò il suo ricordo."

"Per un montone merino..."

"Mi dimenticherà, passerò come un'ombra."

"Al signor Belot, di Notre-Dame..."

"Oh, no! Ma io rappresenterò qualcosa nei suoi pensieri, nella sua vita, nevvero?"

"Razza suina, premio ex aequo ai signori Lehérissé e Cullembourg, sessanta franchi."

Rodolphe le strinse la mano e la sentì calda e fremente come una tortorella prigioniera, bramosa di riprendere il volo. Ma, sia che volesse liberare la mano, sia che rispondesse alla stretta, Emma fece con le dita un movimento e Rodolphe esclamò:

"Oh, grazie! Lei non mi respinge. Lei è buona, ha capito che io le appartengo! Mi permetta di guardarla, di contemplarla!"

Un colpo di vento proveniente dalla finestra smosse il tappeto sulla tavola, e in basso, nella piazza, i lembi di tutte le grandi cuffie delle contadine si sollevarono come ali di farfalle bianche palpitanti.

"Impiego di panelli di semi oleosi" continuò il presidente.

Cominciava ad affrettarsi:

"Concime fiammingo, coltura del lino, irrigazione, piantagioni di alberi a lenta crescita per costruzioni navali, fedeltà domestica".

Rodolphe taceva. Si fissavano. Un unico desiderio faceva fremere a entrambi le labbra aride e, mollemente, senza sforzo, le loro dita si intrecciarono.

"Catherine-Nicaise-Elisabeth Leroux, di Sassetot-la-Guerrière, per cinquantaquattro anni di servizio nella stessa fattoria, una medaglia d'argento del valore di venticinque franchi."

"Dov'è questa Catherine Leroux?" ripeteva il consigliere.

Non si faceva avanti nessuno e si udivano voci che parlottavano.

"Vacci!"

"No!"

"A sinistra"

"Non aver paura!"

"Ah! Che sciocca!"

"Insomma, c'è o no?" gridò Tuvache

"Sì... Eccola!"

"Venga avanti, allora!"

Si vide infine avanzare sulla pedana una vecchietta dall'aria spaurita che sembrava cercare di rimpicciolirsi nelle povere vesti. Calzava grossi scarponi dalla suola di legno, e metà della sua figura era nascosta da un grembiulone turchino. Il viso magro, circondato dalla cuffia priva di ala, era più segnato dalle rughe di una mela renetta avvizzita, e dalle maniche della camicetta rossa uscivano le mani lunghe con articolazioni nodose. La polvere dei granai, la soda dei bucati, il grasso della lana le avevano talmente incrostate, logorate, indurite, da farle sembrare sporche anche dopo essere state lavate e rilavate nell'acqua di fonte; rimanevano abbandonate, quelle mani, quasi in un gesto di rassegnazione, come se, dopo avere sempre servito gli altri volessero essere esse stesse l'umile testimonianza di tutte le sofferenze sopportate. L'espressione del suo viso era caratterizzata da una sorta di impassibilità monacale. Nulla che potesse somigliare alla malinconia o alla tenerezza addolciva lo sguardo scialbo della donna. La continua dimestichezza con gli animali le aveva fatto assumere il loro stesso mutismo e la loro placidità. Per la prima volta le capitava di trovarsi in mezzo a tanta gente; la sgomentavano i tamburi, le bandiere, i signori in abito nero, la Legion d'Onore del consigliere e rimaneva del tutto immobile, senza sapere se dovesse farsi avanti o fuggire, senza capire perché la folla la spingesse e perché i componenti la giuria le sorridessero. In tale atteggiamento, quel mezzo secolo di fedeltà domestica se ne stava davanti ai prosperi borghesi.

"Si avvicini, egregia Catherine-Nicaise-Elisabeth Leroux" disse il consigliere prefettizio, che aveva tolto dalle mani del presidente la lista dei premiati.

E, guardando ora i fogli, ora l'anziana donna, ripeteva in tono paterno:

"Venga avanti, venga avanti!"

"Ma è sorda?" disse Tuvache balzando dalla poltrona. E si mise a sbraitarle nell'orecchio:

"Cinquantaquattro anni di servizio! Una medaglia d'argento! Venticinque franchi! È per lei!"

Quando ebbe avuto la medaglia, la vecchietta l'osservò attentamente, e un sorriso di beatitudine le illuminò il viso; fu udita mormorare, mentre se ne andava:

"La darò al curato della mia parrocchia, perché mi dica delle messe".

"Che fanatismo!" esclamò il farmacista rivolgendosi al notaio.

La riunione era giunta al termine; la folla si disperse, e ora che i discorsi erano stati ormai letti, ognuno riprendeva il suo posto e ognuno rientrava nella vita abituale di tutti i giorni. I padroni rimbrottavano i domestici e questi ultimi se la pigliavano con gli animali, gli indolenti trionfatori che se ne tornavano alle stalle con una corona di verzura fra le corna.

Nel frattempo, le guardie nazionali erano salite al primo piano del municipio, con panini infilzati sulle baionette, mentre il tamburino del battaglione reggeva un paniere di bottiglie. La signora Bovary si appoggiò al braccio di Rodolphe, il quale l'accompagnò a casa. Si separarono davanti alla porta, poi Rodolphe passeggiò solo nel prato, in attesa che il banchetto avesse inizio.

Il festino durò a lungo, rumoroso, con un pessimo servizio. I convitati stavano tanto stretti che a fatica potevano muovere le braccia, e le strette assi che fungevano da panche minacciavano di rompersi sotto il peso dei commensali. Mangiarono molto, e ognuno faceva il possibile per rifarsi della sua quota-parte Il sudore scorreva a rivoli su tutti i volti e un vapore lattiginoso, simile alla bruma sul fiume in un mattino autunnale, ondeggiava sopra la tavola, fra le lucerne accese. Rodolphe, con la schiena addossata al telo della tenda, pensava con tanta intensità a Emma da non accorgersi di nulla. Dietro di lui, sull'erba, i domestici accatastavano pile di piatti sporchi; i vicini chiacchieravano, gli riempivano il bicchiere, ma lui non rispondeva e un gran silenzio si faceva nella sua mente sebbene il frastuono divenisse sempre più intenso. Pensava a quello che Emma aveva detto, al disegno delle sue labbra; il viso di lei, come in uno specchio magico, brillava sulle placche dei chepì senza visiera, le pieghe del suo abito si drappeggiavano sui muri e innumerevoli giornate d'amore si preannunciavano per l'avvenire.

La rivide quella sera stessa, durante i fuochi d'artificio, ma era in compagnia del marito, della signora Homais e del farmacista, il quale si preoccupava molto per il pericolo costituito dai razzi che deviavano accidentalmente, e di continuo lasciava la compagnia per andare a fare raccomandazioni a Binet.

Gli apparati pirotecnici, inviati all'indirizzo del signor Tuvache, erano stati chiusi, per un eccesso di precauzione, nella cantina della casa e così la polvere umida non voleva saperne di accendersi; la parte più spettacolare, costituita da un drago che si mordeva la coda, fu un fiasco completo. Di tanto in tanto partiva una misera candela romana, e allora, dalla moltitudine a bocca aperta, si alzava un clamore al quale si mescolavano i gridolini delle donne cui qualcuno aveva solleticato la vita grazie all'oscurità. Emma, silenziosa, si rannicchiava contro la spalla di Charles; con il mento alzato seguiva nel cielo nero la scia luminosa dei razzi. Rodolphe la contemplava alla luce dei lampioncini accesi.

Questi ultimi a poco a poco si spensero. Le stelle scintillarono. Caddero poche gocce di pioggia. Emma si annodò una sciarpa sul capo scoperto.

In quel momento la carrozza chiusa del consigliere di prefettura uscì dall'albergo. Il cocchiere, ubriaco, si addormentò subito, e si vedeva di lontano, al di sopra della cappotta, fra le due lanterne, la massa del suo corpo che si dondolava di qua e di là, a seconda delle oscillazioni dei cignoni.

"In verità," disse lo speziale "bisognerebbe essere severissimi contro l'ubriachezza. Vorrei che tutte le settimane, sulla porta del municipio, comparisse l'elenco dei nomi di coloro che in quel periodo si sono intossicati con l'alcool. In questo modo, dal punto di vista statistico, ci si troverebbe a disporre di una specie di annali, veri e propri documenti, che in caso di necessità... Ma scusate..."

E corse di nuovo verso il capitano.

Questi stava rincasando. Era ansioso di rivedere il suo tornio.

"Forse farebbe bene" gli disse Homais "a mandare uno dei suoi uomini o ad andare lei stesso..."

"Mi lasci in pace" rispose l'esattore. "Non c'è nessun pericolo."

"State tranquilli," disse lo speziale, non appena fu di nuovo insieme con gli amici "il signor Binet mi ha assicurato che tutte le misure necessarie sono state adottate. Nessuna favilla è stata perduta di vista e le pompe degli incendi sono piene. Possiamo andare a dormire."

"Era ora. Ne ho proprio bisogno" disse la signora Homais, che continuava a sbadigliare. "Ma non importa, abbiamo avuto per la festa una magnifica giornata."

Rodolphe ripeté con una voce bassa e lo sguardo tenero:

"Oh, sì! Davvero bella!"

E, dopo essersi salutati, si voltarono le spalle.

Due giorni dopo, sul Faro di Rouen apparve un lungo articolo sulle Assemblee. Homais lo aveva scritto di getto il giorno successivo.

"Perché questi festoni, i fiori le ghirlande? Dove sta correndo la folla, simile ai flutti di un mare in burrasca, sotto i raggi di un sole tropicale che riversa il suo ardore sopra i nostri campi?"

Proseguiva parlando della situazione dei contadini. Certo il governo faceva molto, ma non ancora abbastanza. "Coraggio!" incitava "Ci sono mille riforme indispensabili, attuiamole!" Poi, accennando all'arrivo del consigliere, non trascurava alcun particolare né "l'aria marziale delle nostre milizie" né "le vivaci contadinelle" e neppure i "vegliardi dalla testa calva, veri patriarchi presenti alla cerimonia, alcuni dei quali veterani delle nostre falangi immortali, che sentivano battere ancora in fretta il cuore al virile suono dei tamburi". Citava il proprio fra i primi nomi di coloro che formavano la giuria e ricordava perfino, in una nota, che il signor Homais, farmacista, aveva inviato un opuscolo sul sidro alla Società d'Agricoltura. Giunto alla distribuzione dei premi, dipingeva la gioia dei prescelti con accenti ditirambici. I fratelli abbracciavano i fratelli, i padri i figli, gli sposi le spose. Più d'uno mostrava con orgoglio la propria umile medaglia e, di certo, appena tornato a casa, accanto alla fedele compagna della sua vita, avrà appeso, con le lacrime agli occhi, l'ambito trofeo alle modeste pareti della sua capanna.

"Verso le sei un banchetto organizzato sul prato del signor Liégard ha riunito i più autorevoli partecipanti alla festa. La più grande cordialità ha regnato senza interruzioni. Sono stati pronunciati numerosi brindisi: il signor Lieuvain al re, il signor Tuvache al prefetto, il signor Derozerays all'agricoltore, il signor Homais all'industria e alle belle arti, queste due sorelle, il signor Leplichey al progresso. La sera un rutilante fuoco d'artificio ha d'improvviso illuminato il cielo. Un vero caleidoscopio di colori, uno scenario d'opera, e per un momento il nostro piccolo paese ha davvero creduto d'essere trasportato nel bel mezzo di un sogno da mille e una notte. È doveroso sottolineare che nessun evento increscioso ha turbato questa riunione familiare."

E aggiungeva:

"È stata però notata l'assenza del clero. Certo le sagrestie intendono il progresso in un altro modo. Liberissimi di farlo, signori di Loyola!"

IX

Trascorsero sei settimane senza che Rodolphe si facesse vivo. Egli comparve infine, una sera.

Si era detto:

"Non facciamoci vedere troppo presto, sarebbe un errore".

E, alla fine della settimana, era partito per la caccia.

Trascorso questo periodo, aveva pensato che fosse ormai troppo tardi, ma si era consolato con questo ragionamento:

"Se è vero che mi ha amato fin dal primo giorno, la smania di rivedermi farà sì che mi ami ancora di più! E allora andiamo avanti così".

Si rese conto di non avere sbagliato i calcoli quando, entrando nel salotto, vide Emma impallidire. Era sola. il giorno declinava. Le tendine di mussola, lungo i vetri, rendevano più fitto il crepuscolo, e la doratura del barometro, sul quale andava a cadere un raggio di sole, accendeva fiammelle nello specchio, fra le ramificazioni della madrepora.

Rodolphe rimase in piedi. Emma riuscì a rispondere a stento alle sue frasi di cortesia.

"Sono stato molto occupato" disse Rodolphe "e anche indisposto."

"Gravemente?" domandò Emma con vivacità.

"Ebbene, no" fece Rodolphe, sedendole accanto su uno sgabello. "La vera ragione è che non sono voluto ritornare."

"Perché?"

"Non lo indovina?"

La guardò di nuovo con tanta intensità da costringerla ad abbassare la testa arrossendo. Disse:

"Emma..."

"Signore!" fece lei, scostandosi un poco.

"Ah, vede?" egli disse con voce melanconica "Avevo ragione di non tornare, lei non mi consente neppure di pronunciare questo nome, questo nome che riempie tutta l'anima mia e che mi è sfuggito. Signora Bovary!... Tutti si rivolgono a lei in questo modo!... E non è neppure il suo nome, è il nome di un altro!"

E ripeté:

"Di un altro!"

Nascose il viso fra le mani.

"Si, penso a lei senza posa... Il suo ricordo mi fa impazzire! Ah, mi perdoni!... È meglio che me ne vada... Addio!... Andrò lontano... così lontano che non sentirà più parlare di me!... Eppure, ancora adesso, non so quale forza mi abbia spinto verso di lei. Non si può lottare contro il Cielo, non si può resistere al sorriso degli angeli! Ci si lascia trascinare perché è bello, affascinante, adorabile!"

Era la prima volta che Emma si sentiva rivolgere frasi simili e il suo orgoglio, come chi si rilassi in un bagno turco, si crogiolava tutto al calore di quelle parole.

"Ma anche se non sono venuto da lei, se non ho potuto vederla, ho almeno contemplato tutto ciò che la circonda. La notte, tutte le notti, mi alzavo, arrivavo fin qui, guardavo la sua casa, il tetto che brillava sotto la luna, gli alberi del giardino che si dondolavano sotto la sua finestra, e una lampada fioca, un bagliore che splendeva al di là dei vetri, nell'ombra. Ah! Lei non sospettava neppure che, così vicino, e al contempo così lontano, vi fosse un povero infelice..."

Emma si voltò verso di lui con un singhiozzo.

"Oh! Com'è buono lei!" disse.

"No, io l'amo, ecco tutto! E lei lo sa bene! Mi dica una sola parola, una parola soltanto!"

E Rodolphe, a poco a poco, si lasciò scivolare dallo sgabello fino a terra; in quel momento si sentì un rumore di zoccoli, in cucina, ed egli si accorse che la porta del salotto non era chiusa.

"Sia tanto buona da soddisfare almeno un mio capriccio" soggiunse rialzandosi.

Desiderava visitare la casa, gli avrebbe fatto piacere sapere com'era, e siccome la signora Bovary non trovava in ciò niente di riprovevole, stavano alzandosi entrambi, quando Charles entrò.

"Buongiorno dottore" gli disse Rodolphe.

Il medico, colpito dal titolo inconsueto, si profuse in ossequi, e l'altro ne approfittò per ricomporsi un poco.

"La signora mi parlava della sua salute..." disse.

Charles l'interruppe: era molto preoccupato, infatti; i malori di Emma erano ricominciati. Rodolphe domandò allora se l'equitazione avrebbe potuto giovarle.

"Certo, sarebbe eccellente, perfetto! Ecco un'idea! Dovresti seguire questo consiglio."

E siccome Emma obiettava di non avere un cavallo, il signor Rodolphe gliene offrì uno; Emma rifiutò l'offerta e lui non insistette. Poi, per giustificare la propria visita, si mise a parlare del suo carrettiere, l'uomo che era stato salassato e soffriva ancora di stordimenti.

"Passerò a vederlo" disse Bovary.

"No, no, glielo manderò; lo accompagnerò io, sarà più comodo per lei."

"Molto bene, la ringrazio."

E, quando fu solo con Emma, Charles le domandò:

"Perché non accetti l'offerta del signor Boulanger? È stato molto gentile".

Emma assunse un'aria imbronciata, trovò mille scuse, e dichiarò infine che la cosa poteva sembrare strana.

"Ah! Me ne infischio!" disse Charles con un gesto di noncuranza "La salute innanzitutto. E poi credo che tu abbia torto."

"Già, ma come posso montare a cavallo se non ho un costume da amazzone?"

"Ne ordineremo uno!" rispose lui.

L'abito da amazzone la convinse.

Quando fu pronto, Charles scrisse al signor Boulanger che sua moglie era disposta ad accettare la proposta e che entrambi contavano sulla sua gentilezza.

L'indomani a mezzogiorno Rodolphe giunse davanti alla porta della casa di Charles con due cavalli da sella. Uno di essi aveva sui finimenti, accanto agli orecchi, due pompon rosa; in quanto alla sella da donna, era in pelle di daino.

Rodolphe calzava alti stivali morbidi e se li era messi dicendosi che certo Emma non ne aveva mai veduti di simili; infatti ella restò incantata dal suo aspetto, quando lui apparve sul pianerottolo, con l'ampia giacca di velluto e i pantaloni di tessuto di maglia, bianchi. Era pronta e lo aspettava.

Justin uscì dalla farmacia per vederla e anche lo speziale si scomodò per fare al signor Boulanger alcune raccomandazioni.

"Le disgrazie sono sempre pronte! State attenti! Forse i suoi cavalli sono focosi."

Emma sentì un rumore proveniente dall'alto: era Félicité che tamburellava sul vetro per divertire la piccola Berthe. La bimba mandò un bacio alla madre da lontano; Emma rispose agitando l'impugnatura del frustino.

"Buona passeggiata!" gridò Homais "Siate prudenti, soprattutto, siate prudenti!"

E agitava il giornale, guardandoli allontanarsi.

Non appena sentì sotto gli zoccoli il terreno soffice, il cavallo di Emma si mise al galoppo e Rodolphe le si affiancò. Di tanto in tanto scambiavano qualche parola. Il viso un po' chino, la mano alzata e il braccio disteso, Emma si abbandonava alla cadenza del movimento che la cullava sulla sella.

Ai piedi del colle, Rodolphe allentò le redini, i cavalli partirono entrambi con uno scatto improvviso e, giunti più in alto, si fermarono con altrettanta subitaneità, il velo azzurro di Emma ricadde.

Si era ai primi di ottobre e sulla campagna si stendeva la nebbia. All'orizzonte, contro i profili delle colline, si alzavano le brume, sfilacciandosi, salendo per poi dissolversi. Di quando in quando, attraverso uno squarcio delle nubi, penetrava un raggio di sole e lontano si scorgevano i tetti di Yonville, i giardini sulle rive del fiume, i cortili, l'edificio e il campanile della chiesa. Emma socchiuse gli occhi per meglio individuare la sua casa, e mai come ora il povero villaggio in cui viveva le era sembrato tanto piccolo. Dall'altezza alla quale si trovavano, la valle appariva come un immenso lago incolore, dal quale si levassero vapori nell'aria. I gruppi di alberi emergevano qua e là come rocce nere e le alte file di pioppi spuntavano sopra la bruma, simili a greti sabbiosi che il vento smuovesse.

Sul pascolo, in mezzo ai pini, l'aria aveva un colore cupo La terra, rossiccia come polvere di tabacco, smorzava il suono dei passi e i cavalli spingevano davanti a sé camminando, con i ferri degli zoccoli, le pigne cadute.

Rodolphe ed Emma seguirono così il limitare del bosco. Per evitare lo sguardo del compagno, di tanto in tanto la signora Bovary voltava la testa e allora scorgeva soltanto i tronchi allineati dei pini, e l'uniforme susseguirsi degli alberi le dava una specie di lieve capogiro. I cavalli stronfiavano. Il cuoio delle selle gemeva.

Nell'istante in cui si addentrarono nel bosco, apparve il sole.

"Dio ci protegge!" disse Rodolphe.

"Crede?" domandò Emma.

"Andiamo avanti ancora, andiamo più avanti!" riprese lui.

Fece schioccare la lingua. Le due bestie partirono al galoppo.

Ai margini del sentiero, lunghe felci si impigliarono nella staffa di Emma. Rodolphe, continuando a procedere, si chinava e di mano in mano le toglieva. Altre volte per evitare i rami bassi, le passava vicino ed Emma sentiva il ginocchio di lui sfiorarle la gamba. Il cielo si era fatto azzurro. Le foglie rimanevano immobili. Incontrarono radure coperte di erica in fiore e sul terreno fra gli alberi, si alternavano tappeti di violette con distese di foglie cadute, grigie fulve o dorate, a seconda della specie. Spesso, nel folto dei cespugli, si sentiva un fruscio d'ali, o il grido rauco e malinconico dei corvi che si alzavano a volo fra le querce.

Smontarono e Rodolphe legò i cavalli. Emma lo precedette sul musco, fra i solchi lasciati dai carri.

Ma l'abito troppo lungo la impacciava, sebbene tenesse alzato lo strascico. Rodolphe, seguendola, contemplava, fra il panno nero della gonna e lo stivaletto anch'esso nero, l'eleganza della calza bianca e gli sembrava di avere dinanzi agli occhi qualcosa della sua nudità.

Emma si fermò.

"Sono stanca" disse.

"Andiamo avanti ancora soltanto un poco. Coraggio" rispose lui.

Cento passi più avanti Emma si fermò di nuovo e, attraverso la trasparenza bluastra del velo che le scendeva obliquo dal cappello di foggia maschile fino al fianco si intravedeva il suo viso, come se ella stesse nuotando sotto la superficie di acque azzurrine.

"Ma dove andiamo?"

Rodolphe non rispose. Emma respirava affannosamente. Egli scrutava attorno a sé, mordicchiandosi i baffi.

Giunsero in una radura ove erano state abbattute alcune giovani querce. Sedettero su un tronco d'albero caduto e Rodolphe ricominciò a parlarle del suo amore per lei

Dapprima cercò di non impaurirla con complimenti audaci. Si mantenne calmo, serio, malinconico.

Emma l'ascoltava a capo chino, smuovendo con la punta del piede le schegge di legno, per terra

"I nostri destini son forse ormai uniti?"

Quando Rodolphe pronunciò queste parole Emma si alzò per andarsene e rispose:

"Eh!, no! E lo sa benissimo. È una cosa impossibile!"

Rodolphe l'afferrò per il polso. Emma si fermò. Poi, dopo averlo fissato per un lungo istante con uno sguardo affettuoso e commosso, disse con vivacità:

"Ah! Senta, non ne parliamo più. Dove sono i cavalli? Torniamo".

Rodolphe fece un gesto di noia e di rabbia. Emma ripeté:

"Dove sono i cavalli? Dove sono i cavalli?"

Sorridente e con una strana espressione sul viso, gli occhi fissi e i denti serrati, Rodolphe avanzò verso di lei allargando le braccia. Emma indietreggiò tremando e balbettò:

"Oh! Mi fa paura Mi vuol fare del male? Andiamocene!"

"Se proprio è indispensabile" rispose lui cambiando atteggiamento.

Ridivenne di colpo rispettoso, carezzevole, timido. Le diede il braccio e si incamminarono sulla via del ritorno.

"Che cos'ha?" domandò Rodolphe "E perché? Non l'ho capito. Sono sicuro che lei si sbaglia. Non vuole convincersi che vive nella mia anima come una madonna, su un piedistallo ben alto, solido e immacolato. Ma ho bisogno di lei per vivere. Ho bisogno di guardare i suoi occhi, di ascoltare la sua voce, di sapere che qualche volta pensa a me. Perché non vuole essere mia amica, mia sorella, il mio angelo?"

E le circondò la vita con il braccio. Emma tentò di liberarsi ma senza energia. Rodolphe la sostenne così, mentre camminavano.

Sentirono i cavalli che pascolavano fra il fogliame.

"Restiamo ancora un poco!" disse Rodolphe "Non andiamo già via! Rimanga!"

La condusse più lontano, aggirando un piccolo stagno sulla cui superficie verdeggiavano le lenticchie d'acqua. Fra i giunchi stavano immobili le ninfee, ormai appassite. Al rumore dei passi, i ranocchi saltarono per cercare un nascondiglio.

"Faccio male, faccio male!" diceva Emma "Sono pazza a darle retta."

"Perché? Emma!... Emma!"

"Oh, Rodolphe!" sussurrò lentamente la giovane signora, abbandonandoglisi sulla spalla.

Il panno dell'abito di lei aderì al velluto della sua giacca. Ella arrovesciò il collo candido, che un sospiro faceva palpitare, disfatta, in lacrime, con un lungo fremito, nascondendo il viso, e si abbandonò.

Scendevano le prime ombre della sera. Il sole basso all'orizzonte, penetrando con i suoi raggi orizzontalmente fra i rami l'abbagliava. Qua e là, intorno a lei, fra le foglie e sul terreno, tremolavano chiazze luminose, simili a penne di colibrì che questi uccelletti avessero perduto in volo. Il silenzio avvolgeva tutto, dagli alberi sembrava sprigionarsi una sorta di dolcezza nuova. Emma ascoltava il proprio cuore mentre ricominciava a battere e il sangue, che le scorreva nelle vene come un fiume di latte. In quel momento udì lontanissimo, al di là del bosco, sulle colline, un grido indefinibile e prolungato, un suono strascicato, e l'ascoltò in silenzio mescolarsi come una musica alle ultime vibrazioni dei suoi nervi eccitati. Rodolphe un sigaro fra i denti, aggiustava con il temperino una delle briglie che si era rotta.

Tornarono a Yonville per la stessa strada. Riconobbero sul fango le tracce affiancate dei cavalli, gli stessi cespugli, le stesse pietre in mezzo all'erba. Nulla era mutato intorno a loro; eppure per Emma era accaduto qualcosa di più importante di un cataclisma. Rodolphe, di tanto in tanto, si protendeva a prenderle la mano per baciarla.

Emma cavalcava in modo affascinante. Si teneva diritta sulla vita sottile, le ginocchia piegate sulla criniera della cavalcatura, le gote ravvivate dal contatto con l'aria aperta, tutta avvolta dal rosseggiante crepuscolo.

Entrarono a Yonville caracollando sul selciato.

Dalle finestre la stavano spiando.

A cena, il marito trovò che aveva una bella cera. Emma fece finta di non sentire quando le domandò notizie della passeggiata; rimase con il gomito appoggiato accanto al piatto, fra i due candelieri accesi.

"Emma!" disse Charles.

"Dimmi."

"Ecco, oggi nel pomeriggio, sono passato dal signor Alexandre; ha una puledra non più tanto giovane ma ancora molto bella, soltanto con i ginocchi un po' gonfi. Si potrebbe averla ne sono certo, per un centinaio di scudi..."

Soggiunse:

"Pensando di farti piacere, l'ho fermata... l'ho comprata... Ho fatto bene? Dimmi." Emma mosse il capo in segno di assenso; dopo un quarto d'ora domandò:

"Esci, stasera?"

"Sì, perché?"

"Oh! Nulla, nulla caro."

E, non appena si fu sbarazzata di Charles, salì a chiudersi in camera sua.

Dapprima provò una specie di stordimento, vedeva gli alberi, i sentieri, i fossati, Rodolphe, sentiva le sue braccia intorno a sé, mentre le foglie fremevano e il vento sibilava fra i giunchi.

Guardandosi nello specchio, si stupì dell'aspetto del proprio viso. Non aveva mai avuto gli occhi tanto grandi, così neri e profondi. Qualcosa di impalpabile, diffuso su tutta la sua persona, la trasfigurava.

Andava ripetendosi: "Ho un amante! Ho un amante!" e questa idea la deliziava come se le avessero promesso una seconda adolescenza. Finalmente avrebbe posseduto quelle famose gioie che dà l'amore, quella febbre di felicità che non sperava più di provare. Stava per entrare in quel mondo meraviglioso ove tutto è passione, estasi, delizia; un roseo universo la circondava, i più alti sentimenti splendevano sfiorati dal suo pensiero, l'esistenza di ogni giorno era confinata lontano, laggiù in fondo, nell'ombra, nei vuoti che si trovavano fra quelle straordinarie altezze.

Rammentò le eroine dei libri che aveva letto e la lirica legione di quelle donne infedeli che Emma sentiva sorelle, fece coro nella sua memoria con voci che la incantavano. Divenne ella stessa parte integrante di queste invenzioni. Vedeva avverarsi il lungo sogno della sua giovinezza, e si immedesimava in quel ruolo di donna passionale che aveva tanto desiderato. Oltre a ciò, assaporava la gioia della vendetta. Non aveva forse sofferto abbastanza? Ma ora sentiva di essere la trionfatrice e l'amore, così a lungo conculcato, sgorgava con impeto e con gioiosa turbolenza. Emma lo assaporava senza rimorsi, senza inquietudine, senza turbamento.

Il giorno dopo trascorse in una rinnovata dolcezza. I due amanti si fecero reciproci giuramenti, Emma gli narrò le sue malinconie. Rodolphe l'interrompeva baciandola e lei gli domandava, contemplando le palpebre di lui a metà chiuse, di chiamarla ancora per nome e di ripeterle che l'amava. Si trovavano nel bosco, come il giorno prima, in una capanna di zoccolai, con le pareti di paglia e il tetto tanto basso che bisognava tenersi curvi. Erano seduti l'uno contro l'altra su un letto di foglie secche.

A partire da quel giorno, si scrissero con regolarità tutte le sere. Emma metteva le proprie lettere in una fessura fra le pietre della terrazza in fondo al giardino, vicino al fiume. Rodolphe veniva a prenderle e ne lasciava una delle sue, alle quali Emma rimproverava sempre l'eccessiva brevità.

Un mattino che Charles era uscito prima dell'alba, Emma fu presa dal capriccio di rivedere subito Rodolphe. Le sarebbe stato possibile andare alla Huchette, restarvi un'ora e tornare a Yonville mentre ancora tutti dormivano. Questo pensiero la faceva ansimare di desiderio; si trovò in un attimo in mezzo ai prati e procedette a passi rapidi senza voltarsi indietro.

Faceva appena giorno. Emma riconobbe da lontano la casa del suo amante, con le due banderuole a coda di rondine che si stagliavano nere contro il pallido chiarore dell'alba.

Dopo il cortile della fattoria, v'era un edificio che doveva essere il castello. Emma vi entrò, quasi che i muri al suo passaggio si fossero aperti da soli. Uno scalone diritto saliva verso un corridoio. Emma tentò la maniglia di una porta e d'improvviso, in fondo alla camera scorse un uomo che dormiva. Era Rodolphe. Ella lanciò un grido.

"Tu qui! Tu qui!" ripeteva lui "Come hai fatto a venire?... Hai l'abito bagnato!"

"Ti amo" rispose lei gettandogli le braccia al collo.

Questa prima audacia le riuscì perfettamente e da allora ogni volta che Charles usciva di buon mattino, Emma si vestiva in fretta e scendeva a passi felpati la scala che conduceva in riva al fiume.

Ma, quando la passerella per il bestiame non si trovava al suo posto, bisognava seguire i muri che costeggiavano il corso d'acqua; l'argine era scivoloso ed Emma si aggrappava con le mani, per non cadere, ai ciuffi di violacciocche appassite. Poi attraversava i campi coltivati ove affondava, inciampava, rimaneva invischiata con i suoi stivaletti leggeri. Il fazzoletto di seta, annodato sul capo, svolazzava nel vento in mezzo alle alte erbe; Emma aveva una gran paura dei buoi e si metteva spesso a correre. Arrivava affannata, con le gote accese, fragrante in tutta la persona di un fresco profumo di linfa, di erba e di aria libera. Rodolphe a quell'ora dormiva ancora. Era come se una mattinata di primavera entrasse nella sua camera.

Le tendine gialle alle finestre lasciavano entrare un dolce e greve chiarore dorato. Emma avanzava a tastoni, strizzando gli occhi, mentre le gocce di rugiada dorata sui suoi capelli si trasformavano in una specie d diadema di topazi intorno al viso. Rodolphe, ridendo, l'attirava a sé e la stringeva sul cuore.

In seguito Emma osservava la stanza, apriva i cassetti dei mobili, si pettinava con il pettine di lui, si guardava nello specchio da barba. Qualche volta, perfino, si metteva fra i denti il cannello di una grossa pipa che Rodolphe teneva sul comodino da notte, in mezzo a limoni, zollette di zucchero, accanto a una bottiglia d'acqua.

Occorreva un buon quarto d'ora prima che avessero terminato di dirsi addio. Emma piangeva, non avrebbe mai voluto dover lasciare Rodolphe. Qualcosa di più forte di lei la spingeva nelle sue braccia. Un giorno, però, vedendola giungere all'improvviso, Rodolphe si rabbuiò in volto, come chi abbia una contrarietà.

"Cos'è che ti turba?" domandò Emma "Dimmelo."

E infine Rodolphe, con un'aria molto seria, le fece osservare che queste visite stavano diventando imprudenti e che lei avrebbe finito con il compromettersi.

X

Poco alla volta, i timori di Rodolphe la contagiarono. Dapprima l'amore l'aveva talmente inebriata che nella sua mente non era rimasto più posto per nessun altro pensiero. Ma ora che senza Rodolphe non avrebbe più saputo vivere, era spaventata al pensiero di perderlo o soltanto di essere la causa di qualcosa che avrebbe potuto turbarlo. Tornando a casa dopo essere state da lui, scoccava sguardi allarmati intorno a sé, spiando ogni sagoma che si profilasse all'orizzonte e ogni finestra d'abbaino dalla quale avrebbero potuto scorgerla. Ascoltava i passi, le grida, i rumori dei carretti, e si fermava, più pallida e tremante delle foglie di pioppo che si dondolavano sul suo capo.

Un mattino, mentre tornava a casa, credette di scorgere a un tratto la canna di una carabina che sembrava la stesse prendendo di mira. Spuntava obliqua da una botte a metà nascosta fra le erbe al margine di un fossato. Emma, sul punto di svenire per lo spavento, continuò a farsi avanti; un uomo sbucò dalla botte, simile a quei diavoletti con la molla che saltano fuori dalle scatole a sorpresa. Portava uose alte fino al ginocchio, il berretto calcato sugli occhi, e aveva le labbra tremanti dal freddo e il naso rosso. Era il capitano Binet alla posta delle anitre selvatiche.

"Doveva parlare, prima di avvicinarsi!" gridò "Quando si vede un fucile, bisogna sempre avvertire della propria presenza!"

L'esattore cercava in questo modo di dissimulare la paura che si era presa; un decreto prefettizio, infatti, aveva permesso la caccia alle anitre soltanto da un'imbarcazione. Il signor Binet, malgrado tutto il rispetto per la legge, era in contravvenzione. E così temeva a ogni istante di sentirsi capitare addosso la guardia campestre. Questa inquietudine aumentava il suo divertimento, e, tutto solo nella botte, si compiaceva della propria felicità e della propria furberia.

La vista di Emma parve sollevarlo da un gran peso, e subito intavolò una conversazione:

"Non fa per niente caldo, pizzica, stamane".

Emma non rispose. Binet continuò:

"È uscita molto presto, questa mattina".

"Sì," disse lei balbettando "vengo dalla balia alla quale è affidata la mia bambina."

"Ah! Benissimo, benissimo. In quanto a me, sono qui dall'alba, ma il tempo è così nebbioso che, a meno di avere le penne dell'anitra a un palmo dalla canna del fucile..."

"Buongiorno, signor Binet" lo interruppe la signora Bovary girando sui tacchi.

"Servo suo, signora" rispose lui seccamente.

E rientrò nella botte.

Emma si pentì di aver piantato in asso in modo così brusco l'esattore. Certo avrebbe fatto delle congetture poco simpatiche. La storia della balia era la scusa peggiore che avesse potuto scegliere, tutti sapevano infatti a Yonville che la piccola Bovary era tornata a casa già da un anno. E inoltre nessuno abitava nei dintorni, quel sentiero non conduceva che alla Huchette; Binet, quindi, aveva indovinato da dove veniva, e non sarebbe stato certo zitto, anzi avrebbe di sicuro propalato la notizia. Rimase tutto il giorno a torturarsi, architettando ogni possibile bugia, avendo sempre davanti agli occhi quell'imbecille con il carniere.

Charles, dopo cena vedendola preoccupata, volle portarla con sé dal farmacista: la prima persona che Emma vide in farmacia fu di nuovo lui, l'esattore! Era in piedi, davanti al banco, illuminato dal riflesso di un boccale rosso e stava dicendo:

"Vorrei, per piacere, una mezza oncia di vetriolo".

"Justin," chiamò lo speziale "portami l'acido solforico." Poi si rivolse a Emma, che avrebbe voluto salire dalla signora Homais.

"No, rimanga, non ne vale la pena, fra poco scenderà. Si scaldi vicino alla stufa, intanto. Mi scusi... Buonasera, dottore (il farmacista si beava tutto nel pronunciare questa parola dottore, come se, pur indirizzata a un altro, riverberasse su di lui qualcosa della solennità che egli le attribuiva)... Ma sta' attento a non rovesciare i mortai e va' piuttosto a prendere le sedie del tinello, sai bene che non devi spostare le poltrone del salotto."

E, per rimettere a posto la propria poltrona, Homais si precipitò fuori da dietro il banco, proprio mentre Binet gli stava chiedendo una mezza oncia di acido di zucchero.

"Acido di zucchero?" fece con sdegno il signor Homais "Non lo conosco. Non so che cosa sia. Forse lei vuole dell'acido ossalico. È acido ossalico, vero?"

Binet gli spiegò allora che gli serviva da mordente per preparare un liquido in grado di togliere la ruggine dalla sua attrezzatura da caccia. Emma trasalì. Il farmacista cominciò a dire:

"Il fatto è che il tempo non è molto propizio, a causa dell'umidità".

"Eppure," osservò l'esattore con aria furba "c'è chi si arrangia."

A Emma pareva di soffocare.

"Mi dia anche..."

"Ma non se ne vuole più andare?" pensava lei

"Una mezza oncia di colofonia e di trementina, quattro once di cera gialla e tre once di carbone animale, per piacere, per pulire il cuoio verniciato."

Il farmacista aveva cominciato a tagliare la cera quando comparve la signora Homais con Irma in braccio, Napoleone al fianco e Athalie che la seguiva. Andò a sedersi sulla panchetta di velluto sotto la finestra, il ragazzino si accoccolò su uno sgabello, mentre la sorella maggiore faceva la ronda intorno alla scatola delle giuggiole vicino al paparino. Questi versava liquidi negli imbuti, tappava flaconi, incollava etichette, confezionava pacchetti, indaffaratissimo. Tutti tacevano. Si sentivano soltanto, di quando in quando, tintinnare i pesi sulla bilancia e le parole che il farmacista mormorava al suo allievo per dargli dei consigli.

"Come sta la sua piccolina?" domandò la signora Homais all'improvviso.

"Silenzio!" disse il marito che stava scrivendo cifre su un quaderno di minute.

"Perché non ce l'ha portata?" riprese la signora Homais a bassa voce.

"Zitta! Zitta!" fece Emma indicando lo speziale.

Ma Binet, tutto assorto nella lettura del conto, molto probabilmente non aveva sentito nulla. Infine uscì. Allora Emma provò un senso di liberazione e tirò un gran sospiro di sollievo.

"Come respira forte!" disse la signora Homais.

"È per il caldo" rispose Emma.

L'indomani i due innamorati si preoccuparono di organizzare meglio i loro convegni. Emma voleva corrompere con un regalo la domestica, ma Rodolphe avrebbe preferito trovare, a Yonville, una sistemazione discreta. Promise di cercarla.

Durante tutto l'inverno, tre o quattro volte la settimana, a notte fonda, Rodolphe entrava nel giardino. Emma aveva nascosto la chiave del cancello e Charles credeva che si fosse perduta.

Per avvertirla della sua presenza, Rodolphe lanciava una manciata di sabbia contro la persiana. A questo suono Emma si alzava di scatto, ma qualche volta doveva aspettare perché Charles aveva la mania di chiacchierare accanto al fuoco e non la finiva più.

Emma era divorata dall'impazienza: se avesse potuto, lo avrebbe gettato dalla finestra. Si preparava per andare a dormire, poi prendeva un libro e continuava a leggere tranquilla, come se la lettura la divertisse molto. Charles, allora, che l'aveva preceduta di sopra ed era già a letto, la chiamava perché andasse a coricarsi.

"Vieni, insomma, Emma?" diceva "È tardi!"

"Sì, vengo" rispondeva lei.

Nel frattempo Charles, poiché gli dava fastidio la luce della candela, si girava verso il muro e si addormentava. Allora Emma scappava in giardino, trattenendo il respiro affrettato, sorridente, palpitante e discinta.

Rodolphe aveva un gran mantello, l'avvolgeva tutta e, passandole un braccio intorno alla vita, la trascinava in silenzio fino in fondo al giardino.

Si fermavano sotto la pergola, sulla stessa panca di tronchi sottili e fradici, ove poco tempo prima, Léon l'aveva contemplata con tanto amore nelle sere d'estate. Emma però non pensava certo a lui in queste occasioni

Le stelle brillavano attraverso i rami senza foglie del gelsomino. Sentivano dietro di sé il fiume scorrere e, di tanto in tanto, il crepitare delle canne secche. Cumuli d'ombre, qua e là, si gonfiavano nel buio, e a volte sembravano fremere con un unico moto, si alzavano e si abbassavano come immense once nere che avanzassero per sommergerli.

Il freddo della notte faceva sì che si tenessero stretti l'uno all'altra; il suono dei sospiri sembrava loro più forte, gli occhi riuscivano appena a intravedersi, più grandi; e, in tanto silenzio, v'erano parole pronunciate sottovoce che cadevano sulle loro anime con sonorità cristallina e con vibrazioni che si ripercuotevano all'infinito.

Quando la notte era piovosa, andavano a rifugiarsi nello studio medico, fra la tettoia e la scuderia. Accendevano un candeliere di cucina che Emma teneva nascosto dietro i libri. Rodolphe si comportava come se fosse stato in casa sua. La vista della libreria, dello scrittoio, di tutta la stanza insomma, lo metteva di buon umore e non riusciva a trattenersi dal dire una quantità di spiritosaggini alle spalle di Charles, che lasciavano Emma interdetta. Avrebbe voluto vederlo più serio, addirittura drammatico, a volte, come quella sera in cui le era parso di sentire un rumore di passi avvicinarsi sul viale.

"Viene qualcuno" aveva sussurrato.

Rodolphe spense la luce.

"Hai la pistola?"

"Per farne che?"

"Ma... per difenderti!" rispose Emma

"Da tuo marito? Ah!, pover'uomo!"

E Rodolphe accompagnò la frase con un gesto che significava "lo schiaccerei con un buffetto".

Emma rimase sbalordita dal suo coraggio, sebbene vi percepisse un'indelicatezza e una grossolanità ingenue, che la scandalizzarono.

Rodolphe ripensò molto a questa storia di pistole. Se ella aveva parlato seriamente, la cosa era molto comica, pensava, e forse addirittura odiosa perché lui non aveva nessuna ragione di detestare il buon Charles, dal momento che non si sentiva affatto divorato dalla gelosia; a questo proposito Emma gli aveva fatto fare un giuramento solenne che Rodolphe aveva trovato, come minimo, di dubbio gusto.

Da quel momento Emma era diventata eccessivamente sentimentale. Si erano scambiati ritratti, si erano tagliati ciocche di capelli e adesso voleva un anello, una vera matrimoniale, in segno di eterna fedeltà. Spesso gli parlava delle campane della sera, o della voce della natura, poi gli raccontava di sua madre e voleva sapere della madre di lui. Rodolphe l'aveva perduta da più di vent'anni, eppure Emma lo consolava con le frasi più leziose, come se avesse avuto a che fare con un marmocchio abbandonato, e talora, guardando la luna, gli diceva:

"Sono sicura che di lassù, insieme, approvano il nostro amore".

Ma era così carina! Ne aveva conosciute poche di un simile candore! Questo amore, non contaminato dal vizio, rappresentava per lui qualcosa di nuovo che, discostandosi dalle facili avventure cui era abituato, solleticava tanto il suo orgoglio quanto la sua sensualità. L'esaltazione di Emma, disprezzata dal suo buon senso borghese, in fondo al cuore gli sembrava incantevole perché era rivolta alla sua persona. Per cui, sicuro di essere amato, non si diede più la pena di controllarsi e a poco a poco i suoi modi cambiarono.

Non le diceva più, come un tempo, quelle parole dolci che la facevano piangere, né aveva per lei quelle travolgenti carezze che la facevano impazzire di passione. E tutto questo diede l'impressione a Emma che il loro grande amore, nel quale viveva immersa, stesse diminuendo sotto di lei come l'acqua di un fiume assorbita dal letto in cui scorre, ed ella cominciò a scorgere il fango. Non riusciva a credere una cosa simile; raddoppiò la sua tenerezza e Rodolphe nascose sempre meno la propria indifferenza.

Non sapeva più se si rammaricasse di avergli ceduto o se, al contrario, desiderasse amarlo sempre più. L'umiliazione di sentirsi debole si trasformava in un rancore mitigato soltanto dalla voluttà. Non era affetto, si trattava di una continua seduzione. Rodolphe la soggiogava. Ed Emma aveva quasi paura.

Ciò nonostante, in apparenza tutto andava nel migliore dei modi. Rodolphe era riuscito a condurre l'adulterio secondo il proprio capriccio e, in capo a sei mesi, all'arrivo della primavera, gli amanti si trovavano l'uno di fronte all'altra come due coniugi che alimentino un tranquillo focolare domestico.

Era il periodo in cui papà Rouault mandava il tacchino in dono a ricordo della guarigione della gamba. Il regalo arrivava sempre accompagnato da una lettera. Emma tagliò lo spago che legava il paniere e lesse quanto segue:

Miei cari figlioli,

spero che la presente vi trovi in buona salute e che il tacchino sia buono come gli altri, e forse migliore, perché mi sembra più tenero, se posso dirlo, e più carnoso. La prossima volta, tanto per cambiare vi manderò un gallo, o se preferite dei pollastrini, e rimandatemi la cesta per piacere insieme con le altre due. È successo un guaio alla rimessa: il tetto in una notte di vento forte è volato in mezzo agli alberi. Anche il raccolto non è stato dei migliori. Non so quando potrò rivedervi. Mi è così difficile lasciare la fattoria da che sono rimasto solo, mia cara Emma.

A questo punto c'era fra le righe un intervallo come se il brav'uomo avesse lasciato cadere la penna per soffermarsi un poco a riflettere.

Quanto a me, sto bene, a parte un raffreddore che mi sono buscato l'altro giorno alla fiera di Yvetot, dove mi ero recato per assumere un nuovo pastore, dopo aver licenziato l'altro perché era un ghiottone di prima forza. Siamo proprio da compiangere per tutti i briganti con i quali siamo costretti ad avere a che fare. Oltretutto, poi, era anche un disonesto.

Ho saputo da un merciaio ambulante, il quale, viaggiando quest'inverno dalle vostre parti, ha dovuto farsi strappare un dente, che Bovary lavora sempre molto. Questo non mi stupisce. Mi ha fatto vedere il dente e abbiamo preso un caffè insieme. Gli ho chiesto se ti aveva vista; mi ha detto di no ma ha visto due cavalli nella scuderia e da ciò concludo che gli affari vi vanno bene. Ne sono contento, miei cari figlioli, e che il Signore vi mandi tutta la felicità immaginabile.

Mi dispiace molto di non conoscere ancora la mia nipotina Berthe Bovary. Ho piantato per lei in giardino, sotto la finestra della tua camera, un albero di prugne gialle e non voglio che nessuno le tocchi, se non per preparare a suo tempo la marmellata che terrò nella dispensa per lei quando verrà a trovarmi.

Arrivederci, cari figlioli, ti bacio, figlia mia e con te mio genero e la piccola su tutt'e due le guance.

Sono con affetto il vostro tenero padre

Théodore Rouault

Tenne per qualche tempo fra le dita quel foglio di carta grossolana. Gli errori d'ortografia vi si accavallavano, ma Emma percepiva la tenerezza che si celava dietro di essi, facendosi sentire come una chioccia che faccia il suo verso seminascosta in una siepe di spine. Papà Rouault aveva asciugato l'inchiostro con la cenere del camino, e un poco di polvere grigia le scivolò dalla carta sull'abito. A Emma parve quasi di vedere suo padre nell'atto di chinarsi sul focolare per prendere le molle. Quanto tempo era trascorso da quando stava con lui seduta sullo sgabello, nel caminetto, mentre faceva bruciare la punta di un bastone alla fiamma alta e scoppiettante delle canne raccolte vicino al mare!... Ricordava gli assolati meriggi estivi. I puledri passavano nitrendo e galoppavano senza posa... v'era sotto la sua finestra, un'arnia e qualche volta le api nel loro volo a spirale nella luce accecante, battevano contro i vetri della finestra come palline d'oro che rimbalzassero. Che tempi felici! Com'era libera! Quante speranze! E quante illusioni! Adesso non ne era rimasta più nessuna! Le aveva sperperate in tutti gli struggimenti del suo animo, nelle successive esperienze, nella verginità, nel matrimonio e nell'amore - perdendole così nel corso della vita, come un viaggiatore che dimentichi qualcosa di quanto gli appartiene in ogni albergo sulla sua via.

Ma che cos'era a renderla tanto triste? Qual era la catastrofe spaventosa che l'aveva travolta? Ed Emma alzò il capo, guardandosi intorno, come per cercare la causa di ciò che la faceva soffrire.

Un raggio del sole d'aprile traeva riflessi iridescenti dalle porcellane sullo scaffale; il fuoco era acceso, sentiva sotto le pantofole la morbidezza del tappeto, la luce era chiara e l'aria tiepida, e udiva gli scoppi di risa della sua bambina.

La bimbetta, infatti, si rotolava sul prato in mezzo all'erba falciata. Era sdraiata bocconi su un mucchio di fieno. La domestica la tratteneva per il grembiulino. Poco lontano Lestiboudois stava rastrellando, e, ogni volta che si avvicinava, la bimba si protendeva battendo l'aria con le braccine.

"Me la porti qui!" disse Emma, precipitandosi ad abbracciarla "Sei il mio amore, cara piccola, sei il mio amore!"

Poi si accorse che aveva gli orecchi un po' sporchi e allora chiamò perché le portassero l'acqua calda per lavarla, le cambiò la biancheria, le calze, le scarpe, fece mille domande sulla sua salute, come fosse tornata da un viaggio, e infine, baciandola ancora e commuovendosi, la affidò di nuovo alla domestica che era rimasta stupefatta davanti a un tale sfogo di tenerezza.

Rodolphe, quella sera, la trovò più pensierosa del solito.

"Passerà," si disse "non è che un capriccio."

E non venne a tre appuntamenti di fila. Quando tornò, Emma si mostrò fredda e quasi sdegnosa.

"Ah! Stai perdendo il tuo tempo, piccola!"

E finse di non notare i sospiri malinconici di lei né il fazzoletto che Emma ostentava.

La signora Bovary cominciò allora a pentirsi.

Si domandò addirittura perché mai detestasse tanto Charles e se non sarebbe stata la soluzione migliore poter amare suo marito. Purtroppo egli non offriva grandi esche a questo ritorno di fiamma, e mentre lei si dibatteva molto incerta in tali velleità di sacrificio, venne il farmacista, che giungeva a proposito per offrirle una soluzione.

XI

Egli aveva letto recentemente di un nuovo e vantato metodo per la cura dei piedi storpi, ed essendo un fautore del progresso si era messo in mente la campanilistica idea che Yonville, per essere all'altezza dei tempi, avrebbe dovuto sperimentare questi interventi di ortopedia.

"Tanto," disse a Emma "che cosa rischiamo? Stia a sentire: (ed enumerò sulle dita i vantaggi del tentativo) successo quasi sicuro, sollievo e vantaggi estetici per il malato, fama subitanea per il chirurgo. Perché suo marito, per esempio, non dovrebbe desiderare di liberare il povero Hippolyte del Leon d'Oro? Tenga presente che quell'uomo non mancherà di raccontare la sua guarigione a tutti i viaggiatori di passaggio, e poi (Homais abbassò la voce e si guardò intorno circospetto) chi mi impedirà di mandare al giornale un trafiletto sull'argomento? Eh, mio Dio! Un articolo gira... se ne parla... finisce per diventare una valanga! E chi può mai dire? Chi può dire?"

In verità Bovary avrebbe potuto riuscire; nulla lasciava sospettare a Emma che egli non ne fosse capace, e quale soddisfazione sarebbe stata per lei averlo spinto a un passo che avrebbe potuto accrescerne la reputazione e l'agiatezza. Emma non desiderava altro se non basare le proprie aspirazioni su qualcosa di più solido dell'amore.

Charles, sollecitato dal farmacista e dalla moglie, si lasciò convincere. Si fece mandare da Rouen il volume del dottor Duval e tutte le sere, con la testa fra le mani, si immergeva in questa lettura.

Mentre studiava il piede equino, il piede storto in dentro, il piede valgo e cioè la strefocatopodia, la strefendopodia e la strefexopodia, (o, per meglio dire, le differenti malformazioni del piede, sia verso il basso sia in alto, in dentro o in fuori) insieme con la strefipopodia e la strefanopodia (ovvero torsione verso il basso e raddrizzamento in alto), il signor Homais, per mezzo di una serie di ragionamenti, cercava di convincere il mozzo di stalla dell'albergo a farsi operare.

"Non sentirai, forse, che un piccolissimo dolore, una puntura come per un modesto salasso, meno che per l'estirpazione di certi calli."

Hippolyte rifletteva, guardandosi intorno coi suoi stupidi occhi.

"Del resto," riprendeva il farmacista "la cosa non mi riguarda! Lo dico per un senso di umanità nei tuoi confronti. Vorrei vederti, amico mio, liberato da quella orribile claudicazione, con quel dondolio della regione lombare che, per quanto tu possa dire, deve nuocerti molto nel tuo lavoro."

A questo punto Homais gli faceva presente come si sarebbe sentito più forte e più in gamba, e gli lasciava capire che avrebbe avuto più successo con le donne: il mozzo di stalla sorrideva goffamente. L'altro cercava di stuzzicarne la vanità.

"Ma che razza d'uomo sei, perbacco? Cosa avresti fatto, allora, se avessi dovuto fare il servizio militare e andare a combattere sotto le bandiere?... Ah Hippolyte!"

E Homais si allontanava, dichiarando di non capire certe ostinazioni e una tale cecità di fronte ai benefici della scienza.

Il disgraziato cedette, perché fu quasi una congiura, alla quale presero parte Binet, che non si occupava mai, di solito degli affari altrui, la signora Lefrançois, Artémise, i vicini, addirittura il sindaco; tutti, in una parola, lo esortarono, gli fecero prediche, lo svergognarono. Ma l'argomento decisivo fu che non avrebbe pagato un soldo. Bovary si sarebbe preoccupato perfino di procurare l'apparecchio per l'operazione. Era stata di Emma l'idea di tanta generosità e Charles aveva acconsentito, sempre più convinto, in fondo al cuore, che sua moglie era un angelo.

Con i consigli del farmacista e ricominciando daccapo per tre volte il lavoro, fecero costruire dal falegname, aiutato dal fabbro, una sorta di cassetta pesante circa otto libbre, nella quale non si era fatta economia di ferro, legno, latta, cuoio, viti e bulloni.

Tuttavia, per sapere quale tendine si dovesse recidere a Hippolyte, bisognava conoscere prima che specie di piede zoppo avesse.

Il piede di lui formava con la gamba una linea pressoché diritta, e questo non gli impediva di essere anche un poco distorto verso l'interno, per cui si trattava di un piede equino e un po' varo, o, se si preferiva, di un piede varo con forti caratteristiche equine. Ma, pur con questo piede equino, largo proprio come la zampa di un cavallo, con la pelle rugosa, i tendini secchi, l'alluce grosso, le unghie nere simili ai chiodi di un ferro di cavallo, lo strefopodo, dalla mattina alla sera, trottava come un capriolo. Lo si vedeva di continuo sulla piazza saltellare intorno ai carretti, gettando avanti il suo sostegno inconsueto, il quale sembrava perfino più vigoroso di quello sano. A forza di essere utilizzato, aveva acquistato quasi delle qualità morali di pazienza e di energia tali che, quando il suo proprietario doveva compiere un lavoro particolarmente pesante, si appoggiava di preferenza proprio sull'arto storpio.

Dal momento che si trattava di un piede equino, bisognava recidere il tendine d'Achille, salvo poi intervenire in seguito sul muscolo tibiale anteriore per eliminare il difetto che portava il piede a spostarsi in dentro. Il medico, infatti, non osava rischiare in una sola volta due operazioni, e addirittura già tremava per la paura di incidere qualche parte importante e a lui sconosciuta.

Né Ambroise Paré, quando per la prima volta, dopo un intervallo di quindici secoli, emulò Celso praticando la legatura diretta di un'arteria, né Dupuytren allorché dovette incidere un ascesso nascosto sotto uno spesso lembo di encefalo, né Gensoul quando asportò, come non aveva fatto ancora nessuno prima di lui, il mascellare superiore, potevano essersi sentiti il cuore così agitato, la mano tremante, i nervi tesi come Bovary nel momento in cui si avvicinò a Hippolyte con il tenotomo stretto fra le dita. Come negli ospedali, sulla tavola vicina erano ammucchiate un cumulo di filacce, di fili ricoperti di cera, e bende, una piramide di bende, tutte le bende che conteneva la bottega del farmacista. Era stato il signor Homais a organizzare quel mattino tutti i preparativi, un po' per stupire la gente e un po' per rassicurare se stesso. Charles incise la pelle, si sentì uno scricchiolio. Il tendine era reciso, l'operazione finita. Hippolyte sembrava sbalordito per la sorpresa, si protendeva per coprire di baci le mani di Bovary.

"Suvvia, calmati" disse lo speziale. "Dimostrerai più tardi la tua riconoscenza."

E uscì per comunicare l'esito ai cinque o sei curiosi che stazionavano nel cortile, i quali si aspettavano di vedere Hippolyte ricomparire camminando senza più zoppicare. Poi Charles, dopo aver sistemato il suo paziente nell'apparecchio meccanico, tornò a casa, ove Emma lo aspettava sulla porta, piena di ansia. Gli gettò le braccia al collo e poi si misero a tavola. Charles mangiò molto e volle bere addirittura, dopo la frutta, una tazza di caffè, un lusso che si concedeva soltanto la domenica, o quando aveva ospiti.

La serata fu deliziosa, piena di chiacchiere, di comuni speranze. Parlarono della futura agiatezza, dei lussi che avrebbero potuto permettersi. Charles già vedeva crescere la propria notorietà, aumentare il benessere della famiglia; sua moglie l'amava ancora e si sentiva felice di essersi purificata in un sentimento nuovo, pulito, migliore, felice di provare finalmente qualcosa di simile alla tenerezza, per quel brav'uomo che l'aveva sposata. Per un momento il pensiero di Rodolphe le attraversò la mente; ma i suoi occhi si posarono di nuovo su Charles: notò sorpresa che egli aveva dei bei denti.

Erano a letto, quando il signor Homais, ignorando la domestica che cercava di trattenerlo, entrò d'improvviso in camera, tenendo fra le mani un foglio fresco di inchiostro. Era l'articolo che intendeva mandare al Faro di Rouen per rendere pubblica la notizia. Voleva che lo leggessero.

"Lo legga lei" disse Bovary.

Egli lesse:

"Nonostante i pregiudizi che ancora coprono come una rete gran parte della faccia dell'Europa, la luce comincia a penetrare nelle nostre campagne. Martedì, la piccola città di Yonville è stata teatro di una importante esperienza nel campo della chirurgia e nello stesso tempo di un gesto altamente filantropico. Il signor Bovary, uno dei nostri più insigni professionisti..."

"Ah! Questo è troppo, è troppo!" diceva Charles soffocato dalla commozione.

"Ma no, per nulla! Ma come!... ha operato il piede storpio... Non ho usato il termine scientifico perché, sa, su un giornale... può darsi che non tutti capiscano, bisogna che la massa..."

"Infatti," disse Bovary "continui."

"Vado avanti" disse il farmacista. "Il signor Bovary, uno dei nostri più insigni professionisti, ha operato il piede storpio di un certo Hippolyte Tautain, mozzo di stalla da venticinque anni all'albergo Leon d'Oro della signora Lefrançois, sulla piazza d'armi. La novità dell'intervento e la popolarità del paziente hanno attirato un così gran numero di persone da dar luogo a una vera ressa davanti all'edificio. L'operazione, per altro, è stata effettuata come per incanto e solamente poche gocce di sangue sono uscite dall'incisione, quasi ad annunciare che il tendine ribelle aveva infine ceduto ai tentativi della scienza. Il paziente, cosa assai strana (possiamo affermarlo per averlo costatato con i nostri occhi), non ha accusato alcun dolore. Le sue condizioni sono fino a ora molto soddisfacenti; tutto lascia ritenere che la convalescenza sarà breve, e chissà che, alla prossima festa del villaggio, non ci sia possibile vedere il nostro bravo Hippolyte, fra un gruppo di allegri buontemponi, prendere parte a danze bacchiche, dimostrando così a tutti, con la sua vivacità nel ballo, di essere completamente guarito. Sia reso onore, dunque, agli scienziati generosi. Siano onorati quegli spiriti infaticabili che sacrificano il sonno per assicurare la salute del genere umano o anche per confortarlo nelle malattie! Onoriamoli! Onoriamoli mille volte! Non verrebbe fatto di esclamare: i ciechi vedranno, i sordi udiranno e gli zoppi cammineranno? Ma ciò che un tempo si ripromettevano i fanatici, oggi viene assicurato dalla scienza agli uomini tutti! Terremo informati i nostri lettori sui futuri risultati di questa straordinaria terapia."

Ma tutto ciò non valse a impedire che, cinque giorni dopo, mamma Lefrançois arrivasse allarmatissima gridando:

"Aiuto, muore... Mi sento impazzire!"

Charles si precipitò verso il Leon d'Oro e il farmacista, che lo vide attraversare la piazza senza cappello, uscì di corsa dalla farmacia. Giunse anch'egli all'albergo ansimante, rosso in viso, preoccupato, e domandò a tutti quelli che stavano salendo le scale:

"Che cos'ha il nostro interessante strefopodo?"

Lo strefopodo si torceva, in preda a convulsioni atroci, tanto che l'apparecchio in cui gli avevano imprigionato la gamba batteva contro il muro come volesse sfondarlo.

Con grandi precauzioni, per non spostare l'arto dalla giusta posizione, tolsero la cassetta e si presentò allora ai loro occhi uno spettacolo spaventoso. La forma del piede scompariva in un gonfiore tale da dar l'impressione che la pelle sarebbe scoppiata da un momento all'altro e quasi tutta la gamba era coperta da ecchimosi provocate dal famoso apparecchio. Hippolyte si era già lamentato delle sofferenze che gli arrecava, ma non gli avevano dato retta; adesso riconobbero che non aveva poi tutti i torti e lo lasciarono libero per qualche ora. Ma non appena l'edema diminuì un poco, i due sapienti decisero di applicare di nuovo il meccanismo alla gamba malata e lo strinsero di più per far sì che le cose procedessero con maggiore celerità. Tre giorni dopo Hippolyte non poteva più resistere, e, ancora una volta, furono costretti a liberarlo rimanendo sbigottiti dal risultato ottenuto. Una tumefazione livida si stendeva sulla gamba, e, qua e là, v'erano flitteni dalle quali trasudava un liquido nero. La cosa stava prendendo una brutta piega. Hippolyte cominciava a essere inquieto e la signora Lefrançois pensò di trasferirlo nella saletta vicino alla cucina, perché almeno avesse modo di distrarsi un poco.

Ma l'esattore, che in quel locale ci pranzava tutti i giorni, si lamentò con disgusto di una tale vicinanza. Allora Hippolyte fu trasportato nella sala del biliardo.

E rimase là, gemendo sotto l'ingombrante copertura, pallido, con la barba lunga, gli occhi infossati, girando ogni tanto il capo sudato sul guanciale sudicio, ove si posavano le mosche. La signora Bovary veniva a trovarlo. Gli portava pannolini per i suoi cataplasmi, lo consolava, gli faceva coraggio. Ma, del resto, la compagnia non gli mancava, soprattutto nei giorni di mercato, quando i contadini, intorno a lui, colpivano le palle da biliardo, si davano da fare con le stecche, fumavano, bevevano, cantavano, sbraitavano.

"Come va?" gli domandavano, battendogli una mano sulla spalla "Non mi sembri mica troppo in gamba! Ma la colpa è tua, dovresti fare questo, dovresti fare quest'altro."

E gli raccontavano storie di gente che era stata guarita con rimedi ben diversi da quelli usati per lui; poi, per consolarlo, aggiungevano:

"Il fatto è che tu ci fai troppo caso! Su, alzati! Ti tratti come un re! Non ci badare, vecchio burlone, ma puzzi".

La cancrena infatti saliva sempre più. Bovary si stava ammalando, tanto se ne crucciava. Andava a vederlo a tutte le ore, tutti i momenti. Hippolyte lo guardava con gli occhi pieni di spavento e balbettava singhiozzando:

"Quando guarirò?... Ah! Mi salvi!... Come sono disgraziato! Come sono disgraziato!"

E il medico se ne andava ogni volta raccomandandogli la dieta.

"Non dargli retta, ragazzo mio!" diceva la signora Lefrançois "Ti hanno già abbastanza martirizzato! Finirai per indebolirti ancora di più. Tieni, mangia!"

E gli metteva davanti una tazza di buon brodo, qualche fetta d'arrosto, un pezzo di lardo, e ogni tanto anche un bicchierino d'acquavite che Hippolyte non aveva il coraggio di bere.

L'abate Bournisien, essendo venuto a sapere che il paziente peggiorava, chiese di vederlo. Incominciò a compiangerlo per le sue sofferenze, ma gli disse che avrebbe dovuto gioirne, dal momento che era la volontà del Signore, e approfittare subito dell'occasione per riconciliarsi con il Cielo.

"Perché" diceva il sacerdote in tono paterno "finora tu hai trascurato un po' i tuoi doveri; ti si vede di rado a messa e quanti anni sono che non ti accosti alla Santa Comunione? Capisco, le tue occupazioni, il turbine del mondo possono averti distratto dalle cure per la salute dell'anima. Ma adesso è il momento di pensarci. Non devi disperare, però; ho conosciuto grandi peccatori che, vicini a comparire davanti a Dio (non sei ancora a questo punto, lo so), hanno implorato la sua misericordia e sono certo morti nelle migliori disposizioni. Così, per precauzione, chi ti impedisce di recitare al mattino e alla sera un'Ave Maria o un Padre Nostro? Sì, fallo per me, per farmi un piacere. Cosa ti costa? Me lo prometti?"

Il povero diavolo promise. Il curato tornò tutti i giorni. Chiacchierava con l'albergatrice, raccontava aneddoti inframmezzati addirittura a barzellette, a giochi di parole che Hippolyte non capiva. Poi, quando capitava il destro, assumendo l'atteggiamento adatto, ricominciava a parlare di religione.

Il suo zelo fu premiato, perché ben presto lo strefopodo manifestò il desiderio di recarsi in pellegrinaggio al Buon Soccorso, se fosse guarito: e don Bournisien rispose di non trovare nulla a ridire a questo proposito; due precauzioni erano sempre meglio di una. E non c'era niente da perdere.

Il farmacista si indignò contro quelle che chiamava le manovre dei preti; nuocevano alla convalescenza di Hippolyte, affermava; e ripeteva alla signora Lefrançois:

"Lo lasci stare, lo lasci stare! Lo deprime con il suo misticismo".

Ma la brava donna non gli dava più retta. Era lui la causa di tutto. Per spirito di contraddizione, attaccò addirittura alla testiera del letto del malato una piletta piena d'acqua santa e un ramoscello di bosso.

La religione, però, non sembrava in grado di aiutare il paziente più della chirurgia, e l'inarrestabile cancrena continuava a salire dal piede verso il ventre. Avevano un bel cambiare le pozioni, sostituire un tipo di cataplasma con un altro. Tutti i giorni i muscoli si scollavano di più e infine Charles rispose con un cenno affermativo del capo quando la signora Lefrançois gli domandò se, visto il caso disperato, non sarebbe stato bene far venire il signor Canivet, di Neufchâtel, che era una vera celebrità.

Questi era dottore in medicina, sui cinquant'anni, godeva d'una buona posizione ed era molto sicuro di sé, non si fece alcun riguardo e si mise a ridere con aria di superiorità quando vide quella gamba in cancrena fino al ginocchio. Poi, dopo aver dichiarato senza mezzi termini che bisognava amputare, andò dal farmacista a sfogarsi contro gli asini che avevano potuto ridurre uno sventurato in uno stato simile. Scuotendo il signor Homais per un bottone della giacca, sbraitava nella farmacia: "Queste sono le invenzioni di Parigi! Ecco le belle idee di quei signori della capitale! È come per lo strabismo, il cloroformio e la litotripsia, un mucchio di mostruosità che il governo dovrebbe impedire! Vogliono fare i furbi e suggeriscono rimedi senza preoccuparsi delle conseguenze. Noi non siamo tanto bravi, noialtri, non siamo sapienti, non siamo arrivisti o damerini. Siamo professionisti, ci preoccupiamo di guarire la gente, e non ci sogneremmo mai di operare uno che sta a meraviglia! Raddrizzare i piedi storti! Sarebbe come pretendere di raddrizzare un gobbo!"

Homais soffriva, ascoltando questi discorsi, e dissimulava il proprio disagio sotto un sorriso da cortigiano, dovendo mantenersi in buoni rapporti con il signor Canivet, le cui ricette arrivavano talvolta fino a Yonville; così, non prese le parti di Bovary, né osò fare alcuna osservazione e, venendo meno ai propri principi, sacrificò la dignità agli interessi più seri della bottega.

L'amputazione della gamba a opera del dottor Canivet fu per Yonville un avvenimento memorabile. Tutti gli abitanti del paese si erano alzati prima del solito, e la Grande Strada, benché piena di gente, aveva un aspetto lugubre come se dovesse aver luogo un'esecuzione capitale. Dal droghiere si discuteva la malattia di Hippolyte, le botteghe non vendevano nulla, e la signora Tuvache, la moglie del sindaco, non si moveva dalla finestra per la smania di vedere arrivare il chirurgo.

Il signor Canivet giunse sul calesse che guidava lui stesso; la molla, posta dalla parte destra, aveva ceduto sotto il peso di quell'uomo corpulento, tanto che il veicolo era un po' sbilanciato quando viaggiava. Accanto al dottore, sul sedile, si trovava una grossa scatola ricoperta di pelle di pecora rossa le cui tre borchie di chiusura in ottone erano perfettamente lucidate.

Dopo essere entrato come un turbine sotto il portico del Leon d'Oro, il dottore ordinò a gran voce di staccare il cavallo, poi andò nella scuderia per vedere se l'avessero governato e nutrito a dovere. Arrivando dai malati, si occupava sempre innanzitutto della giumenta e del calesse. A questo proposito dicevano di lui:

"Ah! Il signor Canivet è un originale!" e lo stimavano ancora di più per quell'assoluta imperturbabilità. Potevano crepare tutti, fino all'ultimo uomo, ma lui non avrebbe cambiato di una virgola la più insignificante delle sue abitudini.

Homais si presentò.

"Conto su di lei" disse il dottore. "Siamo pronti? Avanti!"

Ma il farmacista, arrossendo, confessò di essere troppo sensibile per assistere a una simile operazione.

"Quando si è semplici spettatori," disse "è facile, lei lo sa bene, che l'immaginazione resti colpita. E poi, ho un sistema nervoso talmente..."

"Ah!" lo interruppe Canivet "mi sembra che lei sia portato all'apoplessia... E d'altronde, questo non mi stupisce, perché voi, signori farmacisti, ve ne state sempre chiusi nel vostro bugigattolo e questo finisce per guastarvi la salute. Guardi me, piuttosto! Mi alzo tutti i giorni alle quattro, mi faccio la barba con l'acqua fredda (non ho mai freddo), non porto maglie di lana e non mi piglio raffreddori, la carcassa è buona. Mangio in una maniera o nell'altra, con filosofia, come capita. Per questo non sono tanto delicato e mi è indifferente tagliare a pezzi un cristiano o il primo pollo che capita. A questo punto mi dirà: l'abitudine... l'abitudine!..."

Poi, senza nessun riguardo per Hippolyte, che sudava di terrore fra le lenzuola, questi signori diedero inizio a una conversazione durante la quale il farmacista paragonò il sangue freddo di un chirurgo con quello di un generale: e questo accostamento piacque a Canivet che si dilungò in chiacchiere sulle necessità della sua professione. La considerava una missione, per quanto gli ufficiali sanitari la disonorassero. Poi, tornando al paziente, esaminò le bende, le stesse che Homais aveva portato quando si era trattato di operare il piede zoppo, e domandò se vi fosse qualcuno in grado di tenere ferma la gamba. Andarono a chiamare Lestiboudois e il signor Canivet, dopo essersi rimboccato le maniche, entrò nella sala del biliardo, mentre lo speziale, insieme con Artémise e l'albergatrice entrambe pallide come i grembiali che avevano indosso, origliavano alla porta.

Bovary, nel frattempo, non aveva osato uscire di casa. Stava seduto in salotto, vicino al caminetto spento, la testa bassa, le mani giunte e gli occhi fissi. Che disgraziata combinazione, che sfortunato contrattempo! In quanto a lui, aveva adottato tutte le precauzioni possibili. Era stata una fatalità. Ma questo non aveva importanza. Se Hippolyte poi fosse morto, sarebbe stato lui ad averlo assassinato. E inoltre, che cosa avrebbe potuto rispondere quando i suoi clienti lo avessero interrogato? Aveva forse commesso qualche errore? Per quanto ci pensasse gli pareva proprio di no. Del resto, anche i più famosi chirurghi a volte sbagliano. Già, ma proprio questo non avrebbero mai creduto! Avrebbero riso, piuttosto, ci avrebbero fatto intorno un gran chiasso! Tutta questa storia sarebbe arrivata fino a Forges, fino a Neufchâtel, fino a Rouen, dappertutto! I colleghi avrebbero potuto attaccarlo, ne sarebbe nata una polemica, sarebbe stato costretto a rispondere sui giornali. Hippolyte stesso avrebbe potuto fargli causa. Già si vedeva disonorato, rovinato, perduto! E la sua immaginazione, assalita da una quantità di ipotesi, veniva sballottata fra esse come una botte vuota trascinata in mare e in balia delle onde.

Emma, di fronte a lui, lo guardava; non condivideva la sua umiliazione, altri sentimenti la dominavano: si domandava come avesse potuto pensare che un uomo simile valesse qualcosa, quando già tante volte aveva avuto modo di rendersi conto della sua assoluta mediocrità.

Charles adesso andava su e giù per la stanza, facendo scrocchiare le scarpe sul pavimento di legno.

"Siediti" disse Emma. "Mi dai ai nervi."

Charles sedette.

Ma come aveva potuto (lei che era così intelligente) ingannarsi ancora una volta? E poi, per quale deplorevole mania distruggeva così la propria esistenza con continui sacrifici? Rammentò tutte le sue aspirazioni a una vita lussuosa, le frustrazioni dell'anima sua, le meschinità del matrimonio, della vita di tutti i giorni, i sogni caduti nel fango come rondini ferite, i desideri, le rinunce, tutto quello che avrebbe potuto avere! E per che cosa? Per che cosa?

Nel silenzio in cui era immerso il villaggio, un grido straziante attraversò l'aria. Bovary divenne pallido come un morto. Emma aggrottò le sopracciglia nervosamente e tornò a immergersi nei propri pensieri. Lo aveva fatto per lui, per questo individuo, per quest'uomo che non capiva niente, privo di ogni sensibilità. Rimaneva lì, infatti, tranquillissimo, senza rendersi conto di aver coinvolto anche lei nel ridicolo di cui si era coperto. Lei aveva fatto di tutto per amarlo, e si era pentita, aveva pianto, per avere ceduto a un altro.

"Forse era un piede valgo" esclamò d'improvviso Bovary, immerso nei propri pensieri.

Allo choc imprevedibile di questa frase caduta sulle sue riflessioni come una palla di piombo su un piatto d'argento, Emma, trasalendo, alzò il capo, senza rendersi conto di quel che aveva voluto dire il marito; si guardarono in silenzio, quasi sbalorditi di vedersi, tanto le rispettive meditazioni li avevano portati lontano l'uno dall'altra. Charles la osservava con lo sguardo torbido di un ubriaco, ascoltando, immobile, le ultime grida dell'amputato che si susseguivano con modulazioni strascicate rotte da urla acute, simili al lamento lontano di una bestia sgozzata. Emma si mordeva le labbra livide e rigirava fra le dita un frammento di madrepora che aveva staccato, fissando su Charles sguardi infuocati, come frecce di fuoco pronte a trafiggerlo. Tutto di lui adesso la irritava, il viso, l'abito, quello che non diceva, il suo atteggiamento, la sua esistenza. Si pentiva, come di un delitto, della fedeltà di un tempo, e ciò ch'era rimasto della sua virtù crollava ormai sotto i colpi furiosi dell'orgoglio. Gioiva di tutte le perfide ironie che l'adulterio suggerisce. I ricordi dell'amante tornavano a lei con suggestioni vertiginose che sommergevano la sua anima spingendola verso di lui con nuovo entusiasmo; e Charles gli appariva così distaccato ormai dalla sua vita, lontano per sempre, fuori della realtà e addirittura annientato come se stesse per morire, come se stesse agonizzando sotto i suoi stessi occhi.

Si sentì un rumore di passi sul marciapiede. Charles guardò e scorse, attraverso le persiane abbassate, vicino al mercato, in pieno sole, il dottor Canivet che si asciugava la fronte con il fazzoletto. Dietro di lui veniva Homais; portava una grande scatola rossa ed entrambi si dirigevano verso la farmacia.

Charles, preso da un'improvvisa tenerezza e dallo scoraggiamento, si voltò allora verso la moglie dicendole:

"Dammi un bacio, cara!"

"Lasciami stare!" fece lei rossa di collera.

"Che cos'hai? Ma che cos'hai?" egli ripeté stupefatto "Calmati, cerca di riprenderti! Sai che ti amo!... vieni!"

"Basta!" gridò lei esasperata.

E, uscendo di corsa dal salotto, Emma sbatté la porta tanto forte che il barometro cadde dal muro e si infranse sul pavimento.

Charles si lasciò cadere nella poltrona, stravolto, domandandosi che cosa potesse avere sua moglie, paventando una malattia nervosa, piangendo; percepiva vagamente intorno a sé qualcosa di funesto e di incomprensibile.

La sera, quando Rodolphe giunse in giardino, trovò l'amante che l'aspettava in fondo alla scala, sul primo gradino. Si strinsero fra le braccia con passione e ogni risentimento si sciolse come neve al calore dei loro baci.

XII

Ricominciarono ad amarsi. Spesso, durante la giornata, Emma gli scriveva un biglietto dicendogli di venire subito; poi, attraverso i vetri, faceva segno a Justin, che, togliendosi in fretta il grembiule, si avviava di corsa verso la Huchette. Rodolphe arrivava per sentirsi dire da Emma che si annoiava, che suo marito era odioso e la vita orribile.

"E io che cosa ci posso fare?" gridò un giorno spazientito.

"Ah! Se tu volessi!..."

Emma era seduta in terra, fra le sue ginocchia, i capelli sciolti, lo sguardo perduto nel vuoto.

"Cosa vuoi dire?" fece Rodolphe.

Emma sospirò:

"Potremmo andare a vivere altrove... in qualche luogo..."

"Ma tu sei proprio pazza!" ribatté lui ridendo "Ti pare possibile?"

Emma, però, tornò sull'argomento; lui finse di non capire e cambiò discorso. Non si rendeva conto del perché di tante complicazioni in una cosa semplice come l'amore. Ma Emma aveva uno scopo, un'altra ragione che accresceva il suo attaccamento.

La tenerezza di lei nei confronti dell'amante aumentava infatti ogni giorno, di pari passo con la ripugnanza per il marito. Quanto più si abbandonava all'uno, tanto più detestava l'altro. Charles non le era mai sembrato tanto sgradevole, con quelle dita quadrate, l'intelligenza ottusa, le maniere volgari, come quando si ritrovava con lui dopo i convegni con l'amante. E allora, pur continuando a far credere di essere una sposa virtuosa, si infiammava pensando a Rodolphe, ai suoi capelli neri che si piegavano in un'onda sulla fronte abbronzata, alla figura di lui così robusta e al contempo elegante, a quest'uomo il quale dimostrava tanta lucidità d'intelletto e tanto trasporto nel sentimento. Per lui si limava le unghie con la cura di un cesellatore, per lui curava l'aspetto del proprio viso senza risparmio di creme, e profumava i propri fazzoletti con fiumi di lavanda. Si copriva di braccialetti, di anelli, di collane. Quando sapeva che sarebbe venuto, riempiva di rose i grandi vasi di vetro blu e preparava se stessa e la propria camera, come una cortigiana in attesa del principe. La domestica non faceva che lavare biancheria e Félicité non si moveva dalla cucina, dove Justin le teneva spesso compagnia guardandola lavorare.

Con il gomito appoggiato sulla lunga asse ove lei stirava osservava avidamente tutti gli indumenti femminili sparsi lì attorno: le sottovesti di stoffa morbida, le sciarpe, i colletti, e le mutandine a guaina, larghe sui fianchi e strette verso il basso.

"A cosa serve questo?" domandava il ragazzotto, passando la mano sulla crinoline o sulle fibbie.

"Ma non hai mai visto niente?" rispondeva ridendo Félicité "Come se la tua padrona, la signora Homais, non ne portasse di uguali!"

"Ah, sì, proprio! La signora Homais!"

E aggiungeva cogitabondo:

"Non è davvero una signora come la sua!"

Ma Félicité perdeva la pazienza a vederselo continuamente d'intorno. Aveva sei anni più di lui e Théodore, il domestico del signor Guillaumin, cominciava a farle la corte.

"Lasciami in pace!" diceva, spostando il vaso dell'amido "Va' piuttosto a pestare le mandorle, stai sempre a curiosare in mezzo alle donne; aspetta, per occuparti di queste cose, ragazzaccio, di aver la barba sul mento."

"Non si arrabbi, via! L'aiuterò a lucidare gli stivaletti della sua padrona."

E andava subito a prendere, sulla mensola del camino, le scarpe di Emma, tutte incrostate di fango - il fango degli appuntamenti - che si staccava sotto le sue dita come polvere sottile; lui la guardava salire adagio in un raggio di sole.

"Quanta paura hai di rovinarle!" diceva la domestica, che non ci metteva tanta attenzione quando le puliva, perché la padrona, appena la stoffa era un po' logora, gliele regalava.

Emma ne aveva un gran numero nell'armadio e le sciupava senza riguardo e senza che Charles si permettesse la più piccola osservazione.

Così, sborsò anche trecento franchi per una gamba di legno che Emma giudicò di dover regalare a Hippolyte.

La parte di legno era ricoperta di sughero e l'arto era fornito di articolazioni a molla, un meccanismo complicato, nascosto da un pantalone nero che terminava con una scarpa verniciata. Ma Hippolyte non osava servirsi tutti i giorni di una così bella gamba e supplicò la signora Bovary di procurargliene una più pratica. Fu sempre il medico, ben inteso, a pagare anche per quest'altro acquisto.

Il mozzo di stalla, poco alla volta, riprese a lavorare. Lo si vedeva come prima, per le vie del villaggio, e quando Charles sentiva di lontano sull'acciottolato il rumore secco della gamba di legno, cambiava strada il più rapidamente possibile.

Il signor Lheureux, il mercante, era stato incaricato di procurare la gamba di legno. Questo gli fornì l'occasione di frequentare Emma. Parlò con lei dei nuovi arrivi da Parigi, di mille nuovi articoli per le signore, fu assai compiacente e non chiese mai denaro. Emma si lasciò allettare da tanta facilità di appagare i suoi capricci. Volle, per farne dono a Rodolphe, un bellissimo frustino che era in vendita a Rouen in un negozio di ombrelli. Il signor Lheureux glielo fece avere a casa la settimana successiva.

Ma l'indomani si presentò con un conto di duecentosettanta franchi, senza tener conto degli spiccioli. Emma si trovò in un grave imbarazzo: tutti i cassetti dello scrittoio erano vuoti; dovevano ancora pagare più di quindici giorni a Lestiboudois, due trimestri alla domestica, un'infinità di altri conti, e Bovary aspettava con impazienza il saldo dell'onorario da parte del signor Derozerays, il quale, come faceva di solito tutti gli anni, l'avrebbe mandato nel periodo prossimo al giorno di San Pietro.

Per un po' Emma riuscì a tenere a bada Lheureux, ma a un certo punto questi perse la pazienza: lo perseguitavano, era a corto di capitali e, se non fosse riuscito a ricuperarne almeno una parte, sarebbe stato costretto a riprendersi tutta la merce che le aveva fornito.

"Eh! Se la riprenda!" disse Emma.

"Oh, ho scherzato!" rispose lui "Rimpiango soltanto il frustino, davvero. Me lo farò ridare da suo marito."

"No! No!" disse Emma.

"Ah! Adesso ti ho in pugno!" pensò Lheureux.

E, persuaso di essere sulla buona strada, uscì ripetendo sottovoce, come se stesse fischiettando secondo la sue abitudine:

"Bene! Si vedrà! Si vedrà!"

Emma intanto si arrovellava cercando il modo di togliersi da quel pasticcio, quando la domestica entrò e depose un piccolo rotolo di carta turchina sul caminetto, da parte del signor Derozerays. La signora Bovary si precipitò a prenderlo e l'aprì. Conteneva quindici napoleoni. Quanto bastava. Sentì Charles sulle scale; nascose l'oro in fondo a un cassetto e ne tolse la chiave.

Tre giorni dopo Lheureux si rifece vivo.

"Ho un accordo da proporle" disse. "Se in luogo della somma pattuita volesse prendere..."

"Eccola!" disse Emma mettendogli in mano quattordici napoleoni.

Il mercante rimase esterrefatto. Per dissimulare il disappunto, si profuse in scuse e in offerte di servigi che Emma rifiutò. Poi, per qualche minuto, ella continuò a tenere fra le dita nella tasca del grembiule, i due pezzi da cento soldi che il mercante le aveva dato di resto. Si riprometteva di fare economia, per poter restituire più tardi...

"Ah!" si disse "Non se ne accorgerà."

Oltre al frustino dal pomo dorato, Rodolphe aveva ricevuto un sigillo con inciso il motto Amor nel cor; e poi una sciarpa invernale e un portasigarette identico a quello del Visconte, che Charles aveva raccolto quel giorno sulla strada e che Emma conservava ancora. Questi regali lo umiliavano e ne rifiutava molti: ma Emma insisteva e Rodolphe finiva per cedere, trovandola tirannica e troppo invadente.

Ella aveva anche delle strane idee:

"Quando suonerà mezzanotte," gli diceva "penserai a me!" E se lui confessava di non essersene ricordato, lo rimproverava a lungo, terminando con l'eterna domanda:

"Mi ami?"

"Ma sì ti amo!" rispondeva Rodolphe.

"Molto?"

"Sicuro!"

"E non hai amato mai nessun'altra?"

"Pensi di avermi preso vergine?" esclamava lui, ridendo.

Emma piangeva, Rodolphe cercava di consolarla infiorando di giochi di parole le sue proteste d'affetto:

"Oh! Ma è perché ti amo!" insisteva lei "Ti amo tanto da non poter vivere senza di te, capisci? Certe volte provo un tale desiderio di vederti che mi sento lacerare da tutte le furie dell'amore. Mi domando: dov'è in questo momento? Forse con altre donne? Gli sorridono, lui si avvicina.. Oh, no, non è possibile, ce n'è qualcuna che ti piace? Lo so, ce ne sono di più belle di me; ma io so amarti meglio! Sono la tua serva e la tua concubina! Tu sei il mio re, il mio idolo! Sei buono sei bello, sei intelligente, sei forte!"

Si era sentito dire tante volte tutte queste cose che ormai non avevano per lui più niente di originale. Emma non era diversa dalle altre amanti, e il fascino della novità, cadendo a poco a poco come un abito, metteva a nudo l'eterna monotonia della passione, che ha sempre le stesse forme e lo stesso linguaggio. Rodolphe non distingueva, da uomo pieno di senso pratico, la differenza dei sentimenti celata dall'identità di espressione. Poiché labbra viziose o venali gli avevano mormorato frasi simili, non attribuiva molta importanza al candore di Emma. "È necessario" pensava "ridimensionare i discorsi esagerati che spesso nascondono sentimenti mediocri: come se talora la passione eccessiva non traboccasse dall'anima servendosi delle più vuote metafore, perché nessuno, mai, può dare l'esatta misura delle proprie necessità, delle proprie concezioni, o dei propri dolori, dato che la parola umana è simile a un calderone incrinato da cui è facile trarre una musica adatta per far ballare gli orsi quando vorremmo commuovere le stelle."

Ma, da quella posizione privilegiata di critica nella quale viene a trovarsi colui che, in qualsiasi impegno, si tiene sempre indietro, Rodolphe scorse in quest'amore altri godimenti da sfruttare. Giudicava scomoda ogni forma di pudore. Trattava Emma senza riguardi. Ne fece qualcosa di duttile e corrotto. Il suo era una specie di attaccamento idiota, pieno di ammirazione per se stesso, di voluttà per Emma; era una beatitudine che l'intorpidiva; e la sua anima affondava in quell'ebbrezza, e vi annegava, raggrinzita come il duca di Clarence nella sua botte di malvasia.

La signora Bovary cambiò i propri atteggiamenti soltanto per l'influenza esercitata dalle sue abitudini amorose. Gli sguardi di lei divennero più arditi, i discorsi più liberi, e commise perfino la sconvenienza di passeggiare con Rodolphe fumando una sigaretta, quasi a voler manifestare il proprio disprezzo per la gente, e alla fine anche coloro che ancora dubitavano finirono per non dubitare più quando la videro scendere dalla Rondine con la vita stretta da un panciotto, come un uomo. La signora Bovary madre, venuta a rifugiarsi dal figlio dopo una spaventosa scenata con il marito, rimase scandalizzata, certo non meno di tutte le brave borghesi di Yonville. E molte altre cose le dispiacquero: innanzitutto Charles non aveva seguito i suoi consigli per quanto concerneva le letture di Emma. E inoltre ella non approvava l'andamento di quella casa. Si permise alcune osservazioni e ne derivarono situazioni incresciose, soprattutto una volta, a proposito di Félicité.

La signora Bovary madre, la sera prima, nell'attraversare il corridoio, l'aveva sorpresa in compagnia di un uomo dalla barba nera, di circa quarant'anni, il quale, al rumore dei suoi passi, era scappato in fretta dalla cucina. Emma rise, ma la buona signora si adirò, dichiarando che se una padrona di casa non si infischia dei buoni costumi ha l'obbligo di curarsi di quelli dei domestici.

"Ma in che mondo vive?" disse la nuora, con uno sguardo tanto impertinente che la suocera le domandò se per caso non difendesse la propria causa.

"Fuori!" fece Emma alzandosi di scatto.

"Emma... Mamma..." gridava Charles per rappacificarle.

Ma, in preda all'esasperazione, se n'erano già andate entrambe. Emma batteva i piedi in terra ripetendo:

"Ah! Che maniere! Che villana!"

Charles corse dalla madre; ella era fuori di sé, balbettava: "È un'insolente, una testa vuota! E forse peggio!"

Voleva partire subito, se la nuora non le avesse chiesto scusa. Charles tornò allora dalla moglie, la scongiurò di cedere; si mise in ginocchio. Emma finì per rispondere:

"E va bene! Ci vado".

In realtà tese la mano alla suocera con la dignità di una marchesa, dicendo:

"Mi voglia scusare, signora".

Poi risalì in camera, si gettò bocconi sul letto e pianse come una bambina, con la testa affondata nel guanciale.

Si erano accordati, lei e Rodolphe, nel senso che, se fosse accaduto qualcosa di insolito, Emma avrebbe attaccato a una persiana un foglio di carta bianca; in tal caso, trovandosi a Yonville, egli sarebbe accorso nel viottolo dietro la casa. Emma fece il segnale convenuto. Trascorsero tre quarti d'ora, e per un attimo scorse Rodolphe all'angolo del mercato. Fu tentata di aprire la finestra e di chiamarlo, ma era già scomparso. Ricadde a sedere disperata.

Quasi subito le sembrò di sentire un passo sul marciapiede. Era lui, di certo; scese le scale e attraversò il cortile. Lo vide là fuori. Si gettò nelle sue braccia.

"Sta' attenta!" disse lui.

"Ah, se sapessi!" rispose Emma.

E si mise subito a raccontargli tutto, in fretta, disordinatamente, esagerando i fatti, inventandone molti, e con una tale abbondanza di incisi che Rodolphe non riuscì a capire niente.

"Via, povero angelo, coraggio, non te la prendere, abbi pazienza!"

"Ma sono quattro anni che paziento, che soffro!... Un amore come il nostro dovrebbe farsi conoscere dall'intero universo. Mi stanno torturando. Non ne posso più! Salvami!"

Si stringeva a Rodolphe. Gli occhi, pieni di lacrime le balenavano come fiamme sott'acqua, la gola le palpitava costretta da rapidi singulti. Non l'aveva mai amata tanto; perdette la testa e le domandò:

"Cosa si dovrebbe fare? Cosa vorresti?"

"Portami con te!" gridò lei "Rapiscimi!... Te ne supplico!"

E si gettò sulla sua bocca, come per strappare un assenso imprevisto e alitato in un bacio.

"Ma..." soggiunse Rodolphe.

"Cosa c'è ancora?"

"E tua figlia?"

Emma rifletté un momento poi rispose:

"Tanto peggio, la prenderemo con noi".

"Che donna!" si disse Rodolphe, guardandola allontanarsi.

Emma stava attraversando di corsa il giardino. Qualcuno la chiamava.

Il giorno dopo, la signora Bovary madre si stupì molto del cambiamento intervenuto nella nuora. Emma infatti si mostrò più docile e spinse la sua deferenza fino a domandare alla suocera una ricetta per mettere i cetriolini sott'aceto.

Si comportava così per ingannare meglio l'una e l'altro? Oppure per una sorta di masochismo, per sentire ancora di più l'amarezza inflittale dalle cose che stava per abbandonare? Non se ne curava, piuttosto, viveva perduta nella contemplazione dell'ormai vicina felicità. E, con Rodolphe, ne parlava continuamente. Appoggiandosi alla sua spalla mormorava:

"Eh! Quando saremo sulla diligenza! Ma ci pensi? Lo credi possibile? Mi sembra che quando sentirò la carrozza partire, sarà come se stessi alzandomi in pallone, come se stessimo salendo verso le nuvole. Lo sai che conto i giorni? E tu?"

La signora Bovary non era mai stata bella come in questo periodo. Possedeva quell'indefinibile bellezza che proviene dalla gioia, dall'entusiasmo, dal successo e che deriva dall'armonia dello spirito con le circostanze. Le sue bramosie, gli affanni, l'esperienza del piacere, le illusioni sempre vive, come accade con i fiori grazie ai fertilizzanti, al sole, ai venti e alle piogge, l'avevano a poco a poco fatta maturare ed ella sbocciava ormai nel pieno della fioritura. Le palpebre di lei sembravano tagliate apposta per i lunghi sguardi amorosi, in cui la pupilla si perde, mentre un sospiro profondo dilatava le narici minute e rialzava l'angolo carnoso delle labbra, che, in piena luce, erano ombreggiate da una lieve peluria scura. Si sarebbe detto che un artiste abile in seduzione avesse disposto sulla sua nuca la treccia dei capelli: questi ultimi erano raccolti con negligenza in una massa pesante, a seconda delle vicende dell'adulterio che li scioglieva ogni giorno. La voce, ora, aveva inflessioni più morbide, la figura atteggiamenti più nobili; qualcosa di sottile e di penetrante si sprigionava perfino dalle pieghe dell'abito e dalla curva del piede.

Charles, come nei primi tempi del matrimonio, la trovava deliziosa e del tutto irresistibile.

Quando rientrava a notte alta, non aveva il coraggio di svegliarla. La lampada da notte di porcellana disegnava sul soffitto una chiazza di luce rotonda e tremolante e le tendine chiuse della culla sembravano una capannuccia bianca che si delineasse accanto al letto nell'ombra. Charles indugiava guardandole. Credeva di sentire il respiro lieve della bambina. Adesso stava crescendo, ogni stagione avrebbe portato un rapido progresso; la vedeva già tornare da scuola al tramonto tutta ridente, con il grembiale macchiato di inchiostro e il panierino infilato al braccio. Poi avrebbe dovuto mandarla in collegio, e questo gli sarebbe venuto a costare parecchio; come fare? Vi pensava fin d'ora. Meditava di prendere in affitto una piccola fattoria nei dintorni; l'avrebbe sorvegliata lui stesso tutte le mattine, andando a visitare i malati. Avrebbe messo da parte il reddito, depositandolo alla cassa di risparmio, in seguito avrebbe acquistato delle azioni, da qualche parte, non importa dove. E poi la clientela sarebbe aumentata, ci contava perché voleva che Berthe fosse allevata bene, che, se aveva talento, imparasse a suonare il pianoforte. Ah. come sarà graziosa, più tardi, quando rassomigliando a sua madre porterà come lei, d'estate, grandi cappelli di paglia! Di lontano le scambieranno per due sorelle. Se la immaginava la sera, mentre avrebbe lavorato vicino a loro, al lume della lampada. Gli avrebbe ricamato le pantofole e si sarebbe occupata dell'andamento della casa, rallegrata dalla gentilezza e dal buonumore di Berthe. E infine pensava alla sua sistemazione: si sarebbe pur trovato un bravo giovane con una solida posizione, capace di renderla felice; e questa felicità sarebbe durata sempre.

Emma non dormiva, fingeva di essere addormentata e, mentre Charles si assopiva al suo fianco, viveva altri sogni.

Al galoppo di quattro cavalli, da otto giorni era trasportata verso paesi nuovi dai quali non avrebbero più fatto ritorno. Andavano e andavano, abbracciati e senza parlare. Spesso, dall'alto di una montagna scorgevano all'improvviso qualche splendida città, con le sue cupole, i ponti, le imbarcazioni, i boschetti di limoni e le cattedrali di marmo bianco i cui campanili aguzzi ospitavano nidi di cicogne. Procedevano al passo a causa delle grandi pietre del selciato e c'erano per terra mazzi di fiori che le donne in corsetto rosso offrivano ai viaggiatori. Si sentivano suonare le campane, nitrire i muli, insieme con gli accordi delle chitarre e il mormorio delle fontane, il cui vapore andava a rinfrescare cumuli di frutta disposta a piramide ai piedi di pallide statue sorridenti sotto gli zampilli dell'acqua. E poi, una sera, arrivavano in un villaggio di pescatori, ove le reti scure asciugavano al vento lungo le scogliere e vicino alle capanne. Qui si sarebbero fermati, avrebbero abitato in una casa bassa, dal tetto a terrazza, all'ombra di un palmizio, in fondo a un golfo, sulla riva del mare. Avrebbero fatto gite in gondola, si sarebbero cullati sulle amache, conducendo un'esistenza placida e comoda come gli abiti di seta che avrebbero indossato, un'esistenza tutta calda e stellata come le dolci notti dalle quali erano attesi. Purtroppo, sull'immensità di questo avvenire evocato da Emma non accadeva niente di rilevante; i giorni, uno più bello dell'altro, si somigliavano come le onde, e l'avvenire si dondolava all'orizzonte infinito, armonioso, azzurrino e pieno di sole. Ma la bimba tossiva nella culla, oppure Bovary russava più sonoramente ed Emma finiva per addormentarsi soltanto al mattino quando l'alba scoloriva i vetri della finestra e Justin, sulla piazza, già apriva le vetrine della farmacia.

Emma aveva chiamato il signor Lheureux e gli aveva detto:

"Avrei bisogno di un mantello, grande, con il collo ampio e foderato."

"Ha intenzione di fare un viaggio?" domandò lui.

"No!... ma cosa c'entra? Posso contare su di lei, vero? E faccia presto."

Il mercante si inchinò.

"Mi occorrerebbe anche un baule" continuò lei "non troppo pesante, e comodo."

"Sì, sì, capisco, di circa novantadue centimetri per cinquanta, come li fanno adesso."

"E un nécessaire da notte."

"Decisamente" pensò Lheureux "qui c'è sotto un pasticcio." "Prenda," disse la signora Bovary, togliendosi l'orologio dalla cintura "prenda questo e si paghi."

Ma il mercante protestò dicendo che non era proprio il caso: si conoscevano. Aveva mai dubitato di lei? Che ridicolaggine! Emma insistette affinché accettasse almeno la catena. Lheureux se l'era già messa in tasca e se ne stava andando quando si sentì richiamare.

"Tenga tutto lei. In quanto al mantello," Emma parve riflettere per un momento "non lo porti qui affatto, mi darà soltanto l'indirizzo del sarto e lo avvertirà di tenerlo a mia disposizione."

La fuga era fissata per il mese successivo. Emma sarebbe partita da Yonville come se avesse dovuto recarsi a Rouen per commissioni. Rodolphe avrebbe fissato i posti, chiesto i passaporti, e addirittura scritto a Parigi per avere una vettura diretta fino a Marsiglia, dove avrebbero acquistato un calesse per proseguire senza fermarsi lungo la strada di Genova. Emma pensava di mandare il bagaglio da Lheureux, il quale lo avrebbe fatto portare direttamente sulla Rondine, in maniera che nessuno potesse sospettare di nulla; e, in tutti questi preparativi, non si accennava mai alla bambina. Rodolphe evitava di parlarne e forse Emma non ci pensava.

Rodolphe volle ancora due settimane di tempo per sistemare alcune cose, poi quando erano trascorsi otto giorni, ne chiese altri quindici. In seguito disse di non sentirsi bene. E successivamente fece un viaggio. Il mese di agosto trascorse e, dopo tutti questi rinvii, stabilirono irrevocabilmente la data del 4 settembre, un lunedì.

Finalmente si giunse al sabato, l'antivigilia della partenza.

Rodolphe, quella sera, arrivò più presto del solito

"Sei pronto?" domandò Emma.

"Sì!"

Fecero un giro intorno all'aiuola e andarono a sedersi vicino alla terrazza, sulla sommità del muricciolo

"Sei triste" disse Emma.

"No, perché?"

E intanto la guardava in maniera strana, con tenerezza.

"È perché te ne vai?" continuò lei "Lasci i tuoi affetti, la tua vita? Capisco... Io invece, non ho niente al mondo, tu sei tutto per me. E quindi anch'io devo essere tutto per te, sarò la tua famiglia, la tua patria: ti sarò vicina, ti amerò."

"Come sei bella!" disse egli stringendola fra le braccia.

"Davvero?" fece Emma con una risatina voluttuosa "Mi ami? Giuralo allora!"

"Se ti amo! Se ti amo? Ma ti adoro, amore mio!"

La luna piena, color porpora, stava sorgendo bassa sull'orizzonte, in fondo alla distesa dei prati. Saliva veloce fra i rami dei pioppi che di tanto in tanto la nascondevano. Infine apparve, elegante nel suo candore, nel cielo sgombro e rischiarato dalla sua luce, e rallentò lasciando cadere sul fiume una grande striscia fatta di stelle e questo luccichio d'argento sembrava torcersi da cima a fondo come un serpente senza testa coperto di squame luminose. Somigliava anche a un mostruoso candelabro dal quale colasse un ruscello di gocce di diamanti fusi. Intorno a loro era la notte tiepida; chiazze d'ombra empivano il fogliame. Emma, gli occhi socchiusi, aspirava con profondi sospiri il vento fresco che stava soffiando. Tacevano, entrambi troppo assorti nelle fantasticherie dei propri sogni. Nei loro cuori tornava tutta la tenerezza dei vecchi tempi, copiosa e tacita come il fiume che scorreva tanto dolcemente, così com'era dolce il profumo delle sassifraghe, e proiettava nei ricordi ombre più vaste e malinconiche di quelle allungate sull'erba dai salici immobili. Spesso si udivano le foglie frusciare, smosse da qualche animale notturno, un riccio o una donnola a caccia di prede, o il tonfo di una pesca matura che cadeva da sola dalla spalliera.

"Che bella notte!" disse Rodolphe.

"Ne avremo altre" rispose Emma.

E, come parlando a se stessa:

"Sì, sarà bello viaggiare!... Perché mi sento triste allora? È la paura dell'ignoto, il disagio di dover cambiare abitudini... O piuttosto... No, è la troppa felicità. Che donna dappoco sono, vero? Perdonami!"

"Sei ancora in tempo!" esclamò lui "Rifletti, potresti pentirtene poi, forse."

"Mai!" disse Emma con slancio.

E, facendoglisi più vicina:

"Che cosa potrebbe accadermi? Non esistono deserti né precipizi né oceani che non affronterei con te. Vivendo insieme, verrà a crearsi fra noi un legame ogni giorno più stretto, più completo! Non vi sarà mai nulla che possa turbarci, né preoccupazioni né ostacoli. Saremo soli, ci apparterremo per sempre. Parla, rispondimi!"

Rodolphe rispondeva: "Sì, sì" a intervalli regolari. Emma gli passò le mani fra i capelli, ripetendo con voce infantile, sebbene avesse il volto rigato da grosse lacrime:

"Rodolphe! Rodolphe!... Mio caro Rodolphe!"

Suonò mezzanotte.

"Mezzanotte!" disse lei "È già domani. Ancora un giorno!

Rodolphe si alzò per andarsene e, come se il gesto compiuto da lui fosse il segnale della fuga, Emma di colpo divenne gioiosa.

"Hai i passaporti?"

"Sì."

"Ti sei dimenticato niente?"

"No."

"Ne sei sicuro?"

"Certo!"

"Mi aspetterai all'albergo Provenza, vero? A mezzogiorno?"

Assentì con il capo.

"A domani allora!", disse Emma con un'ultima carezza.

Rimase a guardarlo mentre si allontanava.

Rodolphe non si voltò. Emma gli corse dietro e, protendendosi sull'acqua, fra i cespugli:

"A domani!" gridò.

Rodolphe era già sull'altra riva e camminava in fretta in mezzo ai prati.

Dopo qualche minuto si fermò; quando la vide svanire con il suo abito bianco, lentamente, nell'ombra, come un fantasma si sentì preso da un tale batticuore che dovette appoggiarsi a un albero per non cadere.

"Che imbecille sono mai!" esclamò imprecando violentemente "Non importa, era un'amante deliziosa!"

E, di colpo, la bellezza di Emma, con tutti i piaceri che l'amore di lei gli procurava, si materializzarono nella sua mente. Di nuovo si intenerì, poi ebbe un moto di ribellione contro di lei.

"Non è possibile che io vada all'estero, mi assuma la responsabilità di un bambino..." continuava gesticolando.

Si diceva queste cose per rendere più ferma la propria risoluzione.

"E d'altro canto, le complicazioni, le spese... Ah, no, no, mille volte no! Sarebbe un errore madornale!"

XIII

Appena arrivato a casa, Rodolphe sedette con decisione allo scrittoio, sotto il trofeo di una testa di cervo appesa alla parete. Ma quando ebbe la penna fra le dita, non seppe farsi venire in mente nulla e, appoggiandosi sui gomiti, si mise a riflettere. Gli sembrava che Emma fosse indietreggiata in un remoto passato, quasi che la risoluzione presa avesse interposto fra loro, d'improvviso, una distanza enorme.

Per riafferrare qualcosa di lei, andò a cercare nell'armadio a capo del letto una vecchia scatola di biscotti di Reims ove conservava le lettere d'amore e dalla quale sfuggì un odore di polvere umida e di rose appassite. Dapprima trovò un fazzolettino cosparso di piccole macchie scolorite. Era un fazzoletto di Emma, quando ella aveva perduto sangue dal naso durante una passeggiata; non se ne ricordava nemmeno più. Poi una miniatura regalatagli da Emma, sbattuta qua e là dalle sue mani nervose: la guardò. L'abbigliamento di lei gli sembrò pretenzioso e lo sguardo in tralice, di pessimo effetto; poi, continuando a guardare questa immagine e a evocare il ricordo del modello, i tratti del viso di Emma gli si confusero nella memoria, come se la figura dipinta e quella reale si fossero, sovrapponendosi, cancellate a vicenda. Lesse qualcuna delle sue lettere: erano piene di spiegazioni sul loro prossimo viaggio, brevi, pressanti e pratiche come comunicazioni commerciali. Volle rileggere le più lunghe, quelle di molto tempo prima; per ripescarle dal fondo della scatola, Rodolphe rimescolò tutte le altre e macchinalmente si mise a rovistare in quel mucchio di fogli e oggetti, ritrovando, senza alcun ordine logico, mazzolini di fiori, una giarrettiera, una mascherina nera, spille, capelli - capelli bruni, biondi, qualcuno dei quali, rimasto impigliato nella scatola metallica, al momento di aprirla, si rompeva.

E così, vagando fra i ricordi, osservò la calligrafia e lo stile delle lettere, diverse una dall'altra come l'ortografia di ognuna di esse. Erano tenere o allegre, spiritose o malinconiche; qualcuna chiedeva amore e qualche altra soldi. Ogni tanto una frase gli rammentava un viso, dei gesti, il suono di una voce, o, a volte, proprio nulla.

Tutte queste figure di donna che si susseguivano nella sua immaginazione, si intralciavano reciprocamente e si ripetevano in una teoria uniforme, resa tale da un sentimento amoroso che le metteva tutte sullo stesso livello. Prendendo a manciate le lettere in disordine, si divertì per qualche minuto a lasciarle cadere come una cascata dalla mano destra alla sinistra. Poi, stufo e insonnolito, Rodolphe ripose la scatola nell'armadio dicendosi:

"Quante frottole!"

E questo riassumeva la sua opinione; perché i piaceri, a somiglianza degli scolari nel cortile di un collegio, avevano talmente calpestato il suo cuore da inaridirlo del tutto e chi vi passava, ancora più sventato dei fanciulli, non poteva lasciarvi, come loro invece facevano, neppure il proprio nome inciso sul muro.

"Avanti," si disse "cominciamo."

Scrisse:

Coraggio Emma! Deve avere coraggio! Non voglio essere la rovina della sua esistenza.

"Dopotutto è vero" pensò Rodolphe. "Agisco nel suo interesse, mi comporto da onest'uomo."

Ha ponderato bene la sua decisione? Ha pensato in quale abisso avrei potuto trascinarla, povero angelo? No, vero? Lei cammina fiduciosa e folle, credendo nella felicità, nell'avvenire. Ah, siamo degli sventurati, degli insensati.

Rodolphe si fermò cercando a questo punto una scusa plausibile.

"Se le dicessi che sono rovinato?... Ah, no! E, d'altra parte questo non cambierebbe nulla. Fra un po' si sarebbe daccapo. Ma si può far capire la ragione a donne simili?"

Rifletté, poi proseguì:

Non la dimenticherò mai, mi creda, e serberò per lei una devozione profonda ma un giorno presto o tardi, questo ardore (è il destino delle umane cose) certo finirà per diminuire! Sopraggiungerà la stanchezza, e avrei avuto il dolore di assistere al suo rimorso e di parteciparvi io stesso essendone stato la causa. Il solo pensiero della disperazione in cui avrei potuto gettarla, mi tortura. Emma! Mi dimentichi! Perché l'ho incontrata? Perché è così bella? È stata colpa mia? Oh, mio Dio, no! No! Incolpi soltanto la fatalità.

"Ecco una frase che fa sempre effetto" si disse.

Ah! Se lei fosse stata una di quelle donne dal cuore frivolo, come ce ne sono tante, certo avrei potuto, per egoismo, tentare un'esperienza senza danno per lei. Ma questa deliziosa esaltazione che costituisce al contempo il suo fascino e il suo tormento, le ha impedito di intuire, adorabile signora, la falsità della nostra posizione futura. Io stesso, dapprima non avevo riflettuto, riposavo all'ombra di quella felicità ideale, come avrei potuto fare sotto il manzaniglio, senza prevederne le conseguenze.

"Adesso potrebbe credere che rinuncio per avarizia... Non m'importa! Tanto peggio! Bisogna pur farla finita!"

Il mondo è crudele, Emma. Ovunque avessimo potuto recarci, ci avrebbero perseguitato. Sarebbe stato inevitabile, per lei, dover rispondere a domande indiscrete dover subire la calunnia, il disprezzo, l'oltraggio, forse. Offendere lei! Oh!... E io che vorrei vederla su un trono! Io che considero il suo affetto come un talismano! Perciò voglio punirmi con l'esilio per tutto il male che le ho fatto. Parto. Per dove? Non lo so. Mi sento impazzire. Addio. Sia sempre così buona come io la conosco! Serbi almeno un ricordo di quel disgraziato che l'ha perduta. Insegni il mio nome alla sua bambina, affinché lo ripeta nelle sue preghiere.

Lo stoppino delle due candele tremolava. Rodolphe si alzò per chiudere la finestra e, quando si rimise a sedere, pensò: "Mi sembra di aver detto tutto. Ah, ancora una cosa, per essere sicuri che non venga a riacciuffarmi."

Sarò lontano quando leggerà queste tristi parole: ho voluto fuggire per il timore di cedere alla tentazione di vederla ancora. Niente debolezze. Ritornerò, e forse un giorno ci sarà possibile ricordare insieme, con molto distacco, i nostri trascorsi amori. Addio!

E aggiunse un ultimo addio, in due parole distinte, A Dio! che giudicò d'ottimo gusto.

"E adesso come mi firmo?" si domandò "Suo devotissimo... No. Il suo amico?... Sì, così va bene."

Il suo amico

Rilesse la lettera e ne fu soddisfatto.

"Povera piccola!" pensò con tenerezza "Mi crederà più insensibile di una roccia; ci sarebbe voluta qualche lacrima qui sopra; ma non riesco a piangere, non è colpa mia.!" Prese allora un po' d'acqua in un bicchiere, vi intinse un dito e lasciò cadere una grossa goccia che fece scolorire un poco l'inchiostro. Poi, quando volle sigillare la lettera, gli capitò sottomano il sigillo con il motto Amor nel cor.

"Non è molto adatto alla circostanza... Ah, cosa importa!"

Dopo di che fumò tre pipe e se ne andò a dormire.

L'indomani, appena si fu alzato, (verso le due, circa; aveva dormito fino a tardi), Rodolphe ordinò che cogliessero un paniere di albicocche. Nascose la lettera sul fondo, sotto le foglie di vite, e ordinò subito a Girard, il suo bracciante, di fare attenzione e di portarlo alla signora Bovary. Si serviva di questo sistema per corrispondere con lei mandandole, a seconda della stagione, frutta o selvaggina.

"Se ti domanda mie notizie," disse "dirai che sono partito per un viaggio. Devi consegnare il paniere nelle sue mani. Va' e bada di fare le cose come si deve."

Girard si mise un camiciotto nuovo, annodò un fazzoletto intorno alle albicocche e, camminando a lunghi passi pesanti con le grosse scarpe chiodate, prese senza affrettarsi la via di Yonville.

La signora Bovary, quando egli arrivò, stava riordinando un mucchio di biancheria sulla tavola di cucina insieme con Félicité.

"Il padrone le manda questo" disse il contadino.

Emma si sentì afferrare dall'ansia, e, cercando qualche moneta in tasca, osservò il contadino con occhi selvaggi, mentre anche lui la guardava stupito, senza capire come un simile regalo potesse turbare tanto qualcuno. Finalmente se ne andò, ma Félicité rimase. Non riuscendo più a trattenersi, Emma corse nel tinello, con la scusa di portarvi le albicocche, rovesciò il paniere, strappò le foglie, trovò la lettera, l'aprì e, come se avesse alle spalle uno spaventevole incendio, fuggì atterrita in camera sua.

Vi trovò Charles, lo vide, lui le rivolse la parola senza che Emma capisse cosa le era stato detto; ella continuò pertanto a salire di corsa i gradini, ansimante, smarrita, ebbra, e sempre con quell'orribile foglio di carta fra le dita che faceva tanto rumore quanto un foglio di lamiera. Al secondo piano si fermò davanti alla porta accostata del solaio.

Cercò di calmarsi; si rammentò della lettera, doveva finire di leggerla e non ne aveva il coraggio. E poi, dove? Come fare per non farsi scorgere?

"Ecco, qui non mi vedrà nessuno" pensò. "Starò tranquilla."

Spinse la porta ed entrò.

L'ardesia del tetto riverberava un calore greve che le serrò le tempie e la soffocò; si trascinò fino all'abbaino chiuso, tirò il catenaccio e di colpo la luce accecante dilagò.

Davanti a lei, al di là dei tetti, l'aperta campagna si stendeva a perdita d'occhio. Sotto, la piazza del villaggio era deserta. I ciottoli del marciapiede scintillavano, le banderuole delle case rimanevano immobili; all'angolo della strada, da un piano più basso, proveniva una sorta di ronzio con modulazioni stridenti. Era Binet, al tornio.

Si appoggiò al vano della finestra dell'abbaino e rilesse la lettera con risatine sarcastiche. Ma, quanto più cercava di concentrare la propria attenzione, tanto più le idee le si confondevano nella mente. Lo rivedeva, l'ascoltava, lo circondava con le braccia; i battiti del cuore le martellavano nel petto colpi d'ariete, accelerando a intervalli irregolari. Si guardò intorno, avrebbe voluto che il mondo crollasse. Perché non farla finita? Cosa la tratteneva? Era libera. Si sporse, guardando il selciato e dicendosi:

"Avanti! Fallo!"

Il raggio di luce che saliva diritto dal basso sembrava volesse attirare nel baratro il peso del suo corpo. Le parve che la superficie della piazza si sollevasse, oscillando, lungo i muri e che il pavimento si inclinasse da una parte come una nave che beccheggi. Si teneva afferrata ai bordi della finestra, quasi sospesa, circondata da un gran vuoto. Si sentiva fondere con l'azzurro del cielo, la testa leggera, come d'aria. Non doveva fare altro che cadere, lasciarsi andare. E il ronzio del tornio non desisteva, come una voce insistente che la chiamasse.

"Emma! Emma!" gridò Charles.

Si immobilizzò.

"Dove sei? Vieni!"

L'idea di essere appena sfuggita alla morte, per poco non la fece svenire di terrore; chiuse gli occhi, poi trasalì al contatto di una mano sul braccio: era Félicité.

"Il signore l'aspetta, signora. La minestra è in tavola."

Dovette scendere! Dovette mettersi a tavola!

Cercò di mangiare, ma i bocconi la soffocavano. Spiegò il tovagliolo come se intendesse esaminarne i rammendi e volle davvero applicarsi al lavoro di contare i fili della tela. All'improvviso si ricordò della lettera. L'aveva perduta? Dove poteva essere? Sentì una stanchezza mentale così grande che non sarebbe stata in grado di inventare un pretesto qualsiasi per alzarsi da tavola. Era divenuta vile, oltretutto, aveva paura di Charles; certo sapeva ogni cosa. Infatti per una strana coincidenza disse:

"A quanto pare non rivedremo tanto presto il signor Rodolphe".

"Chi te l'ha detto?" trasalì Emma.

"Chi me l'ha detto?" rispose lui, un po' stupito dal tono brusco della moglie "Girard, l'ho incontrato poco fa sulla porta del Caffè Francese. Deve partire o è già partito per un viaggio."

Emma ebbe un singulto.

"Come mai ti stupisci? Si assenta di tanto in tanto, per distrarsi, e, perbacco, lo approvo. Quando uno è benestante e non ha moglie... Del resto si diverte allegramente l'amico! È un buontempone. Il signor Langlois mi ha raccontato..."

Tacque per convenienza, perché era entrata la domestica.

Quest'ultima dispose di nuovo nel paniere le albicocche sparse sulla credenza. Charles, senza accorgersi del rossore della moglie, se le fece portare, ne prese una e l'addentò.

"Oh! Ottime!" disse "Assaggiale."

E tese il paniere, ma Emma lo respinse adagio.

"Senti che profumo!" disse Charles facendole passare ripetutamente un frutto sotto il naso.

"Soffoco!" gridò lei alzandosi di scatto.

Ma, grazie a uno sforzo della volontà, lo spasmo si sciolse.

"Non è niente" disse poi "Non è niente, sono i nervi. Siediti, e mangia!"

Temeva che le facessero domande, che volessero curarla, che non la lasciassero più in pace.

Charles, per non contrariarla, si era rimesso a sedere, e sputava in mano i noccioli di albicocca mettendoli poi nel piatto.

All'improvviso, un tilbury azzurro attraversò di gran carriera la piazza. Emma lanciò un grido e cadde irrigidita e riversa a terra

Rodolphe infatti, dopo molte riflessioni, si era deciso a partire per Rouen, e siccome non v'erano altre strade per andare dalla Huchette a Buchy se non quella che passava per Yonville, era stato costretto ad attraversare il villaggio ed Emma l'aveva riconosciuto alla luce delle lanterne che fendevano il crepuscolo come un lampo.

Il farmacista si precipitò nella casa del medico, attirato dalla confusione incredibile che vi regnava. La tavola con tutte le stoviglie era rovesciata, la salsa, la carne, i coltelli, la saliera, e l'oliera, tutto era sparso per la stanza; Charles chiedeva aiuto, Berthe spaventata, piangeva, e Félicité, con le mani tremanti, slacciava gli abiti alla padrona che aveva il corpo scosso da movimenti convulsi.

"Vado a prendere," disse lo speziale "un po' di aceto aromatico in laboratorio."

Poi, siccome Emma, dopo aver annusato il flacone, riapriva gli occhi, disse:

"Ne ero certo, questo sveglierebbe un morto".

"Parla!" diceva Charles "Parla! Cerca di riprenderti! Sono qui io, il tuo Charles che ti ama! Mi riconosci? Guarda c'è la tua bambina: dalle un bacio!"

La bimba tese le braccine verso la madre per farsi prendere in collo, ma, voltando la testa, Emma disse con voce rotta:

"No... No... Nessuno".

E svenne di nuovo. La portarono a letto.

Emma vi rimase distesa, la bocca aperta, gli occhi chiusi, le mani posate immobili con i palmi in giù, pallida come una statua di cera. Dagli occhi, due rivoletti di lacrime scendevano adagio sul guanciale.

Charles rimaneva in piedi, in fondo all'alcova, e accanto a lui il farmacista serbava quel silenzio meditativo che conviene mantenere nelle occasioni più serie della vita.

"Si rassicuri," disse il farmacista stringendogli il braccio "credo che il peggio sia passato."

"Sì, sta riposando un poco adesso" rispose Charles guardando la moglie dormire. "Povera donna! Povera donna! Ha avuto una nuova ricaduta!"

Homais domandò allora in che modo si fosse sentita male. Charles rispose che la crisi l'aveva assalita d'improvviso mentre mangiava albicocche.

"Straordinario" rispose il farmacista. "È possibile che siano state le albicocche a provocare la sincope! Vi sono persone sensibilissime a certi odori! Sarebbe un interessante argomento di studio, sia dal punto di vista patologico sia da quello fisiologico. I preti ne conoscono l'importanza, infatti hanno sempre mescolato i profumi alle loro cerimonie. Lo fanno per ottundere l'intelletto e provocare uno stato d'estasi, cosa facile da ottenere nelle donne, che sono più delicate degli uomini. Ho sentito dire di donne che svengono all'odore del corno bruciato o del pane fresco..."

"Stia attento a non svegliarla," disse sottovoce Bovary.

"E non soltanto gli esseri umani vanno soggetti a questi fenomeni," continuò il farmacista "ma anche gli animali. Così, conoscerà benissimo l'effetto afrodisiaco prodotto dalla nepeta cataria volgarmente detta erba gattaria, sui felini; e d'altra parte, per citare un esempio che garantisco autentico, Bridoux (uno dei miei vecchi compagni di studi, attualmente stabilito in via Malpalu), possiede un cane che viene preso dalle convulsioni appena gli si fa annusare una tabacchiera. Spesso egli fa questo esperimento alla presenza degli amici, nella sua villetta al Bois Guillaume. Chi potrebbe credere che una semplice polvere per starnutire possa provocare tali sconvolgimenti nell'organismo di un quadrupede? È una cosa molto interessante, non è vero?"

"Sì" disse Charles, che non l'ascoltava.

"Questo dimostra" continuò l'altro, con un'aria di benigna sufficienza, "le stranezze senza fine del sistema nervoso. Per quanto concerne la signora, confesso che mi è sempre sembrata una vera sensitiva. Pertanto, non le consiglierei, amico mio, nessuno di quei pretesi rimedi che, con il pretesto di fare scomparire i sintomi, turbano il carattere. No, niente medicamenti inutili. Curare il regime, ecco tutto! Qualche sedativo, qualche emolliente o dolcificante. E non crede che sarebbe bene poter insistere sull'immaginazione?"

"E come?" domandò Bovary.

"Ah! Questo è il problema! Eh, sì: questo è il problema: That is the question!, come ho letto ultimamente sul giornale."

Ma Emma, svegliandosi, gridò:

"E la lettera? La lettera?"

Credettero che delirasse. E lo ebbe effettivamente, il delirio, a partire dalla mezzanotte, quando si manifestò una febbre cerebrale.

Per quarantatré giorni, Charles non la lasciò un istante. Abbandonò tutti i suoi pazienti, non si coricò più, ogni momento le tastava il polso, le applicava senapismi, impacchi d'acqua fredda. Mandò Justin fino a Neufchâtel a prendere il ghiaccio, che si scioglieva strada facendo; e allora il poveretto tornava indietro a prenderne dell'altro. Chiamò a consulto il signor Canivet, fece venire da Rouen il dottor Larivière il suo vecchio maestro; era disperato. A spaventarlo soprattutto era lo stato di abbattimento di Emma: non parlava, non ascoltava nulla e perfino sembrava non soffrisse, come se il suo corpo e la sua anima si fossero riposate insieme di tutte le passate agitazioni.

Verso la metà di ottobre cominciò a essere in grado di mettersi a sedere sul letto, appoggiata ai guanciali. Charles pianse quando la vide mangiare per la prima volta una tartina con la marmellata. Stava riacquistando le forze, incominciò ad alzarsi per qualche ora nel pomeriggio e, un giorno in cui si sentiva meglio del solito, Charles provò a farle fare una passeggiatina in giardino, al suo braccio. La sabbia dei vialetti scompariva sotto le foglie morte. Emma camminava adagio, trascinando le pantofole e appoggiandosi con la spalla contro il marito; continuava a sorridere.

Andarono, così, fino in fondo al giardino, vicino alla terrazza. Emma si raddrizzò lentamente, riparandosi gli occhi con la mano per vedere meglio; scrutava lontano, il più lontano possibile: ma non v'erano che fuochi di paglia, all'orizzonte, che bruciavano sulle colline.

"Finirai per stancarti, cara" disse Bovary.

E la spingeva con dolcezza per guidarla sotto la pergola.

"Siediti sulla panca, starai comoda."

"Oh! No! Là no, là no!" disse Emma con la voce fioca.

Si sentì male, e da quella sera la malattia ricominciò, ma con un andamento più incerto, per la verità, con sintomi più complessi. Talora era il cuore a farla soffrire poi il petto, la testa, gli arti; ebbe crisi di vomito che Charles interpretò come i primi sintomi di un cancro.

E il pover'uomo, come se non bastasse, aveva preoccupazioni finanziarie.

XIV

Innanzitutto non sapeva come disobbligarsi con il signor Homais di tutti i medicamenti che il farmacista aveva fornito; e sebbene come medico potesse esimersi dal pagare, si vergognava un po' di averne approfittato. Le spese di casa, da quando la cuoca faceva da padrona, erano diventate spaventose; i conti piovevano da ogni parte, i fornitori borbottavano. Soprattutto il signor Lheureux lo assillava. Infatti, nel momento più grave della malattia di Emma, costui approfittò della circostanza per esigere il pagamento delle fatture: aveva consegnato il mantello, il nécessaire da notte, due bauli invece di uno e una quantità di altre cose. Charles ebbe un bel dire che non gli servivano; il mercante rispose con arroganza che tutti quegli articoli gli erano stati ordinati e che lui non intendeva riprenderseli. D'altro canto, questo avrebbe voluto dire contrariare la signora proprio nella convalescenza. Era meglio che il signor Bovary ci pensasse bene. Il signor Lheureux, in breve, era deciso ad adire le vie legali piuttosto che rinunciare ai suoi diritti e riprendersi le mercanzie. Charles, in seguito, dette ordine di riportare tutto al negozio. Félicité se ne dimenticò; il suo padrone aveva altre preoccupazioni; non ci pensarono più. Il signor Lheureux tornò alla carica e, a volte minacciando, a volte piangendo, tanto fece e tanto disse che Bovary fini con il firmargli una cambiale a sei mesi. Ma, non appena firmata questa cambiale, Charles ebbe un'idea audace: quella di farsi dare in prestito mille franchi dal signor Lheureux. Così, gli domandò, con aria imbarazzata, se non vi sarebbe stato modo di averli, aggiungendo che intendeva contrarre il debito per la durata di un anno, e al tasso che avrebbero stabilito. Lheureux corse alla bottega, portò gli scudi e dettò un'altra cambiale con la quale Bovary si impegnava a pagare all'ordine del signor Lheureux, in data primo settembre prossimo venturo, la somma di millesettanta franchi che, insieme con i centottanta già sottoscritti, faceva giusto milleduecentocinquanta franchi. Così, con il tasso del sei per cento, aumentato di un quarto per la commissione, e con le forniture che gli rendevano almeno un altro terzo, questo affare gli avrebbe fruttato in un anno, centotrenta franchi di utile. Inoltre Lheureux sperava che la cosa non si sarebbe fermata qui, e cioè che Bovary non potendo pagare la cambiale sarebbe stato costretto a rinnovarla, e in tal caso il suo povero denaro curato presso il medico come in una clinica, sarebbe ritornato a lui, un giorno, più grasso e cresciuto tanto da fare scoppiare il sacco.

Del resto tutto gli andava a gonfie vele. Gli era stata appena aggiudicata una fornitura di sidro per l'ospedale di Neufchâtel. I signor Guillaumin gli aveva promesso azioni delle torbiere di Grumesnil, e dal canto suo, il mercante sognava di organizzare un nuovo servizio di diligenza, fra Arcueil e Rouen, che non avrebbe tardato a mandare in rovina quel trabiccolo del Leon d'Oro; infatti la nuova vettura, viaggiando più rapidamente, avrebbe potuto tenere i prezzi più bassi, nonché portare una maggiore quantità di bagaglio e in tal modo far sì che Lheureux riuscisse ad avere nelle proprie mani tutto il traffico commerciale di Yonville.

Charles si domandò più volte in che modo sarebbe riuscito l'anno successivo, a restituire tanto danaro; cercava di studiare qualche espediente, come ricorrere a suo padre o vendere qualcosa. Ma suo padre sarebbe stato sordo alle richieste, e lui non aveva niente da vendere. Si rendeva conto allora di essersi messo in un bel pasticcio e preferiva distogliere la mente da meditazioni così sgradevoli. Si rimproverava di dimenticare Emma, quasi ritenesse, dato che tutti i suoi pensieri le appartenevano, di defraudarla di qualcosa smettendo, anche soltanto per poco, di pensare a lei.

L'inverno fu rigido. La convalescenza della signora Bovary si protrasse a lungo. Quand'era bel tempo, la spingevano sulla poltrona accanto alla finestra, quella che guardava sulla piazza, perché adesso aveva in antipatia il giardino e la persiana, da quella parte, restava sempre chiusa. Emma volle che il cavallo fosse venduto, tutto ciò che un tempo prediligeva, ora pareva dispiacerle. Tutti i suoi pensieri sembravano limitarsi alla cura di se stessa. Restava a letto a fare spuntini, chiamava la domestica per informarsi sulle tisane o per chiacchierare con lei. La neve sulla tettoia del mercato proiettava nella camera un riflesso bianco, immobile; poi cominciarono le piogge. Ed Emma aspettava ogni giorno, con una specie di ansia, l'infallibile ripetersi dei piccoli avvenimenti quotidiani, dei quali in realtà non le importava nulla. Il più importante era l'arrivo della Rondine, ogni sera. L'albergatrice gridava, altre voci rispondevano, mentre la lanterna di Hippolyte, il quale stava cercando i bagagli sul tetto della diligenza, palpitava come una stella nell'oscurità. A mezzogiorno Charles rientrava, poi usciva di nuovo; più tardi Emma prendeva un brodo e verso le cinque, quando il giorno moriva, i ragazzi, tornando dalla scuola, trascinavano gli zoccoli sul marciapiede e battevano, uno dopo l'altro, la riga contro il saliscendi delle imposte.

A quell'ora don Bournisien veniva a farle visita. Si informava sulla sua salute, le raccontava le novità, l'esortava ad aver fede in Dio, con chiacchiere un po' leziose, ma non del tutto sgradevoli. Soltanto la vista della sua tonaca bastava perché Emma si sentisse confortata.

Un giorno credette di essere agonizzante, tanto si sentiva male, e chiese di fare la Comunione; e, a mano a mano che venivano fatti nella camera i preparativi perché la malata potesse ricevere il sacramento, mentre veniva allestito un altare sul cassettone ingombro di medicine, e Félicité spargeva per terra fiori di dalia, Emma sentì qualcosa di possente passare su di sé, qualcosa che la liberava dai suoi dolori, da ogni percezione, da ogni sentimento. Il suo corpo, alleviato, sembrava non esistere più, incominciava per lei un'altra vita; sentiva tutto il suo essere, in ascesa verso Dio, annientarsi in questo amore come l'incenso acceso si dissolve in fumo. Aspersero d'acqua benedetta la coperta del letto; il sacerdote tolse dal Santo Ciborio la candida Ostia e, in un'estasi di gioia celeste, Emma sporse le labbra per accettare il corpo del Salvatore che le veniva offerto. Le tendine dell'alcova si gonfiavano intorno a lei mollemente, come nuvole, le fiammelle le apparivano come aureole abbaglianti. Allora lasciò ricadere la testa, convinta di sentire negli spazi infiniti il suono delle arpe serafiche e di intravvedere nel cielo azzurro, su un trono d'oro, in mezzo ai santi con le verdi palme in mano, Dio Padre che in tutto lo splendore della sua maestà, con un gesto faceva scendere sulla terra angeli dalle ali di fiamma per portarla via fra le loro braccia.

Questa splendida visione rimase nella sua memoria come il sogno più meraviglioso che avesse mai sognato; e continuava a sforzarsi di ricreare quella sensazione, che percepiva ancora, ma in una maniera meno esclusiva, sebbene con una dolcezza altrettanto profonda. La sua anima, sfinita dall'orgoglio, si riposava alfine nell'umiltà cristiana, e, assaporando il piacere d'essere debole, Emma contemplava in se stessa la distruzione della propria volontà, spalancando tutte le porte all'invasione della grazia. Esisteva dunque, in luogo della felicità, una beatitudine più grande, un amore superiore a tutti gli altri, un amore ininterrotto e senza fine, che si accresceva eternamente! Emma intuiva, fra le illusioni del suo spirito, una condizione di purezza, fluttuante al di sopra della terra, e fondentesi con il cielo, che andava a raggiungere. Voleva divenire santa, e comperò rosari, si mise addosso medagliette, desiderò avere al capezzale del letto un reliquiario incrostato di smeraldi, per baciarlo tutte le sere.

Il curato ammirava questi atteggiamenti, sebbene ritenesse la religione di Emma incline a sfiorare, a forza di fervore, l'eresia e addirittura la stravaganza. Ma, non essendo troppo versato in questi argomenti, quando superavano certi limiti, scrisse al signor Boulard, libraio del vescovo di mandargli qualche testo molto noto per una signora intelligentissima. Il libraio, con la stessa indifferenza con cui avrebbe mandato chincaglierie ai negri, fece un pacco scegliendo alla rinfusa fra tutto ciò che si vendeva in quel momento in fatto di religione. V'erano catechismi, libelli di tono aspro, alla maniera di quelli di de Maistre, e delle specie di romanzi rilegati in rosa, dallo stile dolciastro, sfornati da menestrelli di seminario o da una scribacchina pentita. V'erano Pensateci bene; L'uomo di mondo ai piedi di Maria, di ***, decorato con onorificenze varie; Degli Errori di Voltaire, a uso dei giovani, eccetera.

La signora Bovary non aveva ancora la mente abbastanza chiara per potersi applicare seriamente a una cosa qualsiasi, e inoltre intraprese queste letture con troppa precipitazione. Si irritò contro le prescrizioni del culto; l'arroganza degli scritti polemici le dispiacque per l'accanimento nel perseguitare persone che non conosceva, e i racconti profani, imbottiti di religione, le sembravano scritti con una tale ignoranza della vita da allontanarla a poco a poco dalle verità di cui si aspettava una conferma. Tuttavia non desistette e, quando lasciava cadere il libro, si sentiva pervasa dalla più soave malinconia cattolica che un'anima eletta possa concepire.

Per quanto concerneva il ricordo di Rodolphe, Emma lo aveva riposto nel più profondo del cuore e là esso rimaneva, più solenne di una mummia reale in un sotterraneo. Un'esalazione sfuggiva da questo grande amore imbalsamato, e, passando attraverso tutta l'anima sua, profumava di tenerezza l'atmosfera di candore nella quale Emma intendeva vivere. Quando pregava sull'inginocchiatoio gotico, Emma indirizzava al Signore le stesse parole soavi che aveva mormorato un tempo all'amante, nelle effusioni dell'adulterio. Faceva così per stimolare la sua fede, ma siccome nessun appagamento discendeva dai cieli, si alzava con le membra stanche e con il vago sospetto di un immenso inganno. Questi tentativi, pensava, erano un merito di più, e, nell'orgoglio della sua devozione, Emma si paragonava alle grandi dame di un tempo, delle quali aveva sognato la gloria in un ritratto della signora La Vallière; quelle dame che, trascinando con tanta maestà lo strascico pieno di fronzoli delle loro lunghe vesti, si ritiravano negli eremi per spandere ai piedi del Cristo tutte le lacrime di un cuore ferito dalla vita.

Si dedicò allora a eccessi di carità. Cuciva abiti per i poveri, mandava legna alle donne che stavano per partorire e un giorno Charles, rientrando, trovò tre poco di buono in cucina a mangiare la minestra. Emma fece tornare a casa la bambina, che il marito, durante la sua malattia, aveva rimandato dalla balia. Volle insegnarle a leggere; Berthe aveva un bel piangere, sua madre non si irritava più. Era una rassegnazione per partito preso, un'indulgenza universale. Si serviva di un linguaggio pieno di espressioni fiorite per qualsiasi argomento. Diceva alla bambina:

"Ti è passata la colica, angelo mio?"

La signora Bovary madre non trovava niente a ridire, salvo forse per quanto concerneva quella mania di confezionare camiciole per gli orfani invece di rammendare gli stracci di casa. Ma, spossata dai litigi domestici, la brava donna stava volentieri in questa casa tranquilla e vi rimase addirittura fino a Pasqua, per evitarsi i sarcasmi di papà Bovary, il quale, tutti i venerdì santi, non mancava mai di ordinare un salsicciotto.

Oltre alla compagnia della suocera, che la incoraggiava un po' con la rettitudine dei giudizi e i modi austeri, Emma quasi tutti i giorni riceveva visite. Venivano a trovarla la signora Langlois, la signora Caron, la signora Dubreuil, la signora Tuvache, e, con regolarità, dalle due alle cinque, l'ottima signora Homais, che non volle mai credere a nessuno dei pettegolezzi messi in giro sul conto della vicina. Anche i piccoli Homais venivano a trovarla. Li accompagnava Justin. Saliva con loro nella stanza e restava in piedi, vicino alla porta, immobile e senza parlare. Spesso accadeva perfino che la signora Bovary, senza curarsi di lui, si accingesse a pettinarsi. Cominciava con il togliersi il pettine, scotendo la testa con un movimento brusco; e quando Justin vide per la prima volta quella chioma che scendeva fino ai ginocchi sciogliendo i suoi anelli neri per il povero ragazzo fu come entrare d'improvviso in qualcosa di straordinario e di mai visto, il cui splendore lo spaventava.

Emma non si accorgeva certo delle silenziose premure né della timidezza di Justin. Non sospettava che l'amore, scomparso ormai dalla propria vita, palpitasse tanto vicino a lei, sotto una camicia di grossa tela, in un cuore d'adolescente sensibile al fascino della sua bellezza. D'altra parte, Emma considerava ormai ogni cosa con una indifferenza tanto grande, aveva parole tanto affettuose, e sguardi tanto alteri, modi al contempo così diversi, che non era più possibile distinguere fra l'egoismo e la carità, o fra la corruzione e la virtù. Una sera, per esempio, si adirò con la domestica che le chiedeva di uscire, balbettando e cercando un pretesto; poi di colpo le domandò:

"Ma tu lo ami?"

E, senza aspettare la risposta di Félicité, ch'era diventata tutta rossa, aggiunse con aria triste:

"Allora corri! Divertiti!"

All'inizio della primavera, fece buttare all'aria tutto il giardino, da cima a fondo, a dispetto del parere contrario di Bovary, il quale fu ugualmente soddisfatto di vederla manifestare finalmente una qualsiasi volontà. Ed ella si dimostrò sempre più volitiva a mano a mano che si ristabiliva. Trovò innanzitutto la maniera di liberarsi di mamma Rollet, la balia, che durante la malattia di Emma aveva preso l'abitudine di venire troppo spesso in cucina con i suoi due lattanti e il pensionante vorace più d'un cannibale. Poi si svincolò dalla famiglia Homais, congedò una alla volta tutte le altre visitatrici, e frequentò perfino con minore assiduità la chiesa, pienamente approvata dal farmacista, che le disse allora in tono amichevole:

"Stava proprio diventando un po' bigotta!"

Don Bournisien, come sempre, veniva tutti i giorni, all'uscita dal catechismo. Preferiva restare in piedi a prendere aria in mezzo al boschetto, come chiamava la pergola. Era l'ora in cui Charles di solito rientrava. Entrambi soffrivano il caldo, si facevano portare del sidro dolce e insieme bevevano alla completa guarigione della signora Bovary.

C'era anche Binet, o meglio si trovava un pochino più in basso, contro il muro della terrazza a pescare i gamberi. Bovary lo invitava a dissetarsi e lui era bravissimo nello sturare bottiglie.

"Bisogna" diceva, volgendo tutt'intorno, fino all'estremo orizzonte, uno sguardo soddisfatto "tenere così la bottiglia, ben diritta sulla tavola, e, dopo aver tagliato le cordicelle, spingere il tappo a piccoli colpi, adagio, adagio, come fanno del resto con l'acqua di seltz nei ristoranti."

Ma il sidro, durante questa dimostrazione, spesso sprizzava loro in pieno viso e allora il sacerdote, con una risatina priva di vivacità; non risparmiava loro questa battuta:

"La sua bontà salta agli occhi".

In realtà era un brav'uomo, e un giorno addirittura non si scandalizzò quando il farmacista consigliò a Charles, per distrarre la moglie, di accompagnarla al teatro di Rouen a sentire cantare Lagardy, il notissimo tenore. Homais rimase strabiliato da questo silenzio, volle conoscere l'opinione del parroco e il prete dichiarò che, a suo parere, la musica era meno pericolosa per i costumi della letteratura.

Lo speziale allora prese le difese delle belle lettere. Il teatro, affermava, colpisce i pregiudizi e, sotto le apparenze del divertimento, insegna la virtù.

"Castigat ridendo mores, don Bournisien! Prendiamo la maggior parte delle tragedie di Voltaire: sono abilmente disseminate di riflessioni filosofiche che ne fanno una vera e propria scuola di morale e di saper vivere per gli spettatori."

"Io" disse Binet "ho visto una volta una commedia intitolata Il monello di Parigi, nella quale è posto in risalto il carattere di un vecchio generale che è davvero centrato. Egli rimbrotta un giovanotto di buona famiglia, seduttore di un'operaia che alla fine..."

"Sicuro," continuò Homais "c'è la cattiva letteratura così come esistono farmacisti incompetenti, ma condannare in blocco la più importante delle belle arti mi sembra una balordaggine, una idea medioevale, degna dei tempi abominevoli in cui imprigionarono Galileo."

"Sono d'accordo che esistono buoni autori e buone opere," disse il curato "ma tutte queste persone di sesso diverso riunite in un locale piacevole, adorno di lussi mondani, tutti quegli artifici pagani, i belletti, le luci, le voci effeminate, tutto ciò, deve per forza di cose dar luogo a un certo spirito di libertinaggio e suggerire pensieri sconvenienti, tentazioni impure. Questa è l'opinione di tutti i Padri della Chiesa. E poi," soggiunse, assumendo a un tratto un tono di voce mistico, mentre faceva rotolare sul pollice una presa di tabacco "se la Chiesa condanna gli spettacoli, vuol dire che ha le sue buone ragioni; bisogna sottomettersi ai suoi decreti"

"Perché" domandò il farmacista "scomunica gli attori? Un tempo essi avevano parte attiva nelle cerimonie del culto. Sì, recitavano, rappresentavano, nel coro, delle specie di commedie chiamate misteri, nelle quali le leggi della decenza spesso venivano offese."

Il sacerdote si contentò di emettere un gemito e il farmacista continuò:

"È come nella Bibbia; vi sono... lo sa... non pochi particolari... piccanti, delle cose... veramente... forti!"

E, a un gesto di irritazione di don Bournisien:

"Ah! Converrà che non è certo un libro da mettere nelle mani di un'adolescente, e io mi seccherei molto se Athalie..."

"Ma sono i protestanti, e non noi, a raccomandare la Bibbia" gridò l'altro, spazientito.

"Non importa," disse Homais "mi stupisco che, al giorno d'oggi, in un secolo illuminato, ci si ostini ancora a proibire uno svago intellettuale inoffensivo moralista e talora addirittura igienico, non è vero, dottore?"

"Certo" rispose il medico, con indifferenza, quasi che, avendo le stesse idee, non volesse offendere nessuno, oppure, non avesse idee affatto.

L'argomento sembrava chiuso, quando il farmacista giudicò opportuno sferrare un ultimo colpo.

"Ho conosciuto dei preti che si mettevano in borghese per andare a veder sgambettare le ballerine."

"Andiamo!" esclamò il curato.

"Ne ho conosciuti!"

E, sillabando le parole, Homais ripeté:

"Ne ho co-no-sciu-ti!"

"E va bene, facevano malissimo!" disse don Bournisien, rassegnato a tutto.

"Perbacco! E fanno ben altro!" esclamò lo speziale.

"Signore!..." disse il sacerdote con occhi così feroci che il farmacista ne fu intimidito.

"Volevo soltanto dire" continuò Homais in tono meno violento "che la tolleranza è il metodo più sicuro per attirare le anime alla religione."

"Questo è vero! Questo è vero!" concesse il brav'uomo rimettendosi a sedere.

Ma non si trattenne più di due minuti. Quando se ne fu andato, il signor Homais disse al medico:

"Ecco quello che io chiamerei un battibecco. Ma l'ho messo con le spalle al muro, l'ha visto, e in che modo!... Insomma, dia retta a me: conduca sua moglie allo spettacolo, non fosse altro che per fare stizzire, una volta nella vita, uno di quei corvi, perbacco! Se ci fosse qualcuno a sostituirmi, vi accompagnerei io stesso. Si sbrighi! Lagardy darà una sola rappresentazione; è stato scritturato per andare in Inghilterra con retribuzioni considerevoli. A quanto affermano, è un gran dritto! Nuota nell'oro! Si porta dietro tre amanti e un cuoco! Tutti questi grandi artisti accendono la candela da tutt'e due le parti; hanno bisogno di un'esistenza disordinata che serve a eccitare l'immaginazione. Ma finiscono all'ospizio perché non hanno il buon senso di fare delle economie quando sono giovani. Bene, andiamo, buon appetito; a domani".

Questa idea dello spettacolo mise radici in fretta nella mente di Bovary; egli lo comunicò subito alla moglie, che dapprima rifiutò, adducendo come scusa la stanchezza, lo scompiglio, la spesa; ma, cosa strana, Charles non cedette, convinto che questa distrazione le sarebbe stata di grandissimo giovamento. Non vedeva proprio alcun impedimento all'attuazione di questo progetto; la madre gli aveva mandato trecento franchi sui quali non contava più, i suoi debiti in quel momento non erano enormi e la scadenza della cambiale del signor Lheureux sembrava ancora così lontana che non era il caso di preoccuparsene. D'altro canto, immaginando che Emma si facesse degli scrupoli, Charles insistette ancora, e lei, ossessionata, finì per decidersi. E il giorno dopo alle otto salirono sulla Rondine.

Il farmacista il quale non aveva nulla che lo trattenesse a Yonville, ma che si credeva costretto a non potersene allontanare, sospirò vedendoli partire.

"Bene, buon viaggio," disse loro "felici mortali!"

Poi, avvicinandosi a Emma, che indossava un abito di seta azzurra a quattro volanti, aggiunse:

"È bella come un amore! Farà furori a Rouen".

La diligenza faceva capo all'albergo della Croce Rossa, sulla piazza Beauvoisine. Era uno di quegli alberghi come ce ne sono in tutte le periferie delle città di provincia, con grandi scuderie e piccole camere da letto, con un cortile in mezzo al quale è possibile vedere le galline bezzicare l'avena sotto i calessi infangati dei commessi viaggiatori; cari vecchi alberghi dai balconi di legno tarlato che scricchiolano al vento nelle notti d'inverno, sempre pieni di gente, di strepito, e di cibi pronti, le cui tavole nere sono sempre sbrodolate di caffè all'acquavite; alberghi con i vetri spessi ingialliti dalle mosche, con i tovaglioli umidi macchiati di vino nero; alberghi che sanno sempre di paese, come braccianti vestiti con abiti cittadini, e hanno un caffè sulla strada, e, sul retro, verso la campagna, un orto. Charles si diede subito un gran da fare. Confuse il proscenio con la galleria, la platea con i palchi, domandò spiegazioni, non ci capì niente, fu mandato dalla maschera e dal direttore e viceversa, tornò all'albergo, e di nuovo alla biglietteria, e ripeté più volte quest'andirivieni: misurò tutta la città dal teatro

La signora si comperò un cappello, un paio di guanti e un mazzo di fiori. Il signore si preoccupava molto di non arrivare in tempo per lo spettacolo; e, senza aver potuto nemmeno ingoiare un brodo, giunsero alle porte del teatro quando erano ancora chiuse.

XV

La folla aspettava contro il muro, schierata con ordine entro le transenne. All'angolo delle strade vicine, giganteschi manifesti ripetevano in caratteri barocchi: Lucia di Lammermoor... Lagardy... Opéra... ecc. Era bel tempo e faceva caldo; il sudore scorreva fra i riccioli, nessun fazzoletto da tasca era al suo posto, ma tutti asciugavano fronti arrossate, e per certi momenti un vento tiepido proveniente dal fiume agitava un poco i lembi delle tende di traliccio sospese davanti alle porte dei caffè. Un poco più in basso, tuttavia, si era rinfrescati da una corrente d'aria gelida che sapeva di sego, di cuoio, e di olio. Era l'effluvio che esalava da Rue des Charrettes, piena di grandi botteghe nere nelle quali i barili venivano fatti rotolare.

Emma, per tema di sembrare ridicola, prima di entrare volle fare una passeggiata al porto, e Bovary tenne prudentemente appoggiata al ventre una mano nella tasca dei pantaloni, dove c'erano i biglietti.

Quando furono nel vestibolo Emma fu presa dal batticuore. Sorrise senza volerlo, di vanità, vedendo la folla che si precipitava a destra, nell'altro corridoio, mentre lei saliva lo scalone dei primi posti. Provò un piacere infantile spingendo con la mano le larghe porte imbottite; aspirò a pieni polmoni l'odore polveroso dei corridoi, e, quando si fu seduta nel palco, si drizzò sulla vita con la disinvoltura di una duchessa.

La sala incominciava a riempirsi, i binocoli venivano tolti dagli astucci, e gli abbonati, scorgendosi di lontano, si facevano cenni di saluto. Venivano a ricrearsi con le belle arti dopo le preoccupazioni degli affari, ma senza dimenticarli; infatti discorrevano ancora di cotoni, di alcool puro, o di indaco. Si vedevano teste di vecchi, inespressive e pacifiche, bianche di colorito e di capelli, simili a medaglie d'argento appannate da una patina plumbea. I bellimbusti si pavoneggiavano in platea ostentando nell'apertura dei panciotti cravatte rosa o verde mela; e la signora Bovary li ammirava dall'alto, mentre appoggiavano sui bastoncelli dal pomo dorato il palmo disteso dei loro guanti gialli.

Intanto si accesero le luci dell'orchestra. Il lampadario discese dal soffitto, riversando con lo scintillio delle sfaccettature del cristallo una subitanea gaiezza nella sala. Poi entrarono i musicisti, uno dopo l'altro, e da principio vi fu un gran baillamme di suoni, di bassi ronfanti, di violini stridenti, di squilli di trombe e di pigolii di flauti e pifferi. Si sentirono tre colpi sul palcoscenico, i timpani cominciarono a rullare, gli ottoni lanciarono degli accordi, e il sipario, alzandosi, mostrò un paesaggio.

Rappresentava un crocevia in un bosco, a sinistra una fontana era ombreggiata da una quercia. Alcuni contadini e alcuni signorotti di campagna con la caratteristica sciarpa scozzese sulla spalla, cantavano insieme una canzone di caccia; sopraggiunse un capitano che invocava l'angelo del male levando al cielo le braccia; comparve un altro personaggio; se ne andarono tutt'e due e i cacciatori ripresero a cantare.

Emma si risentiva immersa nell'atmosfera delle sue letture giovanili, in pieno Walter Scott. Le sembrava di sentire, attraverso la nebbia, il suono delle cornamuse scozzesi echeggiare sulle brughiere. Del resto, il ricordo del romanzo le facilitava la comprensione del libretto, ed Emma seguiva l'intreccio frase per frase mentre inafferrabili pensieri le tornavano alla mente, subito dispersi da raffiche di musica. Si lasciava cullare dalla melodia e si sentiva vibrare in tutto l'essere suo come se i nervi fossero le corde stesse dei violini sulle quali passavano gli archetti. Non aveva occhi abbastanza per contemplare i costumi, gli scenari, i personaggi, gli alberi dipinti che tremavano quando qualcuno camminava sulla scena, i berretti di velluto, i mantelli, le spade, tutte quelle invenzioni fantastiche le quali si muovevano nell'armonia della musica come nell'atmosfera di un altro mondo. Ma una giovane donna venne avanti e gettò una borsa a uno scudiero dall'abito verde. Rimase sola e si sentì allora un flauto che imitava il mormorio di una fonte o il cinguettare degli uccelli. Lucia incominciò con aria austera la cavatina in sol maggiore; descriveva le sue pene d'amore ed esprimeva il desiderio di poter volare. Anche Emma avrebbe voluto fuggire dalla vita, andarsene in un abbraccio. D'improvviso Edgardo-Lagardy apparve.

Aveva quel meraviglioso pallore che conferisce qualcosa della maestà del marmo alle stirpi ardenti del mezzogiorno. Il suo torace vigoroso era stretto in una giubba di un colore bruno, uno stiletto cesellato gli batteva sulla coscia sinistra: si guardava intorno con sguardi pieni di languore e scopriva in un sorriso i denti bianchi. Si diceva che una principessa polacca, ascoltandolo cantare una sera, sulla spiaggia di Biarritz, dove lui riparava imbarcazioni, se ne fosse innamorata. Si era rovinata per lui. E lui l'aveva piantata per correre dietro ad altre donne, e questa celebrità sentimentale era utile alla sua fama di artista. L'accorto commediante non faceva mai mancare, in tutti gli annunci pubblicitari che lo riguardavano, una frase poetica sul fascino della sua persona e sulla sensibilità del suo animo. Una bella voce, un'imperturbabile sicurezza di sé, più temperamento che intelligenza, più enfasi che lirismo, finivano per rivalutare questa ammirevole natura di ciarlatano nella quale si univano alcune caratteristiche del barbiere e del torero.

Fin dalla prima scena suscitò entusiasmo. Prendeva Lucia fra le braccia, la lasciava, tornava vicino a lei, sembrava disperato: aveva accessi di collera seguiti da sospiri elegiaci di una dolcezza infinita e le note sfuggivano dalla gola nuda piene di singhiozzi e di baci. Emma si protendeva per vederlo, graffiando con le unghie il velluto del palco. Si riempiva il cuore con questi melodiosi lamenti che si trascinavano sull'accompagnamento dei contrabbassi come grida di naufraghi nel tumulto di una tempesta. Riconosceva tutte le prostrazioni e le angosce che per poco non l'avevano fatta morire. La voce della cantante era per lei soltanto l'eco della propria coscienza, e l'illusione scenica che l'affascinava le sembrava addirittura qualcosa della sua vita. Mai nessuno al mondo l'aveva amata di un amore simile; il suo amante non piangeva come Edgardo, l'ultima sera al chiaro di luna, quando si erano detti: "A domani, a domani!.." Nella sala scrosciarono gli applausi; la scena finale fu ripetuta daccapo; i due cantanti parlarono di fiori sulle loro tombe, di giuramenti, di esili, di fatalità, di speranze, e quando lanciarono l'addio finale Emma gettò un grido acuto che si confuse con la vibrazione degli ultimi accordi.

"Perché" domandò Bovary "quel signore la perseguita?"

"Ma no," rispose lei "è il suo amante."

"Eppure giura di vendicarsi sulla sua famiglia, mentre quell'altro, quello che era venuto prima, diceva: "Amo Lucia e sono convinto di esserne riamato". E d'altra parte è andato via sottobraccio al padre di lei. Perché è suo padre, vero, quello piccolo, brutto, con la piuma di gallo sul cappello?"

Nonostante le spiegazioni di Emma , dopo il duetto recitativo nel quale Gilberto espone i suoi nefandi intenti al padrone Ashton, vedendo il falso anello di fidanzamento destinato a ingannare Lucia, Charles credette che fosse un pegno d'amore inviato da Edgardo. Confessò, del resto di non capire la storia per colpa della musica che non gli lasciava sentire le parole.

"Non importa," disse Emma "taci!"

"Ma vorrei" continuò lui, chinandosi verso la moglie "rendermi conto, capisci?"

"Taci, taci!" fece lei con impazienza.

Lucia veniva avanti, sostenuta in parte dalle ancelle, con una corona d'arancio sui capelli, più pallida del suo abito di raso bianco. Emma ricordò il giorno del suo matrimonio; si rivedeva laggiù, sul viottolo in mezzo al grano, mentre andavano verso la chiesa. Perché mai, anche lei, come Lucia, non aveva resistito, supplicato? Era contenta, invece, senza rendersi conto dell'abisso in cui si stava gettando... Ah! Se nella freschezza della sua avvenenza, prima della contaminazione del matrimonio e la disillusione dell'adulterio, avesse potuto appoggiare la propria vita a un cuore grande e forte, allora la virtù, la tenerezza, le voluttà e il dovere sarebbero divenuti una cosa sola, e mai avrebbe potuto rinunciare a una felicità così alta. Ma una tale felicità, senza dubbio, non era altro che una menzogna immaginata per rendere impossibili i desideri. Conosceva adesso la meschinità delle passioni esasperate dall'arte. Sforzandosi di indirizzare altrove i propri pensieri, Emma volle scorgere in questa replica dei suoi affanni soltanto una fantasia plastica fatta per ingannare gli occhi, e addirittura sorrideva dentro di sé con sprezzante pietà, quando in fondo al palcoscenico, sotto una portiera di velluto, apparve un uomo dal mantello nero.

Fece cadere con un gesto il grande cappello alla spagnola, e subito gli strumenti e i cantanti attaccarono il sestetto. Edgardo, acceso dal furore, dominava tutti gli altri con la voce squillante; Ashton gli lanciava provocazioni mortali su note basse; Lucia emetteva il suo acuto lamento, Arturo modulava per suo conto su un tono medio; e la bassa figura del pastore ronfava come un organo, mentre le voci femminili, ripetendo le sue parole, riprendevano il motivo deliziosamente, in coro. Stavano tutti allineati e gesticolavano; e la collera, la vendetta, la gelosia, il terrore, la misericordia e lo stupore uscivano, volta a volta, dalle loro bocche socchiuse. L'amante oltraggiato brandiva la spada sguainata: il solino di merletto andava su e giù a scatti a seconda dei movimenti del petto, e il protagonista si spostava a destra e a sinistra a grandi passi, facendo risonare sul tavolato gli speroni dorati degli stivali flosci che si aprivano a imbuto sulla caviglia. "Doveva poter disporre", pensò Emma, "di una possibilità d'amare inesauribile, per riversarne sulla folla una piena così imponente." Tutte le velleità denigratorie svanirono davanti alle poetiche seduzioni di quella interpretazione, e, attirata verso l'uomo dalla finzione del personaggio, ella cercò di immaginare la vita, una vita clamorosa, straordinaria, splendida, che anche lei avrebbe potuto vivere se soltanto il caso l'avesse voluto. Si sarebbero conosciuti e si sarebbero amati! Con lui avrebbe viaggiato di capitale in capitale attraverso tutti i regni d'Europa, dividendo le fatiche e i successi, raccogliendo i fiori che gli avrebbero gettato, ricamando ella stessa i costumi, poi, ogni sera, dal fondo di un palco, dietro una grata dorata, avrebbe accolto con avidità le effusioni di quell'anima che avrebbe cantato soltanto per lei; egli l'avrebbe guardata dalla scena, mentre cantava. Si sentì presa da una follia: Lagardy la guardava, ne era sicura! Sentì il desiderio di gettarglisi fra le braccia, per rifugiarsi nella sua forza come nell'incarnazione stessa dell'amore, e di dirgli in un grido: "Rapiscimi! Portami con te! Fuggiamo! A te, a te tutti i miei ardori, tutti i miei sogni!"

Calò il sipario.

L'odore del gas si mescolava all'alito di tutte quelle persone, l'aria smossa dai ventagli rendeva l'atmosfera ancora più soffocante. Emma volle uscire; la folla ingombrava i corridoi ed ella ricadde sulla poltrona con palpitazioni che le toglievano il respiro. Charles, temendo di vederla svenire, corse al caffè del teatro a prenderle un bicchiere di orzata.

Gli costò una gran fatica ritornare al suo posto; a ogni passo riceveva un urtone nei gomiti a causa del bicchiere che reggeva fra le mani, tanto che finì per versare i tre quarti del contenuto sulle spalle di una signora di Rouen che indossava un abito con le maniche corte e che, sentendosi scorrere sulla schiena il liquido freddo, si mise a gridare come un pavone quasi volessero assassinarla. Suo marito, il proprietario di una filanda, se la prese con il maldestro, e mentre la moglie, con il fazzoletto, cercava di asciugare le macchie sul suo bell'abito di taffettà color ciliegia, cominciò a brontolare con aria burbera accennando a indennizzi, spese, rimborsi. Finalmente Charles giunse da Emma e le disse, tutto trafelato:

"Credevo di non riuscire più a uscirne! C'è tanta di quella gente, tanta di quella gente!..."

E soggiunse:

"Indovina un po' chi ho incontrato? Il signor Léon!"

"Léon?"

"Proprio lui! Verrà a salutarti."

Mentre finiva di pronunciare queste parole, l'ex segretario del notaio di Yonville entrò nel palco.

Tese la mano con disinvoltura, da uomo di mondo, e la signora Bovary, come un automa, ripeté lo stesso gesto, ubbidendo, certo, alla suggestione di una volontà più forte. Emma non l'aveva più sentita da quella sera, a primavera, quando pioveva sulle foglie verdi e loro due si erano detti addio in piedi, vicino alla finestra. Ma subito, ricordando che doveva rispettare le convenienze, si riscosse a fatica dal torpore di quei ricordi e si mise a balbettare rapide frasi.

"Ah! Buonasera... Come? Lei qui?"

"Silenzio!" gridò una voce dalla platea, perché il terzo atto era cominciato.

"Abita a Rouen, allora?"

"Sì."

"E da quando?"

"Mandateli fuori! Mandateli fuori!"

La gente si girava a guardare. Tacquero.

Ma, da quel momento, Emma non ascoltò più, e il coro dei convitati, la scene di Ashton e del valletto, bellissimo duetto in re maggiore, tutto si svolse per lei in lontananza come se gli strumenti fossero diventati meno sonori e i personaggi più distanti: ricordava le partite a carte dal farmacista e la passeggiata dalla balia, le letture sotto la pergola e le chiacchiere vicino al fuoco, tutto quel povero amore così calmo e così prolisso, così discreto e tenero e che lei ciò nonostante era riuscita a dimenticare. Perché era tornato? Quale concatenarsi di circostanze lo aveva riportato nella sua vita? Si era messo dietro di lei, le spalle appoggiate al tramezzo, e di tanto in tanto Emma rabbrividiva sentendo il soffio tiepido del suo respiro che le scendeva attraverso i capelli.

"Le piace questo spettacolo?" egli domandò, facendosi tanto vicino che la punta di un baffo le sfiorò la gota.

Emma rispose con noncuranza:

"Oh! Mio Dio, no! Non troppo".

Allora Léon propose di uscire dal teatro e di andare a prendere un gelato in qualche posto.

"Ah! Non ancora! Restiamo!" disse Bovary "Lucia ha i capelli sciolti; ci sarà di sicuro una scene tragica."

Ma la scena della follia non interessava affatto Emma, e la recitazione della cantante le pareva esagerata.

"Grida troppo" disse, rivolta a Charles, che stava ascoltando.

"Sì,... forse... un po'" rispose lui, indeciso fra la sincerità del proprio piacere e il rispetto che nutriva nei confronti delle opinioni della moglie.

Poi Léon disse, sospirando:

"Fa un caldo..."

"Insopportabile! È vero."

"Ti dà fastidio?" domandò Bovary.

"Sì, soffoco: andiamo."

Il signor Léon posò delicatamente il lungo scialle di pizzo sulle spalle di lei, e tutt'e tre andarono al porto, e sedettero all'aria aperta, davanti alla vetrina di un caffè. Parlarono dapprima della malattia di Emma, per quanto lei interrompesse Charles ogni momento, timorosa, diceva, ch'egli annoiasse il signor Léon; quest'ultimo raccontò loro di essere tornato a Rouen per fermarvisi due anni in un importante studio, a far pratica negli affari, che erano diversi in Normandia da quelli trattati a Parigi. Si informò di Berthe, della famiglia Homais, di mamma Lefrançois; e siccome in presenza del marito non avevano più nulla da dirsi, ben presto la conversazione languì.

Sul marciapiedi passò gente che usciva da teatro, canticchiando o sbraitando a squarciagola: O bell'alma innamorata! Allora Léon, atteggiandosi a dilettante, si mise a parlare di musica. Aveva visto Tamburini, Rubini, Persiani, Grisi, e in confronto a loro Lagardy non valeva nulla.

"Eppure," lo interruppe Charles, affondando il cucchiaino nel gelato al rum "si dice che all'ultimo atto sia meraviglioso; mi dispiace di essere venuto via prima della fine, perché cominciavo a divertirmi."

"In quanto a questo," disse il giovane "ci sarà quanto prima un'altra rappresentazione."

Ma Charles rispose che sarebbero partiti l'indomani.

"A meno che" soggiunse, voltandosi verso la moglie "tu non voglia rimanere qui sola, gattina."

E, cambiando parere davanti a questa occasione inattesa che veniva offerta alle sue speranze, il giovanotto cominciò a tessere gli elogi di Lagardy nell'ultimo atto. Era qualcosa di superbo, di sublime! Charles, allora, insistette.

"Potresti tornare domenica. Andiamo, deciditi! Non devi dire di no se sei convinta che questo possa anche minimamente giovarti."

Intanto i tavolini tutt'intorno andavano svuotandosi; un cameriere venne a mettersi con discrezione accanto a loro; Charles capì ed estrasse il borsellino, Léon lo trattenne per un braccio e non dimenticò neppure di lasciare come mancia due monete d'argento che fece tintinnare sul marmo del tavolino.

"Sono veramente dispiaciuto... del denaro che lei..." mormorò Bovary.

L'altro fece un gesto noncurante e cordiale, poi, prendendo il cappello:

"Allora siamo d'accordo, vero, domani alle sei?"

Charles si rammaricò ancora una volta di non potersi trattenere più a lungo, ma dichiarò che nulla impediva a Emma...

"È che..." balbettò lei con uno strano sorriso "non so bene..."

"Non preoccuparti, hai tempo di ripensarci, vedremo, la notte porta consiglio.."

Poi, volgendosi a Léon che li accompagnava:

"Ora che è di nuovo dalle nostre parti, verrà qualche volta a pranzo da noi, posso sperarlo?"

Il giovane di studio affermò che non si sarebbe fatto pregare, tanto più che doveva recarsi a Yonville per un affare riguardante il suo studio. E si separarono davanti alla galleria Sain-Herbland, nel momento in cui l'orologio della cattedrale sonava le undici e mezzo.




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