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Parenti: seduta 22
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Pagina 599
       PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TIZIANA PARENTI
                          INDICE
                                                        Pag.
Audizione del dottor Gianni De Gennaro, direttore generale
della Criminalpol, e del generale Francesco Valentini,
direttore del Servizio centrale di protezione:
  Parenti Tiziana, Presidente ....................  601, 604
                           605, 607, 610, 611, 612, 621, 622
                           623, 625, 626, 627, 630, 631, 632
  Arlacchi Giuseppe .........................  605, 606, 626
  Bertoni Raffaele ................  610, 623, 628, 630, 632
  Bonsanti Alessandra .............  605, 622, 628, 630, 631
  De Gennaro Gianni, Direttore generale della
Criminalpol .................................  601, 605, 607
                                609, 610, 611, 617, 621, 623
                                625, 626, 627, 628, 630, 631
  Di Bella Saverio ...........  614, 615, 620, 625, 626, 631
  Caccavale Michele ..............................  604, 605
  Campus Gianvittorio ..................  611, 615, 621, 622
  Garra Giacomo ..................................  611, 627
  Grasso Tano .....................  608, 611, 612, 614, 627
  Meduri Renato ..............  610, 611, 612, 622, 623, 627
  Pasetto Nicola .................................  618, 619
  Ramponi Luigi ..................................  611, 626
  Scopelliti Francesca ............  612, 615, 627, 628, 630
  Scozzari Giuseppe ...............  608, 609, 610, 611, 622
  Simeone Alberto ...........................  625, 626, 629
  Tripodi Girolamo ...............................  612, 613
  Valentini Francesco, Direttore del Servizio centrale di
protezione ..................................  604, 607, 611
                 612, 613, 614, 619, 620, 621, 626, 630, 631
Pagina 600
Pagina 601
   La seduta comincia alle 20,35.
    (La Commissione approva il processo verbale della
seduta precedente).
Audizione del dottor Gianni De Gennaro, direttore generale
della Criminalpol, e del generale Francesco Valentini,
direttore del Servizio centrale di protezione.
  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del
dottor Gianni De Gennaro, direttore generale della
Criminalpol, e del generale Francesco Valentini, direttore del
Servizio centrale di protezione.
   Ricordo che in data 27 ottobre è stata inviata una lettera
al ministro dell'interno avente ad oggetto taluni quesiti sui
quali riferiranno questa sera in termini generali i nostri
ospiti e rispetto ai quali una risposta più dettagliata ci
sarà fornita dal Ministero. Il contenuto della lettera, che
sarà quindi l'argomento delle audizioni odierne, attiene alle
evoluzioni nel tempo del fenomeno delle collaborazioni e dei
relativi sistemi di protezione. In particolare si chiede quali
organi abbiano provveduto in passato e quali provvedano oggi
alla protezione dei collaboratori, con riferimento a tutti gli
aspetti della protezione; quale sistema di protezione sia oggi
in atto, con riferimento ai problemi relativi al reperimento e
cambiamento di alloggi, all'assistenza ai familiari e
all'occupazione lavorativa. Si chiede inoltre se siano
intervenuti, e con riferimento a quale tipologia di
circostanze, casi di spostamento di sede e di trasferimento di
collaboratori di giustizia.
   Nella lettera si pongono poi domande circa l'adeguatezza
delle strutture di cui dispone oggi il Servizio centrale di
protezione, anche per quanto concerne il numero di persone
assegnate, l'onere economico relativo alla gestione dei
collaboratori e dei loro famigliari, unitamente ai criteri di
assegnazione dei contributi mensili. Si chiede, inoltre, se
esistano casi di revoca dei programmi di protezione e quali
siano state le motivazioni alla base di tali revoche; quale
sia il numero dei collaboratori che hanno attuato forme di
protesta e se si può indicare (magari non in seduta pubblica)
quali siano i collaboratori che maggiormente abbiano
manifestato insoddisfazione nei confronti del sistema di
protezione (mi riferisco, per esempio, alla protesta che vi è
stata nel processo di Padova). Chiedo ai nostri ospiti se
possano precisare anche questo aspetto, oltre ad indicare
quali siano i motivi di tali proteste e i provvedimenti
assunti (come nel caso, appunto, della protesta che vi è stata
a Padova) o che si intendano assumere a tale proposito.
   Do subito la parola al dottor De Gennaro.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Signor presidente, mi consenta di ringraziare
la Commissione da lei presieduta per questa ulteriore
opportunità che viene offerta a noi tecnici del dipartimento
della pubblica sicurezza di fornire contributi di conoscenza
su una tematica molto delicata. Come ella ha detto, signor
presidente, la Commissione antimafia ha rivolto al ministro
dell'interno la serie di quesiti da lei illustrati, sui quali
è in corso di elaborazione una dettagliata risposta, che
perverrà attraverso il Gabinetto del ministro, a cui il mio
ufficio e il Servizio centrale di protezione in esso
Pagina 602
inquadrato stanno offrendo tutti i contributi possibili
perché tale risposta possa essere la più esauriente
possibile.
   Mi consenta, signor presidente, di anticipare, almeno in
parte, nella mia breve relazione, alcuni dei temi che formano
oggetto della richiesta della Commissione. Naturalmente sia il
generale Valentini sia il sottoscritto saremo a completa
disposizione per eventuali ulteriori risposte che si
renderanno necessarie laddove non fosse stato risposto in modo
esauriente a specifiche richieste.
   Vorrei innanzitutto fornire un contributo conoscitivo per
consentire anche la verifica dell'attuale funzionalità del
sistema di protezione dei collaboratori di giustizia, cercando
di prospettare e delineare le linee di un intervento attuato
secondo le direttive impartite dal ministro e dagli altri
organi istituzionali ai fini dell'adeguamento della struttura
attuale e dell'attuale normativa a quelle esigenze di
sicurezza che fossero o risultassero allo stato ancora non
completamente soddisfatte.
   La normativa che disciplina le misure di protezione a
favore dei collaboratori della giustizia - lo sottolineo anche
per rispondere alla domanda sull'evoluzione nel tempo del
fenomeno delle collaborazioni e dei sistemi di protezione -
risale a circa quattro anni fa: è stato il decreto-legge n. 8
del 15 gennaio 1991, poi convertito con la legge n. 82 del 15
marzo 1991, a tentare di fornire una risposta soddisfacente
alle istanze di sicurezza a favore dei collaboratori che
provenivano sia dalla magistratura inquirente, che si trovava
ad affrontare questo nuovo fenomeno nella fase dell'istruzione
dei processi, sia da parte delle forze dell'ordine, sia dagli
stessi collaboratori che via via offrivano il loro contributo
alla magistratura. Prima del 1991 la materia, dato il sorgere
di queste esigenze, era stata in parte presa in considerazione
dal legislatore del 1988. Credo che la normativa adottata nel
1988 rientrasse però in una logica sostanzialmente
emergenziale, perché la legge n. 486 aveva attribuito
all'ufficio dell'alto commissario il potere di adottare
direttamente, o far adottare dagli uffici competenti, misure
che fossero idonee per assicurare l'incolumità di soggetti
esposti a grave pericolo in ragione della loro collaborazione
nella lotta alla mafia.
   La legislazione del 1991, invece, si muove in una
prospettiva più ampia ed estende la sfera di applicazione
della norma sia da un punto di vista oggettivo, poiché fa
riferimento a tutte le ipotesi di collaborazione in ordine ai
delitti previsti dall'articolo 380 del codice di procedura
penale, ampliando quindi la precedente dizione "Collaborazione
alla lotta contro la mafia", sia da un punto di vista
soggettivo, poiché non fa più riferimento soltanto al singolo
collaboratore ma anche "ai prossimi congiunti, ai conviventi,
a coloro che sono esposti a grave ed attuale pericolo a causa
delle relazioni che intrattengono con il collaboratore di
giustizia".
   Al di là di questa normativa primaria, nel contempo sono
stati disciplinati anche aspetti procedimentali ulteriori ed è
stato previsto, nell'ambito del dipartimento della pubblica
sicurezza, e più precisamente della direzione centrale della
polizia criminale, affidata adesso alla mia direzione, il
Servizio centrale di protezione, che è stato incaricato dal
legislatore di attuare uno speciale programma di protezione la
cui definizione veniva dalla legge affidata alla commissione
centrale di protezione, presieduta da un sottosegretario del
Ministero dell'interno e composta da magistrati, funzionari di
polizia, ufficiali dell'Arma dei carabinieri e della Guardia
di finanza. Oltre a definire il programma, la commissione
stabilisce anche quali sono le misure di tutela e di
assistenza in favore sia del collaboratore sia di quanti, in
ragione della collaborazione offerta da un determinato
soggetto, possono essere a loro volta esposti ad un attuale
concreto pericolo per la propria incolumità.
   Il testo legislativo al quale ho fatto riferimento non ha
potuto avvantaggiarsi di alcun tipo di esperienza precedente,
né giuridica né operativa; ad ogni modo quel testo è riuscito
a delineare un quadro normativo sintonico ai principi
fondamentali dell'ordinamento giuridico.
Pagina 603
   La normativa secondaria, costituita dai due decreti
ministeriali del novembre del 1991 e del gennaio del 1993, è
stata, invece, improntata ad una disciplina di dettaglio di
specifici profili attuativi. In questo caso la carenza di
esperienza precedente ha pesato forse in modo maggiore sulla
definizione della normativa secondaria.
   Oltre ad eventuali discrasie che potevano essere
ascrivibili alla normativa di attuazione, se ne possono essere
aggiunte altre in qualche modo riconducibili ad una non
completa adeguatezza della struttura del Servizio centrale di
protezione, soprattutto via via che le esigenze crescevano in
modo particolarmente rapido. A questo proposito vorrei
precisare, richiamando la vostra attenzione e per fornirvi
elementi di conoscenza, che la struttura del Servizio centrale
di protezione, creata appunto dal legislatore nel periodo che
ho indicato, ha subito una prima difficoltà quando è stato
sciolto l'ufficio dell'alto commissario, dal momento che in
anticipo ha dovuto assorbire tutte le funzioni che erano
svolte da quest'ultimo in tema di protezione dei testimoni.
Questa struttura, infatti, ha dovuto far fronte
all'improvviso, dal 1^ gennaio 1993 anziché a decorrere dal 1^
gennaio 1995 come previsto dal legislatore, ad una serie di
oneri riferiti a tutti quei soggetti che erano tutelati
dall'ufficio dell'alto commissario. Ho tenuto a sottolineare
questo aspetto.
   Oltre a questo elemento, che forse ha creato un aggravio
di lavoro ed una iniziale inadeguatezza del Servizio centrale
di protezione, si può aggiungere anche il fatto che l'incisiva
azione di contrasto al crimine organizzato svolta in questo
periodo ha determinato una progressiva emorragia nei sodalizi
criminosi, che hanno visto crescere il numero dei
collaboratori in modo particolarmente rapido.
   La crescita del numero dei collaboratori e dei famigliari
ha raggiunto nell'ultimo periodo una dimensione notevole; al
riguardo potrei fornire qualche dato: al 1^ novembre 1993 le
persone tutelate erano in tutto 2.192, di cui 545
collaboratori e 1.647 familiari; attualmente - cioè a distanza
di un anno - i soggetti da tutelare sono 3.853, di cui 921
collaboratori e 2.932 famigliari. Pertanto l'incremento,
nell'arco di un anno, è pari rispettivamente al 70 per cento
per i collaboratori e al 78 per cento per i famigliari.
   Partendo da questa prospettiva, credo si possa comprendere
come le difficoltà che sta affrontando il Servizio centrale di
protezione in questa situazione, che definirei ancora
emergenziale, siano notevoli; tuttavia, la struttura ha
risposto senza particolari disfunzioni a quelle che erano le
esigenze, secondo i meccanismi previsti dalla norma tutt'oggi
esistente.
   Sulla base dell'esperienza svolta in questi tre anni è
possibile completare l'opera di revisione e di affinamento
degli strumenti sia giuridici, in termini di normativa
regolamentare, sia tecnico-operativi. Nell'intento di
valorizzare le opportunità offerte dalla legge e di
perfezionare ulteriormente la disciplina regolamentare, sono
state avviate da tempo delle iniziative, la cui elaborazione è
giunta alla fase conclusiva, che dovranno fissare aggiornate
modalità di attuazione della normativa relativa alla
protezione dei collaboratori.
   Il raggiungimento di questo obiettivo, di brevissima
scadenza, consentirà contemporaneamente di migliorare la
tecnica di contrasto al crimine organizzato: si tratta,
infatti, di un complesso di regole e di strumenti
organizzativi tali da incentivare in prospettiva ulteriori
collaborazioni.
   Nella direzione degli orientamenti ribaditi dal signor
capo della polizia ed anche da me, quando ho avuto occasione
di essere ascoltato, viaggiano le iniziative giunte alla fase
conclusiva.
   I criteri basilari ai quali è ispirata l'azione
migliorativa riguardano innanzitutto la specializzazione ed il
decentramento delle strutture, le quali devono essere
collocate nell'ambito di un intervento omogeneo sotto la
direzione del Servizio centrale di protezione, come ha
previsto il legislatore. Il Servizio centrale di protezione è
in corso di potenziamento e ristrutturazione proprio perché,
sulla base dell'esperienza
Pagina 604
acquisita in questi anni di operatività quasi emergenziale,
come mi sono permesso di dire, ha consolidato una notevole
esperienza ai fini di una casistica su cui fondare la propria
operatività futura.
   Nella disciplina in fase di emanazione verrà formalizzata
la posizione di terzietà, rispetto agli investigatori, di chi
è addetto alla protezione e all'assistenza dei collaboratori,
affinché non vengano in alcun modo distolti dai loro compiti
istituzionali di indagine gli organismi investigativi,
soprattutto quelli specializzati. Questi, infatti, verrebbero
ad essere depauperati in termini di risorse umane, con il
rischio di indebolire l'azione di contrasto contro la
criminalità mafiosa sotto il profilo investigativo.
   La normativa e l'organizzazione in via di approvazione
saranno ispirate, o tenteranno di ispirarsi, al criterio che
fonda l'efficacia del sistema di protezione sulla
mimetizzazione delle persone tutelate nel contesto ambientale
in cui le stesse sono state inserite.
   Come ha già avuto occasione di precisare in questa sede il
signor capo della polizia, si rivelerebbe altrimenti
estremamente oneroso e forse povero di risultati un apparato
di protezione imperniato sulla tutela individuale di tutti
coloro che usufruiscono del programma. Un sistema così
strutturato imporrebbe - come del resto già impone - l'impiego
di esorbitanti risorse umane e materiali e l'assunzione di
costi sproporzionati rispetto ai benefici, rivelandosi in
alcuni casi controproducente.
   Un enorme dispiegamento di uomini e di mezzi non è detto
che garantisca l'assoluta tutela del collaboratore; per
converso potrebbe rappresentare un potenziale indice di
localizzazione della persona da proteggere, rendendo più
elevato il rischio della circolazione di informazioni e
notizie che, al contrario, devono rimanere riservate
nell'interesse della protezione oltreché per evitare la
localizzazione del collaboratore.
   Oltre che ad esigenze operative e di sicurezza, quali
quelle esposte, un programma di protezione basato su questi
principi si rivela funzionale all'obiettivo che deve essere
insito in un programma di protezione di testimoni e di
collaboratori, quello cioè del reinserimento nel tessuto
economico e sociale di chi si ritiene possa aver pagato il suo
debito nei confronti della collettività collaborando
concretamente con l'autorità giudiziaria.
   Appare evidente che il collaboratore ed il nucleo
familiare devono essere inseriti in un programma di protezione
tale da rendere possibile lo svolgimento di una normale vita
di relazione, così da sottrarli a forme di stress psichico ed
a tentazioni di ritorni o reingressi nei circuiti criminali
per l'incapacità di gestire la propria vita o la propria
attività.
   In questa prospettiva bisognerà predisporre regole
finalizzate a disciplinare e circoscrivere nel tempo le
modalità e la misura della corresponsione economica alle
persone protette. Ciò allo scopo di impedire il radicarsi di
un sistema assistenziale di tipo pensionistico, il quale deve
invece favorire solo nella fase di avvio il superamento del
trauma dovuto allo sradicamento delle famiglie da un contesto
ambientale e di lavoro in cui erano inserite, in virtù di
un'esposizione a pericolo.
   Accolto il sistema di sicurezza ispirato ai canoni cui
facevo cenno, e realizzato un impianto normativo - così come
si sta facendo - coerentemente orientato, la conclusione
consisterà nel rafforzamento dell'efficienza e della
funzionalità dell'intero apparato di tutela.
   Signor presidente, mi fermerei a questo punto. Mi premeva
fornire questo quadro di riferimento, fermo restando che sia
io sia il generale Valentini siamo a disposizione per
qualsiasi richiesta. Grazie.
  PRESIDENTE. Il generale Valentini vuole aggiungere
qualcosa?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. No, credo sia sufficiente l'esposizione del
dottor De Gennaro.
  MICHELE CACCAVALE. Dottor De Gennaro, vorrei una
precisazione. Lei ha parlato di mimetizzazione nel contesto
Pagina 605
ambientale in cui sono inseriti i collaboratori di
giustizia.
   Nel mio collegio, comprendente Anzio, Nettuno, Pomezia e
Ardea, ma soprattutto nel comune di Nettuno e nella frazione
di Lavinio risulta la presenza di diversi collaboratori di
giustizia. Questo non risulta soltanto a me, ma anche a
moltissimi miei concittadini, forse perché la ricerca degli
appartamenti da locare è affidata ad agenzie immobiliari
locali.
   Poiché credo che nessuna norma imponga la riservatezza a
queste agenzie, forse la voce passa "di bocca in bocca", tanto
che a Lavinio la sorella di un certo Messina, collaboratore di
giustizia siciliano, viene indicata quando cammina per
strada.
  GIUSEPPE ARLACCHI. Signor presidente, mi pare si ponga
un problema di riservatezza.
  MICHELE CACCAVALE. Qual è il problema di riservatezza?
Ho riferito un fatto palese.
  GIUSEPPE ARLACCHI. Chiedo che l'audizione prosegua in
seduta segreta.
  PRESIDENTE. Si può evitare di fare i nomi. Ove fosse
proprio necessario, si potrebbe disattivare il circuito
audiovisivo interno.
  MICHELE CACCAVALE. Pago l'inesperienza nella
partecipazione...
  ALESSANDRA BONSANTI. Si potrebbe anche fargli cambiare
la città.
  MICHELE CACCAVALE. Ma lo sanno tutti e quindi lo
sapranno pure le persone... Forse ho dato una indicazione
utile; spero di aver dato un contributo utile. Mi riferisco ad
un fatto notorio, ecco perché l'ho detto.
  PRESIDENTE. Onorevole Caccavale, prosegua.
  MICHELE CACCAVALE. Vorrei chiederle, dottor De Gennaro,
che cosa intenda quando parla di mimetizzazione; se sia a
conoscenza di questi fatti e come intendiate adoperarvi per
evitare in futuro il ripetersi di tali episodi.
  PRESIDENTE. Dottor De Gennaro, vuole rispondere
immediatamente?
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Sì, signor presidente. Chiedo di rispondere
immediatamente perché mi rendo conto di essere stato
estremamente infelice nella mia esposizione.
   Le chiedo scusa onorevole Caccavale se non sono stato
puntuale ...
  MICHELE CACCAVALE. La mia non vuole essere una
polemica.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. No, la ringrazio perché mi dà l'opportunità di
integrare brevemente quanto intendevo riferire in precedenza e
su cui forse non mi sono espresso bene.
   Intendevo parlare, così come ho fatto, del sistema di
protezione che stiamo avviando sulla base delle direttrici e
delle direttive fornite dal signor capo della polizia in
questa sede, parlando dell'equazione segretezza uguale
sicurezza. Si tratta di un cambiamento di indirizzo, per cui
sono perfettamente cosciente dell'esistenza di talune
discrasie come quelle da lei citate.
   Posso dirle che in provincia di Novara tutti sanno dove
abita il testimone Galasso; è a casa sua, in un castello,
circondato da agenti che gli fanno la guardia. Vive lì perché
lo ha chiesto ma non so - chiedo scusa se sarò inesatto - se
sia in regime di detenzione domiciliare: è un particolare su
cui, se necessario, potrei riferire; non è segreto trattandosi
di un fatto giudiziario.
   Il motivo ispiratore della strategia che stiamo tentando
di definire (cosa non semplice) è di impedire e di evitare che
la sorella di Messina possa essere indicata come persona
conosciuta o quanto meno ingeneri sospetto, sia pure in un
ambiente ristretto come può essere quello della cittadina
laziale da lei indicata.
Pagina 606
   Uno dei sistemi consiste proprio nel radicale cambiamento
dell'identità. Il regolamento sta per essere emanato; è ormai
questione di brevissimo tempo. E non è stato agevole
predisporlo, dal momento che cambiare completamente l'identità
di una persona, dall'atto di nascita al certificato di
battesimo, alla patente di guida, non è cosa agevole né avulsa
da problematiche connesse, basti solo pensare a quelle di tipo
civilistico.
   Possedendo gli strumenti normativi a disposizione e
tramite il sistema di sicurezza, l'obiettivo che intendiamo
raggiungere è di impedire che avvenga in qualsiasi posto
quanto lei ha riferito. Questo fatte salve le possibilità;
possiamo infatti escludere le probabilità, non le possibilità,
o tentare di escludere la possibilità.
   Anche la locazione di un appartamento, se realizzata dal
Ministero dell'interno, provoca quantomeno curiosità da parte
dell'agenzia che deve fungere da intermediario. Se invece
viene fatta da una persona che ha un'identità completamente
tutelata, dal codice fiscale a tutto quello che riguarda il
vivere civile comune, impedisce l'insorgere di curiosità,
soprattutto in contesti ambientali piccoli e limitati dove
tutti si conoscono e dove si nota una presenza nuova se non è
bene adattata. Una persona che vive e non lavora e bambini che
non vanno a scuola ingenerano curiosità, esponendo a
rischi.
   Chiedo ancora scusa se nella mia precedente esposizione
non mi sono espresso bene, ma parlavo della impostazione del
lavoro al quale, con strumenti e norme in via di
predisposizione, cerchiamo di ispirare l'attività
conseguente.
   Mi sia consentito di aggiungere che tutto questo comporta
una grossa accettazione del margine di rischio che si può
correre. Può darsi infatti che alcune persone vengano
riconosciute, ma il rischio è relativo. Certo, mettere degli
agenti sotto casa ingenera attenzione, così come collocare
delle forze intorno ad un obiettivo crea attenzione, con
assoluta naturalezza, e non è detto che la presenza di agenti
impedisca un'azione criminale. Tre autovetture blindate e
cinque uomini di scorta non hanno impedito la morte del
giudice Falcone. Bisogna vedere se l'aggressione diventa, o
potrebbe diventare, proporzionale alla difesa. Per questo
motivo il capo della polizia, parlando in questa sede, ha
parlato di sicurezza uguale segretezza, per tentare di
ottenere attraverso la mimetizzazione quel margine di
sicurezza.
  GIUSEPPE ARLACCHI. Proseguendo nel discorso iniziato, e
visto che siamo in seduta riservata, vi inviterei ad essere
più specifici nell'indicare la strada che si è deciso di
imboccare, quella cioè del principio che la migliore
protezione è la segretezza anziché la protezione in senso
fisico, materiale, visibile e pubblico del collaboratore di
giustizia.
   In proposito vi è la questione - a voi naturalmente nota -
della ricostruzione della identità di una persona. In pratica
si tratta di inventare e costruire una identità diversa di un
essere umano, che ha coordinate di spazio, di tempo, di
educazione e di socialità ben precise. E' il problema
principale che si incontra lungo la strada da voi intrapresa.
Vi chiedo di essere abbastanza specifici e franchi, visto che
questa Commissione deve avere davanti l'intero spettro delle
problematiche. In materia, infatti, nascono molti dei problemi
che si dice incontri l'amministrazione in ordine ai
collaboratori di giustizia.
   Fino a poco tempo fa - ho letto su diversi quotidiani - la
presenza di un collaboratore di giustizia (il quale risiedeva
in una determinata zona del paese, qualunque essa fosse)
doveva essere portata a conoscenza delle autorità locali di
pubblica sicurezza. Vi domando se questo principio, questa
regola, questa disposizione sia cambiata o se viga ancora. E'
evidente infatti che tanto più la segretezza viene garantita
quanto minore è il numero delle persone che sono a conoscenza
dell'identità e della presenza di un determinato collaboratore
in un luogo fisico. La prassi seguita da istituzioni di
protezione di altri paesi è che soltanto una persona,
all'interno dell'agenzia di protezione, è a conoscenza del
luogo ed è a contatto con il collaboratore.
Pagina 607
   Vi chiedo se intendiate introdurre questo stesso
principio, in base al quale un numero ristrettissimo o
addirittura una sola persona o un solo funzionario del
Servizio di protezione sia a conoscenza della situazione
oppure se intendiate percorrere strade diverse, dal momento
che possono essere inventate soluzioni diverse.
   La seconda domanda concerne la vostra posizione circa
l'ipotesi di trasformare il Servizio centrale di protezione in
una vera e propria agenzia della protezione sul modello del
servizio dei marshal degli Stati Uniti. Come sapete, se
ne è discusso molto e la fondazione Falcone di Palermo ha
dedicato a questo tema un intero convegno, al quale sono stati
invitati anche esponenti dei marshal. Vorrei sapere se
la vostra istituzione, il Governo o il Ministero dell'interno
intendano muoversi lungo questa direzione, o se invece si
tratta solo di un'ipotesi allo stadio preliminare.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Il sistema di protezione che in questo
momento viene attuato richiede necessariamente, anche in
ossequio alle leggi che regolano l'attività del servizio, che
il prefetto, in sede di comitato provinciale per l'ordine e la
sicurezza pubblica, dia mandato di attuare i servizi alle
forze di polizia territoriale (alle quali ci rivolgiamo,
tramite il prefetto, per la protezione nelle zone protette).
Naturalmente le persone che vengono a conoscenza del nome del
collaboratore e della località di protezione sono moltissime:
basti pensare che il programma di protezione viene proposto
dall'autorità giudiziaria competente, arriva alla commissione
centrale, quindi a noi; il servizio poi attiva la prefettura
ed infine si riunisce il comitato provinciale. Non possiamo
modificare le leggi che regolano la nostra attività e quindi
non possiamo evitare di far applicare queste misure di tutela
nelle località protette.
   In tempi futuri, come ha detto il prefetto De Gennaro, si
tenterà di evitare che i nominativi dei collaboratori e le
località in cui risiedono diventino un oggetto noto a tanta
gente.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Posso rispondere alla seconda parte della
domanda dell'onorevole Arlacchi. Il generale Valentini ha già
esposto il sistema attuale ed in questo momento non abbiamo
elementi certi per poter illustrare la futura strutturazione
del servizio di protezione. In linea di massima quest'ultimo
si baserà, come ho accennato nella relazione di apertura, sul
principio della specializzazione ma anche del decentramento,
in modo tale da istituire sul territorio proiezioni del
servizio che consentano di ovviare ai problemi che l'onorevole
Arlacchi ha sottolineato e che il generale Valentini ha
illustrato nell'attualità.
   L'esatta definizione del servizio in termini strutturali
si avrà nel giro di pochissimo tempo, ispirata al principio
dell'assoluta specializzazione del personale che ne fa parte,
anche nelle componenti che possano risultare necessarie al di
là del personale di polizia (per esempio, assistenti sociali,
psicologi o esperti in anagrafe e in cambiamento di
generalità): questa è la tendenza ed in questi termini stiamo
cercando di adeguare l'ufficio.
   Il servizio, avendo connotazione interforze, costituisce
una sorta di task force che cercheremo di integrare con
professionalità le più diverse, tali da poter corrispondere a
tutte le esigenze (per esempio di carattere medico) ed a tutte
le problematiche connesse al vivere civile di una famiglia
attraverso un decentramento sul territorio che consenta di
istituire strutture di riferimento che eliminino, nei limiti
del possibile, o riducano al minimo il problema della
circolazione delle informazioni.
  PRESIDENTE. Queste strutture di riferimento, in
concreto, dove starebbero? Dovrebbero essere visibili?
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Non credo che non debbano essere visibili -
abbiamo delle
Pagina 608
idee che ora non vorrei anticipare -, ma che, per esempio,
potrebbero fare riferimento alle prefetture regionali. Ripeto,
non è facilissimo creare proiezioni sul territorio del
Servizio centrale di protezione, ma, essendo il problema in
fase di studio avanzato, ritengo che in poco tempo saremo in
grado di eliminare i problemi che sono stati richiamati, in
primo luogo quello di una circolazione di notizie tale da
mettere a rischio la tutela dell'individuo. Soprattutto una
volta che siano state modificate le generalità del soggetto
bisogna essere gelosi custodi della nuova identità, cosa che
tra l'altro comporta anche delle spese, perché non si può
correre il rischio di una facile vanificazione della misura di
protezione per poi ricorrere ad un'ulteriore procedura che
possa garantire la forma di anonimato cui si faceva
riferimento.
  TANO GRASSO. Desidero porre un problema che dal punto di
vista numerico riguarda in maniera assolutamente marginale il
Servizio centrale di protezione ma che, a mio giudizio, dal
punto di vista qualitativo interessa moltissimo tutti noi. Si
tratta dell'esistenza di collaboratori della giustizia che non
sono mafiosi pentiti ma che vengono equiparati, secondo la
legislazione vigente, alla condizione del collaboratore di
giustizia pentito: di norma si tratta di persone che esprimono
un alto livello di coscienza civile e che ricoprono un
importante ruolo simbolico nella società, per cui diventano
anche volano di immagine della funzionalità dello Stato.
   La prima questione che le pongo, signor prefetto, è se non
sia il caso di pensare in termini legislativi a qualche norma
che consenta una gestione diversa di questi soggetti rispetto
a quella dei pentiti. Vivo direttamente la vicenda di una di
queste persone, un mio carissimo amico sottoposto alla tutela
del servizio di protezione e, da osservatore della sua vita,
ho avuto l'impressione che non vi sia quella necessaria
sensibilità da parte delle strutture, in primo luogo di quelle
periferiche, che consenta di mettere a proprio agio il
soggetto. Tra gli aspetti paradossali della vicenda di questa
persona, che vive in una località sconosciuta del paese, vi è
il fatto che viaggia con una macchina targata
Caltanissetta.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Comprata a proprie spese!
  TANO GRASSO. Mi chiedo se esista un margine di
discrezionalità che consenta di gestire queste situazioni in
stato di emergenza, posto che in Italia non vi saranno più di
dieci casi di questo genere, che però hanno un grande valore
simbolico. Vi è infatti il rischio di produrre un notevole
squilibrio psicologico in questi soggetti che, abituati ad un
tenore di vita di un certo livello, non per colpa loro si
trovano proiettati in una situazione di assoluta
emarginazione.
   Vi è poi il problema del lavoro: potremo vincere fino in
fondo la sfida se riusciremo a reinserire nel tessuto
produttivo queste persone; non mi riferisco solo al caso dei
testimoni, ma alle 3.800 persone sottoposte a protezione. Lo
Stato riuscirà a vincere la sfida non solo appropriandosi del
patrimonio informativo di questi soggetti, ma anche dando loro
un futuro sulla base dei valori della società civile. Questo,
probabilmente, è il vero problema; mi chiedo se si stia
pensando, per esempio, a forme di collaborazione con
associazioni di categoria. Mi rendo conto che verrebbe
compromesso il problema della segretezza, ma so anche che
questa è una strettoia da cui bisogna passare. La strada
dell'assistenzialismo rischia di essere pericolosa perché è la
strada della vacuità del proprio valore, di quel poco di
valore che ognuno di noi può avere.
   Ricordo altresì la questione degli Stati esteri: vorrei
sapere se vi sia la possibilità di riconvertire alcuni di
questi soggetti all'estero e se siano in studio o in ipotesi
accordi bilaterali con altri Stati che non siano soltanto gli
Stati Uniti d'America. Quanto alla questione del regolamento
relativo al cambio di identità, vorrei sapere su quali linee
ci si intende muovere, nella consapevolezza che purtroppo ci
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stiamo accingendo con ritardo ad affrontare tale problema.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Desidero porre una domanda ad
integrazione di quanto ha detto il collega Grasso, del quale
condivido tutte le affermazioni. Devo innanzitutto dire che,
essendo il legale della persona di cui ha parlato l'onorevole
Grasso, conosco le gravissime difficoltà che egli, come
tantissimi altri, sta incontrando in varie direzioni,
innanzitutto nei rapporti con lo Stato. Per fare un esempio,
queste persone sono costrette a firmare lo stesso contratto
che firmano i pentiti mafiosi, anche se si tratta di testimoni
non mafiosi, che hanno consentito di mandare alla sbarra
decine, se non centinaia, di appartenenti alla malavita
organizzata. Questa è una prima considerazione di cui lo Stato
deve certamente prendere atto e sulla quale deve, quanto meno
dal punto di vista legislativo, fare una certa
differenziazione.
   Come accennava il collega Grasso, il rischio sociale è
gravissimo: alcuni di questi soggetti - che io difendo come
legale di parte civile in processi delicatissimi - hanno
dichiarato che, se le cose continueranno in questo modo, essi,
per il bene degli altri commercianti (per lo più si tratta di
commercianti), inviteranno con una lettera i loro colleghi a
non compiere il tragico e terribile errore che essi stessi
hanno fatto, rovinando la propria attività commerciale, la
propria famiglia e la propria vita. Ebbene, il segnale
lanciato da queste persone è cento volte più dirompente
rispetto a quello lanciato dai collaboratori (che comunque è
un segnale straordinario) perché proviene da persone oneste e
serie che proclamano, in una società difficile come quella
siciliana, che bisogna evitare l'omertà e lo stato di
soggezione alla mafia.
   Mi inserisco dunque nella domanda del collega Grasso
chiedendo se non si pensi di creare un regime differenziato,
anche nella sottoscrizione delle tutele e delle indennità
economiche, nonché dei contratti formali che si stipulano con
questi soggetti, i quali - lo ribadisco - non sono né pentiti
né mafiosi, ma hanno solo denunciato lo stato di soggezione in
cui si trovavano.
   Ricordo un altro problema, che può sembrare stupido, ma
che in realtà è gravissimo: questi soggetti, nel momento in
cui vengono trasferiti in città segrete del centro-nord o del
nord, per rifarsi una vita non accettano di cambiare identità
(mi pare che ciò sia giusto) e, continuando a mantenere la
propria, hanno il problema del trasferimento delle iscrizioni,
per esempio, nell'ufficio di collocamento o dei documenti di
identità per l'iscrizione dei propri figli a scuola;
addirittura per il cambio di targa vi sono problemi perché,
nel momento in cui, per esempio, la motorizzazione di Roma
chiede a quella di Agrigento un cambio di targa, vi è il
rischio che il funzionario della motorizzazione di Agrigento
possa fornire a compiacenti mafiosi il nome della nuova città
in cui si trasferirà il collaboratore non mafioso né pentito.
Si tratta di difficoltà tecniche gravissime, che creano uno
stato di disagio psicologico nei soggetti che hanno deciso di
aiutare lo Stato.
   Un'ultima considerazione riguarda i pentiti in senso
stretto. L'esperienza che mi deriva dall'aver assistito
qualche collaboratore - ora non li assisto più - mi ha
consentito di notare che la commissione si riuniva spesso con
estremo ritardo: ciò non riguardava soltanto il riconoscimento
dello stato giuridico di collaboratore ai sensi della vigente
legge, ma anche le difficoltà di tipo economico che incontrano
le famiglie quando non ricevono il contributo necessario per
vivere, dal momento che non svolgono più nessuna attività
lavorativa. Anche questo è un elemento che va contro gli
interessi dello Stato e contro questo nuovo modo di
comportarsi in uno Stato civile.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Posso rispondere in parte - lasciando poi la
parola al collega Valentini - a cominciare dalle ultime
considerazioni: noi proteggiamo la vita umana, che è uguale
sia per il collaboratore di giustizia mafioso sia per il
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testimone non mafioso. Abbiamo il compito di garantire la
sicurezza o di cercare di garantirla e non di discriminare
nella sicurezza tra persona e persona.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Non volevo dire questo,
assolutamente! La sicurezza è uguale per tutti, ci
mancherebbe! La vita è sacra per tutti!
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Il punto è la metodologia. Mi rendo conto che
per una persona che non deve scontare nessun tipo di colpa e
che non deve riabilitarsi nella società vi possano essere
difficoltà veramente gravi. Se un trasferimento può essere un
problema, figuriamoci lo stravolgimento di una vita! Non
conosco il caso specifico che è stato richiamato, sul quale
credo potrà rispondere molto più validamente il generale
Valentini, ma ho vissuto l'esperienza del testimone del
processo Livatino, che era un normale cittadino che si trovava
a passare sul luogo dell'omicidio. Questi ha avuto molti
problemi, come il dover lasciare il proprio lavoro,
trasferirsi in un'altra città e soprattutto vivere
continuamente nel timore, trattandosi di una persona che non è
abituata a convivere con il delitto, come può essere il
collaboratore che ha responsabilità penali; qualche volta la
paura è superiore all'effettivo rischio, ma si tratta di un
fattore psicologico. So che esiste un programma di protezione
dei testimoni che è uguale per tutti: ecco perché non
intendevo certamente fraintendere la sua domanda, ma mi
riferivo al tecnicismo. Se, per esempio, da un punto di vista
tecnico, si deve cambiare la targa, non si può non farlo; ed è
chiaro che se si è stati testimoni, in un contesto piccolo
come può essere quello della città di Agrigento, per il caso
dell'omicidio del giudice Livatino, il fatto di essere
residenti in quella città comporta che non sia difficile
lasciare una traccia già nel momento in cui si cambia la targa
dell'automobile. Ecco perché le necessità ulteriori di
cambiare le generalità e di mimetizzarsi sono una regola che
può valere per tutti, proprio per raggiungere l'obiettivo di
tutelare la vita umana, qualunque sia la persona e qualsiasi
sia la sua posizione nel contesto sociale.
   Vorrei aggiungere soltanto un'osservazione: per quanto
riguarda il lavoro, è chiaro che soltanto il cambiamento
completo delle generalità comporta la possibilità di un
reinserimento nel mondo del lavoro, anche perché lo stesso
datore di lavoro trova enormi difficoltà in relazione ai
rischi che si corrono nell'assumere una persona che
rappresenta un potenziale pericolo per tutti. Anche questo,
quindi, è un momento importante del reinserimento, come mi ero
permesso di osservare nella relazione iniziale, anche al fine
di evitare l'assistenzialismo.
   Per quanto riguarda il trasferimento all'estero, abbiamo
già dei casi concreti. La seduta è segreta...
  PRESIDENTE. Dottor De Gennaro, la seduta non è segreta:
se lo desidera, però, possiamo procedere in seduta segreta.
  GIUSEPPE SCOZZARI. Veramente avevo capito che la seduta
era rimasta segreta.
  PRESIDENTE. La seduta può essere segreta soltanto in
relazione a circostanze speciali: ho interrotto il dottor De
Gennaro, infatti, quando ho capito che non era chiaro che la
seduta era pubblica.
  RENATO MEDURI. Signor presidente, a mio avviso, è bene
mantenere segreta l'intera seduta, dato che ciascuno di noi
può fare riferimento a casi che è bene rimangano riservati.
  PRESIDENTE. La Commissione può decidere che l'intera
seduta rimanga segreta. Non mi sembra, però, che vi siano
elementi particolari per giungere a tale decisione.
  RAFFAELE BERTONI. Signor presidente, sono contrario a
mantenere l'intera seduta segreta; se qualcuno desidera dire
qualcosa che ritiene debba rimanere segreta, può farlo
presente.
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   LUIGI RAMPONI. Ritengo che sia meglio che la seduta non
sia segreta.
  PRESIDENTE. Sono d'accordo: quando vi è qualcosa che si
ritiene debba rimanere segreta, lo si può chiedere.
  RENATO MEDURI. Signor presidente, ma quando, per
esempio, il collega fa riferimento a persone che ha difeso, è
facile poi verificare di quali persone si tratti e la
segretezza va a farsi benedire.
  PRESIDENTE. Ritengo che la Commissione debba votare
sulla segretezza della seduta.
  GIACOMO GARRA. Sarei favorevole a mantenere segreta
l'intera seduta solo per riguardo al prefetto De Gennaro.
  GIANVITTORIO CAMPUS. Possiamo sapere se il prefetto De
Gennaro preferisce che la seduta sia segreta?
  PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta che la
rimanente parte della seduta sia segreta.
     (E' respinta).
  Prosegua, dottor De Gennaro.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Signor presidente, stavo dicendo che per
quanto riguarda la possibilità di trasferimento all'estero vi
sono stati casi in cui questa via è stata perseguita, dove le
condizioni lo consentivano, per cui certamente tale
possibilità viene tenuta in considerazione.
  PRESIDENTE. Riprendendo la domanda, non ho capito bene,
però, se è in previsione una normativa differenziata per i
testimoni oppure no; se cioè tutti sono sottoposti alla stessa
normativa in previsione del regolamento futuro o se invece si
prevedono trattamenti diversi.
  TANO GRASSO. Anche rispetto all'esperienza degli altri
paesi.
  PRESIDENTE. Facevo riferimento alla situazione
attuale.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Signor presidente, la normativa vigente non
prevede un trattamento diverso: si tratta di una norma di
legge, non regolamentare. Se verrà approvata una legge che
prevederà una differenziazione di procedure, naturalmente i
regolamenti attuativi delle norme saranno redatti in modo tale
da poter garantire quanto il legislatore avrà disposto.
  GIUSEPPE SCOZZARI. I contratti, però, sono il frutto di
una norma regolamentare: a questo proposito, si sta pensando
ad una diversificazione oppure no?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Il programma di protezione, che ha anche un
aspetto contrattuale, non è fatto per i collaboratori e per i
testimoni: è un modello unico.
   Se ho ben compreso le domande degli onorevoli Grasso e
Scozzari, credo di dover ribadire che il problema essenziale
sta proprio nell'impossibilità di dare nuove generalità ai
collaboratori di giustizia e, quando occorre, anche ai
testimoni, che non sono pochi, onorevole Grasso, visto che
sono 68. Evidentemente, il legislatore non ha pensato di
prevedere due distinte discipline.
   Abbiamo dovuto necessariamente porre in essere qualche
surrogato: non possiamo dare le nuove generalità, perché non
ci è consentito, in quanto non disponiamo degli strumenti
legislativi per farlo. Diamo invece i documenti di copertura,
che naturalmente non sono ben graditi dai collaboratori di
giustizia per un complesso di motivi. Posso citarne qualcuno:
il primo motivo è che non si è iscritti in nessun ufficio
dell'anagrafe; il secondo (ma frequentemente, negli ultimi
tempi, mi è capitato di imbattermi in questa problematica) è
che sulla carta d'identità che riusciamo ad avere vi è il
classico timbro : "Non valida per l'espatrio". Quando si
tratta di figli di collaboratori di giustizia che desiderano
andare all'estero sorgono molti problemi, così come sorgono
problemi quando cerchiamo di avviare al lavoro qualcuno. A
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questa domanda mi sembra abbia risposto in maniera precisa il
prefetto De Gennaro e pertanto non credo di dover aggiungere
altro.
   L'iscrizione alla scuola dei figli dei collaboratori di
giustizia viene sempre fatta nostro tramite sotto falso nome.
Naturalmente non è il Servizio centrale di protezione che
provvede all'iscrizione dei bambini che devono andare a
scuola; provvediamo tramite i referenti locali all'iscrizione
nelle scuole di ogni ordine e grado (medie, superiori ed anche
università) assumendocene il relativo onere.
   Vorrei concludere rispondendo al problema della targa. Si
è fatto riferimento ad un teste con il quale ho ampiamente
dialogato e al quale ho dato notizie telefoniche il giorno
successivo. Per cambiare la targa, come lei mi insegna, è
necessario avere una residenza diversa da quella di
provenienza.
  TANO GRASSO. Si può dare una targa di copertura.
  PRESIDENTE. Non è previsto.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Di reati ne commettiamo tanti nell'interesse
della giustizia (Commenti del deputato Grasso)...
  RENATO MEDURI. E' un falso problema. Si vende la
macchina!
  TANO GRASSO. Si tratta di una macchina blindata, dal
costo di 100 milioni, pagato dall'interessato!
  PRESIDENTE. Lasciamo parlare il generale Valentini.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Onorevole Grasso, conosco anche la macchina.
Non possiamo rilasciare targhe di copertura. Se dovessimo dare
una targa di copertura a ciascun collaboratore di giustizia
munito di macchina, dovremmo prevedere un altro tipo di
servizio, non certo di protezione. Ma non possiamo neppure
fornire un'autovettura a tutti i collaboratori di giustizia
che dovessero avanzare una simile richiesta. A qualcuno diamo
dei prestiti, cerchiamo di aiutarlo, quando è possibile.
Naturalmente tutto deve inquadrarsi in esigenze di sicurezza
per il collaboratore di giustizia.
   Ho dato un suggerimento al teste parificato collaboratore
di giustizia...
  FRANCESCA SCOPELLITI. Quello che sta dicendo è
segreto?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. No. Ho suggerito al teste di far ricorso ad
un procuratore speciale. Avrebbe potuto cambiare il numero di
targa della macchina e fare tutto quello che più si confaceva
alle sue esigenze di sicurezza. Come ha indicato prima il
prefetto De Gennaro le esigenze di sicurezza sono quelle che
dobbiamo necessariamente privilegiare rispetto a tutte le
altre sfaccettature della problematica.
  GIROLAMO TRIPODI. La legge sui collaboratori di
giustizia è stata da tutti considerata uno strumento incisivo
nella lotta contro la criminalità organizzata. Negli ultimi
tempi questa conquista legislativa ha subito una serie di
attacchi diretti a delegittimarla. Ciò ha provocato una serie
di prese di posizione, così almeno abbiamo letto sulla stampa,
da parte dei collaboratori di giustizia. Molti collaboratori
di giustizia negli ultimi tempi si rifiutano di collaborare o
hanno smesso di dare il loro contributo. Si parla di un
centinaio di persone che hanno iniziato una specie di sciopero
nel senso che non forniscono più il loro apporto alle
indagini.
   Vorremmo sapere se queste notizie siano vere e se queste
manifestazioni di protesta siano il risultato del mutato clima
determinatosi nei confronti dei collaboratori di giustizia in
ordine alla protezione e alla erogazione dei sussidi.
   Qualche mese fa la corte di assise di Reggio Calabria si è
recata a Padova per ascoltare Riina. In quell'occasione un
collaboratore di giustizia (l'ho già detto in un'altra
occasione ma voglio ripetere la domanda approfittando
dell'autorevole
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presenza del prefetto De Gennaro e del generale Valentini) si
è lamentato del fatto di essere stato costretto a sostenere di
tasca propria le spese di viaggio.
   Naturalmente fatti di questo genere destano preoccupazione
circa la reale tenuta delle norme attualmente esistenti.
Alcuni suggerimenti sono stati già dati in ordine ad eventuali
modifiche per offrire maggiori garanzie ai collaboratori di
giustizia e ai testimoni. Vorrei avere qualche risposta più
esplicita sulle soluzioni che si intendono adottare per
risolvere il problema. Vorrei inoltre sapere se ritenete che
le norme relative ai collaboratori di giustizia debbano essere
difese e mantenute.
   Per concludere, vorrei porre un'ulteriore domanda sui
tempi e sulle procedure concernenti l'erogazione dei sussidi
ai familiari dei pentiti e dei testimoni, perché anche su
questo versante ci sono molte lamentele.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Il numero dei collaboratori che - ripeto
quello che ha detto lei - ha scioperato per manifestare il
proprio disagio non è arrivato a cento unità e speriamo tutti
che non ci arrivi.
  GIROLAMO TRIPODI. Quanti sono?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Le persone che hanno protestato sono state
dieci. Prima risponderò alla sua domanda, poi le riferirò
circa lo screening che abbiamo fatto ed infine parleremo
anche del tipo di proteste.
   Per quanto riguarda il collaboratore di giustizia recatosi
a Padova il problema non è quello. Per esigenze di giustizia è
stato costretto a soggiornare in quella città un giorno in più
rispetto al previsto. Del resto anche se ci avesse attivato
prima di questo evento non avremmo fatto in tempo a provvedere
al pagamento. Tornato nella sede protetta si è visto
rimborsare le spese di permanenza. Il biglietto di andata e
ritorno è un'altra cosa; non fa parte di queste proteste.
   In ordine all'istituto non credo che sia possibile mettere
in dubbio la validità e l'importanza del contributo dato dai
collaboratori di giustizia alla lotta contro la criminalità
organizzata e alla mafia in particolare.
   Relativamente alla questione dei tempi lunghi
nell'erogazione dei sussidi, faccio presente che il Servizio
centrale di protezione dà dei contributi mensili, una specie
di stipendio che viene erogato attraverso gli istituti di
credito, e che viene spedito dal Servizio centrale nei primi
giorni del mese. Le lungaggini possono essere causate, per
esempio, dalla presenza di un giorno festivo in mezzo ad uno
feriale o da altri problemi, comunque non imputabili a noi che
- a giorni fissi, tutti i mesi - facciamo questi
versamenti.
   In ogni caso esistono lamentele relativamente all'aspetto
economico, e si riferiscono alle spese varie, il cui rimborso
ci viene periodicamente richiesto con istanze dirette a noi o
alla commissione centrale.
   In proposito è necessario fare una valutazione, perché non
possiamo corrispondere a tutte le aspettative dei
collaboratori di giustizia. Tra l'altro amministriamo soldi
dello Stato e quindi bisogna farlo con la massima oculatezza.
Naturalmente l'assistenza viene tenuta in debito conto, così
come lo sono tutte le esigenze che comunque concorrono ad una
maggiore o migliore protezione del collaboratore in sede
protetta.
   Quanto alle lamentele avanzate dai collaboratori di
giustizia, mi sia consentito in questo momento di fare ricorso
soltanto alla mia memoria. Vi assicuro che ho avuto modo di
leggere tantissime lettere. In una di esse si parla del "vezzo
che ha la televisione italiana di trasmettere immagini che lo
riguardano". Questo collaboratore si dice dunque preoccupato
non soltanto per sé ma anche per i propri familiari.
   In un'altra lettera, per esempio, un soggetto, la cui
posizione giuridica è quella di detenuto (magari agli arresti
domiciliari), lamenta la presenza di personale delle forze di
polizia, che svolge i controlli in uniforme. Se confrontiamo
quanto sto dicendo
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con quello di cui si è detto prima, in ordine a ciò che
si vuol fare in prospettiva, non vi è dubbio che è da
preferirsi quello che ci proponiamo di fare, perché il
personale in uniforme evidenzia l'obiettivo protetto.
   In altri casi ci si lamenta che nei frequenti movimenti
dalle località protette ai luoghi di provenienza in cui si
celebrano i processi si viene scortati da personale delle
forze di polizia, che ha dei turni, cioè non è sempre lo
stesso. Poiché tutto va a scapito della segretezza e della
riservatezza, non possiamo che essere d'accordo con i
collaboratori che protestano.
   Altre lamentele - e sono la maggior parte - riguardano
l'impossibilità di avere documenti con nuove generalità. I
collaboratori sanno infatti benissimo che questa è l'unica
strada che consente loro non soltanto di possedere
un'autovettura ma anche l'ingresso nel mondo del lavoro, per
loro e per i propri figli. Alcuni hanno sollevato il problema
dei figli che stanno per completare un ciclo di studi. Un
diploma di laurea o di scuola media a chi viene dato? A
quell'essere inesistente che ha presentato i documenti che gli
abbiamo fatto avere noi, violando alcune volte la legge o
inducendo altri a violarla?
   Naturalmente esistono altri tipi di protesta. Se mi è
consentito, vorrei riferirne una di un collaboratore, il quale
ha attivato l'organo referente facendo presente quanto segue:
ho un figlio di diciotto anni e un cognato di ventidue, i
quali sono abituati ad andare in discoteca tutti i sabati;
entrambi, sabato scorso, hanno avuto l'impressione di essere
stati riconosciuti da ragazzi che si trovavano lì, perché sono
stati guardati insistentemente. Voi mi dovete allora garantire
la scorta e l'accompagnamento di questi due ragazzi, anche
all'interno della discoteca, fuori dalla provincia di
competenza, non soltanto per sabato prossimo ma anche per
quelli successivi. Abbiamo detto di no all'organo referente,
il quale si è fatto parte diligente facendo capire che la
predisposizione di un servizio minimamente sicuro non poteva
essere assicurato all'interno di una discoteca. Vi sono dunque
proteste di questo tipo per cose piuttosto amene; credo di
aver comunque indicato prima tutte le proteste riguardanti
fatti seri.
  TANO GRASSO. Lei ha detto che i soldi si mandano via
banca?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Si danno, tramite referente, in contanti,
oppure attraverso vaglia postali e assegni circolari.
  TANO GRASSO. Avevo capito attraverso la banca.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Sono tre sistemi. Se potessimo avere le
coordinate bancarie di ciascun collaboratore, faremmo tutti
questi versamenti nel giro di ventiquattr'ore; ma non abbiamo
questa possibilità.
  SAVERIO DI BELLA. Vorrei iniziare il mio intervento
evidenziando la perplessità che in me suscita la questione del
cambiamento totale di identità. Ci sono problemi di carattere
psicologico che riguardano gli interessati. Da tale punto di
vista vorrei sapere se questi vengano seguiti anche da
psicologi, soprattutto quando hanno bambini per i quali questo
tipo di adattamento e di sradicamento dall'ambiente rischia di
divenire un trauma aggiuntivo rispetto a quelli "normali" che
si verificano in determinate situazioni.
   Ma vi è un altro motivo che intendo sottolineare. Quando
ciò che ho appena detto riguarda centinaia o addirittura
migliaia di persone, si rischia di mettere in piedi una
macchina mostruosa di falsificazione dei documenti. Qui, se
vogliamo essere coerenti, dovremmo dire che bisogna
falsificare documenti di stato civile, documenti scolastici,
documenti ecclesiastici (atti di battesimo e di matrimonio),
documenti dei tribunali, documenti universitari. E'
assolutamente inaccettabile che ci si possa mettere su questo
piano proprio perché ciò vorrebbe dire creare una situazione -
lo ripeto - mostruosa, in quanto ciò riguarderebbe non una,
due o tre persone ma migliaia di persone. Si potrebbe
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dire che la critica è facile e chiedere quale sia la nostra
proposta. Direi che dobbiamo tenere conto di un fatto, che in
questo caso può essere utile. Chiunque vada a prendere
l'elenco telefonico, per esempio, di Palermo, di Locri o di
Gioia Tauro (cito alcune città notoriamente "immuni" dalla
mafia), si renderà conto che i cognomi si ripetono, per cui
abbiamo i Mazzaferro mafiosi ma anche centinaia di Mazzaferro
che non sono mafiosi. Secondo me, bisogna giocare su questo
aspetto: se le forze dello Stato lavorassero bene, la
comunanza di cognomi permetterebbe probabilmente di
raggiungere l'obiettivo della mimetizzazione senza bisogno di
ricorrere ad un meccanismo difficile da gestire che,
richiedendo tutta questa serie di passaggi, implicherebbe
troppe complicità che resterebbero difficilmente segrete
oppure la creazione di una macchina falsificatrice da parte
dello Stato, che non è concepibile né accettabile, per quanto
mi riguarda.
   Il secondo aspetto è rappresentato dal lavoro. Francamente
credevo che fosse il problema più facile da risolvere, perché
se uno Stato decide di offrire lavoro ha una serie di
opportunità di farlo in proprio, senza ricorrere a terzi,
magari attraverso l'utilizzazione di tali persone all'interno
di strutture produttive dello Stato, ad esempio nei cantieri
navali, come inservienti nelle caserme della polizia o dei
carabinieri, vi sono amministrativi che lavorano e dipendenti
che debbono avere anche qualità professionali di un certo
tipo; quindi, da questo punto di vista, se effettivamente si
volesse affrontare e risolvere il problema, esisterebbe una
possibilità molto maggiore di quanto non venga...
  FRANCESCA SCOPELLITI. Forse non sono disposti a fare gli
inservienti!
  SAVERIO DI BELLA. C'è chi lo può fare; io ho parlato
anche di posti di responsabilità. E' chiaro che il laureato,
su richiesta, a volte può anche fare l'inserviente, ma è
preferibile che non lo faccia.
  FRANCESCA SCOPELLITI. Non lo vuole fare!
  SAVERIO DI BELLA. Sì, ma è giusto dargli un lavoro di
natura diversa. Anche l'avvocatura dello Stato, tanto per fare
esempi pratici, per quanto riguarda le droghe, potrebbe
affidare le consulenze a tali persone - se fossero dei
laureati in chimica e sempre che avessero le necessarie
competenze professionali - invece che ad altri esperti.
  FRANCESCA SCOPELLITI. Scusa, Di Bella, tu fai i mafiosi
tutti laureati!
  SAVERIO DI BELLA. Se ragioniamo così, non ci possiamo
capire!
  GIANVITTORIO CAMPUS. Facciamo le perizie giurate!
  SAVERIO DI BELLA. Sto facendo un esempio per dimostrare
che lo Stato, se vuole, può assorbire competenze in qualunque
direzione. Se disponiamo di medici non dirò una sciocchezza
affermando che potremmo utilizzarli negli ospedali militari.
Diamo risposte, ripeto, ad ogni esigenza, proprio perché lo
Stato ha la possibilità di impiegare dal ragioniere al
laureato in elettronica, se vuole; se poi non vuole, è un
altro discorso. Diciamo che lo Stato non vuole, allora, e
scusate la digressione!
   A Palermo è accaduto un fatto gravissimo, che credo
conoscerete tutti dalla cronaca. Una signora, moglie di un
pentito collaboratore di giustizia ucciso, aveva una
macelleria; i suoi due bambini furono avvicinati da
spacciatori e per punizione resi tossicodipendenti; si ordinò,
inoltre, al quartiere di non acquistare carne in quella
macelleria. Mi sapete dire perché lo Stato non ha fatto in
modo che le caserme esistenti a Palermo (carabinieri, polizia,
finanza, esercito) si servissero di tale macelleria in maniera
da dare una risposta concreta, che non sarebbe costata una
lira in più all'erario e che avrebbe fatto capire alla gente
che lo Stato, quando vuole, sostiene anche economicamente le
attività produttive? Un altro esempio è rappresentato da
quella famosa azienda che produceva tessuti, che ha chiuso:
quante migliaia di divise consumiamo ogni anno? Costava
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molto o non c'era la fantasia necessaria per capire che se lo
Stato, dovendole acquistare, invece di farlo dalla Lebole le
avesse comprate da questa azienda le cose sarebbero andate
diversamente, per Palermo e per l'Italia? Queste cose ce le
dobbiamo dire, altrimenti sembra che i problemi non possano
essere affrontati; se si vuole, si possono affrontare e
risolvere.
   Veniamo qui alla sicurezza vera di questo tipo di persone:
essa è nell'impressione che non dobbiamo avere noi della
Commissione antimafia o quelli che hanno maggiore coscienza ma
che deve avere il cittadino comune, quello che ha paura di
uscire di casa. Lo Stato nei confronti della mafia ha una sola
politica, quella di costringerla alla resa, non ci sono spazi
per altro; se riusciremo a dare quest'impressione, nei
quartieri di Palermo non saranno più minacciati né i preti né
i volontari, non saranno più distrutte le lapidi che ricordano
i caduti nella lotta alla mafia, e probabilmente saranno
tutelati meglio non solo i collaboratori di giustizia ma anche
i parenti che restano lontani. Infatti, qui facciamo finta di
dimenticare un'altra cosa tragica: vi debbo ricordare io
l'abitudine inveterata delle cosiddette vendette trasversali?
Non riusciremo mai - dico mai -, tenendo conto delle estese
parentele e visto che ormai uccidono anche i cugini in
quindicesimo grado, a tutelare tutti, se non attraverso una
politica che riesca a far capire che la mafia viene combattuta
e che i mafiosi vengono messi in galera senza misericordia.
   Noi abbiamo strani modi di applicare le leggi. Ve ne cito
uno solo. Se non ricordo male, la Costituzione italiana vieta
l'associazione armata segreta. Cos'è la mafia? Quante armi ha?
Perché non mettiamo in galera tutti i mafiosi di cui abbiamo
conoscenza? Sono migliaia, gli elenchi sono stati pubblicati
anche dai giornali, da Epoca a tutti gli altri, e
comunque qualunque maresciallo vi sa dire quali siano, nel
proprio circondario, nella propria stazione. Mi si potrebbe
obiettare che ciò potrebbe configurare un'esagerata
utilizzazione della forza: ma noi non li arrestiamo neanche
quando sono colpevoli di delitti! Infatti, poi vengono
liberati perché vengono effettuate delle scelte che sono
ancora una volta falsamente a tutela del cittadino.
   Ognuno dice quello che pensa. Io sono tra coloro che sono
stanchi di vedere uno Stato debole, che a parole dice di voler
combattere la mafia e che in realtà dà alla popolazione
l'impressione di fare esattamente l'opposto. Ripeto, il
giudizio non lo dovete chiedere a me e agli altri che siedono
qui; siete mai andati a parlare con il pastore di Capizzi o di
San Luca, con il pastore non mafioso di San Luca (non quello
complice, colluso e 'ndranghetista)? Avete mai parlato con le
casalinghe, che aspettano con ansia il ritorno del figlio che
si reca in campagna, nelle zone di latitanza dei mafiosi, e
che non sanno se e in quali condizioni rientri a casa la
sera?
   I messaggi, quindi, vanno mandati a queste persone, perché
gli altri sono messaggi per i giornali o per chi in fondo si
trova in condizioni diverse da quelle dei cittadini che si
trovano a vivere quotidianamente in situazione di emergenza.
Finché non riusciremo a parlare con loro, inviandogli segnali
importanti e necessari e che ritengo tutti vogliamo dare,
vorrà dire che qualcosa non va, nel senso che alla nostra
volontà non corrisponde uno strumento efficace che si traduca
immediatamente nella percezione di tali cittadini in un
messaggio inequivocabile di fermezza e di continuità in questa
lotta.
   Vorrei sottolineare un altro aspetto, che però non so se
sia di vostra competenza. Per quanto riguarda la distinzione
tra i pentiti e coloro che sono infiltrati della mafia
all'interno dei pentiti, con quali cautele viene effettuata?
Siete riusciti ad individuarli o comunque avete posto
l'attenzione necessaria per cercare di capire tale aspetto del
problema, coadiuvando in questo la magistratura e le altre
forze di repressione?
   Per ciò che concerne l'adeguamento dei fondi, vista la
crescita esponenziale che tra il 1992 e il 1994 emerge dalle
cifre, esso è automatico o occorre una normativa che da questo
punto di vista aiuti lo Stato a disporre degli strumenti
giuridici e dei
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finanziamenti indispensabili per andare avanti? Oppure, anche
su questo terreno, almeno da quanto mi è sembrato di capire,
esistono - chiamiamoli così - ritardi involontari, nel senso
che purtroppo a volte le cose vanno più veloci delle
istituzioni, per cui poi si verificano contrattempi che
nessuno desidera e che tuttavia possono pesare sulla capacità
pratica di gestire questo settore essenziale del servizio?
   Mi interesserebbe inoltre sapere, proprio alla luce della
delicatezza anche psicologica di alcuni di questi aspetti, se
il personale che lavora presso questo servizio riceva un
addestramento particolare per quanto riguarda non solo le
capacità professionali sul terreno militare ma anche quelle di
raccordo umano necessarie in questi casi, avendo a volte a che
fare con donne e bambini e con persone impaurite.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Signor presidente, mi preme ribadire, se è
possibile, che il cambiamento dell'identità è il dato base
essenziale, assoluto per poter garantire a queste persone la
sicurezza. Infatti, soltanto il cambiamento dell'identità,
soprattutto in un paese come il nostro, ad alta densità di
popolazione e contraddistinto da spazi territoriali
sufficientemente ristretti, può garantirci nell'attuazione dei
sistemi di sicurezza. Non vi è alcuna possibilità diversa,
soprattutto per quel complesso di motivi che abbiamo cercato
di esporre, e questa è la vera problematica sollevata adesso
dai collaboratori della giustizia. Infatti, oltre a dare un
documento di copertura, come ha spiegato in precedenza il
generale Valentini, è assolutamente prioritario poter offrire
tutti gli altri strumenti come, per esempio, il codice fiscale
o quant'altro possa servire all'avvio di un'attività
lavorativa o ad un reinserimento totale nel contesto sociale.
Mi permetto di ribadire che nell'arco di pochissimo tempo si
arriva alla definizione del regolamento, con tutte le
complicazioni che, come ha rilevato il senatore Di Bella,
esistono in una problematica così complessa.
   Per quanto riguarda il lavoro, si tratta naturalmente di
un fatto conseguente: la possibilità di avere un'identità
diversa facilita l'inserimento nel mondo del lavoro.
   I fondi sono sempre stati sufficienti e di fronte alle
esigenze sono stati automaticamente adeguati con i meccanismi
previsti dal Ministero del tesoro.
   Vorrei permettermi di fare un'osservazione: fino a oggi
non vi è stata - lo cito come dato oggettivo - alcuna
esposizione a rischio o a pericolo per nessuno dei testimoni
che sono stati protetti, per cui, nonostante le deprecabili, e
qualche volta considerate non sufficientemente adeguate,
condizioni di operatività del servizio di protezione delle
forze di polizia italiane, ad oggi non si registra alcuna
lesione o aggressione diretta in danno di un testimone né di
un suo familiare.
   Tra l'altro, devo dire che, tranne due casi, che si sono
risolti entrambi in tempi abbastanza rapidi (quelli di Ierinò
e di Di Matteo), non si sono verificate neanche evasioni in
numero notevole da parte di detenuti in condizioni di
detenzione extracarceraria, tenuto anche conto che quel tipo
di detenzione tende a privilegiare la tutela del detenuto e
non la garanzia che non evada. Peraltro, le carceri, che sono
costruite in modo tale da impedire l'evasione, registrano
comunque evasioni, per cui quei due casi specifici
verificatisi non devono rappresentare un dato particolarmente
preoccupante.
   La possibilità che vi siano falsi testimoni o testimoni
infiltrati, come ha detto il senatore Di Bella, è un problema
che riguarda l'attività investigativa e non quella di
sicurezza; finora abbiamo riferito in ordine ai sistemi di
protezione, ossia alla polizia di sicurezza, non alla polizia
investigativa. Quello è un contesto meramente processuale, che
deve vedere impegnato il magistrato che svolge l'attività
inquirente e la polizia giudiziaria che svolge per suo conto
attività di indagine sulle dichiarazioni testimoniali.
   Infine, quello che presta la propria opera nel Servizio
centrale di protezione è
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personale di polizia; nel caso specifico (rispondo con questo
alla domanda riguardante la specializzazione con riferimento
all'aspetto della psicologia), i medici di polizia psicologi,
per esempio, svolgono la loro attività anche al servizio di
questa struttura.
  NICOLA PASETTO. Mi scuso se mi limiterò a porre domande
molto precise e tecniche senza lasciarmi andare a
considerazioni più generali che ci porterebbero molto lontano.
La prima domanda è la seguente: vorrei sapere se esistano
categorie diversificate di pentiti e di collaboratori o
familiari sotto tutela, ovvero se essi siano gestiti tutti dal
Servizio centrale oppure se esistano determinate categorie
(cito l'esempio concreto di Verona, la mia città) di
collaboratori che non sono gestiti dal Servizio centrale.
Recentemente a Verona...
  PRESIDENTE. Se c'è qualcosa di riservato...
  NICOLA PASETTO. Non farò assolutamente nomi di
collaboratori, ma la questione è apparsa su tutti i giornali,
per cui non rivelo alcun segreto. La magistratura ha condotto
una grossa operazione nell'ambito della lotta al traffico di
stupefacenti, nel corso della quale sono state arrestate oltre
110 persone (si tratta dell'operazione "Arena"). Vi sono stati
diversi collaboratori che tra l'altro hanno mandato in tilt la
questura di Verona (ecco perché pongo questa domanda, anche in
relazione alla dipendenza del personale). Infatti,
numerosissimi agenti della polizia di Stato sono stati
impiegati per la tutela di questi collaboratori a discapito
dei servizi di ordinaria sicurezza: in questa fase, a Verona
gira una volante di notte e due o al massimo tre durante il
giorno a causa di questa emergenza.
   Mi domando allora se esistano categorie diverse o se anche
questi collaboratori siano gestiti direttamente dal servizio
centrale. Desidero inoltre conoscere il rapporto, se esiste,
tra personale impiegato e persone tutelate: infatti, vorrei
sapere che cosa significhino 3.853 persone in termini di
impiego di personale e se siano impiegate tutte le armi, ossia
l'Arma dei carabinieri e la Guardia di finanza oltre alla
polizia di Stato. In rapporto a questo, vorrei sapere come
vengano individuati i soggetti impiegati in questo tipo di
servizio: vi è una rotazione fra tutto il personale? C'è una
determinata categoria? Vi sono agenti che presentano una
domanda specifica per partecipare a questo tipo di servizio?
Tale aspetto si collega al problema della conoscenza del fatto
da parte di un numero sempre maggiore di persone: infatti, da
quanto ho compreso, sempre con riferimento a questa vicenda
specifica, veniva impiegato di fatto a rotazione un po' tutto
il personale della questura di Verona. Ciò implica di fatto
una propagazione indubbiamente gigantesca di tutte queste
notizie.
   Desidererei inoltre sapere quale sia la distribuzione per
regione di questo fenomeno, se è possibile quantificarlo,
nonché quanti di questi soggetti restino nella regione di
appartenenza e quanti invece siano trasferiti in altra
regione. Non so, peraltro, se esista un criterio di
individuazione del luogo di accoglimento: alcuni di loro sono
alloggiati in strutture della polizia o comunque delle forze
dell'ordine (mi è capitato di incrociarne uno nel corso di una
visita che ho effettuato recentemente) ed altri sono invece
collocati in abitazioni normalissime. Vorrei quindi sapere se
esista al riguardo un criterio riferito, per esempio, al grado
di giudizio o al livello di collaborazione che questi soggetti
stanno prestando con le autorità.
   Per quanto riguarda il criterio relativo al cambiamento di
identità, desidero sapere se siano già determinati o saranno
determinati i tempi e i criteri di individuazione del momento
in cui ciò deve avvenire. Non credo infatti che appena una
persona comincia a collaborare gli sia già assicurato il
cambiamento di identità; ritengo che vi sia una selezione,
anche perché immagino che vi sarà un momento di verifica del
tipo di collaborazione che questa persona presta, per cui la
fattispecie non riguarderà tutti quelli che arrivano ma si
seguirà una certa gradualità. Vorrei
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quindi sapere se esista questo tipo di criteri.
   Desidero inoltre sapere, se è possibile entrare nel
dettaglio, come si sviluppi la fase successiva alla
collaborazione processuale, ossia il momento nel quale il
collaboratore esaurisce la propria funzione processuale di
collaborazione: con una sentenza passata in giudicato viene
meno la funzione relativa a quella determinata vicenda in
ordine alla quale il collaboratore è a conoscenza dei fatti,
per cui egli esce completamente dalla fase di collaborazione.
Che tipo di rapporto e di collegamento  egli continua ad avere
con la struttura nella fase successiva?
   In prospettiva, quando questo regolamento verrà
perfezionato, con che modalità resterà collegato con la
struttura di protezione dello Stato?
   Sappiamo che attualmente esiste una mimetizzazione per
così dire relativa ed a volte addirittura controproducente
perché i casi di servizio prestato in divisa o con auto della
polizia sono così frequenti da vanificare qualsiasi tipo di
segretezza.
   Vorrei infine sapere se nella definizione di questo
regolamento si è fatto riferimento ad esperienze straniere, in
quale misura e con quale possibilità di raccordo con il nostro
sistema, considerata la differenza di queste realtà rispetto a
quella italiana.
   Aggiungo solo due brevi considerazioni. A mio avviso, più
si va verso un sistema che garantisca il minor numero di
persone collegate ai collaboratori più la loro sicurezza è
garantita. Anche per quanto riguarda il caso citato dal
senatore Di Bella, è vero che il signor X nella sua realtà, a
Locri, è mimetizzato in termini di cognome, però è bene
identificato in termini di personalità; ma lo stesso signor X,
trasferito a Verona, viene facilmente individuato proprio
perché è inserito in una realtà diversa. A mio avviso, perciò,
sarebbe consigliabile un cambiamento radicale di identità.
   Mi scuso per aver posto una serie di domande precise alle
quali, se possibile, vorrei avere risposte altrettanto
precise.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Non so cosa intenda l'onorevole Pasetto
quando si riferisce a categorie diversificate di
collaboratori.
  NICOLA PASETTO. Vorrei sapere se la gestione dei
collaboratori è sempre fatta direttamente ed esclusivamente
dal Servizio centrale di protezione o se dipende, per esempio,
dal questore.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Il Servizio centrale di protezione, in
attuazione di una legge del 1982, si fa carico di attuare un
programma di protezione che ha due aspetti, uno di carattere
tutorio, uno di carattere assistenziale.
   Per quanto riguarda il primo aspetto, il Servizio centrale
si avvale delle forze di polizia esistenti nelle varie
provincie le quali, coordinate dal prefetto e in sede di
comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica,
hanno l'incarico di attuare i servizi di tutela. In periferia,
a Verona per restare ad un caso a lei noto, i servizi di
protezione vengono svolti dalle tre forze di polizia in un
quadro di coordinamento disposto dal prefetto. Se il prefetto
di Verona dà mandato ad una forza di polizia di predisporre ed
attuare i servizi di protezione, chiede alla stessa forza di
polizia la nomina di un referente, un funzionario o un
ufficiale, che poi corrisponde con il Servizio centrale di
protezione ed al quale il collaboratore si rivolge per le sue
richieste ed i suoi problemi. Ciò non vuol dire che il
collaboratore vede il proprio referente solo quando ha bisogno
di qualcosa, perché spesso il referente di propria iniziativa
cerca di contattare in maniera più o meno concordata il
collaboratore di giustizia ed i suoi familiari, se è
necessario.
   Quindi, non è il servizio con proprio personale che attua
in tutto il territorio nazionale la protezione, ma provvede
tramite i referenti ad attuare anche la seconda parte del
mandato che è quella assistenziale.
   Per quanto riguarda il rapporto tra i collaboratori ed il
personale del Servizio
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centrale di protezione, è facile ricavare il dato numerico: i
collaboratori sono 921 ed il personale del servizio conta, me
compreso, 191 unità. Bisogna però tenere conto di tutte le
strutture periferiche coinvolte in questa attività, cioé le
questure, i comandi provinciali dell'Arma dei carabinieri e
spesso anche della Guardia di finanza di tutto il territorio
nazionale.
   I criteri di assegnazione dei collaboratori nelle diverse
località protette sono dettati da una serie di esigenze;
alcune volte ci vengono segnalate problematiche particolari
dagli stessi magistrati inquirenti, altre volte siamo noi che
ci facciamo parte diligente e cerchiamo, per esempio, di non
mandare un calabrese in Piemonte o in una certa zona della
Liguria, perché sappiamo che in queste zone i calabresi da
molto tempo svolgono certe attività. In Lombardia, invece, vi
sono sacche in cui operano diversi siciliani di una
determinata provincia, in Emilia vi sono sacche in cui operano
siciliani di un'altra provincia, anzi prevalentemente di un
comune salito quest'anno agli onori della cronaca perchè è il
paese d'origine di Totò Riina. Quindi evitiamo di mandare i
siciliani dove stanno i loro corregionali, comprovinciali o
compaesani. Naturalmente, a volte incontriamo difficoltà.
   Quando comandavo la regione Marche - per citare un esempio
concreto - per incarico del Servizio centrale di protezione
(di cui ancora non facevo parte) abbiamo dovuto rapidamente
spostare un collaboratore e la sua famiglia poiché questi
aveva segnalato al suo referente di aver incontrato suoi
concittadini che si erano recati ad Ascoli Piceno a far visita
al figlio che lì prestava servizio militare e più precisamente
il primo periodo, quello del CAR. A volte siamo costretti a
ricorrere a strutture alberghiere, anche in considerazione del
poco tempo di cui disponiamo per trasferire un collaboratore e
la sua famiglia. In un'occasione il trasferimento ha coinvolto
26 persone più il collaboratore per il quale, essendo ancora
detenuto, vi era una struttura protetta di altro tipo, e siamo
dovuti intervenire nel giro di 48 ore. Naturalmente ci siamo
appoggiati a strutture alberghiere, anche se cerchiamo di
ricorrere a soluzioni di questo genere solo per pochi giorni.
Alla fine, sono stati tutti sistemati in appartamenti presi in
affitto dal Ministero dell'interno a questo scopo, quindi con
i problemi di cui si è parlato prima.
   La questione del cambio delle generalità è ancora in
divenire; le sue considerazioni verranno senz'altro tenute
presenti e credo che le problematiche sollevate siano comunque
già sottoposte all'attenzione di altri. E' senz'altro nostro
interesse che chi ne ha la competenza ponga la massima
attenzione possibile a questi aspetti, perché così facendo,
probabilmente, avremmo strumenti molto più precisi di quelli
di cui attualmente disponiamo e potremmo svolgere le nostre
funzioni con maggiore soddisfazione da parte nostra e da parte
dei collaboratori di giustizia, il che ci consentirebbe di
rendere un migliore servizio allo Stato.
   Per quanto riguarda la mimetizzazione dei collaboratori,
vorrei aggiungere un solo particolare: noi dobbiamo fare
affidamento anche sulla condotta dei singoli collaboratori,
altrimenti i nostri sforzi, senatore Di Bella, non servono a
nulla. Cito per esempio il caso di un collaboratore di
giustizia di grosso spessore che, nel giro di tre mesi scarsi,
è stato necessario spostare tre volte, perché non perde
occasione per evidenziarsi. Altri soggetti dicono un po' a
tutti di essere collaboratori di giustizia, quasi fosse una
benemerenza o un mestiere. Quindi, la protezione fa
affidamento anche sulla consapevolezza del pentito di dover
essere egli stesso il primo custode della sua vita, dei suoi
beni e dei suoi familiari.
  SAVERIO DI BELLA. Proprio per questo il cambio di
identità totale mi sembra pericoloso.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Su questo non intervengo, perché ne ha
parlato ampiamente il prefetto De Gennaro, per cui chiedo che
mi sia consentito di astenermi dal rispondere a queste
obiezioni.
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  PRESIDENTE. Si sta parlando, in questo momento, al
passato, o già per ciò che si prevede per l'immediato
futuro?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale di
protezione. Io ho parlato sempre del presente.
  PRESIDENTE. Quindi non si prevede, per l'immediato
futuro, la possibilità di cambiamenti?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Io non ne ho parlato.
  PRESIDENTE. A parte il fatto che ne abbia parlato o
meno, è possibile che ci siano cambiamenti di qualche tipo,
oppure no?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Sono quelli delineati dal prefetto De
Gennaro.
  PRESIDENTE. Vorremmo allora qualche precisazione in
proposito.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Signor presidente, il generale Valentini,
nelle sue risposte, ha fatto riferimento puntuale e preciso
agli accadimenti attuali. Per quanto riguarda Verona, sono a
conoscenza del caso di cinque collaboratori che, in quel
momento contingente, erano in detenzione extracarceraria. Per
quanto riguarda, appunto, la detenzione extracarceraria, non
verrà mai eliminato il dispendio di risorse in termini di
custodia, perché quest'ultima è prevista dalla legge. Può
essere soltanto effettuata una valutazione da parte del
magistrato, nel momento in cui fa richiesta espressa di quel
tipo di detenzione per motivi di sicurezza.
   Mi permetto, quindi, di distinguere: il regime attuale del
modello di sicurezza si basa, come ha ben precisato il
direttore del servizio, sull'interazione tra le procedure
applicative del programma di protezione fissato dalla
commissione attraverso il Servizio di protezione, che poi
viene espletato sul territorio dalle forze di polizia. Questo
sistema è quello al quale possiamo apportare delle modifiche,
cercando quanto più possibile, anche attraverso strumenti
quali il cambio delle generalità, di evitare una conoscenza
diffusa dell'identità del soggetto, che non ha bisogno,
perciò, di una presenza fisica di protezione.
   Diverso è il caso, invece, del detenuto non assoggettato a
regime carcerario, perché essendo necessaria per legge la
custodia è chiaro che non si potrà eliminare la vigilanza
fisica nei confronti di tale soggetto. Tanto meno si può
pensare, in quella fase, all'applicazione di una modalità
diversa, perché quest'ultima, intesa come reintegrazione nel
contesto sociale, può avvenire soltanto quando vi sia la
restituzione ad una vita normale e non da detenuto.
   Vorrei, in particolare, integrare la risposta del generale
Valentini all'onorevole Pasetto: il sistema di protezione
scatta dopo che sia stato approvato dalla commissione il
programma di protezione. Giustamente, infatti, è stato chiesto
quando vengano adottate le misure di protezione vera e
propria, compresa l'eventuale modifica delle generalità:
ebbene, ciò avviene quando la commissione centrale di
protezione, accolta la richiesta del magistrato del pubblico
ministero in ordine all'opportunità di assoggettare a
protezione un testimone o un collaboratore (il che significa
che ne è stata verificata l'attendibilità), decide in merito
all'applicabilità del programma di protezione. Soltanto a quel
punto scatta la competenza dell'organo esecutivo ad adottare
le misure consentite dalla legge.
  GIANVITTORIO CAMPUS. Data l'ora, non mi dilungherò nei
ringraziamenti ai nostri due ospiti, anche perché, per quanto
riguarda il dottor De Gennaro, ho già avuto modo di
rivolgergli i miei ringraziamenti non tanto per la sua precisa
esposizione, quanto per ciò che fa nel combattere la mafia,
che credo sia molto più importante.
   Desidero muovere da una brevissima premessa, che mi piace
sottolineare, dato
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il clima che si è creato, in cui, chissà perché, si vuole
sempre far aleggiare l'incubo che qualcuno voglia fermare la
lotta alla mafia. Il trend positivo, cui voi stessi
avete accennato, facendo riferimento all'aumento del 70 per
cento dei collaboratori di giustizia, credo sia uno degli
indicatori più marcati di una nuova sicurezza, di una nuova
morale e - credo di poter dire -, di un rinato senso dello
Stato con la S maiuscola. Questo credo sia già qualcosa di
positivo che sta avvenendo in Italia ed io so a cosa può
essere dovuto, anche se alcuni continuano a negarlo.
   Per quanto riguarda, più specificamente, la vostra
presenza in questa sede, credo che in tutte le vostre risposte
ed anche in tutte le domande dei colleghi sia stato rimarcato
un aspetto, che investe la funzione principale che la nostra
Commissione deve svolgere, ossia quella di trait d'union
tra voi, che siete impegnati direttamente sul campo, ed il
Parlamento. La nostra funzione è quindi quella di fornirvi gli
strumenti normativi, modificando le leggi vecchie e
proponendone di nuove, che vi diano la possibilità di essere
incisivi nella vostra azione. Il generale Valentini ha
giustamente ricordato che i tecnici non possono modificare le
leggi vigenti, per cui il pentito passa attraverso varie fasi
- tipo atti notori - ed il suo nome viene diffuso a vari
livelli dell'amministrazione dello Stato. Ebbene, se vi è la
necessità di una legge in proposito ditecelo: voi siete i
tecnici, noi il potere legislativo, quindi siamo obbligati
(moralmente, oltre che per l'impegno assunto nei confronti dei
nostri elettori, quindi dei cittadini) a proporre queste leggi
al Parlamento, il quale ha il dovere di portarne a conclusione
l'iter.
   Credo quindi sia questo l'aspetto più importante delle
audizioni che stiamo svolgendo. Chiaramente, nessuno pensa che
possiate venire in questa sede con la "lista della spesa" -
anche se sarebbe auspicabile, perché guadagneremmo del tempo
-, però è opportuno che tra voi e la Commissione antimafia si
instauri un rapporto di collaborazione, più che un clima di
inquisizione, che molto spesso ho sentito aleggiare in
quest'aula, per cui si è detto che, più che di audizioni,
spesso si tratta di udienze in tribunale, con i giudici da una
parte e gli imputati dall'altra...
  ALESSANDRA BONSANTI. Basta, faccia la domanda, questo è
un comizio!
  PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, abbiamo consentito a
tutti di parlare.
  ALESSANDRA BONSANTI. Due comizi sono troppi!
  GIUSEPPE SCOZZARI. Dopo due comizi, faccia pure la
domanda!
  ALESSANDRA BONSANTI. Faccia "aleggiare" la sua
domanda.
  PRESIDENTE. Colleghi, per cortesia: a tutti è stato dato
il tempo per intervenire tranquillamente.
   Senatore Campus, la prego di concludere il suo intervento
(Commenti dei deputati Bonsanti e Scozzari).
  GIANVITTORIO CAMPUS. Per dovere di ospitalità e di
correttezza verso chi effettivamente lavora, mi fermo qui.
Grazie...
  GIUSEPPE SCOZZARI. Ma la domanda?
  GIANVITTORIO CAMPUS. Preferisco non farla.
  RENATO MEDURI. Rivolgerò ai nostri interlocutori alcune
brevi domande, accompagnate da alcune considerazioni,
anch'esse brevissime.
   Nella gestione dei collaboratori di giustizia, a loro
garanzia, occorrono segretezza e sicurezza: si possono
conciliare tali esigenze con casi come quelli ricordati
dall'onorevole Caccavale di un collaboratore di giustizia
ospitato in un piccolo paese del Lazio (mi pare Lavinio)?
  PRESIDENTE. Non occorre ripeterlo.
  RENATO MEDURI. Personalmente, non conoscevo neanche il
nome di questo paese, per cui credo che si tratti davvero di
un piccolo centro. La mia prima domanda,
Pagina 623
quindi, è la seguente: non sarebbe il caso di pensare
sempre ad un'allocazione dei collaboratori di giustizia in
grandi città? Ritengo, infatti, che più grande è il centro
abitato, più è difficile la localizzazione di una persona.
   Sempre a proposito della segretezza e con riferimento alla
certezza che quanto si dice corrisponde a verità, quanto può
durare la gestione di un collaboratore di giustizia in termini
reali? Voglio dire: è possibile che una di queste persone
scopra delle verità a distanza, per esempio, di un anno, o di
sei mesi, dall'inizio della sua collaborazione? Ritengo che la
collaborazione si debba estrinsecare globalmente in tempi
accettabili, prima di tutto perché è dubbio che si possa
ricordare una verità dopo tanto tempo e in secondo luogo
perché più è prolungato il periodo della gestione, più diventa
difficile mantenere la segretezza della persona e della sua
localizzazione.
   A mio avviso, il problema del cambio di targa è davvero
molto riduttivo: si può vendere la macchina e ricominciare
daccapo. E ritengo che si debba ricominciare daccapo, non vi è
dubbio, con il cambio totale delle generalità, e in qualche
caso, credo, anche dei connotati (possibilmente non per le
botte!) (Si ride). A parte i sorrisi di qualche collega,
il problema si evidenzia in base a quanto è stato
precedentemente detto, per esempio in relazione alle persone
che si possono incontrare.
   Non credo, poi, che si possa pensare di sfruttare le tante
omonimie, come ipotizzava il collega Di Bella: il discorso
potrebbe anche avere una sua validità, ma quanto è spesso
accaduto ci fa pensare che mantenere l'identità delle
generalità sia assolutamente sconsigliabile, ed addirittura
negativo. Tra l'altro, non sempre tutti coloro che sono
preposti all'amministrazione della giustizia e sono chiamati a
far rispettare la legge sono assolutamente ineccepibili: può
accadere, ed è accaduto, qualcosa di diverso. E' anche
avvenuto che, per omonimie, persone dabbene sono andate a
finire in galera e ci sono rimaste per tanto tempo: e non
sempre si è trattato di errori. Ho un amico, che si chiama
Andrea Ruga (il collega Di Bella, che conosce bene i cognomi,
sa che questo nome e cognome sono a grande rischio in un paese
come Monasterace): ebbene, il mio povero amico, non mafioso ma
omonimo di un capo mafia, ha addirittura marcito nelle carceri
per due mesi, fino a quando la Corte di cassazione non ha
chiarito l'equivoco. Un altro giudice, fazioso quanto il primo
(perché si è trattato di giudici faziosi e, in qualche caso,
di faide fra giudici), ha addirittura assunto un'altra
iniziativa contro l'amico Andrea Ruga, a causa dell'omonimia,
mandando una perquisizione in un certo periodo, per cui ha
distrutto la salute della moglie...
  PRESIDENTE. Qual è la sua domanda?
  RENATO MEDURI. Riguarda la conferma della mia opinione
che sia un grave errore pensare di mantenere invariate le
generalità dei collaboratori di giustizia.
  PRESIDENTE. Mi sembra che vi sia già stata una risposta
sul problema del cambiamento di nome; comunque, se il dottor
De Gennaro vuole aggiungere qualcosa, può farlo.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Signor presidente, a questo proposito non
posso che confermare il concetto già espresso. Vorrei
sottolineare un aspetto: la grande città, naturalmente, offre
delle possibilità migliori di mimetizzazione, ma non è sempre
detto, perché sono stati riscontrati determinati problemi per
la protezione anche nelle grandi città. Ogni caso, quindi, è
contingente e questo conferma la necessità del cambio delle
generalità: vi sono casi nei quali esso è assolutamente
necessario. Vivere in una grande città comporta qualche volta
l'interazione con istituzioni pubbliche e con qualsiasi altra
forma di comunicazione con l'esterno, per cui soltanto
generalità diverse garantiscono la possibilità di ridurre -
non eliminare - il rischio.
  RAFFAELE BERTONI. Sono d'accordo con il senatore Campus,
quando afferma
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che è opportuno che funzionari come De Gennaro e Valentini
sottopongano alla nostra attenzione le loro idee su eventuali
modifiche legislative: una è proprio quest'ultima in materia
di cambio delle generalità, nel cui ambito, secondo la loro
impostazione, è necessario un intervento legislativo.
Analogamente, vi potrebbero essere anche altre proposte.
   Vorrei dire alcune cose con la franchezza che deriva
dall'ammirazione che ho per De Gennaro e Valentini (con
quest'ultimo ho collaborato tanti anni fa) di cui conosco la
lealtà verso lo Stato e l'impegno antimafia che ambedue
svolgono e in cui entrambi credono. Ho rilevato davanti a
questa Commissione, così come è avvenuto in occasione di
audizioni di altri funzionari, un tantino di... renitenza (non
di reticenza, per l'amor di Dio) nel dire tutto quello che si
sta facendo e che si vorrebbe fare, come se la Commissione
antimafia non fosse un interlocutore privilegiato,
istituzionale a cui dovreste doverosamente rispondere con
franchezza su tutti i quesiti che vi vengono posti e che
rientrano nell'ambito delle vostre competenze.
   Si è parlato del regolamento che si sta predisponendo (il
prefetto De Gennaro ha detto che è questione di pochi giorni),
ne avete indicate le linee, ma non siete entrati su alcuni
problemi specifici, che pure vi sono stati posti dai
commissari, come se la Commissione potesse rappresentare un
ostacolo alle elaborazioni che spettano al potere esecutivo.
Non è così! Ad esempio, non avete detto con chiarezza se nel
regolamento, come potreste fare, intendete operare una
distinzione tra il collaboratore, il pentito ed il testimone.
E' una distinzione importantissima sotto tutti i profili che
sono stati segnalati. Inoltre, non avete risposto ad una
questione che avreste potuto affrontare con il regime
normativo vigente, come è stato segnalato dai colleghi Di
Bella, Grasso, Scozzari. Di fronte a testimoni che perdono la
loro vita normale nel momento in cui sono esclusi dal circuito
produttivo in cui operano, che vedono messi in pericolo se
stessi e gli altri, che non possono uscire nemmeno di casa
perché indicati a vista come esseri pericolosi invece che
persone che aiutano veramente lo Stato senza aver fatto nulla
di male, dovete dirci ciò che vi proponete di fare o che
potete fare o che non potete fare perché qualcuno ve lo
impedisce. Un'indicazione, ad esempio, potrebbe essere quella
di invitare a fare i propri acquisti nella macelleria di cui
parlava il senatore Di Bella tutte le persone a disposizione
dello Stato (militari e altri), per far capire alla gente che
quel negozio dovrebbe essere privilegiato e non escluso. Su
questo, francamente, non mi sembra che in questa sede... Mi
rendo conto che dipendete dal Governo e non dal Parlamento;
tuttavia, avremmo voluto sentire con la massima franchezza e
libertà ciò che vi proponete di fare e perché non lo fate.
Anzi, se posso essere più esplicito, direi che avete il dovere
di farlo perché la Commissione antimafia non è una sede
colloquiale. Certamente non siete testimoni ma persone che
ricoprono un determinato ruolo e per questo siete ascoltati
dalla Commissione, che non deve essere considerata una sede
colloquiale dove si può dire e non dire o dire fino a quando
si ritiene di dover dire. Vi sono state poste domande
specifiche e purtroppo reiteratamente non avete risposto.
   Su due questioni desidero tornare. Secondo il vostro
giudizio (mi rivolgo in particolare al prefetto De Gennaro)
attualmente, non nell'ultimo anno, la curva dei pentiti è in
ascesa, è ferma o secondo il vostro parere tende a diminuire?
Questa è una domanda specifica che vi è stata rivolta dal
collega Tripodi, alla quale non è stata data risposta. Si
tratta di un giudizio, ovviamente, ma proprio perché non siete
testimoni, un giudizio lo avreste potuto esprimere.
   La seconda questione si riferisce al problema degli
infiltrati. Il pentito infiltrato dalla mafia - Valentini lo
sa meglio di me - può essere utilizzato dalla mafia stessa per
screditare i pentiti a proprio vantaggio, ma può rappresentare
anche uno strumento che viene propagandato come possibile per
screditare i pentiti non da parte della mafia ma da chi non
considera
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bene i pentiti. Faccio l'esempio di Tiziana Maiolo.
   Il prefetto De Gennaro queste cose le conosce e può
parlarcene, sia pure riservatamente. Vi risulta l'esistenza di
pentiti che, al di là del fatto di essere considerati
inattendibili, poco credibili, parzialmente credibili, siano
stati inviati dalla mafia per ricoprire questo ruolo?
  PRESIDENTE. Accogliendo la richiesta del dottor De
Gennaro, se non vi sono obiezioni proseguiamo i nostri lavori
in seduta segreta. Dispongo la disattivazione del circuito
audiovisivo interno.
    (La Commissione procede in seduta segreta).
  PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori in seduta
pubblica. Dispongo la riattivazione del circuito audiovisivo
interno.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Se mi è consentito, vorrei precisare che non
vi è né da parte mia né tanto meno da parte del generale
Valentini alcuna forma di renitenza a rispondere.
Naturalmente, le risposte che possiamo offrire concernono
fatti concreti e attuali dei quali abbiamo una conoscenza
immediata e diretta.
   In virtù delle funzioni istituzionali che svolgo ho una
conoscenza immediata e diretta del fatto che il regolamento è
in fase di definizione e che verrà pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale. Si tratta di un decreto ministeriale
adottato, di concerto, dai Ministeri dell'interno e di grazia
e giustizia. Da tempo se ne sta occupando un gruppo di lavoro.
Vi sono dei tecnici, compresi quelli naturalmente del
Ministero dell'interno, i quali stanno offrendo la loro
collaborazione (vi sono anche dei magistrati) per la
definizione del suddetto regolamento, che è in fase di
ultimazione.
   Non ho un'immediata conoscenza del contenuto di tale
regolamento, di cui comunque può essere richiesta copia, visto
che si tratta di un documento pubblico e non riservato. In
questa materia, senatore Bertoni, molte cose sono riservate
perché correlate alla necessità di tutela dell'incolumità
delle persone che ne beneficiano. Però, per quella piccola
parte di competenza che mi è stata data, ho sostenuto che, nei
limiti del possibile, le norme debbono essere pubbliche perché
si deve sapere come si applica il meccanismo di protezione,
proprio per non lasciare dubbi interpretativi. Ciò che invece
è riservato attiene ai fatti più specifici, quale, per
esempio, quello relativo alle modalità con cui apporre le
generalità su un documento. A tale riguardo, il generale
Valentini ha menzionato alcuni dei problemi esistenti.
   Al quesito formulato dal senatore Di Bella rispondo che
non è un problema nostro quello di risolvere concretamente
alcune problematiche. Ripeto, da parte nostra, come servizio
di protezione, i mezzi di soccorso e di aiuto per persone che
hanno subìto...
  SAVERIO DI BELLA. Il Ministero dell'interno comanda
decine di caserme in tutta Italia. Questa è una direzione di
tipo amministrativo...
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Senatore, le chiedo scusa ma in questo momento
non sono a conoscenza di come funzionino i magazzini, però
probabilmente ci sono delle procedure, delle norme, dei
contratti di appalto; c'è la contabilità di Stato. Insomma vi
è tutta una serie di normative che credo debbano essere...
  SAVERIO DI BELLA. I mafiosi lo sanno meglio di noi
perché molte delle caserme sono servite da mafiosi.
  ALBERTO SIMEONE. Lo denunci!
  SAVERIO DI BELLA. Lo sto denunciando. Cos'è questo?
Stiamo chiacchierando?
  ALBERTO SIMEONE. Lo denunzi nelle forme più efficaci
(Commenti).
  PRESIDENTE. Scusate, ma questo non dipende dal prefetto
De Gennaro.
Pagina 626
   ALBERTO SIMEONE. Va denunciato all'organo giudiziario e
non ad una Commissione che è di natura diversa, di natura
politica e non giudiziaria.
  SAVERIO DI BELLA. Ma questa è una Commissione
d'inchiesta. Chiedo formalmente che la Commissione, attraverso
la presidenza, compia - quando lo riterrà opportuno, spero
presto - un'indagine per quanto riguarda forniture e servizi a
tutti gli organi dello Stato: da quelli militari a quelli
civili.
  PRESIDENTE. Va bene.
  LUIGI RAMPONI. A proposito di questa inchiesta, ricordo
che in materia di appalti esiste la certificazione
antimafia.
  SAVERIO DI BELLA. Non serve a niente!
  LUIGI RAMPONI. Se non serve a niente allora non serve a
niente nemmeno l'inchiesta. Trovavo giustissimo quello che
stavi dicendo, ossia di aiutare in qualche modo, anche al di
fuori o meno delle regole sull'appalto... ma fare una
inchiesta nei confronti di coloro che hanno vinto gli
appalti... Ci troviamo di fronte a tutta una serie di
dichiarazioni di non coinvolgimento. Quindi faremmo questa
inchiesta per scoprire che cosa?
  GIUSEPPE ARLACCHI. La certificazione antimafia è stata
negata in un numero ridottissimo di casi. E' uno strumento
notoriamente inutile.
  LUIGI RAMPONI. Allora, se è così, dovremmo fare
l'inchiesta su chi rilascia le certificazioni.
  PRESIDENTE. Discuteremo in un altro momento su come fare
questa inchiesta.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Ho fornito i dati sul numero dei testimoni che
collaborano anche se non ho fatto un diagramma per stabilirlo
esattamente. Non so se su questo punto il generale Valentini
abbia dei dati più puntuali, però tra il 1^ novembre 1993 e il
1^ novembre 1994 si registra un incremento del 70 per cento.
Posso comunque fornire tutte le indicazioni (anche perché
abbiamo le date precise): il Servizio di protezione è in grado
di offrire, momento per momento, un diagramma esatto.
  PRESIDENTE. Ce lo farà avere con la relazione.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Nella relazione, che sarà puntuale in ordine
alle diverse e precise domande che sono state formulate dai
membri della Commissione, vi sarà sicuramente anche questa
risposta.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Al 1^ gennaio 1994 i collaboratori erano
610; al 1^ novembre 1994 sono 921. Vi è quindi una crescita.
Facendo riferimento alla mia personale esperienza da quando ho
assunto la direzione del servizio, ovvero dal 1^ agosto ad
oggi, l'incremento è stato pari, negli ultimi 3 mesi, a 30
collaboratori al mese.
  PRESIDENTE. Vorrei tornare per un momento su una domanda
che è già stata fatta, se cioè sia vero che esistono alcuni
problemi di reticenza o - come si è detto - di renitenza e che
vi siano altre cose che si possono dire ma che non lo sono
state. In particolare, questo regolamento - di cui ha già
parlato il ministro dell'interno - è un atto di cui potete
parlare, illustrandone alcuni aspetti, oppure non è possibile
farlo fino a quando esso non venga emanato? Lo chiedo perché
altrimenti rimane una certa ambiguità su questa futura
normativa di cui sentiamo parlare ormai da quasi due mesi.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Signor presidente, il regolamento deve essere
emanato ai sensi dell'articolo 9 della legge del 1991. Tale
articolo - se ben ricordo, visto che non ho con me la relativa
documentazione - prevede espressamente un regolamento
concernente la modifica delle generalità,
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il sistema di funzionamento del servizio di protezione e
della commissione.
   Per quanto riguarda la modifica delle generalità, ripeto
ancora che le norme (che sono disposizioni attuative)
stabiliscono che ci debba essere un registro, le relative
modalità di redazione, da chi debba essere tenuto, l'esimente
di natura di diritto sostanziale, che naturalmente deve essere
prevista per chi produce un documento falso. E' tutta una
serie di norme - che ora sto citando a memoria - che in linea
di massima è già stata approvata nella prima stesura dal
Comitato nazionale per l'ordine e la sicurezza pubblica (è
questo il motivo per cui il ministro ne ha già parlato); sono
stati apportati ulteriori correttivi di natura puramente
tecnica dal gruppo di lavoro che si riunisce una volta alla
settimana e che terrà la seduta finale, se non erro, venerdì
prossimo, dopodiché dovrà essere inviata alla commissione
centrale di protezione per l'approvazione definitiva e poi
pubblicata.
  GIACOMO GARRA. Mi pare che il parere del Consiglio di
Stato sia obbligatorio per legge.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Le chiedo scusa, non vorrei rifare l'esame di
diritto amministrativo...
  PRESIDENTE. Tra poco lo sapremo.
  GIACOMO GARRA. Fate un regolamento che può essere
"infilzato" dal primo pretore che capita!
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Signor presidente, la commissione è composta
da giuristi, è presieduta da magistrati che hanno una grossa
esperienza.
  TANO GRASSO. Alcuni regolamenti sono fatti in deroga.
  PRESIDENTE. Sarà un problema di chi fa il
regolamento.
  RENATO MEDURI. Avevo posto una domanda che forse non è
stata ben capita: avevo chiesto ai nostri interlocutori se
ritenessero di dover definire in un certo arco di tempo il
periodo entro il quale il collaboratore pentito debba dire
tutto quello che sa. La domanda non è peregrina. Vi sono state
polemiche asperrime, velenosissime, all'interno della
magistratura reggina, per esempio, tra magistrati di vari
gradi, tra magistrati che si occupano di pentiti ed altri che,
a distanza di cinque o sei mesi dall'inizio del pentimento, si
vedevano accusati di collusione dal pentito. Non devo fare
nomi, perché lei è un magistrato, presidente...
  PRESIDENTE. No, non li facciamo.
  RENATO MEDURI. ...e conosce bene i nomi. Posso dire che
il primo presidente della corte d'appello è stato invischiato
in queste polemiche. La mia domanda aveva un senso preciso,
perché questi fatti sono venuti alla mente del pentito sei
mesi dopo aver cominciato a parlare. Allora il magistrato che
si è sentito chiamato in causa ha pensato di dover
delegittimare il magistrato che interrogava il pentito
suscitando nella gente la convinzione che nessuno più sia
attendibile. La mia domanda - ripeto - aveva un senso preciso:
ritengono i nostri interlocutori che debba essere definito uno
spazio di tempo entro il quale il pentito deve parlare per
dire tutto ciò che sa, per cambiare poi le proprie generalità
e scomparire? Altrimenti ognuno lo può utilizzare come e
quando vuole nell'arco di decenni.
  PRESIDENTE. Non mi pare che ciò attenga al tema della
sicurezza.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Esiste un codice di procedura penale, e a tale
codice bisogna attenersi. Non si possono fare valutazioni
sulle norme esistenti; esiste una procedura penale, c'è un
magistrato che l'applica, per cui personalmente non ritengo di
poter rispondere diversamente a questa domanda.
  FRANCESCA SCOPELLITI. Credo che il prefetto De Gennaro
abbia dato una grossa delusione al senatore Bertoni nel
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momento in cui ha parlato di un incremento del 70 per cento
del numero dei pentiti...
  RAFFAELE BERTONI. L'ha detto all'inizio, tu non c'eri.
Non è questo che ho domandato!
  FRANCESCA SCOPELLITI. In questo modo, infatti, il
senatore Bertoni non può dare all'imputato Governo Berlusconi
anche la colpa di aver ucciso i pentiti. Da qui l'insistenza
della sua domanda, da qui la delusione per la risposta che lei
ha dato.
  ALESSANDRA BONSANTI. Lo ha detto all'inizio!
  RAFFAELE BERTONI. Lo ha detto nella relazione!
  FRANCESCA SCOPELLITI. Però, poiché io mi baso più sulla
qualità che sulla quantità (che credo sia la cosa più
importante), la domanda che vorrei porle, prefetto De Gennaro,
è la seguente: lei ha detto prima che il programma di
protezione viene applicato al collaboratore di giustizia nel
momento in cui la commissione stabilisce l'esistenza di un
riscontro probatorio sulle accuse mosse, cioè l'esistenza di
un valore delle loro accuse e del loro contributo. Fino a quel
momento però vi è una fase di collaborazione: da chi viene
controllato il pentito in questa prima fase, se non da voi?
   In secondo luogo, un collaboratore che rientra nel
programma di protezione viene a conoscere voi, i vostri
agenti, le vostre strategie, i vostri strumenti, gli ambiti in
cui vi muovete: se si dovesse rivelare un falso collaboratore,
questa persona sarebbe a conoscenza di qualcosa che non
dovrebbe sapere o che perlomeno è pericoloso che sappia; non
potrebbe poi utilizzare queste conoscenze come ritorsione
contro gli organi preposti al controllo?
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Per quanto riguarda la prima domanda, devo
aggiungere una cosa, che forse non ho detto prima: il
programma di protezione viene approvato dalla commissione ma è
proposto sempre dal magistrato; l'organo proponente della
magistratura è il procuratore della Repubblica (una volta era
anche il giudice istruttore). In attesa che la commissione
centrale si pronunci possono essere adottati, per motivi di
sicurezza, alcuni provvedimenti di urgenza, sempre su
richiesta del procuratore della Repubblica, quale quello della
detenzione al di fuori del carcere. Faccio questa precisazione
perché si tratta sempre di una decisione assunta dall'organo
giudicante: è sempre il giudice per le indagini preliminari, a
cui si sottopone la decisione, a disporre che ciò avvenga.
   Da chi viene effettuato il controllo? Il problema, in
questo caso, è rappresentato dalla detenzione extracarceraria;
nelle more dell'attuazione di un programma di protezione, se
si tratta di detenuto, sono degli agenti a vigilare sulla
detenzione, con aggravio per gli organismi territoriali di
polizia in termini di risorse umane, al punto che, come
sottolineava prima l'onorevole Pasetto, vi è la necessità di
impiegare spesso quasi tutte le risorse di una questura;
infatti, come nel caso di Verona, vi è stato veramente un
esoso impiego di risorse. In questo caso, sono degli agenti di
polizia o dell'Arma dei carabinieri, più raramente della
Guardia di finanza, a svolgere il compito di vigilanza e di
custodia del detenuto al di fuori del regime carcerario.
   Per quanto riguarda le conoscenze - almeno per quanto ne
so - acquisite dal collaboratore nella fase in cui è detenuto
non all'interno del carcere ma in un luogo diverso, sono di
tipo ambientale. Possono essere certamente conoscenze di tipo
ambientale, di cui nessuno può impedire al soggetto in
questione di prendere cognizione, relative alle persone
addette alla sua custodia e vigilanza, persone che peraltro si
alternano proprio in virtù di un sistema di rotazione dei
turni di vigilanza; le altre sono cognizioni che riguardano
soltanto la sua posizione processuale e, naturalmente, il
magistrato.
   Queste cognizioni non possono esporre a rischio o pericolo
la struttura di sicurezza nella misura in cui si limitano a
Pagina 629
queste conoscenze di tipo ambientale che riguardano, per
esempio, le modalità di svolgimento dei turni; questo può
avvenire, per esempio, nel contesto di una caserma: ricordo
con certezza che il collaboratore di giustizia Vittorio
Ierinò, che era detenuto in un contesto ambientale di caserma,
aveva cognizione di questo luogo ed aveva la possibilità di
riconoscerlo. In realtà, egli è stato arrestato di nuovo dopo
48 ore, per cui non si sono potuti verificare rischi per tali
uffici.
  ALBERTO SIMEONE. Signor presidente, rimango davvero
perplesso, se non sconcertato, dal modo in cui opera questa
Commissione, ossia dal modo in cui vengono poste le domande e
si sviluppa il dibattito o il rapporto tra chi pone le domande
stesse e chi risponde. Ritengo, infatti, che si faccia pura
accademia e si tralasci completamente il problema
principale.
   Anche questa sera il dottor De Gennaro ha parlato delle
tecniche di contrasto alla criminalità organizzata, ma ritengo
che la tecnica di contrasto sia una sottospecie della lotta
alla criminalità o un suo particolare aspetto; che sia un
particolare aspetto lo dimostra il dibattito finora svolto,
nel modo in cui si è sviluppato, nel corso del quale si è
parlato del collaboratore di giustizia. Sono quindi portato a
pensare che potremmo trovarci di fronte ad una nuova figura,
quella del collaboratore di professione, per cui, oltre alle
forze dell'ordine, potremmo arruolare anche un esercito di
pentiti.
   Credo che il pentitismo sia un problema particolare che
riguarda una sparuta minoranza di persone, quelle cioè che
riescono a liberarsi di determinate remore di ordine
psicologico, morale e anche umano in senso lato, e assicurano
la loro collaborazione trasmettendo le proprie conoscenze alle
forze dell'ordine. La Commissione antimafia dovrebbe vagliare
e studiare il fenomeno nella sua interezza e non si dovrebbe,
in questa sede, parlare di curva dei pentiti o di diagrammi,
come se fosse da ascriversi a questo Governo il fatto che le
cose vanno male o che la criminalità organizzata si è
organizzata ancora meglio (mi si perdoni la cacofonia) per
combattere uno Stato che fino a qualche tempo fa non era
certamente in grado di rispondere in maniera efficace alla
lotta che essa era riuscita a portare al cuore dello Stato
stesso. Gli esempi sono tanti e talmente rilevanti da non
richiedere commenti da parte mia.
   Come dicevo, queste tecniche di contrasto, prefetto De
Gennaro, sono naturalmente limitate, perché il problema è
quello di combattere la mafia non mediante tecniche
particolari ma attraverso un modo di vedere il problema in
tutta la sua essenza e in tutta la sua vasta portata. Allora,
se dobbiamo combattere questo fenomeno malavitoso, dobbiamo
farlo tenendo presenti non altre possibili tecniche (la
tecnica, come dicevo prima, è una sottospecie della lotta alla
criminalità), ma nell'ambito di una lotta che comprenda in
maniera globale un modo di interpretare il fenomeno mafioso.
La Commissione antimafia ne è l'interlocutore naturale, ma
certamente alcuni modi di operare vanno esaminati e scelti non
tramite le consultazioni ma attraverso i contatti diretti che
le forze di polizia possono stabilire o avere con il fenomeno
malavitoso. Questo modo di combattere dovrebbe andare, quindi,
oltre e abbracciare tante tecniche, non soltanto quella dei
pentiti. Si dovrebbe allora - lo ripeto - andare molto al di
là, anche attraverso una rivisitazione degli strumenti offerti
dall'ordinamento penitenziario, il quale andrebbe
completamente rivisitato, oltre che nelle sedi competenti,
anche nell'ambito delle forze dell'ordine, che attraverso
quegli strumenti, modificati o resi più attuali ed efficaci,
potrebbero controllare meglio questo fenomeno.
   Oltre tutto, le forze dell'ordine potrebbero svolgere un
ruolo ancora più determinante se riuscissero ad avere una
presenza sul territorio intesa in senso globale, anche come
presenza fisica, perché a volte anche la presenza fisica può
dare la sensazione (e non si tratta soltanto di una
sensazione) della presenza dello Stato. Quindi, le tecniche si
devono affidare ad un progetto molto più vasto, di
cui rappresentino
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soltanto il mezzo più fine per combattere un fenomeno
che ha assunto toni e vastità davvero impensabili fino a
qualche anno addietro.
  PRESIDENTE. Mi sembra che questa fosse una
constatazione, non una domanda.
  ALESSANDRA BONSANTI. Noi siamo molto contenti del fatto
che i mafiosi continuino a pentirsi e dei dati che il prefetto
De Gennaro ci ha fornito in apertura della sua relazione, come
forse non si è accorto qualcuno che è arrivato tardi.
   Proprio perché siamo molto contenti che i mafiosi
continuino a pentirsi, vorrei chiedere (ritengo di non averlo
compreso del tutto) se lo strumento legislativo attuale sia
sufficientemente chiaro e non troppo farraginoso, per cui si
possa avere un regolamento sufficientemente efficace in
rapporto a quello che voi ritenete necessario, ossia il cambio
di identità, oppure se, a vostro avviso, vi sia nella legge
qualcosa che potrebbe essere modificato o semplicemente
rivisto.
   Vorrei inoltre chiedervi se i collaboratori della
giustizia siano in qualche modo collegati tra loro e, nel caso
in cui tale collegamento esista, se riteniate utile che
qualcuno di loro possa venire in Commissione a raccontarci
direttamente che cosa significhi pentirsi di mafia e vivere la
vita del pentito.
  FRANCESCA SCOPELLITI. La domanda sul numero dei pentiti
è stata posta dal senatore Bertoni; forse, quindi, è stato lui
ad arrivare tardi.
  RAFFAELE BERTONI. Non hai capito: avevo chiesto un
giudizio prognostico, non quanto il dottor De Gennaro aveva
già detto; altrimenti, sarei cretino: tutto sono, fuorché
cretino! (Commenti del senatore Scopelliti). Avevo
chiesto - lo ripeto - una prognosi, non quello che il dottor
De Gennaro aveva già detto all'inizio del suo intervento.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. L'onorevole Bonsanti ha chiesto se gli
strumenti legislativi che abbiamo oggi a disposizione ci
consentano di attuare il programma di protezione. Certo, per
qualche aspetto hanno dimostrato alcune carenze: manca, per
esempio, la possibilità di attribuire ai collaboratori di
giustizia nuove generalità, possiamo dotarli solo di documenti
di copertura che però, come ho detto prima, non servono a
molto.
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. L'onorevole Bonsanti chiedeva se lo strumento
legislativo attuale sia efficace come norma primaria per poter
dar luogo alle norme secondarie.
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Mi pare di no; per il regolamento di cui ha
parlato prima il prefetto De Gennaro sarà emanato un decreto,
quindi probabilmente riusciremo a risolvere le problematiche
che adesso ci troviamo frequentemente di fronte.
   Per quanto riguarda la possibilità che i collaboratori di
giustizia vengano in Commissione per raccontare le loro
esperienze, non saprei fornire indicazioni, ma mi pare che
qualche collaboratore abbia chiesto al presidente Parenti di
essere convocato.
  PRESIDENTE. Non è esattamente così: c'è stata qualche
lamentela dal carcere di Spoleto...
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. Sì, ma quelli non sono collaboratori. Non
saprei, comunque, indicare chi è disponibile a venire a
riferire alla Commissione.
  ALESSANDRA BONSANTI. Presidente, è possibile proseguire
in seduta segreta?
  PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni, proseguiamo i
nostri lavori in seduta segreta. Dispongo la disattivazione
del circuito audiovisivo interno.
   (La Commissione procede in seduta segreta).
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  PRESIDENTE. Riprendiamo i nostri lavori in seduta
pubblica. Dispongo la riattivazione del circuito audiovisivo
interno.
   Questa sera la discussione si è forse un po' sfilacciata:
la Commissione ha bisogno di conoscere la tipologia del
collaboratore nelle problematiche successive. Ad esempio, si è
parlato di lauree, anche se non credo ci siano molti
collaboratori laureati, che possano accedere ad elevati gradi
di professionalità successivi.
   Comunque noi dobbiamo occuparci dei problemi personali di
questi soggetti nel bene e nel male, dai paradossi - e so che
ce ne sono molti - alle cose giuste. Il generale Valentini ha
indicato esempi che sono senz'altro significativi, ma noi
abbiamo bisogno di una sintesi che definisca la tipologia del
collaboratore di giustizia, altrimenti, se ascoltiamo dei
pentiti che si lamentano, non abbiamo un metro di giudizio per
valutare se le loro proteste siano fondate o meno. E'
necessaria una casistica sintetica sì, ma nello stesso tempo
piuttosto estesa.
  ALESSANDRA BONSANTI. Magari non si lamentano affatto,
anzi!
  GIANNI DE GENNARO, Direttore generale della
Criminalpol. Dagli atti del Servizio di protezione, abbiamo
conoscenza di una serie di disfunzioni, in parte fisiologiche,
in parte eliminabili, che hanno rappresentato - l'ho detto
nella relazione - delle anomalie per questa fase di gestione
dell'attività di sicurezza, anomalie dovute a carenze
normative, in termini di norme secondarie non primarie; ho
detto anche che vi sono stati fatti emergenziali che hanno
acuito queste discrasie e queste apparenti disfunzioni (mi
consenta, presidente, di sottolineare il termine apparenti,
poiché nessuno di questi collaboratori ha subìto danni tali da
compromettere la sua sicurezza), delle quali noi come
rappresentanti delle istituzioni non abbiamo fatto mistero.
   Le lamentele più ricorrenti, al di là di quelli che lei
giustamente ha indicato come paradossi, sono quelle derivanti
da un sistema di imperfetto reinserimento nel contesto
sociale, che provoca tutta una serie di conseguenze: dalla
difficoltà di acquistare un'autovettura e doverla intestare a
proprio nome, al fatto di avere un documento di copertura
temporaneo e non possedere il codice fiscale per trovare un
lavoro. Sono queste le disfunzioni alle quali stiamo cercando
di porre rimedio e lo strumento essenziale è costituito dalla
possibilità di un cambiamento di identità.
   Questo mi sono sentito di riferire alla Commissione,
proprio per offrire una casistica in termini sintetici delle
problematiche lamentate. Ciò anche in relazione all'episodio
verificatosi a Padova, dove alcuni collaboratori hanno
ritenuto di evidenziare in un contesto pubblico - perché lì
gli è stato possibile farlo - quali erano le loro
problematiche per le quali richiedevano una soluzione
definitiva in termini di maggiore urgenza.
  PRESIDENTE. Sono molti quelli che si lamentano, oppure
sono una minoranza?
  FRANCESCO VALENTINI, Direttore del Servizio centrale
di protezione. I casi più eclatanti sono dieci, ma le
persone interessate sono molte di più.
  PRESIDENTE. Non vi sono altri colleghi che intendono
porre domande.
  SAVERIO DI BELLA. Presidente, non si può continuare in
un equivoco: io vorrei che, almeno qui, avessimo chiara la
distinzione tra Governo e Stato. Chi vi parla è tra coloro
che, da anni, si sono schierati contro i governi sul terreno
della mafia, ma è anche da anni tra coloro che cercano di
difendere lo Stato nell'Italia meridionale. Vorrei, allora,
che questa distinzione venisse mantenuta, altrimenti creiamo
degli equivoci, perché non si può confondere la gente che ha
sempre rappresentato l'antimafia nell'Italia meridionale a
proprio rischio (e ce ne sono decine, qui e fuori di qui) con
coloro i quali dello Stato non hanno mai tenuto conto oppure
hanno deciso di essere neutrali. Qui c'è gente che ha difeso
lo Stato e lo difende, distinguendo tra Stato e governi. Se
questo Governo farà meglio degli altri, saremo tra
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quelli che gliene daranno atto e ne saranno felici.
  RAFFAELE BERTONI. Intervenendo sui lavori della
Commissione, invito il presidente a richiedere al Governo la
trasmissione dello schema di regolamento sui collaboratori di
giustizia prima della sua approvazione, affinché la
Commissione possa esprimere, in sede riservata, un parere.
  PRESIDENTE. Ringrazio il dottor De Gennaro e il generale
Valentini. Ricordo che giovedì prossimo alle 8,30 è convocato
l'ufficio di presidenza della Commissione.
   La seduta termina alle 23,50.

 


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