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DIRITTO ALL'OZIO

 

Doveva essere il 27 di un qualsiasi mese. Ero triste: e sfido io! Facevo velocissime somme mentali, tutte somme, ahimè, che, anche a sottrarre qualche fattore, mal si inquadravano nell'importo del mio stipendio. Recitavo lentamente, meccanicamente, ma senza astio, senza avere più la forza di arrabbiarmi, il mio solito rosario di imprecazioni alle difficoltà della vita, all'aumento dei prezzi, a tutto e a tutti.

Pensavo cose un po' strampalate. Perché gli esseri umani dobbiamo essere condannati al lavoro? Non potrebbe lo Stato, uno Stato vero come dico io (perché quello vero è sempre come diciamo noi) garantire a tutti un minimo di benessere e lasciare che le macchine lavorino per noi, far sì che la nostra mente si limiti a dirigerle, a crearle, che ognuno possa dedicarsi agli studi e all'attività intellettuale che più gli aggrada?

Presso gli antichi vi erano gli schiavi a garantire la libertà dal lavoro; perché noi non facciamo delle macchine tanti schiavi che ci esimano da questo castigo?

Ma il filo dei miei pensieri si interrompe: sono fermo davanti a una bancarella di libri, un libro infatti mi ha attirato. E' in alto, nell'ultima fila, ha il dorso rilegato in vecchissima pelle con impressioni in oro: «Du droit à l'oisivitè». Il diritto all'ozio! penso.

- Me lo prenda, per favore - dico al proprietario della bancarella.

Ne apro la prima pagina e leggo il titolo completo: «Du droit à l'oisivité et de l'organisation du travail servile (ecco: organizzazione del lavoro, niente non ne parliamo più) dans les républiques grecques et romaine (lo dicevo io, una cosa insignificante) par L. M. Moreau Christophe».

Quanto?

Lo guarda, lo gira, lo rigira: - Cinquecento.

Gli restituisco il libro, dicendo: - Cento.

Naturalmente lo ritira con indignazione. Ma io lo riprendo ancora; riapro il primo foglio e leggo: «Paris - Chez Guillaumin et C. - 1849 ».

Che strano? nel 1848 e 49 non si faceva altro che parlare di «diritto al lavoro» in Francia e costui mi veniva fuori con un «diritto all'ozio». Penso a Louis Blanc, agli Ateliers Nationaux e al loro fallimento, fallimento del diritto al lavoro garantito dallo Stato.

Estraggo senza fiatare due biglietti da cento. Neanche lui fiata: il libro è mio.

 

***

 

- Prego - mi fa Moreau Christophe - si accomodi. Vuol sapere come era organizzata economicamente la vecchia società romana? qui a pag. 17; oppure le interessa di più conoscere il disprezzo per il lavoro manuale dei greci? No, forse le piacerà sentire quel che disse Romolo ai suoi compagni, quando fondò Roma: «Compagni, voi discendete dai più famosi briganti e ladri dell'antichità. Come essi, voi non ambite altro che la preda e la conquista; per voi, come per essi, la probità è debolezza, la forza è virtù: virtus. Per voi, infine, come per essi, la proprietà sta nel furto! I popoli vinti saranno i nostri schiavi; gli schiavi i nostri operai, i re sottomessi i nostri tributari e il nostro dio sarà Giove predatore: Jupiter praedator». Non le piace? Allora legga qui a pag. 127, si parla del tentativo di Cesare di conciliare al lavoro la plebe oziosa di Roma. O forse vuol sentire come si svolgeva il lavoro degli schiavi, come era organizzato il mercato per la loro vendita? oppure vuol conoscere quali furono le conseguenze economiche e sociali della manomissione degli schiavi?

- No, no, monsieur, grazie, per carità. Veda, io cercavo in lei l'esaltazione del buon tempo antico, la rivendicazione del diritto all'ozio, che è fra i più fondamentali diritti dell'uomo, misconosciuto purtroppo da tutte le legislazioni moderne. Vorrei che lei mi dicesse che quelli erano tempi di saggezza e che oggi l'umanità è su una strada falsa.

- Esaltare l'ozio? Ma tu sei pazzo (cominciò a darmi del tu). Io ho lavorato dieci anni per raccogliere il materiale per questo libro.

- E' buffo, dieci anni di lavoro per parlare del diritto all'ozio!

- Be' ho capito, sei uno sciocco, o forse lo siete tutti voi del secolo ventesimo. Io ho voluto, paragonando la nostra alla società antica, esaltare la bellezza e la necessità del lavoro. Ma scommetto che sei uno sbarbatello.

- Oh no, questa è grossa, me ne hai dette di tutti i colori (diedi anch'io di piglio al tu) ma questa no.

- E quanti anni hai poi?

- Gli anni ... che dirti? forse ne ho molti di più di quelli che ho in effetti... e forse molti di meno.

- Addio, non ne parliamo più, lo dicevo che voialtri moderni ... qualche rotella ...

- Davvero, Moreau, è proprio così. Vedi, io appartengo a quella generazione che non ha avuto gioventù e che oggi è già anziana e nello stesso tempo adolescente. Abbiamo troppo sofferto, trepidato, gridato, pianto; abbiamo tanto vissuto nel giro di pochi anni, che dovevano essere quelli spensierati della prima gioventù, quanto si può vivere in venti anni ed è per questo che siamo anziani. Ma il cuore, oh il cuore, caro vecchio libro amico… Ti dirò: partimmo, avevamo chi ventitre, chi ventidue, chi venti anni, io non li avevo nemmeno compiuti. C'erano tanti sogni, tante speranze, tanti progetti dentro di noi; ognuno fece fagotto di tutto, lo chiuse ben bene, se lo pose sulle spalle e partì. Ci aspettavano pianure sterminate di fango e di gelo, roventi distese di sabbia, monti aspri, inospitali; ci aspettavano cammini lunghi e impervii, sofferenze atroci, di cui si ignorava il perché né si aveva la forza di chiederselo; ci aspettavano i campi di concentramento indiani, i lager tedeschi, ci aspettavano le Alpi, gli Appennini dove saremmo stati inseguiti, braccati come malfattori. Ma non deponemmo il sacco: c'era tutta la nostra vita dentro, la nostra anima; era incollato a noi e si moriva abbracciati ad esso. Quel sacco era il domani. C'era un verso nel cuore? domani. Un intreccio di romanzo ti brulicava nell'anima, ti rodeva? domani. Il progetto d'una casa, di un ponte, di un aeroplano ti si stagliava netto nel cervello? domani. Sempre domani. E quanti domani non sono più venuti! Ma la gran parte tornammo, avevamo il sacco, il sacco dei sogni. Esso pesava; qualcuno lo buttò e con esso perdette l'adolescenza; molti altri sentimmo che, se gioventù non c'era stata per noi, era necessario che restasse quello, almeno. Ma poiché pesava, lo deponemmo, lo legammo ad una corda ed ora ce lo trasciniamo dietro nelle polverose strade della vita. Non sappiamo lasciarlo, ma neanche osiamo aprirlo, perché abbiamo paura di non trovar nulla dentro, altro che polvere e frammenti, ed è duro subir delusioni adesso, assai più che a diciott'anni. - Ma? ... che ti prende? hai gli occhi gonfi di lagrime.

No, è niente, scusami. Pensavo a noi giovani, alle difficoltà che incontriamo e incontreremo per esprimere veramente noi stessi, alle illusioni che probabilmente si perpetueranno in noi, alla insoddisfazione cui saremo condannati, sempre.

- E' vero, ma coraggio, su. Secondo me, bisogna lavorare, lavorare semplicemente, lavorare e basta. E sappi che il lavoro non è un castigo, ma «est l'etoffe dont la vie est faíte».

- Forse hai ragione, Moreau, lavorare, lavorare sempre, anche oziando, fare del nostro ozio un lavoro, solo così si potrà avervi diritto.

 

***

 

Mi dimenticai di Moreau-Christophe e del suo «Droit à l'oisivité», ma egli non si dimenticò di me e poco tempo fa, dopo diversi anni dal nostro primo colloquio, si premurò di venirmi a far visita.

- Che fai? - mi chiese.

- Niente, lo vedi? Niente: lavoro. Per l'ufficio; s'intende. E mi guadagno il pane e un po' di companatico.

- E di meno anonimo del lavoro d'ufficio? Nulla, in tutti questi anni da quando ti conosco? Quasi dieci anni.

- Dieci anni, feci eco io con tono triste.

- Sei il solito, un fannullone, un neghittoso. Credevo che il nostro incontro ti avesse scosso. Evidentemente non c'era nulla nel tuo ... come lo chiamavi? - ah, nel tuo sacco. Le pause di riposo volevi riempirle di lavoro «puro» o di ozio nel senso antico della parola. Volevi conquistarti il diritto all'ozio artistico ...

- Non fare requisitorie, ti prego, ché mi stufi. Non ho concluso nulla, lo so, ma che posso farci? Ho cozzato contro porte serrate come muraglie. Il mondo delle lettere è chiuso in una roccaforte, circondato da un campo trincerato, sbarrato con cavalli di frisia, minato ...

- Che esagerazioni!

- Mah! saranno esagerazioni. Sarà una verità soggettiva, se vuoi. Io comunque ho abbandonato l'impresa. E il panorama andò sempre più restringendosi davanti ai miei occhi, fino a non spingersi oltre il chiuso guscio della mia modesta vita quotidiana. Vedi, Moreau, è come se un tale, vissuto in cima ad un'alta montagna posta in un'isola, abituato ad abbracciare col suo sguardo gli immensi confini del mare che solo il cielo riesce ad abbracciare, venga poi costretto a vivere in una piccola insenatura di un lago. Sì, si riflette ancora, nel lago, lo stesso,cielo azzurro, immenso ... ma l'infinito lo si coglie a stento; col capo chino verso il placido specchio delle acque; con uno sforzo. Soffrendo, dunque. No, Moreau, niente sofferenze inutili, tormenti che agli occhi del mondo sarebbero irragionevoli, vane chimere da inseguire. Sono contento così. Del mio stato, qualunque esso si sia. Certo, anziché essere Tal Dei Tali sono semplicemente il Signor Dei Tali dottor Tale. Ma mi basta. Quindi lasciami in pace, Moreau.

- Bravo! Bene! mi interruppe irato.

- Non ti inquietare, ti prego. Io ho voglia di assaporarmelo in pace il mio riposo ...

- Ma scrivi dell'ozio, allora!

- Come te, insomma, buttare anni di lavoro per parlare del diritto all'ozio!

- Non mi tocca più il tuo sarcasmo. Ormai ti conosco. Sai bene che puoi parlare dell'ozio, oziando. Nel senso che tu intendi questa espressione. Hai della roba nel cassetto, lo so, non essere ipocrita. Tirala fuori. Ciò che è fatto e ciò che non é fatto, ciò che è scritto e ciò che è da scrivere, così come sta. Tutto. Brucia tutto sull'altare dell'ozio, senza rammarico.

- Ma, forse, Moreau ... è destino che tu devi sempre finire per persuadermi…  





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