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MA L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA FONDATA SUL LAVORO
E già, come la mettiamo con quel benedetto art. 1 della
Costituzione, che recita: «L'Italia è una Repubblica democratica
fondata sul lavoro»?
Io vagheggio il «diritto all'ozio», mentre c'è chi si affanna a
cercare con la lanterna, il diritto al lavoro nella carta
costituzionale.
Ma non c'è questo diritto, date retta a me, non c'è davvero ed è
inutile cercarlo. Perché sarebbe come se io cercassi il diritto
all'ozio nell'art. 9, quello famoso della tutela del paesaggio, per il
semplice fatto che uno che si contempla il paesaggio ozia; oppure
nell'art. 33, che garantisce la libertà dell'arte e della scienza (si
può oziare anche facendo l'artista e lo scienziato, infatti); o
putacaso nell'art. 32, a norma del quale è tutelata la salute come
fondamentale «diritto» dell'individuo: uno che non ha la salute come
può oziare?
No, non lo cerco nella Costituzione il diritto che mi sta a cuore,
voglio soltanto sgombrare il terreno della mia costruzione dagli
intralci, che mi si parano innanzi. E l'art. 1 predetto, per la verità,
non è di quelli meno gravi.
Ma vediamo un po'.
Ricordo che nel non lontano periodo in cui nacque, alla spicciolata,
articolo su articolo, senza che l'opinione pubblica se ne preoccupasse
gran che, la nostra carta costituzionale, il progetto dell'art. 1
approvato dalla sottocommissione mi fece pensare. «Lo Stato italiano -
diceva - è una Repubblica democratica. Esso ha per suo fondamento il
lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori alla
organizzazione economica, sociale e politica del Paese».
Certo è gran cosa, mi dissi, il riconoscere che è sulla larga base
dei lavoratori che poggia la piramide statale; che tutte le speranze, le
risorse, l'intero avvenire della nostra Italia, che in fondo non ha
altro, poggia sulle nostre fatiche. Né è soddisfazione da poco il
veder riconosciuto il principio che l'organizzazione stessa del
«Paese», a partire dal suo assetto economico per risalire via via a
quello sociale e a quello politico, deve essere frutto di concreta
partecipazione di tutte le categorie di lavoratori.
Ma i guai nasceranno, pensai, quando si vorranno trarre conseguenze
pratiche da queste belle dichiarazioni, buttate giù in effetti come
ampollose enunciazioni senza sostanza di concetti e di propositi.
Per evitare complicazioni, i Costituenti pensarono di sfrondare il
pericoloso articolo e ridurlo all'innocua e pacata enunciazione attuale.
Il lavoro è dunque soggetto dell'economia... oh no, cosa riesumo mai
dalla mia memoria, per l'amor del Cielo! volevo dire: fondamento della
Repubblica.
Con le definizioni «forti», si sa, è facile fare confusione.
Certo, se ne son scritte e dette tante sul lavoro, che davvero non
sappiamo più quale definizione abbia un senso e quale invece sia un bel
costrutto di parole.
«Il lavoro dev'essere libera esplicazione delle forze dell'uomo, che
deve dedicarsi a ciò che vuole, dove vuole e quando vuole» disse la
Rivoluzione francese. Bello! Ma la pratica attuazione del principio?
Nient'altro che la soppressione delle corporazioni d'arti e mestieri,
con quali vantaggi poi delle classi operaie io non saprei.
«Il lavoro non deve essere sfruttamento d'un uomo ad opera di un
altro uomo, che detiene nelle sue mani il capitale e il potere
politico» disse il Socialismo. Va bene, ma quando si è dato il
capitale in mano allo Stato e lo Stato in mano a capi «proletari»,
cessa il lavoro di essere sfruttamento di uomini da parte di altri
uomini?
«Il lavoro diverrà creazione artistica, esso deve scaturire
dall'entusiasmo dell'operaio. L'arte è l'anticipazione dell'alta
produzione» profetò Giorgio Sorel e la profezia si accontentò di
accarezzare le menti, perché è stupenda, ma tanto stupenda quanto
fuori della realtà.
«Il lavoro è soggetto dell'economia» disse il fascismo e gli
stessi economisti corporativi non erano d'accordo su ciò che la frase
significava. Forse neanche chi l'aveva pronunciata ne avrebbe saputo
dare la spiegazione, perché se no avrebbe fissato le «direttive» per
la retta interpretazione di essa.
Ed ecco i nostri Soloni, che in fatto di enunciazioni si vede non
volevano darsi per vinti, escogitano - quasi ne valesse la pena
arzigogolarsi quando c'erano sottomano tante belle enunciazioni -
un'altra frase nuova di zecca. Oh Dio, tanto nuova no, potrebbe
obiettare Adamo Smith. Chi non sa infatti che fu il grande economista
inglese a scrivere la bellezza di più di centottanta anni fa che è il
lavoro il fondamento di ogni nazione, della ricchezza di tutte le
nazioni?
- E' chiaro: si voleva scrivere un bel «cappelletto» per la carta
costituzionale. Ma allora, perbacco, con un esempio così vicino di
bello stile in fatto di introduzioni a carte costituzionali, con una
prosa smagliante come quella del D'Annunzio nella «Carta del
Carnaro»...
«Tre sono le credenze religiose collocate sopra tutte le altre nella
universalità dei comuni giurati: la vita è bella e degna che
severamente e magnificamente la viva l'uomo rifatto intiero nella
libertà; l'uomo intiero colui che sa ogni giorno inventare la sua
propria virtù, per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono;
il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene
eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo».
Retorica? Sì, forse. Ma retorica armoniosa, semmai, suadente, bella.
Perché la retorica può anche essere di bassa lega, può nascondersi
nelle parole meno reboanti, nelle frasi più stilisticamente pedestri.
Potrebbe anche esserci nell'articoletto introduttivo della nostra
Carta fondamentale, che pure ha un tono così piano, così discorsivo,
così affabile direi.
E allora - che volete? - stando cosi le cose, l'art. 1 della
Costituzione non mi preoccupa troppo e spero di non incorrere nella
taccia di blasfemia se in una repubblica fondata - ma un po'
retoricamente - sul lavoro ho l'ardire di tessere le lodi dell'ozio.
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