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Violante: seduta 11
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                         Pag. 277
AUDIZIONE DEL COLLABORATORE DELLA GIUSTIZIA
                    ANTONINO CALDERONE
        PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE
                          INDICE
                                                        pag.
Audizione del collaboratore della giustizia
Antonino Calderone:
Violante Luciano, Presidente ...................... 279, 280
                                     281, 282, 283, 284, 285
                 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294
            295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303, 304
            305, 306, 307, 308, 309, 310, 311, 312, 313, 314
            315, 316, 317, 318, 319, 320, 321, 322, 323, 324
            325, 326, 327, 328, 329, 330, 331, 332, 333, 334
                                335, 336, 337, 338, 339, 340
Angelini Piero Mario ................................... 324
Brutti Massimo .................................... 309, 322
Cafarelli Michele ................................. 336, 337
Calderone Antonino ................. 279, 280, 281, 282, 283
            284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293
            294, 295, 296, 297, 298, 299, 300, 301, 302, 303
            304, 305, 306, 307, 308, 309, 310, 311, 312, 313
            314, 315, 316, 317, 318, 319, 320, 321, 322, 323
            324, 325, 326, 327, 328, 329, 330, 331, 332, 333
                           334, 335, 336, 337, 338, 339, 340
D'Amato Carlo .......................................... 290
Ferrauto Romano ........................................ 334
Folena Pietro .......................................... 339
Galasso Alfredo .............................. 322, 329, 333
Matteoli Altero .......... 302, 313, 324, 333, 334, 338, 339
Riggio Vito ............................................ 339
                         Pag. 278
                         Pag. 279
La seduta comincia alle 9,30.
(La Commissione approva il processo verbale della seduta
precedente).
Audizione del collaboratore della giustizia Antonino
                        Calderone.
  PRESIDENTE. Buongiorno, signor Calderone, vuol declinare
le sue generalità?
  ANTONINO CALDERONE. Buongiorno. Mi chiamo Calderone
Antonino. Sono nato a Catania il 24 ottobre 1935.
  PRESIDENTE. Quando è entrato in Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Sono entrato in Cosa nostra nel 1962
e ne ho fatto parte fino agli anni ottanta.
  PRESIDENTE. La Commissione parlamentare di inchiesta ha
interesse a chiederle, prima di ogni altra cosa, alcune
informazioni su Cosa nostra, sulla sua struttura, sul suo
funzionamento, come i corleonesi sono arrivati lentamente al
potere e le differenze tra Cosa nostra a Catania e Cosa nostra
a Palermo.
  ANTONINO CALDERONE. Come dicevo, sono stato affiliato a
Cosa nostra nel 1962. Avevo due zii che erano uomini d'onore e
un mio fratello. Nel 1983 me ne sono andato da Catania e
dall'Italia perché non potevo più vivere in Sicilia.
  PRESIDENTE. Qual è la struttura di Cosa nostra, come
funziona?
  ANTONINO CALDERONE. Cosa nostra è composta dai soldati,
poi ci sono i capidecina, poi i vicerappresentanti, poi ci
sono dei consiglieri, da uno a tre, a seconda delle famiglie,
poi i rappresentanti. A seconda del numero delle famiglie
esistenti in una provincia ci sono dei capimandamento, uno
ogni due o tre famiglie. I capimandamento eleggono un
rappresentante provinciale, un vicerappresentante provinciale
e uno o più consiglieri. Nel 1975 mio fratello ha creato una
commissione regionale composta dai sei rappresentanti
provinciali delle sei province, perché ai miei tempi la mafia
era presente soltanto a Palermo, Trapani, Agrigento,
Caltanissetta, Enna e Catania.
  PRESIDENTE. Cosa spinse suo fratello a creare questa
commissione regionale?
  ANTONINO CALDERONE. Dobbiamo andare molto indietro. Nei
primi anni sessanta a Palermo cominciarono degli omicidi che
nessuno si sapeva spiegare. Erano omicidi di uomini d'onore.
Poi si incominciò con le "Giulia" piene di tritolo. Poi il
Governo, dopo la morte di carabinieri e soldati nel 1963 a
Ciaculli, si è fatto sentire: il presidente della regione
D'Angelo ha chiesto l'istituzione della prima Commissione
antimafia. Da quel momento in poi per Cosa nostra è stato
molto, ma molto difficile vivere. Li hanno arrestati (ma non
tanti), molti sono andati via dall'Italia, vedi i cugini
Greco, che capeggiavano l'organizzazione. Poi si è saputo chi
metteva le "Giulietta".
  PRESIDENTE. In quegli anni fu applicato anche il
soggiorno obbligato.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, è stato applicato il soggiorno
obbligato, e i mafiosi
                         Pag. 280
sono stati squinternati. Addirittura c'era gente che voleva
uccidere il presidente della regione D'Angelo, perché era
stato lui a portare l'antimafia in Sicilia, ma il
rappresentante provinciale di Enna (perché D'Angelo era di
Calascibetta, in provincia di Enna), quando gli fu richiesto
un parere disse di no. Gli uomini d'onore della Sicilia non
l'hanno toccato. A quei tempi c'era questa legge: si chiedeva
al rappresentante provinciale della provincia dove cadeva un
grande uomo politico, un giudice o qualcun altro. Tutta la
Sicilia ha chiesto ma lui ha detto: "No, D'Angelo non si
tocca. Noialtri sappiamo quello che facciamo, sappiamo quello
che siamo. Siamo dall'altra parte della barricata. Se
succedono queste cose dobbiamo accettarle, non dobbiamo
uccidere un giudice o un uomo di governo".
  PRESIDENTE. Come sono arrivati i corleonesi a prendere
il comando di Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Conosco molto bene i tre grandi
corleonesi, Luciano Liggio, Salvatore Riina e Provenzano. Li
ho conosciuti quando ancora facevano la fame, subito dopo che
sono usciti dal processo di Lecce o di Catanzaro, nel 1969.
Luciano Liggio l'ho avuto due anni ospite nella mia provincia,
l'abbiamo tenuto io e mio fratello. Nel 1969 tutti gli uomini
più importanti di Palermo hanno incaricato Salvatore Riina di
essere una specie di reggente, si interessava lui. Non appena
è uscito dal carcere si è dato alla latitanza, ma non era
latitante perché non lo cercava nessuno. Poi cercarono di
dargli il soggiorno obbligato, ma si dava latitante, come
Provenzano. Da lì ha cominciato a governare, prima governava
per gli altri poi, a poco a poco, ha scalzato tutti e si è
fatto una sua legge. Prima ha pulito la Sicilia, secondo lui,
di tutti gli amici di Gaetano Badalamenti e di Stefano Bontade
(perché lui era contro Badalamenti) e poi ha pulito Palermo,
ha ammazzato Inzerillo, Stefano Bontade e tutti i loro... ha
fatto esattamente come aveva fatto negli anni sessanta
Cavataio, quello che metteva le "Giulietta" e ha fatto
scappare tutti i mafiosi di Palermo. Ha preso due o tre uomini
di una famiglia, due o tre di un'altra famiglia, due o tre di
un'altra, gli faceva guadagnare qualche soldo e così questi
uomini hanno tradito i loro rappresentanti. E così ha fatto
lui, copiando passo passo quello che diceva di odiare. Quando
hanno ammazzato Cavataio c'era Provenzano e lui ha copiato
passo passo tutte le tragedie di Cavataio, che ora sta facendo
lui.
  PRESIDENTE. Diceva, quindi, che suo fratello ha avuto
l'idea di costituire una commissione regionale.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, l'aveva fatta per evitare che
succedessero cose come quelle di Cavataio. Quando si chiedeva
che cosa si sapeva di questo omicidio rispondevano che non
sapevano niente; poi, furono messe addirittura queste
"Giulietta" e il Governo si è fatto sentire. La mafia era
stata messa quasi in ginocchio. Allora mio fratello disse che
non dovevamo ricadere in questi fatti e dovevamo fare una
commissione regionale dove i sei rappresentanti provinciali
emanavano gli ordini su quello che si doveva fare. Così ci si
poteva guardare negli occhi: se una provincia rompeva, faceva
qualcosa, sapeva che ce n'erano altre cinque che potevano
combatterla e farla ragionare. In sostanza, ha voluto fare una
cosa molto più compatta.
  PRESIDENTE. Quindi è una questione di ordine interno?
  ANTONINO CALDERONE. La questione riguarda molto l'ordine
interno oltre al fatto di decidere in che modo Cosa nostra
dovesse "camminare". Hanno deciso che non si dovessero
effettuare più sequestri perché in Sicilia, nel momento in cui
si fa un sequestro, i latitanti non possono più muoversi,
poiché vi sono posti di blocco.
   Volevano quindi che la Sicilia fosse un po' "pulita" per
evitare una eccessiva
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pressione delle forze dell'ordine. I latitanti, infatti, si
muovevano: per due anni, tra il 1970 e il 1973, tutte le
settimane facevo uno o due viaggi a Palermo per andare
all'Ucciardone, dove mio fratello era recluso. Ogni volta
incontravo Totò Riina. Tutti i latitanti si muovevano
benissimo. Quando invece si verificava un sequestro vi erano
continui posti di blocco e loro non volevano questo, ma
preferivano che il territorio fosse "pulito".
  PRESIDENTE. Misure come posti di blocco e controlli del
territorio da parte dello Stato danno fastidio a Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Danno molto fastidio. Ho ammirato
quindi il fatto che lo Stato abbia inviato in Sicilia i
militari, non perché questi ultimi possano arrestare le
persone, ma perché in questo modo lo Stato è presente.
   Il siciliano vero, che non è mafioso, ha voglia di potersi
scrollare di dosso la mafia, ma non ce la fa, ha paura. Quando
invece si rende conto che lo Stato è vicino, se vede qualcosa
che non va fa una telefonata anonima. Si introduce così un
elemento di sicurezza. Ma quando lo Stato non è presente, le
forze di polizia possono fare quello che possono ma i problemi
sono troppi. Può accadere per esempio che una povera
vecchietta vada a riscuotere la pensione, le sue 20-30 mila
lire, e si trovi davanti un giovane che la getta a terra; per
quella vecchietta le 30 mila lire sono tutto. Se invece c'è
vicino una guardia o un militare, i siciliani prendono
coraggio.
  PRESIDENTE. Tornando alla questione affrontata in
precedenza, suo fratello decise di proporre una migliore
organizzazione interna di Cosa nostra per evitare questi
omicidi, di cui nessuno sapeva nulla, che venivano commessi
per avvantaggiare una parte rispetto ad un'altra. E' così?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, il fine era quello di
organizzare tutto e valutare l'andazzo delle cose anche dal
punto di vista politico, ovvero decidere per chi si dovesse
votare. Si riunivano una volta al mese.
  PRESIDENTE. Dove si riunivano?
  ANTONINO CALDERONE. Si vedevano quasi sempre in
provincia di Agrigento, in una fattoria di Antonio Ferro. Ma
appena l'organismo è nato, per far conoscere questa
Commissione regionale, essa ha svolto riunioni in ogni
provincia a distanza di un mese l'una dall'altra.
  PRESIDENTE. Quando è stato ucciso suo fratello?
  ANTONINO CALDERONE. Mio fratello è stato ucciso nel
settembre del 1978.
  PRESIDENTE. Dopo l'uccisione di suo fratello lei è stato
messo in disparte?
  ANTONINO CALDERONE. Non sono stato messo in disparte. Ho
chiesto a Benedetto Santapaola, che ha assunto il comando
della famiglia di Catania, di mettermi fuori dalla famiglia, a
riposo. Gli dissi: "Non voglio lavorare, non voglio più sentir
parlare di Cosa nostra; ma se hai bisogno di me sono sempre
qui". Mi rispose : "No, Nino, tu non puoi uscire da Cosa
nostra. Se hai bisogno di qualcosa, non è necessario che passi
attraverso il tuo capodecina, ma puoi venire direttamente da
me; però non puoi uscire da Cosa nostra".
   In quel momento, mi trovavo ad un bivio: o mi uccidevano o
mi tenevano. Dal momento che sapevo ed ero coinvolto in molte
cose, non potevo uscire da Cosa nostra. Allora mi
controllavano e mi facevano sapere quello che era possibile
sapere, ma non mi dicevano tutto al cento per cento. Dovevo
restare con la paura che un giorno mi chiamassero dicendomi
che c'era una riunione e mi ammazzassero.
                         Pag. 282
  PRESIDENTE. Lei dice questo perché molto spesso
l'omicidio interno avveniva mandando un amico a prendere la
vittima designata?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, si diceva : "Senti, c'è una
riunione di famiglie e devi venire". E così ci si andava.
Oppure, si chiedeva di portare un latitante da un luogo ad un
altro. In questo caso, avrei portato il latitante in una
masseria in campagna e lì avrei trovato i miei carnefici.
   Una volta un vecchio, parlando di un rappresentante, mi
disse: "Quello è come Gesù Cristo, se vuole che io viva vivrò,
se vuole che mi uccidano mi uccideranno". Così è Totò Riina,
il quale non deve più dare retta a nessuno ed ha rotto gli
argini.
  PRESIDENTE. Quali sono le maggiori differenze, secondo
quello che lei ricorda, tra Cosa nostra a Catania e Cosa
nostra a Palermo?
  ANTONINO CALDERONE. Una volta c'erano delle differenze.
Cosa nostra di Catania guardava Cosa nostra di Palermo come un
grande mostro, una organizzazione molto grossa, poiché noi
eravamo circa quaranta mentre loro erano migliaia. Tutte le
cose, ed anche tutti i guai, venivano da Palermo. Per questo
mio fratello diceva che, anche se i palermitani sono
moltissimi, nel caso in cui essi avessero sbagliato, cinque
province sarebbero state contro di loro.
   Non so invece come operi oggi Cosa nostra. Totò Riina avrà
stretto i lacci e probabilmente ha fiducia in pochissimi, tra
cui vi sono uomini della famiglia di Catania di cui egli si
fida. Tra questi vi sono Nitto Santapaola ed altri.
   Oggi la questione non riguarda solo Palermo, ma in tutte
le province in cui esiste la mafia vi saranno uomini di Totò
Riina, a Palermo come a Catania, Caltanissetta o Agrigento,
perché sono tutti suoi uomini. E' possibile che egli abbia
costituito una famiglia ristretta formata da tutti gli uomini
più in auge in Sicilia, ma non lo so.
  PRESIDENTE. Quindi, la Commissione regionale aveva anche
lo scopo di limitare il peso di Palermo in tutta la Sicilia?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, doveva limitare il peso dei
palermitani, che erano moltissimi. Se questi ultimi facevano
qualche "fesseria" ed il rappresentante provinciale di Catania
andava a Palermo, egli era come un moscerino. Invece, se nel
momento in cui i palermitani (che avevano 2 mila uomini)
sbagliavano si trovavano di fronte cinque province con un
totale di 3-4 mila uomini, questi ultimi esercitavano un certo
peso.
  PRESIDENTE. Secondo lei, che cosa dà più fastidio a Cosa
nostra? Glielo chiedo affinché lo Stato possa scegliere meglio
che cosa fare per vincere lo scontro con Cosa nostra.
  ANTONINO CALDERONE. Occorre innanzitutto eliminare le
loro fonti di guadagno, perché con i soldi arrivano dove
vogliono. Inoltre, essi non sono uomini da trattare
democraticamente come, per esempio, una persona che commette
un furto la quale, in un regime democratico, ha diritto tra
l'altro all'assistenza di un avvocato. Questi invece hanno
voluto muovere guerra allo Stato.
   Ricordo che quando ero bambino, durante la guerra, ho
visto nella mia città dei campi di concentramento. Tutti
quelli nel cui fascicolo della polizia vi è la lettera M (ora
quasi tutti gli uomini d'onore sono conosciuti grazie alle
rivelazioni dei pentiti; abbiamo fatto i nomi di quasi tutti,
io l'ho fatto ai miei tempi ed ora lo stanno facendo altri)
devono essere messi in un lager, senza processo. Dal
momento che siamo in guerra, essi devono essere trattati come
prigionieri di guerra.
   Quando la guerra sarà finita, la Commissione dovrà
valutare man mano se i prigionieri avranno diritto di essere
tirati fuori dal lager. Non si devono comunque celebrare
processi, poiché i mafiosi speravano
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proprio nello svolgimento dei processi e nel loro
annullamento.
  PRESIDENTE. Se il processo non viene ingiustamente
annullato, dà fastidio a Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Il processo dà moltissimo fastidio.
Non è un caso che dopo il gennaio di quest'anno sia finita la
pace mafiosa, che il povero Falcone definiva pax
mafiosa.
  PRESIDENTE. Può chiarire meglio questo aspetto?
  ANTONINO CALDERONE. Vi erano continui annullamenti dei
processi. Anche se il giudice Falcone si dava molto da fare,
si faceva affidamento sull'annullamento dei processi.
   La condanna definitiva all'ergastolo, da cui consegue il
fatto di non uscire più dal carcere, comporta la fine di tutti
i legami e i contatti, oltre che del potere, dei soldi e di
tutto il resto. Si tratta in sostanza di una morte civile.
Questo Totò Riina non l'ha "inghiottito" ed ha cominciato con
gli omicidi. Per esempio, il giudice Falcone avrebbe potuto
essere ucciso in qualsiasi momento quando era in Sicilia,
soprattutto se si considerano i mezzi di cui si dispone per
uccidere un giudice. Ma non l'hanno fatto perché non volevano
che, di fronte all'uccisione di Falcone, lo Stato si
risvegliasse.
   Finora Riina aveva promesso agli uomini d'onore la
possibilità di stare tranquilli. Nel momento in cui le
condanne all'ergastolo sono diventate definitive, egli non ha
potuto più promettere ed è dovuto uscire allo scoperto
commettendo questi grandi omicidi.
  PRESIDENTE. Sulla base delle sue conoscenze, che cosa
avvantaggia di più Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Cosa nostra viene avvantaggiata sia
dal fatto di guadagnare soldi sia dagli appoggi di cui
dispone. Cosa nostra infatti è come una prostituta, che sta
vicino a qualcuno fino a quando riesce a fargli "incastrare le
mani" e poi detta legge.
  PRESIDENTE. Quali sono stati a suo avviso, se ve ne sono
stati, gli errori maggiori commessi dallo Stato nella lotta
contro Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Non sono in grado di dire se lo
Stato abbia sbagliato o no. Tuttavia, vedo che oggi lo Stato
combatte mentre ieri non lo faceva.
   Perché non hanno creduto a quello che faceva Falcone? Nel
1988 sono stato il primo pentito a parlare di tutta la Sicilia
e ho detto che la mafia è una cosa unica; tutti i mafiosi che
sono in Sicilia sono membri di un'unica organizzazione.
Certamente, ciascuno ha la propria famiglia, ma se il
rappresentante provinciale di Palermo dice al rappresentante
provinciale di Catania che ha bisogno di una forza catanese a
Palermo, questa gli viene inviata. Si tratta quindi di
un'organizzazione unica.
   Perché nel 1988 hanno diviso i processi? In quel momento
probabilmente ci si poteva arrivare e tanta gente non era
morta.
  PRESIDENTE. Se desidera fumare può farlo.
  ANTONINO CALDERONE. Cerco di non fumare perché ho
sognato tanto, dopo la morte di Falcone, di venire qui per
dire: "Facciamo qualcosa, possiamo combattere la mafia e
distruggerla!".
  PRESIDENTE. Lei voleva venire dinanzi a questa
Commissione?
  ANTONINO CALDERONE. Volevo venire dinanzi a questa
Commissione, che è l'organo più potente che combatte la mafia.
  PRESIDENTE. In questa fase quale potrebbe essere, sulla
base della sua esperienza, la reazione di Cosa nostra? Dopo
gli assassinii di Falcone, Borsellino
                         Pag. 284
e delle rispettive scorte, avvenuti in modo così vistoso, che
cosa sta accadendo, a suo avviso, all'interno di Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Ritengo che all'interno di Cosa
nostra sia in atto una trasformazione, poiché vi sono molti
scontenti. Prego questi ultimi di deporre una volta per sempre
le armi mettendosi nelle mani del Governo, come ho fatto io
che oggi sono un uomo libero, mentre prima non vivevo.
   Perché non lo fanno? C'è gente che non vuole piegarsi e
non si piegherà mai. Non so cosa faranno.
  PRESIDENTE. E' prevedibile in questa fase un'altra
guerra interna di mafia oppure altri attentati contro lo Stato
e le sue istituzioni?
  ANTONINO CALDERONE. Entrambe le cose.
  PRESIDENTE. Sulla base della sua esperienza, qual è il
rapporto tra Cosa nostra e le istituzioni dello Stato? In
particolare, le istituzioni si oppongono sempre a Cosa nostra
oppure vi sono stati momenti o fasi in cui uomini delle
istituzioni sono stati d'accordo con Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so, ma è sempre accaduto che
noi dessimo voti agli uomini politici ai quali poi chiedevamo
dei favori.
  PRESIDENTE. Quindi, gli uomini politici prendevano voti.
Può spiegarci quali fossero i vantaggi che Cosa nostra traeva
da questi rapporti?
  ANTONINO CALDERONE. Tanti. Attraverso questo canale si
può arrivare, ad esempio, ai processi o ai lavori pubblici.
Perché Cosa nostra cerca di dare i voti non ai partiti di
sinistra ma a partiti come la Democrazia cristiana, il partito
liberale, quello repubblicano o quello socialdemocratico?
Perché, secondo loro, si tratta di partiti democratici e
quando vi è la democrazia avviene che gli uomini politici non
si mettano d'accordo: più vi è marasma nella politica più loro
traggono vantaggi perché vengono ostacolati meno. Loro cercano
di fare più "bordello" possibile per stare a galla.
  PRESIDENTE. Quindi la confusione nelle istituzioni
favorisce Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Moltissimo. Quando è stato ucciso
Falcone? In un momento in cui non vi erano il Governo, né il
Presidente della Repubblica.
  PRESIDENTE. Potrebbe fare un quadro degli uomini
politici locali, regionali e, se ce ne sono, nazionali che
hanno avuto rapporti con Cosa nostra? L'impressione della
Commissione è che vi fossero delle differenze tra un uomo
politico di un piccolo paese ed uno regionale o nazionale. Vi
è questa differenza? Occorre fare distinzioni a seconda
dell'importanza dell'uomo politico?
  ANTONINO CALDERONE. Un uomo politico a livello nazionale
è sicuramente molto più importante dell'assessore comunale di
un paesino.
  PRESIDENTE. Vi sono casi in cui un uomo politico ha
comprato voti?
  ANTONINO CALDERONE. No, non mi risulta. Si davano un po'
di soldi non ai mafiosi ma semmai ai ragazzi che giravano con
le macchine. Con i mafiosi vi era uno scambio favori-voti.
  PRESIDENTE. Lei ha detto che non si votava per i partiti
di estrema sinistra o estrema destra ma si preferivano i
partiti di Governo. Ciò perché questi ultimi potevano dare
maggiori vantaggi a Cosa nostra? Oppure vi era qualche altro
motivo?
  ANTONINO CALDERONE. Perché davano più vantaggi e perché
eravamo usciti dal fascismo. Cosa nostra era stata debellata
da Mussolini. Mi raccontavano i
                         Pag. 285
vecchi che a Gangi vi era il peggiore latitante della Sicilia
un certo Ferrarello. Ebbene, Gangi è stata assediata e
Ferrarello è uscito da quel paese e si è consegnato a Mori.
Quando è arrivato all'Ucciardone si è ucciso gettandosi dal
secondo piano.
  PRESIDENTE. Come è possibile che personaggi come Riina e
Santapaola siano latitanti da tanti anni?
  ANTONINO CALDERONE. Non glielo so dire. Può darsi che
siano troppo esperti. Io, comunque, ho molta fiducia negli
organi di polizia e nel Governo e credo che questa latitanza
non durerà ancora molto.
  PRESIDENTE. Secondo lei stanno in Sicilia?
  ANTONINO CALDERONE. Si muovono. Può darsi che oggi la
Sicilia sia troppo compressa dalle forze dell'ordine e perciò
essi si trovino al nord (Madonia è stato arrestato nel nord).
Può darsi anche che si spostino, ma il loro territorio è la
Sicilia.
  PRESIDENTE. Possono stare molto tempo lontani dalla
Sicilia continuando a comandare?
  ANTONINO CALDERONE. Cito un precedente: Salvatore Greco,
detto Scicchitedda, nel 1963 andò in Venezuela dove rimase
fino al 1978, anno della sua morte. A Palermo aveva lasciato
un uomo che lo sostituiva, Antonio Sorci, però le cose
andarono malissimo. Da lontano non si può governare.
  PRESIDENTE. Bisogna stare lì.
   E' vero che si capisce se un uomo politico è sostenuto da
Cosa nostra in base ai voti che prende nelle zone in cui
questa è più forte? Per capire se un uomo è sostenuto da Cosa
nostra è sufficiente vedere se è votato nelle zone in cui essa
comanda?
  ANTONINO CALDERONE. Questo è un segno. Se l'uomo
politico prende molti voti in un paese di Cosa nostra è logico
che li prende da Cosa nostra. A Palermo vi sono 14 o 15
mandamenti ognuno dei quali ha due o tre famiglie; ogni
famiglia ha 40 o 50 uomini d'onore. Quando un rappresentante
provinciale di Palermo dice che si deve votare per un
determinato nome, gli uomini d'onore - non dico al cento per
cento ma almeno all'ottanta per cento - votano per lui e
ugualmente fanno votare la moglie, il cognato, il parente, i
quali poi possono recarsi da quell'uomo d'onore e dirgli: "Mi
hai fatto votare per Tizio, ora mio figlio deve fare il tale
concorso e ho bisogno che tu ci parli".
  PRESIDENTE. Se in un determinato mandamento nel quale
una famiglia di Cosa nostra è molto forte un candidato alle
elezioni riceve molti voti, ciò accade sempre perché Cosa
nostra ha deciso di farlo votare? Può accadere che la gente
decida di votare un candidato indipendentemente da Cosa
nostra?
  ANTONINO CALDERONE. In una città come Catania siamo
pochissimi, ma a Palermo vi sono migliaia e migliaia di uomini
d'onore che hanno migliaia di parenti. Il loro peso, quindi,
si sente.
  PRESIDENTE. Qual è il meccanismo per avere i voti? Vi
sono gli appartenenti a Cosa nostra e i loro parenti. Ma come
si fa ad invitare o a costringere a votare per un determinato
uomo politico chi non fa parte di Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Costringerli no. Basta che lo fa
sapere lo "zio Giuseppe" del rione del quale tutti hanno
bisogno.
  PRESIDENTE. C'è un controllo sul voto?
  ANTONINO CALDERONE. No. Non lo so.
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  PRESIDENTE. Può accadere che un uomo politico prenda
moltissimi voti in un quartiere di mafia senza essere
sostenuto dalla mafia?
  ANTONINO CALDERONE. Può accadere se la mafia decide di
esprimere un voto di protesta. Ma in genere la mafia è legata
al suo carrozzone ed i voti vanno sempre lì.
  PRESIDENTE. Quindi la mafia può decidere di far
sostenere un'altra persona. E' comunque sempre la mafia che
decide.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, se siamo in un territorio ad
alta densità mafiosa.
  PRESIDENTE. Tornando alle questioni che lei ha
affrontato nei suoi interrogatori davanti ai giudici, può
dirci quale fu il ruolo di Cosa nostra nella costituzione del
governo Milazzo?
  ANTONINO CALDERONE. Nella costituzione del governo
Milazzo l'azione di Cosa nostra è stata molto incisiva. Prima
della costituzione del governo si dovevano votare delle leggi
speciali a Palermo. Era molto vicino a Milazzo un uomo d'onore
consigliere della famiglia di Catania, l'onorevole Concetto
Gallo. Vi erano anche altri uomini (ho saputo queste cose da
mio fratello e da altri perché allora non facevo parte di Cosa
nostra). Alcuni deputati uomini d'onore dicevano a Totò Greco,
detto Scicchitedda - che all'epoca era segretario della
provincia di Palermo - che certi deputati erano contro queste
leggi. Ebbene, Nicola Greco, uomo d'onore della famiglia di
Ciaculli, telefonò ad alcuni deputati minacciandoli ed
intimando loro di non andare a votare, ad altri mise lettere
di minaccia sotto la porta. Così è nato il governo Milazzo che
è stato un boom. La mafia l'ha sostenuto in modo fortissimo.
  PRESIDENTE. Che vantaggi trasse dal governo Milazzo?
  ANTONINO CALDERONE. Molti lavori.
  PRESIDENTE. Lavori pubblici?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, lavori pubblici.
  PRESIDENTE. Mi pare che i lavori pubblici rappresentino
uno dei vantaggi maggiori che la mafia trae dal rapporto con
la politica. E' così?
  ANTONINO CALDERONE. E' così. Ma il maggiore cespite è
costituito dalla droga.
  PRESIDENTE. Lei ha parlato di favori giudiziari, quindi
di interventi sui giudici.
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Anche per licenze e passaporti?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Ricordo che una volta
l'onorevole Lupis fece avere il passaporto, tramite mio
fratello, ad un grosso mafioso trapanese, Totò Minore. Mi pare
che abbiano fatto un accordo con il questore... non so bene
come sia avvenuto.
  PRESIDENTE. Mi pare che lei abbia parlato di un
funzionario di un consolato tedesco...
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Un segretario di Lupis, un certo
Buonomo di Catania, aveva un amico in un consolato tedesco. Se
io avevo bisogno di un passaporto gli davo i soldi per le
spese di viaggio, le fotografie ed il nome fasullo e lui mi
faceva avere il passaporto. Quell'impiegato non faceva alcuna
comunicazione alla questura di Catania. Gli si diceva - non io
ma il segretario di Lupis -: "Ho bisogno di un passaporto
perché il mio è andato perso". In questo modo lo hanno avuto
mio fratello, Nitto Santapaola, che è andato in America, e
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tanta altra gente. E' facilissimo avere un passaporto: basta
corrompere un impiegato di un'ambasciata.
  PRESIDENTE. Ricorda interventi degli onorevoli Lima e
Gunnella per la questione delle misure di prevenzione e del
soggiorno obbligato?
  ANTONINO CALDERONE. No. So altre cose sugli onorevoli
Gunnella e Lima.
  PRESIDENTE. Cosa sa?
  ANTONINO CALDERONE. Il paese di Di Cristina, Riesi, era
ad alta densità comunista e democristiana, tanto che il
suocero del Di Cristina è stato anche sindaco comunista.
Quando, dopo la morte del padre, Di Cristina è diventato
rappresentante del paese, ha "alzato" un po' il fratello
Antonio, di venti o ventuno anni, che era un portaborse
dell'onorevole Calogero Volpe, uomo d'onore della provincia di
Caltanissetta. Finalmente vi è stato il "trapasso": da
comunisti si è diventati democristiani. Poi Di Cristina
Giuseppe, rappresentante della famiglia, ha avuto guai con la
legge; era impiegato presso la Cassa centrale di risparmio e
ha perduto il posto. Mio fratello, per farlo riassumere dalla
Cassa di risparmio, è andato a parlare con uomo di Messina (mi
pare si chiamasse Manfredi), un comunista che lo ha buttato
fuori. Invece con Gunnella - che gli era stato fatto conoscere
dall'impresa Maniglia o dai Salvo (ma mi pare dall'impresa
Maniglia) - ha potuto entrare alla Sochimis e gli ha fatto
avere dei bei voti, sia a Riesi sia in provincia di
Caltanissetta.
  PRESIDENTE. Nel libro pubblicato da Arlacchi lei afferma
che Pippo, suo fratello, dava il 5-10 per cento dell'importo
degli appalti agli assessori regionali che li decidevano.
Ricorda questa cosa?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Mio fratello nel 1963-1964 è
fallito. Era una grossa impresa, che aveva qualcosa come 5
miliardi di lavori: nel 1964 erano belle cifre. Aveva preso
questi lavori comprandoli a Palermo. Molti glieli ha venduti
l'onorevole Laterza del movimento sociale italiano. Però gli
diceva: "Pippo, se vado al governo non ti venderò nemmeno un
bicchiere, però ricatto i miei colleghi che so che si vendono
i lavori". Ma non erano del MSI, erano di altri partiti.
Pagava il 5 o il 10 per cento. Addirittura, poiché per i primi
lavori non aveva i soldi, faceva una pratica - non so come era
- per cui gli davano soldi ancor prima che cominciasse i
lavori. Metteva degli assegni firmati in una busta e li dava
ad un uomo in cui avevano fiducia, dopo che aveva avuto questi
soldi. Se li prendevano ancora prima che cominciassero i
lavori. Li pagava.
  PRESIDENTE. Tra i mezzi di persuasione con i quali Cosa
nostra convince o cerca di convincere i cittadini a votare per
i propri candidati vi sono soltanto quelli che ha detto, cioè
un invito rivolto da una persona autorevole, o vi è anche la
paura?
  ANTONINO CALDERONE. No, non è la paura, non lo fa con
l'imposizione, perché sa che ci vanno automaticamente.
Domandano per chi si deve votare perché poi possono dire agli
uomini d'onore: "Senti, ho votato per il tale candidato, ora
ho bisogno di questo". E' una cosa normale.
  PRESIDENTE. Perché si sa che Cosa nostra riesce ad avere
favori. Questo è il meccanismo.
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Un commissario vorrebbe sapere che ruolo ha
avuto Bontade nell'attività politica di Lima.
  ANTONINO CALDERONE. Non glielo so dire. Non lo so.
  PRESIDENTE. Ho qui un elenco dei nomi di esponenti
politici che lei ha citato nei vari interrogatori. Uno è
Calogero Volpe.
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  ANTONINO CALDERONE. Uomo d'onore della provincia di
Caltanissetta.
  PRESIDENTE. Un altro è l'onorevole Lupis.
  ANTONINO CALDERONE. L'onorevole Lupis non era uomo
d'onore ma era molto vicino a noialtri, che lo votavamo
sempre. Con "noialtri" intendo noi di Catania.
  PRESIDENTE. L'onorevole Lima?
  ANTONINO CALDERONE. L'onorevole Lima io non l'ho votato
mai, non lo so, ma ne ho avuto bisogno.
  PRESIDENTE. I cugini Salvo?
  ANTONINO CALDERONE. Li conoscevo molto bene. Erano due
uomini d'onore. Uno era vicerappresentante, l'altro era
capodecina della famiglia di Salemi.
  PRESIDENTE. Secondo lei perché è stato ammazzato Ignazio
Salvo?
  ANTONINO CALDERONE. Non posso fare ipotesi. So solo che
sono stati ammazzati Lima, Ignazio Salvo, Falcone, questa
gente.
  PRESIDENTE. L'onorevole D'Angelo era presidente della
regione ed aveva proposto l'istituzione della Commissione
antimafia.
  ANTONINO CALDERONE. La prima antimafia in Sicilia l'ha
chiamata lui.
  PRESIDENTE. Per questo è stato considerato come un
nemico da Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, lo volevano ammazzare, ma il
rappresentante provinciale si è rifiutato. Siamo negli anni
1963-1964. La Commissione antimafia cominciò a dare soggiorni
a tutti, addirittura si diceva "siamo diventati come i crasti
di Pasqua", perché i crasti (i montoni in dialetto) di Pasqua
sono tutti rinchiusi e la gente viene e li compra per
ammazzarli. Si diceva che ad uno ad uno, ad uno ad uno, ci
stavano mandando tutti al confino.
  PRESIDENTE. Ciancimino?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo conosco.
  PRESIDENTE. L'onorevole Concetto Gallo?
  ANTONINO CALDERONE. Uomo d'onore della famiglia di
Catania, poi messo fuori famiglia.
  PRESIDENTE. Perché?
  ANTONINO CALDERONE. Perché si era un po' "ubriacato"
anche lui. Quando tutta la Sicilia votava Milazzo, dopo che
Milazzo era al governo, un giorno è venuto un genero di Rimi,
Nino Buccellato, da non confondere con Nicola Buccellato.
Voleva un favore da Concetto Gallo, che prima gli ha fatto
fare un po' di anticamera e poi disse "Vediamo, non
vediamo...". Sono venuti a lamentarsi da mio zio, che era
rappresentante della famiglia di Catania, e l'ha messo fuori
famiglia. Ecco quali erano le punizioni se non si facevano i
favori agli amici dopo che avevano votato.
  PRESIDENTE. A questo punto che succedeva, non si votava
più per una persona così?
  ANTONINO CALDERONE. Certo, se non prometteva più ...
  PRESIDENTE. Nei suoi interrogatori ha detto che
l'onorevole Milazzo favorì molto i Costanzo. Può spiegare?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, l'onorevole Milazzo è stato ...
Nell'impresa dei Costanzo c'era un certo Giovanni Conti di
Caltagirone, paesano di Milazzo e molto intimo suo. Questo
Giovanni Conti comprava
                         Pag. 289
i lavori e faceva tutte le cose con la politica. Oltre allo
stipendio gli davano una percentuale sull'utile dei lavori che
riusciva ad ottenere. Aveva il suo ufficio nell'impresa.
Ricordo di essere andato personalmente in via Etnea dove
Milazzo - non ricordo bene ... - aveva l'ufficio elettorale,
mi pare. Era questo Giovanni Conti che dirigeva il tutto e i
Costanzo mettevano i soldi. Poi però hanno avuto i lavori e
sono diventati ... Avevano già un certo nome, ma poi hanno
fatto il salto di qualità.
  PRESIDENTE. L'onorevole Guttadauro?
  ANTONINO CALDERONE. L'onorevole Guttadauro ... Sono tre
o quattro fratelli - penso che saranno morti - tutti uomini
d'onore. Mi pare che l'onorevole Guttadauro era del partito
liberale, ma non ricordo. Era deputato a Palermo.
  PRESIDENTE. L'onorevole Laterza?
  ANTONINO CALDERONE. Laterza l'ho avuto come avvocato. Ma
era un uomo che poteva capire che eravamo ... manco mafiosi,
perché a quei tempi a Catania nessuno sapeva che c'era la
mafia. E' morto negli anni settanta, povero, senza soldi. Ogni
tanto mi telefonava dicendo che aveva bisogno di 50 mila lire.
Mi difendeva gratis ma faceva una vita così: sperperava, era
sempre senza soldi.
  PRESIDENTE. E' l'onorevole Laterza di cui ha parlato
prima?
  ANTONINO CALDERONE. Sissignore.
  PRESIDENTE. Insalaco?
  ANTONINO CALDERONE. So che Stefano Bontade ... Tanino
Fiore, un uomo d'onore di Palermo, gli ha fatto la campagna
elettorale con Stefano Bontade e dicevano: "Dobbiamo fare la
campagna elettorale per il figlio di uno sbirro ...", perché
suo padre era maresciallo dei carabinieri o di pubblica
sicurezza.
  PRESIDENTE. L'onorevole Verzotto?
  ANTONINO CALDERONE. Molto vicino a Cosa nostra, però
catanese. Era molto vicino a Di Cristina. Noialtri lo abbiamo
conosciuto perché l'onorevole Verzotto aveva un segretario di
Riesi. Di nome si chiamava Angelino, ma non ricordo il
cognome. Era molto intimo di Di Cristina che ce lo ha fatto
conoscere. Eravamo molto amici e non si vergognava di andare
ad un matrimonio di mafiosi. E' venuto a fare il testimone di
nozze a Di Cristina, ricordo che ero presente. Poi si è
impelagato un po', non so cosa ha combinato, ed è stato
latitante tanto tempo.
  PRESIDENTE. E' importante andare ai matrimoni?
  ANTONINO CALDERONE. A quei tempi sì, molto. Ricordo
quando c'era Verzotto a Riesi: tutti venivano a guardare
questo grande ... Dà forza all'uomo d'onore, perché se io
faccio venire un grande deputato ad un matrimonio o ad un
battesimo tutti sanno che poi possono chiedere un favore.
  PRESIDENTE. Lei ha parlato anche di Antonio Succi,
vicesindaco di Catania.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, era un DC, mi ha fatto dei
favori. Noialtri lo abbiamo portato politicamente. Ma era un
uomo buono.
  PRESIDENTE. Nel suo libro fa riferimento ad un
sottosegretario Evangelisti. Ricorda?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, ricordo che mio fratello e
Pasquale Costanzo volevano fare un regalo a Carmelo Costanzo
facendolo diventare cavaliere del lavoro. Quell'anno c'era un
po' ... C'è stata sempre rivalità tra Costanzo e Rendo, ma in
quell'anno era particolarmente
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grande perché Rendo doveva diventare anche lui cavaliere del
lavoro. Mi pare che lo ha fatto diventare un uomo politico, ma
non so di che partito. Anche lui ha pagato 180 milioni.
  PRESIDENTE. Chi ha pagato 180 milioni?
  ANTONINO CALDERONE. Mi dicevano che Rendo ha pagato 180
milioni per diventare cavaliere del lavoro. Mio fratello disse
che conosceva molto bene l'onorevole Lupis; allora, con Gino
Costanzo, parlò con Lupis che disse che era possibile. Lupis a
quei tempi aveva un segretario particolare, un nobile che poi
non era nobile. Era un barone.
  CARLO D'AMATO. Si faceva chiamare barone?
  ANTONINO CALDERONE. No, era stato adottato. Era il
barone Felice Ciancio Villardita, che noialtri conoscevamo
molto, molto bene. Felice Ciancio fece sapere che occorrevano
80 milioni da dare a Lupis o al partito, non so. Si
incominciarono le pratiche. Quando tutto fu quasi pronto, un
giorno mi trovavo nell'ufficio dell'impresa Costanzo e De Luca
- la mano lunga dei Costanzo, quello che ne sapeva tutti i
segreti - disse (c'era anche mio fratello): "Telefoniamo a
Felice, vediamo a che punto sono le pratiche". Telefonarono e
dissero a De Luca: "Sai, mi dispiace, ci vogliono altre 30
bottiglie di latte". "Ma come, eravamo rimasti d'accordo su un
certo numero ...". "No, no, ce ne vogliono altre 30 perché si
devono dare all'onorevole Evangelisti". "Ti darò risposta".
Poi mio fratello e Gino Costanzo si consultarono e decisero di
rispondere affermativamente. E così Carmelo Costanzo è stato
fatto cavaliere del lavoro. Mio fratello personalmente ha
portato 110 milioni a Roma all'onorevole Lupis. Lo ricevette
Felice Ciancio che disse: "Eccellenza, c'è Pippo con la borsa"
"Sì, sì, prendi la borsa e fallo venire". Mio fratello è
andato lì e l'ha ringraziato.
  PRESIDENTE. Mi pare sia emerso che Costanzo era contento
di essere stato fatto cavaliere con un ruolo più importante.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, perché vi è stato sempre questo
gareggiare. Costanzo l'hanno fatto cavaliere del lavoro
dell'industria, perché è un imprenditore, mentre invece non
c'era il numero giusto e hanno dovuto declassare Rendo
facendolo cavaliere del lavoro dell'agricoltura. Cose da
bambini.
  PRESIDENTE. Quali erano le intese ed i rapporti tra i
cavalieri del lavoro Graci, Rendo e Costanzo?
  ANTONINO CALDERONE. Loro si dividevano i lavori, ma
Rendo faceva sempre la parte del leone in quanto, non so
perché, aveva qualcosa in più degli altri; probabilmente era
più furbo. Innanzi tutto le riunioni dovevano tenersi a casa
sua e tutti dovevano andare a baciargli la mano.
   Carmelo si poteva difendere in un solo modo: ogni tanto, a
detta di lui e del fratello Pasquale, quando non era d'accordo
su qualcosa gettava lì la battuta: "Gli amici di mio fratello
non sono molto contenti". Gli amici eravamo io e mio fratello.
Tra l'altro, egli raccontava che si davano anche schiaffi.
   Noi mettevamo bombe nei cantieri.
  PRESIDENTE. In quelli di Rendo?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, per farlo "abbassare". Poi
dicono che il mafioso sono io!
  PRESIDENTE. Come riusciva Rendo a far venire Costanzo,
che pure contava sul vostro appoggio, a casa sua?
  ANTONINO CALDERONE. Secondo me, egli era molto più
addentrato nella politica, in quanto non riceveva appoggi
dalla mafia.
  PRESIDENTE. Non era sostenuto dalla mafia?
                         Pag. 291
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Secondo la sua opinione, invece, era
sostenuto a livello politico?
  ANTONINO CALDERONE. Questa è la mia opinione.
  PRESIDENTE. Può parlare delle intese che vi furono in
quel momento tra Graci, Rendo e Costanzo per esempio su come
dividersi gli appalti?
  ANTONINO CALDERONE. Quando si sono aggiudicati i lavori
relativi alle dighe ed agli aeroporti, hanno costituito un
consorzio. Ne hanno anzi costituiti molti; per un loro
consorzio ho lavorato anch'io. Per dare un nome al consorzio
si servivano dei loro stessi nomi storpiati.
   Dopo essersi aggiudicati i lavori relativi alle dighe e
agli aeroporti, dovevano costituire un ufficio in cui far
confluire uomini di Rendo, Costanzo e così via. Poi non si
sono messi d'accordo, perché dopo aver unito le loro forze
qualcuno avrebbe dovuto comandare. Rendo voleva essere lui a
comandare, ma gli altri non erano d'accordo. Allora hanno
dovuto dividersi le dighe e gli aeroporti prevedendo conguagli
in denaro per chi aveva una parte minore del lavoro.
   A questo punto si è scatenato l'inferno. Vi sono stati
mesi e mesi per potersi accordare e per farlo hanno chiamato
gente da fuori. Uno era un professore universitario (Laspisa),
un altro era un commercialista di cui non ricordo il nome e
poi vi era un uomo politico.
  PRESIDENTE. Non ricorda il nome di quest'ultimo?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Era siciliano?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Era di Catania o di Palermo?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
  PRESIDENTE. Secondo quanto lei sa, come facevano Graci,
Rendo e Costanzo ad avere tutti questi appalti?
  ANTONINO CALDERONE. Si mettevano d'accordo tra loro e
con gli imprenditori del nord. Questi ultimi, quando venivano
in Sicilia, aggiungevano alle spese il 10-15 per cento alla
voce mafia, perché avevano paura che gli venissero fatti
saltare i cantieri. Conseguentemente, non potevano competere
con le imprese siciliane.
  PRESIDENTE. Dovevano sostenere costi più alti?
  ANTONINO CALDERONE. Certo, è logico. Infatti, nel
momento in cui si inserisce nella busta l'offerta per un
determinato lavoro, vi si includono tutte le spese, tra cui un
onere aggiuntivo per i danni provocati dalla mafia o per
quello che si deve pagare.
   Loro invece andavano bene perché pagavano pochissimo.
  PRESIDENTE. Loro chi?
  ANTONINO CALDERONE. I Costanzo e i Graci.
  PRESIDENTE. Anche Rendo pagava?
  ANTONINO CALDERONE. No. Egli aveva delle buone
assicurazioni e pagavano loro.
  PRESIDENTE. Invece per quanto riguarda Graci e Costanzo?
  ANTONINO CALDERONE. Graci pagava Madonia e negli ultimi
tempi Madonia figlio e Nitto Santapaola. Costanzo, invece,
pagava a noi che pagavamo poi la "guardiania" e facevamo
prendere lavori a cottimo a uomini d'onore del paese. Questi
erano i rapporti.
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  PRESIDENTE. Costanzo pagava anche Santapaola?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. A mio fratello dava un milione
al mese. Dopo la morte di mio fratello, pagò a Nitto
Santapaola 15 milioni. In quel momento quest'ultimo era
vicino, ma non tanto, ad Alfio Ferlito, il quale disse: "Che
me ne faccio di 15 milioni? Non sono nulla". Decise allora di
darli ai carcerati acquistando per loro panettone e champagne
per Natale. Così nel carcere di Catania hanno brindato alla
salute di Costanzo.
  PRESIDENTE. Successivamente Costanzo ha pagato di più
oppure è cambiato il rapporto?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
  PRESIDENTE. L'imprenditore Finocchiaro ha mai avuto
niente a che fare con gli altri tre?
  ANTONINO CALDERONE. No. Finocchiaro aveva, come persone
che lo guardavano, un gruppo catanese molto forte che non
faceva parte della mafia. Si trattava del gruppo dei Cursoti
di cui era capo un certo Manfredi. Non le so dire altro,
perché Finocchiaro è emerso negli ultimi anni.
  PRESIDENTE. Santapaola proteggeva altri imprenditori a
Catania oltre a Costanzo?
  ANTONINO CALDERONE. Apertamente no. Tuttavia, se andava
da lui qualche imprenditore o qualche proprietario di negozi a
lamentare di aver ricevuto estorsioni, egli li proteggeva.
Rispondeva lui al telefono e diceva: "Sono Nitto...".
  PRESIDENTE. Può spiegare meglio questo aspetto?
  ANTONINO CALDERONE. Vi è stato un periodo, negli anni
compresi tra il 1974 e il 1976, in cui a Catania venivano
effettuate moltissime estorsioni. Noi della famiglia di
Catania non ne facevamo ed anzi eravamo contro le estorsioni;
Nitto in particolare le odiava a morte.
  PRESIDENTE. Perché?
  ANTONINO CALDERONE. Voleva la città "pulita" senza
estorsioni, forse perché dovevamo prendere piede, ma comunque
non conosco i motivi precisi.
   Tutti quelli che conoscevano Nitto, me o mio fratello, se
ricevevano qualche telefonata venivano ed egli si curava
personalmente di tutte le questioni. Rispondeva al telefono e
diceva: "Sono Nitto, mi conosci?". L'interlocutore rispondeva:
"Sì, ti conosco" e successivamente diceva di aver bisogno di
soldi per aiutare persone in carcere. Nitto dava loro un
appuntamento in una certa piazza e l'altro andava a trovarlo.
Ricordo che due giovani sono andati da lui dopo avergli
chiesto 300 mila lire. Quando si sono trovati davanti a lui
gli hanno detto: "Se la cosa riguarda te, Nitto, non vogliamo
soldi". Nitto invece gli ha dato per forza quei soldi e dopo
tre giorni ha mandato il fratello ad ucciderli.
  PRESIDENTE. Per garantire la protezione di Costanzo sono
mai stati commessi omicidi?
  ANTONINO CALDERONE. Ricordo che una volta, mentre mi
trovavo nella stanza di Pasquale Costanzo, è venuto un loro
capo cantiere, Giusto Risi, che era addetto alle betoniere (il
cemento lo producono nei loro stabilimenti e poi lo portano
nei vari cantieri). Il capo cantiere disse con riferimento ad
un cantiere di Messina: "Quello è tornato un'altra volta".
   Appena uscito il capo cantiere, Costanzo mi spiegò che
c'era una persona, precedentemente impiegata presso la loro
impresa, successivamente licenziato perché non voleva lavorare
e si metteva spesso in malattia, che ora si recava lì e con
grande arroganza chiedeva dei soldi.
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   Gli chiesi allora se ne avesse parlato a Nitto. Mi rispose
che gliene aveva già parlato e che ora avrebbe dovuto dirgli
che quello era tornato. Poco tempo dopo Nitto mandò suo
fratello e un capodecina ad ucciderlo.
  PRESIDENTE. Costui non chiedeva tangenti?
  ANTONINO CALDERONE. Voleva dei soldi.
  PRESIDENTE. Costanzo era al corrente di ciò?
  ANTONINO CALDERONE. Si riferisce al fatto che Nitto
abbia fatto uccidere quella persona?
  PRESIDENTE. Sì.
  ANTONINO CALDERONE. Certamente lo avrà capito. Non posso
dire se lo sapesse o meno.
  PRESIDENTE. In questo rapporto di protezione tra Cosa
nostra ed alcuni imprenditori, questi ultimi si servivano
degli uomini di Cosa nostra per stare tranquilli?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico. Se un'impresa si
aggiudica un grosso lavoro in un paese ad alta densità
mafiosa, ha bisogno di un uomo che le stabilisca i contatti
con i mafiosi di quel paese. Questi contatti si traducono, per
esempio, nel mettere un guardiano oppure nel far lavorare le
cave o i camion di proprietà dei mafiosi. Non vi era uomo
d'onore che non lavorasse nei cantieri di Costanzo; erano
veramente molti.
  PRESIDENTE. Quindi vi erano dei vantaggi?
  ANTONINO CALDERONE. Certo, è logico.
  PRESIDENTE. Come sono entrati a Palermo gli imprenditori
di Catania?
  ANTONINO CALDERONE. Sono entrati a Palermo perché noi li
abbiamo raccomandati; altrimenti, non sarebbero entrati.
  PRESIDENTE. A raccomandarli foste lei e suo fratello?
  ANTONINO CALDERONE. Prevalentemente mio fratello.
Pasquale Costanzo gli chiedeva dove fosse possibile
aggiudicarsi lavori. Mio fratello gli rispondeva: "Lei può
aggiudicarsi lavori in tutta la Sicilia; in Calabria non lo
so, ma in Sicilia può prendere tutti i lavori".
   Dopo che i Costanzo si erano aggiudicati un lavoro, per
esempio, a Caltanissetta o in un certo paese, mio fratello
andava a parlare con il rappresentante della località in
questione e gli diceva: "L'impresa Costanzo si è aggiudicata
un lavoro qui; avete persone che hanno bisogno di lavorare,
per esempio come guardiani, oppure camion o cave di cui
servirsi?".
   Io tra l'altro ho alcune proprietà che neppure conosco
perché a volte era necessario acquistare un pezzo di terreno
per collocarvi un cantiere; dal momento che non potevamo
intestarlo a mio fratello, che era stato sottoposto a
fallimento, lo intestavamo a me per non intestarlo ai
Costanzo. Se poi nel paese in questione vi erano persone
bisognose, Costanzo le pagava dando loro anche uno stipendio.
  PRESIDENTE. Tornando alla questione dell'entrata di
Costanzo a Palermo, può spiegare meglio l'aiuto che gli avete
dato a tal fine?
  ANTONINO CALDERONE. Noi proteggevamo i Costanzo fin
dagli anni cinquanta (cominciò un mio zio), quando essi non
erano ancora grandi imprenditori che effettuavano lavori
esterni. Il primo lavoro che hanno preso fuori è stato a
Trapani e mio zio ha presentato loro Antonio Minore, il quale
ha avuto l'esclusiva per i Costanzo a Trapani e provincia.
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   Se essi si aggiudicavano un lavoro a Palermo, si andava
dal rappresentante della famiglia della zona interessata
chiedendogli di che cosa avesse bisogno. Così i Costanzo
potevano lavorare tranquillamente.
  PRESIDENTE. Lei fa riferimento, nei suoi interrogatori,
ad un particolare lavoro che i Costanzo avevano preso a
Palermo, per cui non avevano pagato una cifra sufficiente.
  ANTONINO CALDERONE. Intorno al 1980 Nitto Santapaola,
parlando di Carmelo Costanzo, disse che quest'ultimo si
lamentava sempre, qualunque cosa gli si facesse. In
particolare, Totò Riina gli aveva fatto avere un grandissimo
lavoro in un palazzo di Palermo (non ricordo quale), a fronte
del quale gli furono chiesti cento milioni e Costanzo si
lamentava perché gli sembravano troppi.
  PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare di un certo dottor
Mandalari?
  ANTONINO CALDERONE. Se non sbaglio, era un
commercialista di Totò Riina e di Provenzano. In particolare,
faceva il commercialista con riferimento ad una cava.
  PRESIDENTE. Per essere il commercialista di Riina o di
Provenzano è necessario essere uomini d'onore oppure no?
  ANTONINO CALDERONE. No, non c'è bisogno. Comunque, non
so come vadano le cose oggi, con tutti i soldi che hanno.
  PRESIDENTE. Bisogna avere comunque la loro fiducia?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico.
  PRESIDENTE. Passiamo ad un'altra questione. Mandalari
aveva rapporti con Riina e con Provenzano?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, Provenzano.
  PRESIDENTE. Anche con altri, che lei sappia?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
  PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione come nascono i
rapporti tra mafia e massoneria?
  ANTONINO CALDERONE. A Catania ero molto amico del capo
di una setta massonica, Sortino, della quale faceva parte
anche la moglie (era quindi una setta che seguiva il rito
misto). Era un ex maggiore dell'esercito, ed era ingegnere
nell'impresa di mio fratello. Il suocero, un certo
Caporlingua, ai tempi di Mussolini, era stato mandato al
confino.
   Quando avevo bisogno di qualche favore presso il tribunale
mi rivolgevo a tutti e quindi anche ai massoni, perché sapevo
che ve n'erano molti all'interno della magistratura.
   Una volta, nel 1977, nel corso di una riunione regionale,
si disse che una loggia segreta della massoneria aveva chiesto
che due uomini per ogni provincia entrassero nella massoneria.
Garantivano naturalmente la segretezza. Di ciò si discusse
molto, perché oltre al fatto di dover confessare
l'appartenenza alla mafia (anche se in fondo ci si fidava
della massoneria) si doveva fare un giuramento, che si
sovrapponeva a quello fatto alla mafia. Si diceva quindi che
il giuramento alla massoneria doveva essere tradito e che si
dovevano carpirne i segreti, mentre i massoni di noi non
avrebbero dovuto sapere niente.
   Nel settembre dello stesso 1977, la famiglia è stata
sciolta; sono stati tolti gli incarichi a mio fratello e non
abbiamo saputo più niente di questa vicenda. Mio fratello
chiese notizie a Stefano Bontade (per Palermo avrebbero dovuto
essere lo stesso Bontade e Michele Greco).
  PRESIDENTE. Ed a Catania?
                         Pag. 295
  ANTONINO CALDERONE. Mio fratello ed un altro; ad Enna,
Bongiovino; a Trapani, si parlava di Totò Minore. Si trattava
comunque solo di indicazioni.
   Come dicevo, mio fratello chiese notizie a Stefano che,
anche se era un suo amico fraterno, non parlava se aveva
l'ordine di non farlo. Gli rispose, infatti, con un
sorrisetto. Mio fratello capì che erano già entrati nella
massoneria e che Stefano non poteva dirlo.
  PRESIDENTE. In uno dei suoi interrogatori ha affermato
che la massoneria aveva bisogno della mafia, e non viceversa.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, infatti, sono stati loro a
rivolgersi a noi. Quali fossero le loro mire, non lo so.
  PRESIDENTE. Era noto che Giacomo Vitale, cognato di
Stefano Bontade, fosse massone?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, tutti lo sapevano.
  PRESIDENTE. Vuole chiarire alla Commissione la vicenda
dell'intervento di Giacomo Vitale con un esponente della
massoneria nei confronti del giudice per il processo dei 114?
  ANTONINO CALDERONE. Mio fratello è stato arrestato e
sottoposto al processo dei 114. Per due anni mi sono recato
una o due volte la settimana a Palermo.
  PRESIDENTE. In che anni?
  ANTONINO CALDERONE. Mio fratello è stato arrestato nel
luglio del 1971 ed è uscito nel 1973.
   Conoscevo molto bene Giacomo; ci davamo del tu e ci
incontravamo quando lui andava a parlare con Stefano ed io con
mio fratello. Mi disse che del processo si stava occupando un
vecchio massone, che chiamava Zio. Quando mi diceva che
dovevamo recarci al tribunale non partivo per Catania, mi
fermavo a Palermo perché lo Zio si interessava per Stefano e
quindi anche per gli altri. Personalmente, però, non l'ho mai
incontrato e Giacomo Vitale non ha mai voluto che mi
avvicinassi a lui. Dopo che lo Zio era uscito, lo vedevo
entrare da Filippo Neri. Lui parlava con Giacomo, poi andava
via e Giacomo mi riferiva.
  PRESIDENTE. Entrava nello studio del giudice Neri o
negli uffici nei quali si trovava questo studio?
  ANTONINO CALDERONE. Entrava nello studio. Ricordo che
una volta la porta era aperta e nello studio dove era il
giudice vi era una porta che introduceva nell'ufficio del
consigliere istruttore.
  PRESIDENTE. Entrava anche lì?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Si trattava del corridoio a sinistra,
entrando nel palazzo di giustizia di Palermo?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, al piano terra.
  PRESIDENTE. Dove c'è l'ufficio istruzione?
  ANTONINO CALDERONE. Vi erano molte porte e si doveva
arrivare quasi alla fine. Entrando nello studio vi era la
scrivania del giudice Neri ed una porta che conduceva
nell'ufficio del capo, porta sempre chiusa.
  PRESIDENTE. Sa chi fosse questo Zio?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Ricorda i nomi dei magistrati con i quali
Cosa nostra entrava in contatto attraverso la massoneria?
  ANTONINO CALDERONE. Non li ricordo.
                         Pag. 296
  PRESIDENTE. Li sa ed in questo momento non li ricorda,
oppure non li sa?
  ANTONINO CALDERONE. Ci ha aiutato molto un pubblico
ministero di Catania, che poi ha vinto un concorso a Cuneo.
  PRESIDENTE. Campisi?
  ANTONINO CALDERONE. Sebastiano Campisi. Mi avevano fatto
la proposta per il soggiorno obbligato. Avevo un avvocato, un
uomo che mangiava molto ma non aveva capito quanto fossimo
importanti, non aveva capito, cioè, che potevamo anche
ammazzarlo, altrimenti non si sarebbe comportato come ha
fatto. Il rapporto insisteva sul fatto che mi ero arricchito
illecitamente. In effetti, all'epoca guadagnavo moltissimo,
avevo acquistato un terreno ed una casetta, avevo due
distributori di benzina e vendevo olio lubrificante ed olio
combustibile. Al momento della causa, l'avvocato mi disse che
non era necessario che fornissi tutta la documentazione della
quale disponevo. Fortunatamente, avevo un altro avvocato (non
era mafioso anche se era come se lo fosse) il quale mi
consigliò di portare tutto. Così ho fatto. Quando sono giunto
al tribunale non conoscevo Sebastiano Campisi ed un
avvocaticchio che lo conosceva mi disse che ci avrebbe parlato
lui. Quando il pubblico ministero ha visto i documenti che
avevo presentato, ha detto: "Probabilmente ho sbagliato
mestiere, perché avrei dovuto fare il benzinaio..".. Ha quindi
ritirato l'accusa. Il presidente D'Urso ha detto che se ne
sarebbe dovuto discutere meglio. Comunque, poi sono stato
assolto.
   Dopo qualche mese, l'avvocato che aveva parlato con il
pubblico ministero mi ha detto che il giudice Campisi aveva
bisogno di un favore. Vicino Catenanuova l'impresa Costanzo
stava costruendo l'autostrada Catania-Palermo, che toccava una
proprietà della moglie del giudice. Ci chiedeva, quindi, di
deviare leggermente la strada per evitargli il danno. Mio
fratello ha risposto che era necessario conoscere dove si
trovasse la proprietà. E' venuto quindi il giudice ed insieme
sono andati a vedere il posto. Al ritorno, il giudice ha
detto: "Sai cosa ha detto quella volta l'avvocato a proposito
di tuo fratello? Chiediamo quattro anni di soggiorno, così
gliene danno due e facciamo bella figura entrambi". Ho
lasciato perdere l'avvocato ma gli ho fatto una tale
pubblicità che dopo non ha più lavorato. Anzi, Luciano Liggio,
quando mio fratello era in galera, mi ha mandato a dire di
ammazzare l'avvocato, ma io ho risposto di no.
   Con Campisi siamo diventati molto amici.
  PRESIDENTE. La strada fu deviata?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, ed è stata anche aggiustata la
stradella che portava alla sua campagna. Egli poi è andato a
Cuneo e sembra che abbia "sistemato" tutti i suoi figli. Io
gli ho fatto grandi regali, gli portavo pesce fresco e
sigarette di contrabbando.
   Un giorno, dopo la morte di mio fratello, è venuto da me
un certo Castelli di Adrano, località nella quale il giudice
Campisi ha molte proprietà. Castelli mi ha riferito che
Campisi gli aveva detto di avere molto lavorato per Masino
Buscetta, il quale gli aveva poi regalato un brillante per la
moglie. Mi ha detto anche che, se volevo, potevo salutare il
giudice che si trovava nei pressi. Ho acquistato una cassa di
sigarette e del pesce e sono andato a trovarlo. Lui mi ha
raccontato di aver parlato a Roma con una collega e pare che
Buscetta si fosse ricordato che mio fratello parlava molto
bene di lui. Per cui quando Buscetta era in carcere a Torino
"si mise a modello 13" per parlargli: gli disse di essere
amico di Calderone e gli chiese un aiuto per andare a lavorare
fuori.
  PRESIDENTE. Ma questo Campisi era massone?
  ANTONINO CALDERONE. No, no.
                         Pag. 297
  PRESIDENTE. Ricorda i nomi di magistrati o di altre
persone di uffici giudiziari con i quali Cosa nostra entrava
in contatto attraverso la massoneria o ricorda quel solo
episodio?
  ANTONINO CALDERONE. No, c'è stato, come le dicevo, un
altro episodio di questo ingegnere Sortino. Il fratello di
Filippo Marchese era in galera, non so per quale motivo, e
aveva un processo grosso, in appello (in prima istanza aveva
avuto 10 o 12 anni). Chiese a me se c'era qualcuno a Catania
che conosceva il giudice d'appello. Ho chiesto a questo
ingegnere che mi disse: "Sì, è un mio fratello". Siamo andati
a Palermo.
  PRESIDENTE. Intendeva un fratello massone?
  ANTONINO CALDERONE. Io glielo dicevo: "Ingegnere, perché
non mi fai entrare nella massoneria?". Mi rispondeva: "Non è
possibile perché sei troppo smaliziato". Ne parlavamo, non era
un problema. Disse che era un suo fratello. Siamo andati lì,
ha parlato con suo fratello che ha detto che avrebbe guardato
la cosa di buon occhio: mi pare infatti che andò bene.
Addirittura a questo ingegnere - ora è morto, poverino - ho
dato dei soldi per fare un viaggio a Fiuggi, perché soffriva
di fegato.
  PRESIDENTE. Giacomo Vitale, di cui abbiamo parlato
prima, aveva rapporti con le famiglie mafiose?
  ANTONINO CALDERONE. Giacomo Vitale non era mafioso ma
era come se lo fosse. Io nella famiglia di Stefano Bontade ho
trascorso festività natalizie e Capidanno e lui era sempre lì.
Con noialtri era molto intimo. Era socio con suo cognato
Giovanni. Facevano delle costruzioni. Era come se fosse un
uomo d'onore ma non lo era.
  PRESIDENTE. Sa qualcosa dei rapporti tra Giacomo Vitale
e Michele Sindona?
  ANTONINO CALDERONE. No. Di Michele Sindona mi parlò un
mio compare di Mazzarino, provincia di Caltanissetta. Mi disse
che gli avevano detto che era stato a Caltanissetta ospite di
massoni. Mi ha fatto il nome specifico di un notaio, un certo
Cordaro.
  PRESIDENTE. Sa qualcosa dei rapporti tra Sindona,
Stefano Bontade e Michele Greco?
  ANTONINO CALDERONE. Non ne so niente.
  PRESIDENTE. Sapeva che Sindona era massone?
  ANTONINO CALDERONE. Sì me lo ha detto questo mio
compare: era ospite di questi massoni perché era massone.
  PRESIDENTE. Quindi, sapeva che molti massoni avevano
aiutato Sindona in Sicilia?
  ANTONINO CALDERONE. No, solo questo passaggio.
  PRESIDENTE. Ha saputo perché Sindona era venuto in
Sicilia?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Sapeva che Miceli Crimi era massone?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare di Miceli Crimi?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Carlo Morana era uomo d'onore?
  ANTONINO CALDERONE. Mi pare di sì, ma non so essere
preciso. Però molto, molto vicino a Di Cristina e a Totò
Greco.
  PRESIDENTE. Era anche massone?
                         Pag. 298
  ANTONINO CALDERONE. Il fratello.
  PRESIDENTE. Uno dei Greco è risultato iscritto ad una
loggia massonica di Palermo. Lo sapeva?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Sapeva che i Salvo erano iscritti alla
massoneria?
  ANTONINO CALDERONE. Nossignore.
  PRESIDENTE. Quali sono le notizie che ha del soggiorno
di Sindona in Sicilia nel 1979?
  ANTONINO CALDERONE. Niente, quello che le ho detto. Solo
che era ospite da questo notaio e che erano tutti massoni.
  PRESIDENTE. Avete mai parlato dei motivi per i quali
Sindona interruppe il soggiorno in Sicilia?
  ANTONINO CALDERONE. No, ripeto che non so niente.
  PRESIDENTE. Sa che rapporto c'è tra la venuta di Sindona
in Sicilia e l'omicidio del giudice Terranova?
  ANTONINO CALDERONE. No, niente.
  PRESIDENTE. Dell'omicidio del giudice Terranova sa
nulla?
  ANTONINO CALDERONE. Ho ricordi vaghi. Se non sbaglio, ma
ho ricordi vaghi ... mi sono sempre scervellato, non l'ho
detto nemmeno al giudice Falcone perché non ero sicuro... se
avevano chiesto un permesso a Di Cristina se si poteva o non
si poteva fare questo omicidio, ma non sono sicuro.
  PRESIDENTE. Chi avrebbe chiesto?
  ANTONINO CALDERONE. Sempre Palermo.
  PRESIDENTE. Prima di quello di Terranova c'è l'omicidio
del giudice Scaglione.
  ANTONINO CALDERONE. Quello è un'altra cosa. Una volta
usciti dal processo di Catanzaro, quando nel 1963 la mafia era
stata messa in ginocchio, ma veramente, erano morti di fame
dopo cinque anni di latitanza o di galera. Erano morti di
fame. Stefano Bontade diceva che per fortuna Masino Spadaro
faceva un poco di contrabbando e gli dava una parte, perché
erano morti di fame. Dopo che sono usciti e si sono un po'
organizzati Gaetano Badalamenti disse: "Dobbiamo far sentire
che siamo di nuovo qua". Disse che dovevamo buttare a mare i
carabinieri. Qualcuno ci ha riso in faccia. Per fare un certo
effetto dovevano far fuori qualcuno e hanno ucciso Mauro De
Mauro e il giudice Scaglione. L'onorevole Nicosia per fortuna
fu ferito, perché chi era incaricato di fare l'omicidio era un
ex macellaio. C'è voluto andare con l'accetta e con il
coltello ma è stato così imprudente che gli ha dato un colpo
di accetta, forse quello si è mosso e si è colpito ad una
gamba ed è dovuto scappare. Nicosia si è salvato così.
  PRESIDENTE. Perché furono scelti Scaglione e De Mauro?
  ANTONINO CALDERONE. Non so. Erano uomini ... De Mauro
era quello che diceva peste e corna della mafia
sull'Ora, Scaglione era un giudice.
  ALTERO MATTEOLI. Le risulta se Scaglione avesse avuto
rapporti con la mafia?
  ANTONINO CALDERONE. No, non mi risulta.
  PRESIDENTE. Quello di Terranova è stato il primo
omicidio di un magistrato ...
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  ANTONINO CALDERONE. No, il primo è Scaglione.
  PRESIDENTE. Sì, ma Scaglione è stato ucciso in questo
quadro diciamo di terrorismo. Ma al di fuori di questo quadro
mi pare che il primo è stato Terranova.
  ANTONINO CALDERONE. Quando si seppe che doveva venire
Terranova faceva un po' di paura, perché era un magistrato -
chiedo scusa agli altri - che faceva il suo dovere. Era un
magistrato comunista, si era presentato nel ... Era un
magistrato di nome. Faceva paura.
  PRESIDENTE. Quindi, fu per evitare che facesse male ...
  ANTONINO CALDERONE. O avevano altre cose pure, ma faceva
paura.
  PRESIDENTE. Ho capito.
   L'omicidio di Terranova fu deciso da Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Se non ricordo male (eravamo nel
1979, quindi non le so dire) ... Ma sicuramente sì.
  PRESIDENTE. Sa chi mise in contatto Sindona con il
notaio Cordaro?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. In quegli anni, nel 1978 e nel 1979, cioè
prima che Sindona venisse o mentre era in Sicilia, si
discusse, nelle famiglie di Cosa nostra, di un tentativo di
colpo di Stato per separare la Sicilia dall'Italia?
  ANTONINO CALDERONE. Non ne so niente.
  PRESIDENTE. L'affiliazione di uomini d'onore alla
massoneria deve essere tenuta segreta all'interno di Cosa
nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Dell'affiliazione di due uomini per
ogni provincia ne parlò la commissione regionale, lo sapevano
i capoccia. Poi se si doveva dire non lo so.
  PRESIDENTE. Può spiegare alla Commissione la scelta di
cui ha appena accennato di fare attentati dopo le assoluzioni
di Catanzaro? Mi pare che i capi di Cosa nostra uscirono
assolti, dopodiché si disse: "Ci dobbiamo ripresentare".
  ANTONINO CALDERONE. Sì, dobbiamo far sentire che siamo
presenti, tanto è vero che poi si dovevano mettere le bombe.
E' venuto a Catania Francesco Madonia, quello di Palermo,
portando una bomba ad orologeria, ma era un ordigno fatto
artigianalmente. Si doveva mettere quando lo dicevano loro.
Avevano deciso di metterlo alla fine dell'anno, poi non erano
d'accordo, fatto sta che noialtri non l'abbiamo messo. Luciano
Liggio disse a mio cugino: "Senti, hai ancora quella bomba?".
"Sì". "Perché non la metti dietro alla porta del palazzo di
giustizia?". Quello l'ha messa ed è scoppiata.
  PRESIDENTE. Quando fu messa la bomba nella macchina di
suo fratello non fu fatta intervenire la polizia perché un
uomo d'onore non deve farlo, ma venne chiamato Pietro
Rampulla. Può spiegare chi era?
  ANTONINO CALDERONE. Pietro Rampulla è il figlio di un
grande uomo d'onore di Mistretta. Era quello che spingeva
molto per ammazzare il presidente della regione D'Angelo. Da
ragazzo, frequentando la scuola, diventò fascista. Dice lui -
ed io ci credo - che lo hanno istruito nel maneggiare il
tritolo, le bombe. Nitto Santapaola ha portato questo signore
per disinnescare la bomba, perché noialtri non ne capivamo
niente. Lui ha staccato i fili e ci ha spiegato che era una
bomba con comando a distanza. Era una piccola scatola da
scarpe, l'abbiamo aperta e c'era una lampada: come faceva
contatto si accendeva. C'erano una
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batteria e tanti fili. Ora, se non ho messo io la bomba non
la stacco così presto.
  PRESIDENTE. Venne il sospetto che l'avesse fatta
Rampulla?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico.
  PRESIDENTE. Come è possibile che un terrorista di destra
fosse anche uomo d'onore?
  ANTONINO CALDERONE. Non era più di destra. Era stato
terrorista, aveva dato qualche coltellata, aveva un processo,
mi pare, ma poi era uscito.
  PRESIDENTE. Quando Cosa nostra, dopo le assoluzioni di
Catanzaro, decise di attuare la strategia della violenza per
rifarsi viva, era sola ad aver deciso o c'era qualcun altro
che poteva aver interesse?
  ANTONINO CALDERONE. Non so. Io sapevo che era Cosa
nostra ad aver deciso così.
  PRESIDENTE. Può dare alla Commissione i chiarimenti a
sua conoscenza sulla questione del golpe Borghese?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Qualcuno a Palermo ha fatto
sapere che Valerio Borghese voleva fare un golpe e voleva gli
uomini della mafia (non sapeva che si chiamava Cosa nostra).
Si sono riuniti ed hanno deciso. I fascisti non li hanno mai
potuti vedere per il fatto di Mussolini, perciò si disse che
se riuscivano nel golpe per noialtri erano guai, allora tanto
valeva prenderli in giro dicendo di sì, che accettavamo: se
vincono, abbiamo guadagnato, se non vincono non abbiamo perso
niente. Si disse che uno poteva andare a conoscere come
stavano le cose e mio fratello si recò a Roma ad un
appuntamento. Fu preso da una persona che lo portò da Valerio
Borghese, che gli chiese molti uomini e spiegò la strategia
del golpe.
  PRESIDENTE. Cosa gli disse?
  ANTONINO CALDERONE. Che Roma era il centro e tutta
l'Italia era periferia. Si doveva occupare prima di tutto il
Ministero dell'interno e la RAI. Dal Ministero dell'interno un
loro uomo avrebbe diramato a tutti i prefetti l'ordine di
levarsi perché sarebbero stati sostituiti da altri uomini.
Dovevamo accompagnarli noialtri mafiosi o i fascisti per farli
insediare: se i prefetti non si volevano levare dovevamo
intervenire noialtri. Borghese disse che dovevamo arrestarli e
mio fratello rispose che non avevamo mai arrestato persone e
che, se voleva, li potevamo ammazzare. Gli dissero che ci
avrebbero dato delle armi, se mandavamo degli uomini a Roma, e
che ci avrebbero fatto sapere la data. Hanno fissato la data
ed è partito dalla Sicilia Natale Rimi con altri due. Gli
hanno dato dei mitra, in quella famosa notte, dicendo: "Se
sentite a Roma sparare qualche colpo...". Noi aspettavamo
all'aeroporto il ritorno di questo.
  PRESIDENTE. Tutto il vostro contributo era rappresentato
da tre persone?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Se poi la cosa fosse andata bene vi sareste
mossi?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Comunque, agivamo così per
farceli amici e perché ci promisero che avrebbero revisionato
i processi di Liggio, Rimi e qualche altro. Naturalmente, non
ci garantivano che poi avremmo potuto effettuare omicidi a
nostro piacimento, poiché vi sarebbe stata comunque una legge.
Intanto, però, si potevano revisionare i processi.
  PRESIDENTE. Subire processi e condanne rappresenta un
fatto grave per Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. E' gravissimo, non grave.
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  PRESIDENTE. Quindi, uno dei maggiori interessi di Cosa
nostra è quello di ridurre la reclusione ed annullare i
processi?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico, perché in tal modo si
comanda meglio e si acquista un certo carisma. Infatti, chi
riesce a far annullare un processo acquista, agli occhi degli
uomini d'onore, un grande prestigio.
  PRESIDENTE. In carcere gli uomini d'onore hanno maggiori
spazi e possibilità degli altri detenuti?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, certamente, perché fanno paura.
Una guardia carceraria che ha una famiglia e vive nella stessa
città ha certamente paura. A trattare quella gente occorre
mettere invece persone non conosciute. Quei poveretti che lo
fanno per prendere uno stipendio sentono dire: "Io conosco una
donna là...". Allora si mettono paura.
   D'altronde siamo uomini, se ho paura io figurarsi gli
altri!
  PRESIDENTE. Gli uomini d'onore in carcere riescono a
parlare tra loro e a comunicare con l'esterno?
  ANTONINO CALDERONE. Quando mi recavo in carcere per i
colloqui con mio fratello, ho ricevuto ordini per far uccidere
alcune persone.
   Gaetano Badalamenti mi diceva, per esempio: "Dì a Totò
Riina di mettere la cravatta a quest'uomo". Ed io riferivo.
   Anche se io avevo il colloquio con mio fratello, e non con
Gaetano Badalamenti, loro facevano in modo, che, durante il
colloquio, Gaetano Badalamenti si mettesse vicino a mio
fratello per potermi indirizzare alcune parole. Vi sono anche
avvocati uomini d'onore che portano i messaggi.Si deve quindi
impedire lo svolgimento dei colloqui.
  PRESIDENTE. Vi sono anche avvocati che sono uomini
d'onore?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Può farcene i nomi?
  ANTONINO CALDERONE. L'avvocato Chiaracane è uomo
d'onore: suo padre era, o è ancora, capomandamento di
Bolognetto di Misilmeri. Vi era poi un avvocato di Stefano
Bontade, del quale non ricordo il nome, che era un uomo della
sua famiglia.
  PRESIDENTE. Lei ha parlato di Bolognetto di Misilmeri?
  ANTONINO CALDERONE. In quella località opera la famiglia
di Pippo Bono che fa parte del mandamento di Misilmeri.
Stefano Bontade aveva nella sua famiglia un avvocato, che ogni
giorno passava almeno due o tre ore nel carcere.
  PRESIDENTE. Vi sono avvocati che, pur non essendo uomini
d'onore, tengono i rapporti?
  ANTONINO CALDERONE. E' difficile, direi di no.
  PRESIDENTE. In precedenza lei ha fatto il nome di un
avvocato, che l'ha consigliata circa il modo di comportarsi.
  ANTONINO CALDERONE. Si tratta di Frino Restivo, ma non è
uomo d'onore.
  PRESIDENTE. Vi aiuta?
  ANTONINO CALDERONE. Lui sa chi sono io; tutti gli
avvocati sanno chi siano questi uomini. Infatti, chi effettua
le stragi? Perché li difendono?
  PRESIDENTE. Per gli avvocati una sorta di sanzione è
rappresentata dal fatto che voi non vi rivolgiate più a loro?
  ANTONINO CALDERONE. Io mi rifiuterei di lavorare.
                         Pag. 302
  PRESIDENTE. Mi riferivo al fatto che voi decidiate ad un
certo punto di non fidarvi più di un avvocato.
  ANTONINO CALDERONE. In quel caso si chiude con lui e si
fa girare la voce che è uno sbirro, un infame o comunque uno
che non fa le cose giuste.
  PRESIDENTE. In questo caso nessuno dei membri di Cosa
nostra si rivolge più a lui?
  ANTONINO CALDERONE. Una volta un avvocato mio
concittadino ha fatto una cosa brutta: ha abusato (in realtà
lei era consenziente) della moglie di un uomo d'onore al quale
egli faceva da avvocato. Anche se non lo hanno ucciso, in
seguito ha difeso pochi uomini d'onore.
  PRESIDENTE. Può indicare alla Commissione alcuni casi
concreti di favori giudiziari ricevuti da Cosa nostra, a parte
il caso di Campisi?
  ANTONINO CALDERONE. Ho citato il caso di Marchese di
Palermo.
  PRESIDENTE. Ricorda qualche altro caso?
  ANTONINO CALDERONE. Ne ho vissuti pochi. Posso citare il
caso di un giudice di corte d'appello di Catania che un mio
amico mi fece avvicinare. Gli ho chiesto un favore per un
nostro affiliato e lui me lo ha fatto. In cambio gli ho fatto
pulire il pavimento di marmo macchiato.
  PRESIDENTE. In ufficio o a casa?
  ANTONINO CALDERONE. A casa.
  ALTERO MATTEOLI. E' tutto qui quello che ha voluto?
  ANTONINO CALDERONE. E' stato uno scambio di favori;
poiché egli mi disse che la moglie aveva quel problema, gli
risposi che un mio amico faceva quel genere di lavori.
   Nessuno dice: "Voglio i soldi". Sono cose che si chiedono
così.
  PRESIDENTE. Lei ha detto che dopo l'assassinio del
generale Dalla Chiesa nessuno di voi venne arrestato
nonostante vi fossero mandati di cattura.
  ANTONINO CALDERONE. Questo si sapeva, perché da mesi
ogni tanto veniva qualcuno e diceva: "Stasera ci sono i
mandati di cattura".
  PRESIDENTE. Chi era questo qualcuno?
  ANTONINO CALDERONE. Erano persone mandate anche dalla
famiglia. Vi era un certo Zuccaro, che non è uomo d'onore, ma
è molto vicino a noi. Egli diceva di conoscere la segretaria
del giudice Grassi, che scriveva a macchina tutte le cose.
Quando ella andava a comperare le uova o il pollame, si
parlava di quando il giudice avrebbe emesso i mandati di
cattura.
  PRESIDENTE. Perché, in giro lo raccontavano tutti?
  ANTONINO CALDERONE. Si sapeva già che dovevano esserci i
mandati di cattura.
   Una volta doveva essere emesso un mandato di cattura nei
confronti di mio cugino e di altri. Lo sapeva addirittura la
cartomante.
  PRESIDENTE. Ci spieghi perché lo sapeva. Certamente non
lo avrà letto nella sfera di cristallo.
  ANTONINO CALDERONE. A queste cose non ho mai creduto,
perché se fossero vere attraverso quel sistema potreste sapere
subito dov'è Totò Riina!
  PRESIDENTE. Allora come lo aveva saputo?
  ANTONINO CALDERONE. Questa persona era la sorella
dell'amante del
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giudice Foti, un pubblico ministero di Catania. Quest'ultimo
si portava il lavoro a casa e lei leggeva tutto.
Successivamente lo diceva alla sorella.
   Tra l'altro, anche mia moglie è andata da quella
cartomante, la quale disse che per me le cose andavano bene.
  PRESIDENTE. Nitto Santapaola disse che alcuni calabresi
lo stavano aiutando per cercare di ottenere un trattamento
favorevole, da parte dei giudici di Messina, sia per Tuccio
Salvatore, sia per Nitto Santapaola che a Messina avevano
commesso un omicidio. Ricorda tale circostanza?
  ANTONINO CALDERONE. Era un uomo della 'ndrangheta che
aveva parlato con i giudici. Si chiamava Ciccio Canale.
  PRESIDENTE. Era lui l'uomo della 'ndrangheta che aveva
parlato con i giudici di Messina?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Poi gli imputati sono stati
assolti.
  PRESIDENTE. Vuole riferire alla Commissione quello che
sa sull'ex appuntato dei carabinieri Alleruzzo?
  ANTONINO CALDERONE. Alleruzzo era una sorta di
factotum nella caserma dei carabinieri. Dopo essere
andato in pensione, faceva diversi servizi gratuitamente: per
esempio, se un colonnello aveva bisogno di un timbro sul
libretto della USL, egli provvedeva. Agiva in sostanza come un
tuttofare senza chiedere soldi. Chiedeva però favori per noi
mafiosi che poi lo pagavamo.
  PRESIDENTE. Ricorda alcuni dei favori che avete ricevuto
da Alleruzzo? Si trattava di informazioni su indagini?
  ANTONINO CALDERONE. Probabilmente sì, anche se ora non
ricordo di preciso. L'ho detto comunque al giudice Falcone.
  PRESIDENTE. Questo Zuccaro di cui lei ha parlato, che è
quello da cui si riforniva la segretaria del giudice Grassi,
era legato ad alcuni uomini?
  ANTONINO CALDERONE. Era legato in modo particolare a noi
e al Malpassotu.
  PRESIDENTE. Anche a Pulvirenti?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Può parlarci del vicequestore Piazza?
  ANTONINO CALDERONE. So che il vicequestore Piazza era
molto intimo con Nitto Santapaola. Una volta, per un sequestro
di persona avvenuto a Catania, mi mandò a chiamare da un
brigadiere il quale mi disse: "Il vicequestore Piazza le vuole
parlare". Gli chiesi :"Dove, in questura?". Il brigadiere mi
rispose: "No, a casa sua". Io andai da lui.
  PRESIDENTE. Chi venne a dirle questo?
  ANTONINO CALDERONE. Un brigadiere della pubblica
sicurezza. Probabilmente il vicequestore sapeva che questo
brigadiere era mio intimo amico e veniva sempre al mio
distributore di benzina.
  PRESIDENTE. Questo brigadiere sapeva chi era lei?
  ANTONINO CALDERONE. Chi ero io, no, ma che ero mafioso
sì. Egli mi disse comunque che il vicequestore Piazza voleva
parlarmi. Andai da lui ed egli mi parlò di quel sequestro. Gli
risposi che non ne sapevo niente. Mi chiese ugualmente qualche
informazione. Gli risposi: "Dottore, noi se lo vediamo
possiamo solo ammazzarlo". Parlai quindi chiaro, senza mezzi
termini.
   Mentre parlavamo suonò il citofono ed il vicequestore,
rispondendo, disse all'interlocutore: "Che fai qui? Sali,
perché c'è una persona che ti conosce molto
                         Pag. 304
bene". Mentre questi saliva, Piazza mi chiese: "Sai chi è?".
Risposi di no ed egli mi disse che era Nitto Santapaola.
Quest'ultimo entrò furioso e disse: "Dottor Piazza, finirà che
ucciderò qualcuno di questi falchi". I falchi erano i
poliziotti. Piazza gli chiese il motivo ed egli rispose: "Mi
fermano con la macchina e pensano che io porti un
sequestrato". Insomma, era incazzatissimo.
  PRESIDENTE. Avete ricevuto favori dal vicequestore
Piazza?
  ANTONINO CALDERONE. Io no. Una volta, quando si parlava
di mettere a riposo mio fratello (dopo l'episodio della
bomba), Mangion mi disse: "Ma tuo fratello non si è fatto
notificare la sorveglianza". Se lo avesse fatto, avrebbe
dovuto dormire sempre nello stesso posto. Si trattava di un
momento critico in cui cercavano di ucciderlo.
   Egli mi disse che conosceva molto bene il dottor Piazza e
mi promise di parlargli della questione; in tal modo sarebbe
stato possibile notificare a mio fratello la sorveglianza in
modo che egli potesse andare in un'altra città e allontanarsi
da Cosa nostra.
  PRESIDENTE. Può spiegarci meglio la vicenda relativa al
porto d'armi della moglie di Santapola?
  ANTONINO CALDERONE. Posso parlare di due vicende
relative al porto d'armi.
   Per avere un porto d'armi era necessario sostenere un
esame che verteva sul funzionamento del fucile e sulla
conoscenza della cacciagione. Se ne interessava un farmacista,
uomo d'onore della famiglia di Santa Flavia di Bagheria. Lo
conoscevo molto bene, ma non ne ricordo il nome.
   Quando un uomo d'onore o qualcuno della sua famiglia aveva
bisogno di un porto d'armi, lo raccomandavo per gli esami.
Invece, in questura si occupava della cosa il dottor Piazza.
Nel 1979 ho fatto avere il porto d'armi a Nitto Santapaola
(gli ho fatto un regalo per tenermelo buono). A quel tempo
avevo un distributore di benzina presso la stazione centrale e
fornivo benzina alla polizia stradale, per cui conoscevo
qualcuno alla polizia stradale. Vicino a me vi era un uomo di
Enna, un certo Tedesco, che, pur non essendo uomo d'onore,
aveva parenti uomini d'onore. Egli era geometra ed aveva una
piccola impresa che lavorava per la polizia e per la polizia
stradale. Poiché conosceva molto bene il comandante di allora
della polizia stradale, gli dissi che non potevo far avere il
porto d'armi a Nitto. Mi rispose che ne avrebbe parlato con il
comandante della stradale. Così sono riuscito a far avere il
porto d'armi a Nitto Santapaola.
  PRESIDENTE. Intestato a Nitto?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. In che anno?
  ANTONINO CALDERONE. Nel 1979. Poiché mi avevano tolto la
patente, chiesi a questo maggiore se potevo riaverla. Lui ne
parlò in questura e mi riferì che non era possibile.
   Quando ebbi il porto di fucile per Santapaola, Tedesco mi
disse che doveva sposarsi la figlia del maggiore e che le si
poteva regalare un televisore. Gli diedi così 800 mila lire
per fare il regalo e gli dissi che se avessi riavuto la
patente le avrei regalato una macchina. Però non fu possibile.
  PRESIDENTE. Se non ricordo male, il porto d'armi a volte
veniva dato ai parenti dei mafiosi, perché questi non potevano
averlo.
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Quando i porto d'armi sono stati
ritirati, ognuno cercava di avere in casa perlomeno un fucile.
Quindi la moglie di Nitto ebbe il porto di fucile; io l'ho
chiesto per mia moglie ma non l'ho avuto.
                         Pag. 305
  PRESIDENTE. Vuole parlarci dei rapporti con il
colonnello Morelli e con il maresciallo Martino?
  ANTONINO CALDERONE. Ricordo che il colonnello Morelli
era molto amico di Pasquale Costanzo e di De Luca. Quando nel
1978 i carabinieri mi hanno arrestato sparandomi nella
macchina (non era blindata, però l'ho fatta franca) mi hanno
condotto in caserma. Lì ho salito una scaletta per andare
negli uffici; lui scendeva, mi ha visto e ha abbassato la
testa. So che ha telefonato subito a De Luca informandolo che
mi avevano arrestato e dicendogli che non poteva fare nulla
perché gli uomini che mi avevano arrestato dipendevano dal
colonnello Licata. Sono stato interrogato da lui, in presenza
del comandante dei carabinieri, ma non ha potuto fare nulla.
   Mi aveva chiesto a proposito di un altro personaggio.
  PRESIDENTE. Il maresciallo Martino.
  ANTONINO CALDERONE. Un giorno si è recato da Nitto
Santapaola informandolo che erano stati emessi mandati di
cattura per molte persone e mostrandogli la lista. Il
maresciallo Martino era il capo della squadra catturandi e,
prima dell'emissione dei mandati di cattura, doveva visitare i
luoghi dove avrebbe dovuto poi procedere agli arresti. Per
questo era in possesso dell'elenco.
   Santapaola gli disse che l'elenco conteneva solo
spazzatura e che l'unico che gli interessasse era Marchese
Salvatore, un mio cugino. Informò poi mio cugino.
   Un giorno ho incontrato Martino, che mi stava aspettando
sotto casa mia. Voleva parlarmi, perciò l'ho invitato ad
entrare, ma egli ha rifiutato, perciò ci siamo seduti nella
cinquecento di mia moglie parcheggiata nel cortile. Mi ha
mostrato l'elenco e mi ha detto che non sapeva se avrebbe
potuto fare qualcosa per mio cugino, ma che comunque avrebbe
tentato. Gli ho dato 500 mila lire per comprarsi una giacca.
   Sembra che Carmelo Costanzo abbia interessato della
faccenda il procuratore aggiunto Di Natale per far cancellare
il nome. Insieme al nome di mio cugino è stato cancellato
anche un altro nome. Quindi eravamo sicuri che la vicenda non
avrebbe avuto seguito.
   Una sera mi trovavo in una saletta d'aspetto dell'impresa
Costanzo per parlare con uno dei nipoti (doveva affidare del
lavoro alla mia impresa di movimento-terra). E' venuto il
dottor Domenico Compagnini che si occupa di balistica, tanto
che aveva libero accesso ai documenti dei carabinieri, almeno
allora, ora non lo so.
  PRESIDENTE. Anche adesso.
  ANTONINO CALDERONE. Mi ha detto: "Lei non sa niente?".
Ho risposto di no e lui ha aggiunto che erano stati emessi i
mandati di cattura per mio cugino, Ferrera Giuseppe e tanti
altri. Non gli ho detto che ce ne eravamo occupati ma mi sono
chiesto come mai, dato che ci avevano assicurato di aver
depennato i nomi. Di Ferrera Giuseppe non ne sapevo nulla. Ho
informato De Luca di quanto mi aveva riferito il dottor
Compagnini (con il quale ero in buoni rapporti, andavamo a
caccia insieme e gli avevo regalato una pistola).
  PRESIDENTE. Il dottor Compagnini sapeva che lei era un
uomo d'onore?
  ANTONINO CALDERONE. Quando mi hanno arrestato, nel 1978,
con me hanno preso un giovane che non era un uomo d'onore ma
un forestiero che avevamo fatto venire per fare qualche
servizio e per ammazzare qualcuno. Prima che uscissi, è stata
presentata per me una domanda di libertà ed il giudice Insera
ha detto che se ne sarebbe riparlato. Era questi un giudice
inavvicinabile, tanto che per un furto di macchine dava anche
cinque anni.
   Prima che mi fosse concessa la libertà provvisoria, lui si
è informato presso il colonnello Morelli.
                         Pag. 306
  PRESIDENTE. Lui chi, Insera?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Quando mi hanno arrestato i
giornali hanno scritto che un grosso commerciante che
viaggiava con la macchina blindata era stato arrestato dai
carabinieri. Quindi, il giudice Insera non mi conosceva e
voleva informazioni. Il colonnello Morelli gli ha detto che
ero una persona per bene, così ho avuto la libertà
provvisoria.
   Ho un po' divagato. Torno ora a parlare di Compagnini.
   De Luca mi disse che nella stanza di Pasquale Costanzo,
c'era Nitto. Sono entrato nella stanza di Costanzo e ho
trovato Nitto che, incazzatissimo, diceva (si trattava di un
processo per droga): "Mi vergogno di questa cosa. I giornali
parlano di droga; diversa cosa sarebbe stata un omicidio".
Agli occhi di Pasquale Costanzo doveva far vedere che non
lavorava con la droga.
   C'è stato un po' di marasma, ma poi tutto è rientrato
perché quello che aveva visto Compagnini era un elenco
vecchio. La questione era già stata superata ed ho saputo poi
che quando hanno interessato il Di Natale per avere
informazioni, se ne occupava De Luca, un cugino dei Costanzo,
il quale si era incontrato con Guarrata (il primo usciva e
l'altro entrava), un capitano dei carabinieri che si occupava
delle indagini. Era quello che lavorava meglio.
  PRESIDENTE. Svolgeva le indagini sul serio!
  ANTONINO CALDERONE. Proprio così. Quando ha capito che i
Costanzo si erano interessati della questione, ha sollevato il
problema ma il colonnello Licata lo ha "rabbonito".
  PRESIDENTE. Il colonnello Licata era vicino a voi?
  ANTONINO CALDERONE. A Nitto ed ai Costanzo.
  PRESIDENTE. Il Compagnini sapeva ...
  ANTONINO CALDERONE. Ecco perché ho parlato del mio
arresto: quando mi hanno arrestato, non conoscevo Compagnini,
che ho conosciuto dopo la morte di mio fratello attraverso
l'impresa Costanzo. Lui mi disse che i carabinieri volevano
che facesse una perizia fasulla sulla mia arma. Ciò perché
quando sono stato arrestato il giovane che era con me aveva
un'arma che gli era stata regalata da un uomo d'onore della
famiglia di Catania ed era stata acquistata da una guardia
notturna che aveva denunciato di averla persa. Era quindi
un'arma senza matricola, che gli è poi stata restituita.
Compagnini mi ha detto di avere fatto una perizia esatta,
nonostante le pressioni dei carabinieri.
  PRESIDENTE. Compagnini sapeva che lei era un uomo
d'onore?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo poteva sapere. Solo gli
uomini d'onore lo sapevano. Comunque, sapeva chi eravamo e che
facevamo la protezione a Costanzo.
  PRESIDENTE. Può informare la Commissione della vicenda
dei 30 milioni?
  ANTONINO CALDERONE. Dopo che è finito tutto (i mandati
di cattura per mio cugino) un giorno eravamo nell'impresa
Costanzo e Carmelo Costanzo, proprio davanti alla porta che
conduce nella segreteria di De Luca, si mise a gridare
dicendo: "Ho dato 30 milioni a Di Natale. Tu la devi smettere
con questa droga!". Ci ha fatto una paternale perché era suo
nipote. Marchese Salvatore ha sposato la figlia di una sua
sorella. Ci ha fatto una paternale che gli era costato 30
milioni. Diceva che il Di Natale era un giocatore di carte e
glieli ha portati addirittura ad Acireale.
  PRESIDENTE. Aveva bisogno di soldi?
                         Pag. 307
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Può informare la Commissione sul colonnello
Savino?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Intanto volevo dire anche che il
Compagnini volevano o l'hanno messo per l'omicidio Lipari.
Quasi dovevano chiedere scusa quando hanno arrestato Nitto
Santapaola, Mangion e Franco Romeo e il rappresentante di
Mazara del Vallo, subito dopo l'omicidio. C'è stato un via via
di carabinieri. I carabinieri di Catania dicevano che volevano
farla loro perché non avevano fiducia in quelli di Trapani,
poi i carabinieri di Trapani hanno mandato un capitano perché
non avevano fiducia in quelli di Catania e hanno voluto fare
le indagini loro. Nel carcere di Marsala c'era un comandante
delle guardie che io conoscevo molto bene e ho messo a loro
disposizione, facendoglielo conoscere. Non potevano avere
colloqui ma qualcuno di noi è andato lì, Nitto Santapaola ci
ha parlato (era uno della famiglia di Catania, mi pare un
certo Grillo) e ha mandato a dire che aveva detto, nelle
dichiarazioni, che aveva sparato a La Scia, una grande
proprietà dei Costanzo dove aveva immesso delle lepri e dove
andavamo tutti. Il Compagnini era stato il promotore
dell'immissione di queste piccole lepri che venivano
dall'Argentina. Disse chi era con loro quando hanno sparato,
mentre invece era tutto falso. Disse che c'era il guardiano de
La Scia, mio cugino Salvatore Marchese, però non disse che non
faceva il nome di Compagnini perché non voleva ... Poi sono
stati chiamati e al giudice hanno detto: "Sì, è vero lui una
settimana prima era lì con noialtri". Ma è tutto falso.
  PRESIDENTE. Se non ricordo male, dopo l'omicidio Lipari
furono fermati in macchina Santapaola e altre due o tre
persone. Fecero il guanto di paraffina e risultò che avevano
sparato da poco. A questo punto dissero che avevano sparato
nella tenuta di caccia La Scia.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, questo era. Nessuno poteva
entrare nel carcere perché erano inquisiti.
  PRESIDENTE. Però riuscirono lo stesso a parlare.
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Il comandante delle guardie, un
certo Francon, era prima all'Ucciardone come infermiere. Era
molto intimo del direttore del carcere ed io l'ho conosciuto
lì. Poi ha fatto un concorso, è diventato brigadiere e quindi
comandante delle guardie di Marsala. Nel periodo in cui a
Marsala c'erano il fratello di Nitto, Nino Santapaola, e Alfio
Amato, arrestato a Catania e portato a Marsala, gliel'ho fatto
conoscere. Salvatore Santapaola aveva detto: "Andiamo subito a
Marsala, visto che tu conosci molto bene il comandante delle
guardie, perché dobbiamo parlare con Nitto". Gli dissi:
"Senti, è successo questo omicidio, ormai sanno chi sono io,
la polizia conosce il mio nome, se ci incontrano insieme è
ancora peggio". Disse: "E' vero, è vero, allora ci andiamo
soli". Poi hanno portato questa risposta di dire ad un certo
Parrapica, il guardiano de La Scia, e ci siamo andati io,
Salvatore Santapaola e mio cugino a dire: vedi, quel giorno
così, così e così, c'era questa gente perché lui ha fatto
queste cose. Ha fatto il nome di un mio cugino, Marchese
Salvatore, però il nome del Compagnino pare che non l'abbia
fatto, pare per non intaccarlo, non so.
  PRESIDENTE. Lei è stato sentito al processo per
l'omicidio di Lipari?
  ANTONINO CALDERONE. Nel processo no, sono stato sentito
dai giudici.
  PRESIDENTE. Ha detto queste cose?
  ANTONINO CALDERONE. Sissignore.
  PRESIDENTE. Del colonnello Savino dicevamo ...?
                         Pag. 308
  ANTONINO CALDERONE. Quando c'è stato l'omicidio Dalla
Chiesa hanno spiccato il mandato di cattura per Santapaola ed
altri. Gino Costanzo - mio cugino mi ha detto che Gino
Costanzo gli ha detto ma poi mi pare lo disse anche a me - mi
disse che quella sera Santapaola si trovava alla Perla Ionica,
lo stabilimento balneare più fine della provincia di Catania,
di proprietà dei Costanzo, che hanno una testa di legno che
dice di essere il proprietario, ma non è vero. Aveva un
residence affittato per tutta l'estate e dice che lo aveva
anche il colonnello Savino, che era un buon testimone. Gino
Costanzo diceva: "Ma Santo Caruso perché non gli va a dire che
c'era quello là?" e lui diceva: "No, lo dirò all'ultimo
momento, se mi arresteranno, che sono tutte cose false".
  PRESIDENTE. Per non coinvolgerlo?
  ANTONINO CALDERONE. Non so.
  PRESIDENTE. Ma avevano rapporti Santapaola e Savino?
  ANTONINO CALDERONE. So che si conoscevano.
  PRESIDENTE. Lei ha raccontato che durante il matrimonio
di un figlio di Gino Costanzo il capitano Guarrata che era lì
aveva visto qualcuno ...
  ANTONINO CALDERONE. Sì, ha visto Antonio Minore che era
latitante e lo voleva arrestare. Guarrata faceva il suo
dovere. Diceva che c'erano un sacco di mafiosi. C'era pure
Nitto Santapaola. A me non hanno invitato, perché ero già
caduto, dopo la morte di mio fratello. Gli ho fatto un bel
regalo di un milione, un telefono d'argento, ma non mi hanno
dato nemmeno i confetti. C'era l'elite della mafia, Antonio
Minore, Nitto Santapaola, mio cugino ed altri. Dice che il
capitano Guarrata voleva proprio arrestarlo.
  PRESIDENTE. Era stato invitato anche il capitano
Guarrata?
  ANTONINO CALDERONE. No, forse era lì per l'ordine
pubblico, o erano stati invitati ... Il colonnello Licata
sicuramente.
  PRESIDENTE. Il colonnello Licata era stato invitato?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, sì. Forse il capitano Guarrata,
che poi è andato a comandare la compagnia di Acireale, era lì
per servizio, non so. So che c'era e voleva arrestarlo e
Licata non l'ha fatto arrestare.
  PRESIDENTE. Lei ha usato più volte l'espressione
"aggiustare i processi". Che cosa vuol dire?
  ANTONINO CALDERONE. Vuol dire andare a parlare con il
presidente o, se è un processo di assise con i giurati, si ha
la lista di dove sono. Se in un paesino c'è una maestrina ci
si arriva assai facilmente. Ecco cosa vuol dire "aggiustare i
processi".
  PRESIDENTE. Si intimidisce anche o basta parlargli?
  ANTONINO CALDERONE. Basta la figura che già l'hai
intimidito.
  PRESIDENTE. Conosce casi concreti in cui questo è
avvenuto?
  ANTONINO CALDERONE. Ricordo che una volta ci fu un
omicidio, era stato scannato un uomo in provincia di Enna. Si
parlò con i giurati e si aggiustò.
  PRESIDENTE. Con questo meccanismo: si sa tutto dei
giurati, chi sono e così via.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, sì. Se no, si va dal presidente,
dal giudice a latere, qualche cosa si trova.
  PRESIDENTE. Quindi, quando c'è un processo scatta
un'operazione di questo genere?
                         Pag. 309
  ANTONINO CALDERONE. Sì, subito si va a sapere chi sono i
giudici. E poi gli avvocati sanno vita, morte e miracoli di
tutti i giudici. Allora, con quello ci può parlare quello, con
quello quell'altro. E' una cosa ... di caffè.
  PRESIDENTE. Quindi l'avvocato fa da tramite?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, perché uno chiede all'avvocato
com'è il tale giudice, e l'avvocato indica chi lo può
conoscere. Noialtri a Catania avevamo il padre di Alfio
Ferlito che viveva solo per "aggiustare" i processi con i
magistrati, Agatino Ferlito.
  PRESIDENTE. Come mai aveva questa capacità?
  ANTONINO CALDERONE. Forse perché da ragazzo voleva fare
l'avvocato, ma non l'ha potuto fare. Tutta la malavita si
rivolgeva a lui, che sapeva tutta la vita, di chi erano
parenti, da dove ci si arrivava, tutto quanto.
  PRESIDENTE. Anche debolezze dei singoli giudici?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico. Io conoscevo un uomo, non
d'onore, che aveva un segretario sempre di questo Di Natale a
cui compravano tutto. Per i fallimenti e queste cose avevano
sempre porte aperte nel tribunale. Il tribunale a quei tempi
era un porto di mare.
  MASSIMO BRUTTI. In quali anni?
  ANTONINO CALDERONE. Negli anni settanta e sessanta.
  PRESIDENTE. Può illustrare alla Commissione la vicenda
del dottor Cipolla?
  ANTONINO CALDERONE. Da quando il dottor Cipolla è
arrivato a Catania ci ha disturbato sempre, per lo meno me e
mio fratello. Mio fratello è stato operato di tumore alla gola
mentre era in detenzione e lui gli ha messo le guardie lì
sotto quando non era un servizio che doveva fare. Ci ha
disturbato sempre. Era uno che faceva il suo dovere. ha
disturbato me tante volte, fin quando me ne sono dovuto andare
da Catania perché mi mandava a cercare. L'avvocato gli disse:
"Dottore, mi dica se ... Io glielo porto, lei lo interroga e
poi me lo fa ..." "No, non glielo posso dire questo".
  PRESIDENTE. Cioè me lo fa uscire?
  ANTONINO CALDERONE. Ecco. Allora l'avvocato mi disse:
vattene, perché questo ti arresta. Dopo il 1975, dopo che mio
fratello era diventato rappresentante regionale, abbiamo
conosciuto - prima o dopo - i Salvo e ne abbiamo parlato con
loro in una nostra visita che abbiamo fatto all'esattoria,
quel gran palazzo vecchio ...
  PRESIDENTE. A Palermo?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Tutti i miei cugini dicono: "Ma
questa è una cosa che possiamo far risolvere a Salvino". Mio
fratello dice: "Chi?" "A Lima" "Ah, Lima ..." "Ora gliene
parliamo e poi vi facciamo sapere qualcosa". Gli hanno parlato
e ci diedero un appuntamento a Roma, negli uffici di Maniglia.
Siamo entrati in questi uffici, era un gran salone con un
tavolo nel mezzo. C'era solo Nino Salvo. Dopo un po' è
arrivato Maniglia, al che abbiamo detto le nostre rimostranze,
chiedendo di mandar via questo vicequestore che ci rendeva la
vita difficile. Lui disse che ci avrebbe dato qualche
risposta. L'unica volta che ...
  PRESIDENTE. Sapeva chi eravate?
  ANTONINO CALDERONE. Sapeva chi eravamo, anche se non
sapeva che eravamo mafiosi. Era al corrente del fatto che a
Catania questo vicequestore ci disturbava e che mio fratello
era rimasto coinvolto nel processo dei 114. Ci disse che ci
avrebbe fatto sapere qualcosa.
                         Pag. 310
   Dopo un po' di tempo i Salvo ci dissero che Lima aveva
chiesto il trasferimento per Cipolla e gli avevano risposto
che forse la moglie, la quale probabilmente faceva la maestra,
aveva chiesto a sua volta il trasferimento e quindi la cosa
poteva andare avanti da sola.
  PRESIDENTE. Oltre a Lima c'erano altri uomini politici
che hanno avuti rapporti con settori delle istituzioni per
aiutarvi?
  ANTONINO CALDERONE. Non le so rispondere. Comunque, era
chiaro che se avevo fatto prendere voti ad un deputato potevo
rivolgermi a lui.
  PRESIDENTE. Quindi si avvaleva delle persone alle quali
avevate fatto avere voti?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Ora le indicherò alcuni nomi: lei ha detto
che il giudice Foti aveva un'amante che era la sorella
dell'amante di Cannizzaro.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, e Cannizzaro è cugino di
Giuseppe Ferrera. Di là hanno depennato il nome di Giuseppe
Ferrera; probabilmente lo ha depennato il giudice Foti il
quale era quello che aveva il rapporto ed ha spiccato il
mandato di cattura, tanto che ad un certo punto Di Natale ha
avocato a sé il fascicolo per depennare quei nomi. Poi
naturalmente glielo ha restituito.
  PRESIDENTE. Che cosa può dire sul dottor Peri?
  ANTONINO CALDERONE. Il dottor Peri era nella squadra
mobile, probabilmente con le funzioni di commissario capo. A
quei tempi vi era il questore Aiello ed un maresciallo, di
nome Carbonaro, che svolgeva un importante ruolo nella squadra
mobile e che noi conoscevamo bene da molti anni.
   Successivamente il dottor Peri è stato trasferito da
Catania perché si metteva d'accordo per fare le rapine. Mi
risulta il caso di un giovane che era assicurato e mi ha
chiesto in prestito i soldi necessari per farsi fare una
rapina. Egli ha studiato il caso insieme a Peri, hanno
inscenato una falsa rapina ed hanno incassato il premio
dell'assicurazione oltre ai soldi. Successivamente mi ha
regalato uno stemma di cuoio da mettere nel mio studio.
   Poi è stato trasferito, forse a causa delle sue non buone
qualità, a Trapani, dove è diventato comandante della squadra
mobile.
   Noi non lo conoscevamo, se non di vista. Un giorno mi
telefonò in ufficio dicendo che voleva parlare con me o con
mio fratello di una cosa molto urgente. Ci diede un
appuntamento alle porte di Trapani per la stessa sera o il
giorno successivo. Io e mio fratello ci recammo
all'appuntamento ed egli ci disse che aveva potuto constatare
che il questore Aiello stava preparando la pratica per mandare
Antonio Minore al soggiorno obbligato.
  PRESIDENTE. A Trapani?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Ci chiese comunque se potevamo
fare qualcosa. Gli rispondemmo che non lo conoscevamo. Egli ci
disse che se fosse venuto il maresciallo Carbonaro avrebbe
ottenuto qualsiasi cosa, perché erano molto amici. Assicurammo
allora che ne avremmo parlato con il maresciallo Carbonaro.
Tornati in città, ci siamo rivolti a quest'ultimo (in quel
momento era già in pensione) che aveva un obbligo nei
confronti di mio fratello il quale gli aveva fatto ottenere
una bella casa (forse una casa popolare), non ricordo a che
titolo. Tra l'altro erano molto amici. Il maresciallo
Carbonaro promise che ci avrebbe fatto il favore.
   Poi siamo andati a Trapani; io sono rimasto con Totò
Minore, mentre lui è andato in questura dove è stato ospite
del questore Aiello e successivamente sono
                         Pag. 311
andati tutti e tre a mangiare insieme (Aiello, Carbonaro e
Peri), poiché era un trio che in precedenza aveva operato a
Catania. In quell'occasione fu sollevata la questione ed il
questore chiese come fossimo venuti a conoscenza del rapporto,
dal momento che egli lo teneva chiuso nel cassetto.
   Comunque, il provvedimento non è stato preso, Totò Minore
non è stato mandato al soggiorno obbligato e noi abbiamo
pagato circa 7-8 milioni a Peri.
  PRESIDENTE. Quindi, avete dato 7-8 milioni al dottor
Peri?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Successivamente, quando è stato
spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti, abbiamo
tenuto lo stesso Peri come latitante. Lo ha ospitato Nitto
Santapaola in provincia di Catania.
   In precedenza, quando Peri era a Catania, prendeva i soldi
delle case da gioco di Nitto Santapaola, e quindi erano molto
amici. Quando poi è diventato latitante è stato ospitato da
Nitto, presso un suo amico sotto Taormina.
  PRESIDENTE. Che cosa può dire sul colonnello medico
Cascioferro?
  ANTONINO CALDERONE. E' un uomo d'onore.
  PRESIDENTE. Nel libro lei afferma che un capodecina di
Catania aveva come socio un appuntato di pubblica sicurezza
addetto alle celle della questura.
  ANTONINO CALDERONE. Non si trattava di un socio. Questo
appuntato, di cui non ricordo il nome, era un calabrese. Il
capodecina faceva il borsaiolo, poiché non sapeva fare altro.
Tuttavia, aveva bisogno di un palo e l'appuntato di pubblica
sicurezza si prestava a questo compito per poi dividere il
bottino.
  PRESIDENTE. Chi era l'importante magistrato del
tribunale di Catania, originario di Adrano, che veniva
chiamato Napoleone?
  ANTONINO CALDERONE. Non glielo so dire, non ho mai
conosciuto il suo nome. I fratelli Costanzo lo chiamavano
Napoleone e gli hanno dato una nuova proprietà ad Adrano.
   Quando mi hanno fatto il processo per il soggiorno
obbligato, lui aveva parlato con D'Urso. Poi però il pubblico
ministero ha ritirato tutto.
  PRESIDENTE. Lei ha detto che Costanzo aveva costruito,
in piazza Santa Maria del Gesù, uno stabile abitato da
magistrati che non pagavano il fitto. Può informare la
Commissione al riguardo?
  ANTONINO CALDERONE. Si tratta di due o tre magistrati
dei quali non ricordo il nome. Uno di loro era un importante
pubblico ministero che ora è morto. Egli svolgeva la funzione
di pubblico ministero al processo per omicidio a carico di
Francesco Ferrera, e si aveva paura di lui.
   Ferrera è stato assolto, ma si temeva che il pubblico
ministero si appellasse. Sono andato quindi una volta a casa
sua e quando sono andato a prendere la risposta mi disse :
"Stia tranquillo, che ormai possono mangiarla i topi". Aveva
lasciato scadere i termini ed aveva "insabbiato" la cosa.
  PRESIDENTE. Comunque, erano due o tre i magistrati che
abitavano in quello stabile?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, ma non ne ricordo i nomi.
  PRESIDENTE. Ricorda come avveniva il pagamento del
fitto?
  ANTONINO CALDERONE. Costanzo diceva che loro davano ai
giudici la ricevuta quietanzata, da cui risultava che avevano
pagato, ma in realtà non avevano dato i soldi.
  PRESIDENTE. Può riferire alla Commissione la vicenda
dell'onorevole Drago e in particolare dello scontro che ebbe
con Agatino Ferlito detto Castro?
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  ANTONINO CALDERONE. Vi è stato un periodo in cui i
Ferlito erano in auge ed un nipote di Ferlito, impiegato al
dazio (successivamente non si chiamerà più dazio) di Catania,
si presentò candidato alle elezioni comunali nelle liste della
DC, nella corrente di Drago. Ottennero molti voti e Ferlito
disse a Drago: "Ha visto, onorevole?". Drago gli rispose: "Ma
quando mai, non è stato tuo nipote!". Ferlito allora diede uno
schiaffo all'onorevole Drago.
  PRESIDENTE. Drago era già deputato?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. L'episodio avvenne nella sede
del partito.
  PRESIDENTE. Può ricordare alla Commissione quello che
lei sa circa i rapporti tra Nino Salvo e l'onorevole Ruffini?
  ANTONINO CALDERONE. Sono stato un paio di volte a casa
di Nino Salvo; una volta ho anche mangiato lì. Si trattava di
persone molto buone.
   Ho un cugino, che ho perso di vista da moltissimi anni
(probabilmente oggi è colonnello o generale), al quale ho
chiesto se avesse bisogno di un trasferimento di sede o di un
passaggio di grado, poiché in quel momento Ruffini era
ministro della difesa. Ne ho parlato a Nino Salvo il quale mi
disse che si poteva fare qualcosa.
   La mafia non ha mai potuto sopportare questo mio cugino,
tanto che gli hanno ucciso un fratello ed egli è andato via
dalla Sicilia.
  PRESIDENTE. Hanno ucciso un fratello di questo suo
cugino?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. E' stata la mafia?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so, comunque era mafioso. Tra
l'altro, un mese e mezzo fa a Catania hanno ucciso due
fratelli, uno mafioso e l'altro no.
   Questo mio cugino si chiama Salvatore Marchese e
l'onorevole Ruffini abitava nello stesso palazzo dei Salvo.
  PRESIDENTE. A Palermo?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, a Palermo, in un palazzo
piuttosto vecchio ma molto bello. Vi erano molte guardie di
scorta.
  PRESIDENTE. Il palazzo aveva anche un altro ingresso?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, vi era l'ingresso da cui
entravano le macchine. Vi era un ammezzato (sotto il quale si
trovavano i garage) in cui i Salvo tenevano tutta la doppia
contabilità.
  PRESIDENTE. Salvo si vantava della sua amicizia con
Ruffini?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Vuole chiarire alla Commissione l'intervento
di Carmelo Costanzo per salvare dal fallimento l'impresa
Maniglia?
  ANTONINO CALDERONE. E' venuto a Catania perché Maniglia
era in bruttissime acque ed i Salvo ne hanno parlato anche con
mio fratello per farlo sapere ai Costanzo. Si è quindi avuto
un incontro al quale Nino Salvo si è recato con un aereo
personale (di Maniglia), un bimotore a reazione. Sono andato a
prenderlo io con l'autista di Costanzo. Non si sono messi
d'accordo perché Maniglia, nel farsi fare i lavori, voleva
ricavarne un utile (credo che fosse quasi fallito) che
Costanzo non gli riconosceva. Ho poi saputo che quest'ultimo
ha brigato per far fare i lavori ad altre imprese. Ma poi non
se ne è fatto niente.
  PRESIDENTE. Cosa può dire alla Commissione
sull'onorevole Drago, oltre alla vicenda che ci ha raccontato?
Era votato da voi?
                         Pag. 313
  ANTONINO CALDERONE. Non tanto.
  PRESIDENTE. E l'onorevole Russo?
  ANTONINO CALDERONE. L'onorevole Russo era votato da noi
e dai Costanzo.
  PRESIDENTE. Può spiegare chi fosse Russo?
  ANTONINO CALDERONE. Russo era il sindaco di Aci
Sant'Antonio ed un deputato nazionale della democrazia
cristiana.
  PRESIDENTE. Uno di quelli che voi appoggiavate?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Mentre Drago non era tra quelli che
appoggiavate?
  ANTONINO CALDERONE. Per lo meno quando io e mio fratello
... Ferlito, il cui figlio era uomo d'onore della famiglia di
Catania, lo hanno appoggiato loro. Hanno appoggiato il cugino,
che poi era della corrente di Drago.
  ALTERO MATTEOLI. In che anno Russo veniva votato da voi?
  ANTONINO CALDERONE. A partire dagli anni settanta.
  PRESIDENTE. Di che partito era?
  ANTONINO CALDERONE. Della democrazia cristiana.
  ALTERO MATTEOLI. E' ancora parlamentare?
  PRESIDENTE. Essendo sindaco ...
  ANTONINO CALDERONE. E' sindaco di Aci Sant'Antonio, in
provincia di Catania.
  PRESIDENTE. A proposito del processo di Catanzaro,
l'assoluzione fu il risultato di un aggiustamento del
processo?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so. So che sono stati
condannati solo per associazione e hanno avuto quattro o
cinque anni. La condanna maggiore è stata quella di Totò Greco
(nove o dieci anni).
  PRESIDENTE. Lei sa se ci furono pressioni o interventi
nei confronti dei giudici?
  ANTONINO CALDERONE. Non glielo so dire.
  PRESIDENTE. Sull'omicidio Mattarella, lei sa o ha
sentito dire quali ne fossero le cause?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Lei ha parlato di medici affidabili. Che
cosa intendeva dire?
  ANTONINO CALDERONE. Se io sono ferito, so a chi
rivolgermi. A Palermo qualcuno era uomo d'onore. Un medico
molto in vista era vicino ai corleonesi; ricordo di averlo
visto: mi era stato presentato da Giuseppe Gambino per curare
mia moglie che aveva problemi alle ginocchia. Mi pare fosse
l'aiuto del professor Recina, il quale ha visitato mia moglie
perché lui mi aveva presentato. Ricordo che, quando il
professor Recina ha tratto le conclusioni, lui le scriveva.
Era, comunque, un uomo d'onore (non lo era il professor
Recina) molto vicino ai corleonesi (non ricordo a quale
famiglia appartenesse), tanto che me lo ha presentato Pippo
Gambino, un corleonese.
  PRESIDENTE. Questi medici servono anche per le perizie?
  ANTONINO CALDERONE. Certo, se si tratta di uomini di cui
si ha fiducia.
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  PRESIDENTE. Quindi servono tanto per curare eventuali
feriti quanto per certificati e perizie?
  ANTONINO CALDERONE. Certo.
  PRESIDENTE. Parlando di Salvatore Greco, il "senatore",
lei ha detto che aveva rapporti con banche e uffici pubblici.
Può spiegare alla Commissione il ruolo e la funzione di
Salvatore Greco?
  ANTONINO CALDERONE. Ho parlato poche volte con
Salvatore, ma suo fratello Michele diceva che si interessava
di tutte le pratiche per prestiti ed altro e dei rapporti con
gli uomini politici. Si occupava lui delle pubbliche
relazioni.
  PRESIDENTE. Anche con i medici?
  ANTONINO CALDERONE. Può darsi. Non lo so.
  PRESIDENTE. Come fanno gli uomini di Cosa nostra a
riciclare il denaro, cioè a far scomparire le tracce del
denaro che proviene dal traffico di stupefacenti?
  ANTONINO CALDERONE. Non glielo so dire.
  PRESIDENTE. Di Mandalà cosa sa, oltre quello che ha già
detto?
  ANTONINO CALDERONE. Niente.
  PRESIDENTE. Lei ha spiegato che nel febbraio 1975 si era
deciso, su istanza di suo fratello, di non fare più sequestri
in Sicilia. Può spiegare alla Commissione perché?
  ANTONINO CALDERONE. Perché quando si fa un sequestro di
persona la polizia ci sta addosso. Ci sono posti di blocco ...
  PRESIDENTE. I costi sono troppo elevati?
  ANTONINO CALDERONE. No. Il fatto è che i latitanti non
possono più camminare.
  PRESIDENTE. Intendevo parlare di costi in questo senso.
  ANTONINO CALDERONE. Ho capito. Non si può muovere più
nessuno.
  PRESIDENTE. L'esigenza di dettare questa regola scaturì
dal fatto che suo fratello doveva salvaguardare Costanzo'
  ANTONINO CALDERONE. Anche per questo, ma tutti furono
d'accordo.
  PRESIDENTE. Però poi un sequestro fu fatto.
  ANTONINO CALDERONE. Ci furono dei sequestri ma, secondo
me, non tutta Cosa nostra ne era a conoscenza.
  PRESIDENTE. Può chiarirci la vicenda del sequestro
Corleo?
  ANTONINO CALDERONE. Si pensava che fossero stati i
corleonesi. Tano Badalamenti ne era sicurissimo, ma non si
avevano le prove.
  PRESIDENTE. Ci fu il progetto di sequestrare
l'imprenditore Graci?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Giuseppe Di Cristina voleva un
po' uscire dal seminato. Una volta, Totò Greco, venuto in
Sicilia, si lamentava di non stare bene in Venezuela e Di
Cristina gli disse: "Perché non facciamo un sequestro?".
Quando Greco gli obiettò che non si poteva, egli rispose che
si poteva fare fuori dalla Sicilia. Decisero così di
sequestrare Graci, che era appoggiato da Madonia con il quale
Di Cristina non si poteva vedere. Egli voleva quindi dargli
uno smacco ricavandone nello stesso tempo un utile. Parlò del
progetto a mio fratello sapendo che, quando questi sentiva
parlare di Totò Greco, gli si apriva
                         Pag. 315
il cuore. Gli disse che avrebbero agito a Roma e che quindi
nessuno lo avrebbe saputo.
  PRESIDENTE. Sequestro che poi non fu attuato.
  ANTONINO CALDERONE. Non fu fatto.
  PRESIDENTE. Cosa può dirci sul sequestro di Graziella
Mandalà, moglie di un costruttore di Monreale? Mi pare che fu
restituita dopo pochi giorni e che gli autori furono trovati
uccisi.
  ANTONINO CALDERONE. Una mattina di buon'ora io e mio
fratello siamo andati da Michele Greco, a Favarella. Mentre
aspettavamo di parlargli è venuto Rosario Riccobono, un capo
mandamento, con un suo uomo e ci ha detto che la notte avevano
preso un uomo e si erano fatti raccontare la vicenda. Hanno
bussato alla porta, hanno dato una voce e chi era all'interno
ha aperto; hanno liberato la donna ed ammazzato i due che
hanno poi messo nei sacchi della spazzatura. Hanno detto che
ci avevano messo anche la tessera. Hanno poi telefonato alla
polizia.
  PRESIDENTE. Cos'è la tessera?
  ANTONINO CALDERONE. La carta d'identità, che hanno
lasciato nei sacchi della spazzatura per farli riconoscere. Mi
pare che hanno anche telefonato alla polizia per farli
trovare. Vi era ordine che chi attuava un sequestro doveva
morire. Questi, comunque, non erano uomini d'onore.
  PRESIDENTE. Può riferirci ciò che sa sui sequestri
Cassina e Vassallo?
  ANTONINO CALDERONE. Il sequestro Vassallo è stato fatto
con l'accordo di tutta la commissione di Palermo, mentre
invece il sequestro Cassina è stato fatto, di nascosto, da
Totò Riina. A cavallo di questi sequestri vi è stata
l'associazione dei 114 per cui tutti i capi di Cosa nostra
erano in prigione. Un giorno mi ha detto Totò Riina che aveva
bisogno di essere ospitato a Catania perché doveva discutere
con qualcuno. Il giorno stabilito è venuto lui con Giuseppe
Gambino, Martello ed altri. A Catania si trovava il compare di
Luciano Liggio (non mi ricordo come si chiama) che è andato a
prendere all'aeroporto Domenico Coppola, un uomo d'onore della
provincia di Palermo, abitante da tanti anni negli Stati
Uniti. Ci siamo recati in campagna, in una casa di mio
fratello, dove siamo rimasti per quasi ventiquattr'ore a
discutere ed a mangiare. Prima di andarsene Riina mi ha detto
che il sequestro Cassina lo aveva fatto lui e che serviva per
pagare gli avvocati del processo dei 114. Mi ha detto pure -
al telefono ne parlava lui con Cassina - che era stato
materialmente presente al sequestro, che circolava la voce che
nei soldi veniva messa una sostanza che procurava un'infezione
che permetteva di riconoscere chi li toccava e che lui aveva
intimato al vecchio Cassina di non fare scherzi con i soldi.
   Ho informato mio fratello di quanto mi aveva detto Totò
Riina e del fatto che i soldi ricavati dal sequestro erano
destinati agli avvocati. Dopo un po' di tempo lui ha visto che
Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti facevano conti ed ha
detto loro: "Vi state dividendo i soldi di Cassina e non dite
niente!". In risposta, gli è stato chiesto se sapesse qualcosa
del sequestro Cassina, perché loro si stavano dividendo i
soldi di Vassallo e non sapevano niente di Cassina. Mio
fratello ha quindi riferito quanto aveva fatto sapere Totò
Riina. Egli veramente voleva dare i soldi ma Luciano Liggio
aveva messo un veto: "Niente soldi a nessuno".
  PRESIDENTE. E' al corrente di eventuali rapporti di
Cassina con Cosa nostra o con politici?
  ANTONINO CALDERONE. So che faceva dei lavori con Cosa
nostra un cugino di Stefano Bontade, Giovanni 'u pacchione,
                         Pag. 316
un suo consigliere, del quale non ricordo il cognome. Non
conosco altri rapporti.
  PRESIDENTE. Che collegamenti c'erano tra Cosa nostra ed
i gruppi calabresi e campani? Che rapporti c'erano con
Bardellino, Zaza, Nuvoletta?
  ANTONINO CALDERONE. Bardellino non so. Zaza era uomo
d'onore. Nuvoletta era uomo d'onore. Era una famiglia di
Napoli. Una decina dei Nuvoletta dipendeva da Michele Greco,
perché non andavano d'accordo e si era un po' distaccata dalla
famiglia originaria. Tutti e due i fratelli Zaza erano uomini
d'onore e ce ne erano anche tanti altri. Napoli al principio
degli anni settanta era un po' l'Eldorado della Sicilia perché
c'era il contrabbando delle sigarette. C'era già chi lavorava
sulla droga, ma era ancora poca cosa. Invece quello delle
sigarette era uno dei maggiori cespiti. Poiché a Napoli si
lavorava fortissimo, i siciliani hanno messo la zampa lì
scalzando un po' i napoletani. Michele e Salvatore Zaza,
essendo uomini d'onore, sono rimasti al loro posto. I
siciliani hanno lavorato moltissimo. Anch'io con mio fratello
avevo 1000 casse ogni due o tre mesi che ci procuravano 8-10
milioni.
  PRESIDENTE. E il rapporto con i calabresi?
  ANTONINO CALDERONE. Con i calabresi c'era un rapporto di
vicinanza, ma noialtri li guardavamo come un sottoprodotto,
perché ammettevano nella loro organizzazione guardie giurate,
guardie municipali, noialtri no. Era un po' un sottoprodotto.
Ma avevamo dei buoni rapporti, se dovevamo scambiarci dei
favori lo facevamo.
  PRESIDENTE. La decina di Santa Maria del Gesù a Roma se
la ricorda?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Il suo capodecina si chiama
Angelo Cosentino. Di questa decina fa parte il factotum di
Franco Franchi.
  PRESIDENTE. Fa parte di questa decina?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, è un uomo d'onore.
  PRESIDENTE. Conosce operazioni particolari fatte da
questa decina?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Calò aveva rapporti con questa decina?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, perché è stato tantissimo tempo
latitante a Roma, si faceva chiamare Mario, perciò si
incontravano, tra uomini d'onore. Non so che rapporti avevano.
  PRESIDENTE. In molti casi è capitato che molti latitanti
stavano a casa loro, come Calò qui a Roma. Come è possibile
che un latitante sia a casa sua?
  ANTONINO CALDERONE. Io a casa mia avevo fatto un
nascondiglio per nascondermi. Ero tranquillo che se veniva la
polizia non mi trovava. Ognuno cerca di arrangiarsi come può.
Le racconto una cosa.
   Nel 1970 abbiamo avuto come latitante per due anni a
Catania Luciano Liggio e Provenzano. Abbiamo affittato una
villa e stavano lì. Luciano Liggio è un poco maniaco e
prendeva il sole nudo fuori. Stavano costruendo un palazzo e
il proprietario è andato dai carabinieri dicendo che, dato che
c'era quest'uomo nudo, non poteva vendere facilmente gli
appartamenti. Un giorno bussa un carabiniere e Liggio va ad
aprire in pantaloncini corti. Il carabiniere dice: "Senta, c'è
il maresciallo che le vuole parlare". Egli risponde: "Non
posso venire perché ho il catetere" e gliel'ha fatto vedere,
essendo stato operato alla vescica dal professor Baracci, che
gli ha fatto una vescica nuova, perché la tubercolosi gliela
aveva mangiata. Disse allora che non poteva uscire e che non
appena veniva il dottore a togliergli il catetere sarebbe
                         Pag. 317
andato. Come il carabiniere è andato via, Liggio si è vestito
e mi ha telefonato dicendo: "Vieni subito che ti devo
parlare". Quando sono andato mi ha detto che erano arrivati i
carabinieri. Io risposi: "Ma lei è ancora qua?" "Sì, sono
venuti i carabinieri ma non mi hanno riconosciuto. Hanno detto
che il maresciallo mi vuole parlare". Come facciamo, come non
facciamo, ne abbiamo parlato con mio fratello che ha detto che
se avessero saputo chi era, lo avrebbero arrestato. Allora, lo
abbiamo mandato a Provenzale, con documenti falsi. E' andato
lì, ha parlato con il maresciallo dicendo che eravamo lì
perché il fratello aveva bisogno di cure e di sole, e lui
rispose dicendo che andava bene ma che si doveva mettere il
costume. Allora Luciano Liggio disse: "Ma io da qua non me ne
vado più, perché sanno chi sono".
   Se vanno due o tre volte a casa di un latitante e poi non
ci va più nessuno, quello può stare a casa perché non c'è di
meglio di casa sua.
  PRESIDENTE. Lei ha fatto riferimento ad un viaggio a
Malta nel 1969 per comprare patenti internazionali. Ricorda
questa vicenda?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Una delle nuove disposizioni
della Commissione antimafia dell'epoca era il ritiro delle
patenti ai mafiosi. Allora tutti i mafiosi erano senza patenti
e cercavano di averne di nuove. Qualcuno ha studiato di andare
a prendere la patente internazionale a Malta. Se ancora si
aveva la propria patente, per cautelarsi si andava lì, si
mostrava il documento e si otteneva la patente internazionale;
se invece era stata ritirata si doveva fare una domandina e,
senza esami, si riceveva una patente internazionale. In uno di
questi viaggi mio fratello con Mangion e Nino Sorce è andato
con la nave. Li ho accompagnati a Siracusa. Mentre eravamo nel
porto, probabilmente avevano dato i nomi per prenotare i
posti, la polizia ha voluto parlare con Sorce, che era l'unico
conosciuto. Ma poi tutto passò.
  PRESIDENTE. Queste patenti sono state prese altre volte?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, buona parte di noi ce le aveva,
Di Cristina, mio fratello ed altri.
  PRESIDENTE. Un commissario vorrebbe sapere per quale
motivo Falcone non è stato ucciso quando stava costruendo il
maxiprocesso, invece di aspettare fino a quest'anno.
  ANTONINO CALDERONE. Non so spiegarlo. Posso dire solo
che forse non volevano fare il grande omicidio, non volevano
che tutte le forze dell'ordine ci si buttassero sopra quando
speravano negli annullamenti dei processi.
  PRESIDENTE. Avevano questo in testa?
  ANTONINO CALDERONE. Penso. Mi scuso se dico miei
pensieri, ma non posso dire altro.
  PRESIDENTE. Quando c'è da commettere un fatto di una
certa gravità i capi di Cosa nostra prendono anche contatti
con i loro amici politici per capire quali potrebbero essere
gli effetti di una cosa grave o no? Se ne discute, se ne
parla?
  ANTONINO CALDERONE. Non so.
  PRESIDENTE. Un collega vorrebbe sapere se lei sa quali
sono i successori dell'onorevole Lupis, se ci sono stati
altri.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, c'è un onorevole che è di
Messina. E' venuto a casa mia e voleva che gli facessi la
campagna elettorale, ma non l'ho fatta. E' un onorevole che è
stato anche sottosegretario alle finanze, sette od otto anni
fa.
  PRESIDENTE. Ricorda come si chiama?
                         Pag. 318
  ANTONINO CALDERONE. E' messinese ... del partito
socialista democratico ...
  PRESIDENTE. Credo che sono pochi ...
  Una voce. Madaudo?
  PRESIDENTE. Madaudo ?
  ANTONINO CALDERONE. Madaudo, Madaudo.
  PRESIDENTE. Venne da lei per avere voti?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, perché sapeva che noialtri
davamo i voti a Lupis.
  PRESIDENTE. Ho capito.
  ANTONINO CALDERONE. Ma è stato dopo la morte di mio
fratello. Io non ho fatto niente, ma forse con Nitto ha fatto
qualcosa, perché Nitto era molto, ma molto amico del
segretario di Lupis, Bonomo.
  PRESIDENTE. Ho capito.
   Il giro di domande che avevamo concordato con l'Ufficio di
Presidenza è terminato. Sospendo brevemente la seduta per
consentire la predisposizione di altri quesiti.
La seduta, sospesa alle 13,5, è ripresa alle 14.
  PRESIDENTE. Innanzitutto la ringraziamo per la sua
collaborazione, signor Calderone.
   Un collega mi ha chiesto di avere qualche informazione
sulla vicenda Cipolla; al riguardo non sappiamo nulla più di
quanto lei ha detto.
   Comunque, se ho ben compreso, voi segnalaste tale
questione a Salvo, sapendo già che Salvo si sarebbe dovuto
rivolgere a Lima oppure no? Oppure lo faceste perché i Salvo
erano importanti?
  ANTONINO CALDERONE. Lo facemmo perchè i Salvo erano
importanti ed avevano nelle mani tanti uomini politici.
  PRESIDENTE. Avevano in mano molti uomini politici?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, ed abbiamo chiesto loro questo
fatto. Nino disse che la cosa andava sottoposta a Salvino.
  PRESIDENTE. Poi vi siete incontrati a Roma?
  ANTONINO CALDERONE. Poi ci siamo incontrati a Roma,
nell'ufficio dell'impresa Maniglia.
  PRESIDENTE. Era vicino alla casa di Lima?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so. Non so dove abitasse
Lima.
  PRESIDENTE. Se ho compreso bene, lei ha praticamente
smesso di appartenere a Cosa nostra nel momento in cui
quest'ultima decideva di entrare nel traffico di stupefacenti.
E' così?
  ANTONINO CALDERONE. No, non ho deciso di ritirarmi
perché ....
  PRESIDENTE. Non perché, nel momento in cui.
  ANTONINO CALDERONE. Si, c'è stato un passaggio: dal
contrabbando di sigarette si è passati al contrabbando di
droga forte, secondo quanto ho capito.
  PRESIDENTE. Può spiegare questo passaggio?
  ANTONINO CALDERONE. Circa due mesi prima della morte di
mio fratello, in estate sono andato vicino Taranto perché a
Catania l'aria si faceva troppo brutta per me, dal momento che
avevamo già rotto con i corleonesi e ci aspettavamo qualcosa
da un momento all'altro, tant'è vero che ci hanno messo la
bomba nella macchina.
   Io dissi a mio fratello: "Che cosa aspettiamo ancora? Io
me ne vado". Lui
                         Pag. 319
rispose: "No, io resto". Io invece andai vicino Taranto da un
mio cugino. Dopo un paio di mesi hanno ucciso mio fratello.
   Quando sono rientrato, Stefano Bontade mi diede dei soldi
(lire e dollari) e mi disse che erano i soldi ricavati dal
contrabbando di sigarette. Dopo circa 4-6 mesi (non ricordo
bene) un mio compare, Francesco Cinardo, è venuto a Catania e
mi ha portato circa 32 mila dollari. Gli chiesi: "Che cosa
sono questi soldi?". Mi rispose: "Dovevano essere di più, ma
sono di meno perchè, come avete letto sui giornali, a Palermo
hanno preso una valigia con 500 mila dollari".
   Di lì ho capito che, durante il periodo in cui non c'ero,
mio fratello dal commercio di sigarette aveva messo qualcosa
nel commercio della droga. Un'altra volta ho cambiato questi
soldi in lire ricavandone circa 20-22 milioni, poichè a quei
tempi il dollaro valeva 700-800 lire. Nitto Santapaola mi
chiese se avessi ancora quei soldi e se potessi metterli in
una partita di droga. Glieli ho dati e siamo andati in
campagna (non so dove) in una villa fuori Palermo dove c'erano
Gerlando Alberti ed altri. Nitto ha consegnato i soldi a Pippo
Calò. Dopo un po' di tempo (non so quanto) mi ha restituito 22
milioni. In sostanza, avevo messo 20 milioni e ne ricevevo 22.
  PRESIDENTE. Quindi il guadagno è stato di 2 milioni.
  ANTONINO CALDERONE. Praticamente niente. Comunque, non
potevo dire: "Ma perché è così?". Penso però che il guadagno
fosse quadruplicato e non fosse certamente quello. Loro
avevano bisogno di questi soldi e me li hanno chiesti.
  PRESIDENTE. Sulla base di quello che lei può capire e
delle conoscenze che ha, da quando Cosa nostra ha cominciato a
trafficare in stupefacenti, che cosa è cambiato al suo
interno?
  ANTONINO CALDERONE. E' venuta la ricchezza, sono
diventati tutti ricchi. Con le sigarette si guadagnava, ma non
era un forte cespite; quello che ha fatto cambiare la vita a
Cosa nostra è stata la droga, che li ha fatti impazzire e ha
fatto guadagnare loro moltissimi soldi.
  PRESIDENTE. Nell'organizzazione è cambiato qualcosa?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so perché, come le dicevo,
dopo il 1978 le cose mi arrivavano molto filtrate e mi
facevano sapere quello che volevano farmi sapere. Un
cambiamento riguarda per esempio il fatto che non ci si
dovesse più baciare. Vi erano regole che avrebbero dovuto
dirmi: infatti, se incontravo un uomo d'onore e lo baciavo,
dovevano dirmi che la commissione regionale aveva deciso che
non ci si dovesse più baciare perché si trattava di un segno
attraverso cui la polizia poteva riconoscerci. Ma le altre
cose se volevano me le dicevano, altrimenti no.
  PRESIDENTE. Un membro della Commissione vorrebbe sapere
se lei ha mai sentito parlare di Licio Gelli.
  ANTONINO CALDERONE. Non ho mai sentito parlare di Licio
Gelli. Quando ho sentito di Licio Gelli ho pensato che potesse
trattarsi di quella loggia segreta in cui ci dicevano che nel
1977 dovevano essere ammessi alcuni mafiosi. Ma è stata una
deduzione che ho fatto dopo, quando ho letto sui giornali di
Licio Gelli.
  PRESIDENTE. Lei ha detto, nel corso di un
interrogatorio, che Totò Riina può influenzare la vita
politica e amministrativa di Palermo. E' esatto?
  ANTONINO CALDERONE. Certamente può influenzarla. Come
dicevo prima, loro possono giocare moltissimo con i voti.
Basti considerare che vi sono 14 o 15 mandamenti, ciascuno dei
quali è formato da 2 o 3 famiglie; ognuna di queste è composta
da almeno 40 o 50 uomini, ciascuno dei quali ha moglie,
                         Pag. 320
figli, genero, suocero eccetera. E' facile capire quanti voti
si possano portare.
   Quando questo grande pacchetto di voti arriva dove deve
arrivare, rappresenta un peso enorme.
  PRESIDENTE. E quindi ci sono i favori?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico.
  PRESIDENTE. Agli uomini politici date soltanto voti?
  ANTONINO CALDERONE. Agli uomini politici si dà solo il
voto.
  PRESIDENTE. Vi hanno mai chiesto favori diversi dal
voto?
  ANTONINO CALDERONE. No, che io sappia.
  PRESIDENTE. Attraverso quali persone o quali mezzi in
particolare Riina influenza la vita politica e amministrativa
di Palermo?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
  PRESIDENTE. Quindi lei fa riferimento alla quantità di
voti che possiede?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Sulla base delle sue conoscenze, che
significato hanno gli omicidi di Lima, Falcone, Borsellino e
Salvo? Infatti non era mai capitato che fossero state uccise
persone così vicine a Cosa nostra come Lima e Salvo e non si
erano mai verificati neanche due attentati così eclatanti per
il tipo di esplosivo usato e le stragi commesse in poco tempo.
   Sulla base delle sue capacità di analisi del fenomeno, che
cosa vuol dire questo? Che cosa sta accadendo all'interno di
Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Non perché so qualcosa, ma perché
conosco questi uomini, vedo una logica: in precedenza tutti i
processi, quando arrivavano all'ultimo grado, venivano
annullati. Totò Riina sicuramente diceva: "Lasciamo fare
Falcone, perché poi i processi saranno annullati". Non so se
lui avesse un rapporto per farli annullare o semplicemente
pensava che li annullassero. So soltanto che nel gennaio di
quest'anno le loro condanne all'ergastolo sono diventate
definitive. Questo li ha fatti impazzire perché pensano che se
Totò Riina viene arrestato non esce più, come non è uscito più
Luciano Liggio. Non uscendo più, per loro è finita: perdono il
potere e tutto il resto.
   Chissà poi se lui impediva agli uomini che premevano per
commettere omicidi di farli perché sapeva benissimo che se
avesse ucciso Falcone o un grande uomo politico le ritorsioni
sarebbero state molto gravi per Cosa nostra.
   Vi era, per così dire, una convivenza: il giudice Falcone
faceva queste cose, ma dopo un anno o due di prigione si
usciva. Poi invece hanno visto che finalmente i processi si
sono conclusi con condanne definitive all'ergastolo; hanno
visto poi che il giudice Falcone sarebbe andato a dirigere la
superprocura. Se egli in un piccolo centro (come può essere
considerata Palermo rispetto a tutta l'Italia) ha fatto quei
maxiprocessi, a Roma alla superprocura avrebbe fatto cose
enormi. Hanno visto quindi un grande pericolo e secondo me
hanno cominciato con Lima perché rappresentava un potere
politico o perché avevano delle connivenze; ma questo non lo
so, posso solo immaginarlo.
  PRESIDENTE. Lei dice che i Salvo si rivolgevano a Lima.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, ma non so altre cose.
  PRESIDENTE. Comunque i rapporti c'erano?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, i rapporti c'erano. Ma non so
altre cose.
   Poi questi due grandissimi omicidi hanno scatenato la
guerra; loro si sono
                         Pag. 321
visti persi oppure qualcuno li ha invogliati, ma questo non
lo so, si tratta semplicemente di mie deduzioni.
  PRESIDENTE. Secondo questa logica, loro adesso sono
costretti ad andare avanti su questa strada?
  ANTONINO CALDERONE. Certamente, sono costretti ad andare
avanti.
  PRESIDENTE. E a commettere altre stragi?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico. Ecco perché io prego voi
che siete l'organo più forte che combatte la mafia di
aumentare le forze. Infatti, se loro sanno che noi siamo qui
sono capaci di far saltare tutto il palazzo. Di questo sono
convinto perché li conosco da molto tempo. Nitto Santapaola
era sotto di me: io ero il vicerappresentante e lui era un
capodecina. Lo conosco molto bene, conosco le sue idee, come
conosco le idee di Riina e Provenzano. Non si arrenderanno.
   Bisogna allora sforzarsi perché questo è il momento giusto
per metterli in ginocchio.
  PRESIDENTE. Adesso Riina si sarà fatto dei nemici anche
interni?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico, perché se lui ha fatto
questo non l'ha detto a tutti gli uomini d'onore della
Sicilia. Ci sarà un gruppo agguerrito che fa queste cose,
mentre gli altri non sono d'accordo. Spero che proprio gli
altri gliela faranno pagare.
  PRESIDENTE. Potrebbero anche denunciarlo.
  ANTONINO CALDERONE. Denunciarlo oppure ucciderlo.
  PRESIDENTE. Per il modo in cui si erano configurati i
rapporti tra la commissione regionale e la commissione di
Palermo, quest'ultima aveva un peso notevole nell'ambito della
Sicilia, anche nei confronti della stessa commissione
regionale?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, perché Cosa nostra e tutta la
Sicilia guardano a Palermo non a torto perché Palermo è la più
forte. Ecco perché mio fratello riteneva che occorresse fare
una "regione" in modo che i palermitani non potessero più fare
i galletti: quando sbagliavano cinque famiglie potevano
intervenire e metterli a tacere. Queste erano cose
democratiche - scusate la parola - nella mafia di quei tempi.
Ora non so come è.
  PRESIDENTE. A volte Riina partecipava alle riunioni
della commissione regionale al posto di Greco?
  ANTONINO CALDERONE. No, mai. Né lui né Bino Provenzano.
C'era sempre Michele Greco.
  PRESIDENTE. Michele Greco era autonomo rispetto a Riina
e Provenzano?
  ANTONINO CALDERONE. Diciamo che aveva una certa
sfacciataggine, perché quando si riunivano per decidere
qualcosa di concreto lui, poiché - come diceva - non era il
rappresentante di Palermo ma il segretario della commissione,
rimandava le sue risposte, ad esempio, al mese successivo,
perché prima voleva riunire i suoi mandamenti. Gli si diceva
che avrebbe dovuto decidere subito ma lui sosteneva di non
averne titolo. Tutti gli altri decidevano subito mentre lui
rimandava la sua risposta al mese successivo, dopo che ne
aveva discusso con il corleonesi.
  PRESIDENTE. Ciò perché lui doveva sempre parlarne con i
corleonesi?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, lui diceva che ne doveva
discutere con i suoi mandamenti, che erano 14 o 15.
  PRESIDENTE. Questa era la questione di fondo?
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  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  ALFREDO GALASSO. Come erano in quel periodo i rapporti
con Bontade?
  ANTONINO CALDERONE. Dopo la morte di mio fratello erano
buoni, ma non come prima. Gaetano Badalamenti lo hanno levato
da capo famiglia e da capo mandamento e poi ho saputo, nel
1978, che lo hanno buttato fuori dalla famiglia.
  PRESIDENTE. Mi pare che risale al 1977 l'invito ad
entrare nella massoneria. A quel tempo già bisticciavano?
  ANTONINO CALDERONE. Hanno cominciato nel 1975. Lui era
rappresentante provinciale di Palermo alla fine del 1975; al
posto di Gaetano Badalamenti è stato messo lui con a fianco un
uomo di molto più prestigio e cervello, Antonio Mineo, un capo
mandamento di Bagheria. Vi sono stati momenti nei quali
Antonio Mineo e Michele Greco hanno fatto scintille con
Stefano Bontade, perché non erano d'accordo. Ciò è avvenuto,
comunque, in separata sede e non nel corso delle riunioni del
mandamento.
  PRESIDENTE. Quando ha riferito di dialoghi tra lei e
qualcun altro ha usato il "lei". Vi davate del "lei"? Suo
fratello dava del "lei" a Michele Greco?
  ANTONINO CALDERONE. No, del "tu".
  PRESIDENTE. Tra di voi usavate il "tu"?
  ANTONINO CALDERONE. No, o del "lei" o del "vossia".
  MASSIMO BRUTTI. Dava del "lei" a Liggio?
  ANTONINO CALDERONE. No, del "vossia". Lo chiamavo
"professore", come lo aveva soprannominato mio fratello.
  PRESIDENTE. Che differenza vi è tra "lei" e "vossia"?
  ANTONINO CALDERONE. Vi è una differenza enorme: si usa
il "lei" per un uomo qualunque, come un impiegato; mentre con
un uomo di rispetto si usa il "vossia", "vossignoria", che può
essere considerato come un "eccellenza".
  PRESIDENTE. Lei ci ha parlato di un aspetto molto
interessante, e cioè della possibilità di togliere il voto
dato in precedenza a certi uomini politici, ad uno o più
partiti, come una sorta di ritorsione perché non hanno fatto
ciò che dovevano fare. Può spiegarci meglio questo meccanismo?
In sostanza, si è votato un tizio che poi non ha fatto quello
che doveva fare, perciò Cosa nostra decide di cambiare e tutti
cambiano.
  ANTONINO CALDERONE. E' logico. Se lo decide Cosa nostra,
si cambia.
  PRESIDENTE. Il nuovo personaggio che viene votato è
tenuto all'osservanza degli stessi obblighi nei confronti di
Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Il candidato per il quale si decide
di votare viene avvicinato.
  PRESIDENTE. Quindi non può accadere che i mandamenti
decidano di votare un candidato qualsiasi senza che questi lo
sappia?
  ANTONINO CALDERONE. Può succedere. Mi pare che una volta
si è votato per Pannella, ma si è trattato di un voto di
protesta. Se non ricordo male, la propaganda è stata fatta
nelle carceri.
  PRESIDENTE. In questi casi, quindi, non si chiedevano
favori in cambio?
  ANTONINO CALDERONE. No, perché non vi era alcun
contatto.
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  PRESIDENTE. Può succedere, quindi, che per ragioni di
protesta Cosa nostra, in qualche modo, "sprechi" il suo peso
perché in quel momento non ha più personaggi politici ai quali
chiedere favori.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, d'altronde se il personaggio non
è più al potere non gli si possono chiedere favori.
  PRESIDENTE. Pertanto, non si sceglie necessariamente
qualcuno che fa favori; si può anche decidere di votare per
altre persone.
  ANTONINO CALDERONE. Nel caso del voto di protesta.
  PRESIDENTE. Però, in tal modo Cosa nostra non ha né il
vecchio sostegno né il nuovo. Che convenienza ha?
  ANTONINO CALDERONE. Fa capire al vecchio che i patti si
devono rispettare.
  PRESIDENTE. Ha presenti gli attentati che furono fatti
dopo Catanzaro?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, le bombe di Capodanno.
  PRESIDENTE. Avevano lo scopo di indurre lo Stato ad una
reazione o di manifestare forza?
  ANTONINO CALDERONE. Furono fatti per manifestare forza e
per creare terrore. Anche l'omicidio del giornalista Mauro De
Mauro aveva lo scopo di creare terrore. A quei tempi non si
capiva se fosse opera della mafia o di altri.
  PRESIDENTE. Se non si capiva bene a chi addebitarlo,
veniva meno l'interesse di Cosa nostra, che era quello di
dimostrare che era ancora sulla scena. Che convenienza aveva a
commettere atti non direttamente riconducibili a sé?
  ANTONINO CALDERONE. Chi doveva capire, capiva. Però,
quando si va ad un tribunale, sono cose politiche. Se si fa
un'associazione di mafiosi, si fa politica.
  PRESIDENTE. Nella rogatoria con il giudice Falcone, ha
detto: "Dopo il felice esito per la mafia del processo di
Catanzaro e dopo l'uccisione di Cavataio Michele, nacque
l'idea di creare un grosso allarme sociale, attraverso azioni
dimostrative ed attentati che avrebbero dovuto provocare una
reazione in senso autoritario". Può spiegarci questa frase?
  ANTONINO CALDERONE. Non la so spiegare ora, ma vi era
l'intento di far sentire la presenza e, nel contempo, di fare
del terrorismo.
  PRESIDENTE. Lei intendeva dire che si voleva manifestare
forza ed autorità?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, si voleva far sentire la
presenza.
  PRESIDENTE. Lei ha usato il termine "terrorismo". Si
usava allora questa parola, o la usa ora per ciò che è
successo dopo?
  ANTONINO CALDERONE. Si usava, tant'è vero che Riccobono
era chiamato "terrorista".
  PRESIDENTE. Questa parola circolò tra di voi nel periodo
degli attentati?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo ricordo.
  PRESIDENTE. Comunque si parlava di terrorismo.
  ANTONINO CALDERONE. Era una cosa mischiata. Le bombe si
usavano per azioni terroristiche, però si facevano anche gli
omicidi. Si voleva creare un certo marasma. Quali fossero le
intenzioni non lo so, ma diceva Gaetano Badalamenti: "Dobbiamo
buttare a mare tutti i carabinieri". Non si voleva la presenza
dello Stato.
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  PRESIDENTE. Ha qualche informazione sui rapporti di Cosa
nostra con le banche?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Nel suo periodo?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Se vi era qualche problema di prestiti, vi
era la possibilità di arrivare alle banche come si arrivava
alla magistratura?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico. Io, come piccolo
imprenditore, dopo la morte di mio fratello, ho avuto fino a
120-130 milioni di scoperto nella banca dove operavo. Ero
raccomandato dai Costanzo, ma il direttore si affidava anche
alla mia serietà.
  PRESIDENTE. Sapeva che lei era un uomo d'onore?
  ANTONINO CALDERONE. No, ma sapeva di che pasta ero
fatto.
  PIERO MARIO ANGELINI. Che banca era?
  ANTONINO CALDERONE. La Banca popolare di Sant'Agata, di
Catania, della quale Costanzo era vicepresidente.
  PRESIDENTE. Ha notizie di rapporti di Cosa nostra con le
città di Torino e Milano?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, a Torino vi era una decina della
famiglia di Riesi; a Milano gravitavano molti mafiosi: il
gruppo più grosso era di Pippo Bono, suo fratello ed altri
suoi uomini.
  ALTERO MATTEOLI. Ed in Toscana?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so, so solo che vi era un
parente di Riina.
  PRESIDENTE. Un commissario vuole che le chieda se vi
interessavate agli interventi straordinari della Cassa per il
Mezzogiorno.
  ANTONINO CALDERONE. I Salvo ... Non so se si tratti
della Cassa per il Mezzogiorno, che mi pare si occupi di
lavori stradali.
  PRESIDENTE. Si occupa di opere pubbliche.
  ANTONINO CALDERONE. Ricordo che l'ingegnere Sortino, di
cui ho parlato, aveva fatto conoscere a mio fratello il
vicedirettore di un grande ufficio della Cassa per il
Mezzogiorno ed aveva fatto avere all'impresa Costanzo dei
lavori. Si facevano delle gare nelle quali bisognava indicare
una cifra. Lui ha fatto sapere quale fosse la cifra giusta e
sono usciti per questo 50 milioni.
  PRESIDENTE. Ha guadagnato 50 milioni?
  ANTONINO CALDERONE. No, Costanzo ha pagato 50 milioni a
questo ingegnere, del quale non ricordo il nome (i fatti
risalgono a prima degli anni settanta).
   Per altre opere agricole, i Salvo mi dicevano ... Proprio
Nino, che una volta sono andato a trovare vicino Gela, dove
aveva comprato una grandissima proprietà, mi diceva che loro
avevano saputo che la CEE avrebbe dato un incentivo a chi
estirpava il vecchio vigneto piccolo per impiantarvene uno a
tettoia o a spalliera. Lo avevano saputo prima che la CEE
emanasse la direttiva. Hanno acquistato così un grandissimo
vigneto vecchio ed abbandonato (mi pare che appartenesse ai
monaci), hanno tolto le viti e ne hanno impiantate di nuove.
Mi pare che venissero date 70-80 mila lire per ogni vite
estirpata. Con i soldi del solo terreno, hanno fatto una
grande proprietà. Dicevano che avevano avuto i soldi dalla
banca e che quindi, senza spendere una lira, avevano fatto
sette od otto laghetti
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artificiali. Poiché c'era un fiume che tagliava la proprietà,
avevano delle grandi pompe che tiravano l'acqua. Ricordo che
passavamo io e lui con la jeep su questi laghetti e mi
raccontava di questa storia per cui, senza soldi, gli avevano
fatto questa grande proprietà.
  PRESIDENTE. Per fare questi lavori idraulici c'erano i
contributi della regione?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so, ma se c'erano li avranno
presi di sicuro.
  PRESIDENTE. Signor Calderone, questa Commissione non è
un'autorità giudiziaria ma un'autorità del Parlamento, anche
se agisce con i poteri dell'autorità giudiziaria. Un
commissario mi ha chiesto di chiederle se lei ha detto tutto
quello che sapeva o se ha ritenuto opportuno di non riferire
su alcune cose.
  ANTONINO CALDERONE. No, no, ho detto tutto, tranne
qualcosa che posso aver dimenticato. Dissi al giudice Falcone
che volevo svuotarmi di tutto, per poter ... se un giorno
potrò emergere. Ma devo dire tutto, non mi tengo niente.
  PRESIDENTE. Dico questo perché, come sa, Masino Buscetta
disse che di questioni politiche non voleva parlare perché
sarebbe successo un quarantotto. Questo lei non lo ha mai
pensato?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Esisteva in Cosa nostra la possibilità di
essere legati all'organizzazione in modo riservato, senza che
altri lo sapessero?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, lo abbiamo fatto una volta con
due uomini, con il fratello di Nitto e con un altro ragazzo,
perché questi due, che sentivano parlare Nitto e gli altri di
questo e di quell'episodio, di testa loro andavano ad
ammazzare. Quando Nitto chiedeva rispondevano che erano stati
loro. Allora, per mettere un freno, li abbiamo fatti uomini
d'onore ma non li abbiamo presentati alla famiglia. Abbiamo
fatto un po' un abuso, che però si può fare, basta che il
consiglio sia d'accordo. L'abbiamo fatto e per un periodo di
tempo li abbiamo tenuti nascosti. Penso che ce ne saranno
altri.
  PRESIDENTE. Per l'omicidio del colonnello Russo ha
testimoniato al processo contro Bagarella?
  ANTONINO CALDERONE. No, contro Bagarella ... non è che
io sapevo che è stato Bagarella ad ucciderlo. Dico che
Bagarella lo conosco, l'ho visto una volta. Ma al processo...
  PRESIDENTE. Dell'omicidio Russo cosa sa?
  ANTONINO CALDERONE. Dell'omicidio Russo le posso dire
questo. Russo si era messo un po' a riposo e cercava di farsi
una sua attività: voleva fare il rappresentante, fornire dei
materiali per le costruzioni. E' venuto a Catania a parlare
con i Costanzo e si è fatto raccomandare dal colonnello
Morelli. Poi mi pare che Gaetano Badalamenti diceva che i
Salvo avevano interessato lui per fare indagini sulla
scomparsa del suocero. Un giorno abbiamo sentito della morte
del colonnello Russo. Mio fratello è andato su tutte le furie
perché nessuno di noi ne sapeva niente. Parla con il De
Cristina che gli dice: "Noialtri dobbiamo indire una riunione
regionale subito e chiedere ai palermitani perché hanno fatto
questo senza chiedere il permesso alla Sicilia". Quando si
uccide un uomo di questa levatura, infatti, ne possono avere
conseguenze tutti gli uomini d'onore della Sicilia, perché il
Governo può prendere provvedimenti. Disse: "Dobbiamo chiedere
chi ne sa qualcosa".
   Io e Francesco Cinardo, un capo mandamento della provincia
di Caltanissetta, ci siamo recati a casa di Michele Greco con
il mandato di dirgli che era indetta una riunione regionale
nella provincia di
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Agrigento, comunicandogli la data, perché si chiedevano
spiegazioni di questo omicidio. Michele Greco mi disse:
"Queste sono scanazzate di cani 'i bancata". I "cani 'i
bancata" a Palermo sono i cani che stanno vicino alla
macelleria e cercano di mangiare qualcosa, i cani sciolti.
Dopo un omicidio così importante, noialtri di Catania e di
Caltanissetta ci siamo preoccupati di andare a chiedere e lui,
nel cui territorio era successa la cosa, non aveva chiesto a
nessuno chi aveva ucciso il colonnello Russo. Al che ce ne
siamo ritornati e al momento della riunione regionale si
chiese ufficialmente a Michele Greco se sapeva qualcosa. Disse
che si era informato nel territorio dove era successo il fatto
(quello dei corleonesi) e che Totò Riina gli aveva risposto
che quando si uccide uno sbirro non si deve chiedere, perché
già si sentivano autorizzati: se si deve uccidere uno sbirro
non si deve chiedere l'autorizzazione a nessuno.
    Di Cristina, poi, in un'altra sede, molto più ristretta,
un magazzino sottostante, ha chiamato Michele Greco da solo,
alla presenza mia e di mio fratello. Disse: "Zio Michele, lei
si fa muovere come un pupo con i fili dai corleonesi, perché
l'omicidio del colonnello Russo si doveva sapere, non è giusto
che ...". Disse: "Non dimentichiamoci che il colonnello Russo
ha serrato i testicoli a un uomo d'onore palermitano, ai tempi
del processo dei 114". In poche parole, lui dava ragione ai
corleonesi. Ma in realtà l'omicidio era contro la regola di
Cosa nostra.
  PRESIDENTE. Qualunque omicidio importante doveva essere
autorizzato?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Mio fratello disse: "Se voialtri
palermitani combinate guai come avete fatto con Cavataio nel
1963, quando tutta la Sicilia ha pagato le conseguenze con i
soggiorni obbligati e il resto, almeno ditelo, così noialtri
siamo coscienti di andare incontro a qualcosa di grave".
  PRESIDENTE. Secondo qualcuno, poco prima che fosse
ammazzato Lima, alcuni uomini d'onore si sono costituiti. Uno
addirittura si presentò per farsi arrestare ma gli dissero che
non c'era alcun motivo per arrestarlo, perché non c'erano
mandati di cattura. Questo comportamento le fa capire
qualcosa?
  ANTONINO CALDERONE. Non riesco a spiegarmelo, perché
uomini d'onore che si sono spontaneamente fatti arrestare non
ne ricordo. Succedeva solo se avevano un processo già
"aggiustato", e gli consigliavano di presentarsi perché
all'udienza sarebbero stati assolti. Ma un latitante non si
presenta, sia per sua abitudine, sia perché darebbe un cattivo
"sapore" agli altri uomini d'onore che gli direbbero: "Ma che
sei miserabile che ti vai a presentare?". Quindi, ci sarà
stato qualcosa interno, forse non andavano più d'accordo.
Qualcosa ci sarà.
  PRESIDENTE. Qualche dissenso?
  ANTONINO CALDERONE. Qualcosa sì, perché non si può
spiegare che un uomo d'onore si va a presentare.
  PRESIDENTE. Forse il fratello di Michele Greco si era
presentato?
  ANTONINO CALDERONE. Il "senatore" si era presentato,
l'ho letto sui giornali, perché dice che era malato. Non l'ho
capita questa storia.
  PRESIDENTE. Ma il processo era aggiustato?
  ANTONINO CALDERONE. Non so, io non c'ero.
  PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare di Gaspare Mutolo?
  ANTONINO CALDERONE. Lo conosco molto bene, l'ho
conosciuto ancora prima che fosse fatto uomo d'onore e, dopo,
da uomo d'onore. Era nella famiglia di Saro Riccobono, l'ho
conosciuto a Barcellona Pozzo di Gotto, negli anni 1972-1973.
Mio fratello era carcerato lì, e lì si facevano i
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colloqui un po' alla carlona, tutti insieme; si mangiava lì,
insieme. Lo conobbi lì, ma non era uomo d'onore. Poi, non
ricordo quando, mio fratello me lo presentò come uomo d'onore.
Era molto vicino a Saro Riccobono. Altro non posso dire.
  PRESIDENTE. Leonardo Messina?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo conosco.
  PRESIDENTE. Rosario Spatola?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo conosco.
  PRESIDENTE. Pino Marchese?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo conosco. Bazzicavo suo zio,
Filippo Marchese. Lui poteva avere sì e no 10-12 anni. Forse
lo avrò visto che portava il caffè dal bar nell'ufficio dello
zio, perché c'erano tanti ragazzini, ma non so se era lui.
  PRESIDENTE. Visto che Riina è così potente, e quindi è
un po' "in eccesso" rispetto agli equilibri
dell'organizzazione, secondo lei perché non hanno cercato di
farlo fuori tempestivamente?
  ANTONINO CALDERONE. Perché è troppo furbo, secondo me.
Se ha guerre interne, non è facile pescarlo. E' dagli anni
cinquanta che questo fa guerre e latitanze, pensi che furbizia
che ha. Prima cominciò a fare la guerra nella sua famiglia,
insieme con Luciano Liggio: hanno eliminato Navarra, hanno
eliminato il vecchio rappresentante. E' tutta una vita che
sono latitanti ed in guerra.
  PRESIDENTE. Il ruolo di Liggio in questo momento qual è?
  ANTONINO CALDERONE. E' un uomo in galera, non ... Certo,
loro fanno vedere che lo rispettano, se manda a dire qualcosa
glielo fanno, qualche favore ... Non c'è dubbio. Gli fanno
sapere le cose, ma sta in galera, anche perché secondo me Totò
Riina non lo vuole fuori.
  PRESIDENTE. Non lo vuole fuori?
  ANTONINO CALDERONE. No. Mi sono dimenticato di dire, a
proposito del giudice Campisi, quando mi ha detto di Buscetta,
che gli chiesi se potevamo far dare la semilibertà ad un
vecchietto che era all'ergastolo. Disse: "vediamo, fammene
parlare, tu parlane". Dissi: "Io ne parlo prima a chi di
dovere". L'ho detto a Nitto: "Nitto, dì a Totò Riina che ho
questa possibilità, se lui...". Non ho avuto risposta. Perciò,
a lui non piace che esca. Due galli in un pollaio non possono
stare.
  PRESIDENTE. Lei ha parlato, a proposito di quella
persona giovane che fu arrestata con lei...
  ANTONINO CALDERONE. Si, Pietro...ora non ricordo il
cognome.
  PRESIDENTE. Ha detto che avevate fatto venire questa
persona da fuori per alcuni omicidi da commettere a Catania.
  ANTONINO CALDERONE. Noialtri eravamo un po' sopraffatti
dalla malavita comune di Catania. Ci conoscevano tutti, per
cui avevamo bisogno di qualche faccia nuova. Questo giovane
che gravitava su Palermo non era uomo d'onore, ma disse a mio
cugino che gli sarebbe piaciuto sparare a Catania. Così si
offre uno. Ne parlai con mio fratello che disse di farlo
venire. E' rimasto due giorni e poi ci hanno arrestato.
  PRESIDENTE. Secondo le abitudini di Cosa nostra, in
quali altri casi ci si può rivolgere a persone di fuori, che
non ne fanno parte, per commettere omicidi?
  ANTONINO CALDERONE. Ci sono tanti casi, basta che si sa
che è una persona a modo e gli si può dare la confidenza di
fare un omicidio. Poi lo si studia e lo si fa entrare in
famiglia.
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  PRESIDENTE. Poi si fa entrare in famiglia?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, se è un elemento che vale si
mette in famiglia.
  PRESIDENTE. Quando non c'è l'ipotesi di farlo entrare in
famiglia, e bisogna far commettere un omicidio, si dà denaro
in cambio?
  ANTONINO CALDERONE. No, lo si fa vivere bene dandogli un
lavoro. Ma non si danno soldi così.
  PRESIDENTE. Questo avviene perché non è considerato
elegante dare soldi?
  ANTONINO CALDERONE. No, perché per fare un omicidio non
si deve pagare.
  PRESIDENTE. Perché per fare un omicidio non si deve
essere pagati?
  ANTONINO CALDERONE. Perché per un uomo d'onore un
omicidio è qualcosa che dà carisma. Un ragazzo che guarda a
Cosa nostra ma non vi è dentro, si presta.
  PRESIDENTE. Perché sa che quella è la strada?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, e si presta molto. Quello che è
stato arrestato insieme a me non sarebbe mai potuto diventare
uomo d'onore perché era un mezzo "magnaccia".
  PRESIDENTE. Quindi, non era degno moralmente?
  ANTONINO CALDERONE. No, non era degno moralmente.
Comunque non so come vadano le cose oggi, se inseriscano
chiunque in famiglia.
  PRESIDENTE. Lei, in uno dei suoi interrogatori, ha
espresso il concetto che la mafia è stata irresponsabile
quando ha commesso le stragi. Può chiarire questo concetto?
  ANTONINO CALDERONE. Penso che sia stata molto spinta.
Hanno messo sulla bilancia i pro e i contro. Dovevano fare
questo atto di forza, ma si sono condannati loro stessi perché
lo Stato sta effettivamente dando loro la caccia e spero che
si vada fino in fondo.
  PRESIDENTE. Questo lo speriamo tutti. Quindi, la mafia
che uccide Falcone e Borsellino ha perso le regole antiche?
  ANTONINO CALDERONE. Non vi è dubbio che abbia perso le
regole antiche. Gli antichi non avrebbero toccato un uomo
della polizia o un giudice.
   Ricordo che nel 1971-1972, quando mio fratello era
detenuto all'Ucciardone, incontravo tutte le settimane Totò
Riina il quale mi disse che voleva uccidere il giudice Filippo
Neri. Mi incaricò di parlare con Gaetano Badalamenti per
chiedergli il permesso. Gaetano Badalamenti, insieme a
Stefano, disse di no, perché il giudice Neri non si doveva
toccare.
   Lui sapeva che il mio avvocato aveva il suo numero di
telefono di casa perché doveva incontrarsi con lui a Roma e
quindi avevano contatti telefonici. Mi disse: "Dammi almeno il
numero di telefono, così che gli faccio delle telefonate a
casa per spaventarlo". Così ha fatto.
  PRESIDENTE. La telefonata minatoria rientra in questo
quadro?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico che vi rientri. Loro
telefonano sempre ai giudici per spaventarli.
  PRESIDENTE. Lei dice che l'omicidio di Falcone si
tradurrebbe in qualche modo in un'uscita dalla regola secondo
cui non si commettono omicidi importanti. Però, prima di
Falcone sono stati uccisi molti altri magistrati.
  ANTONINO CALDERONE. Ma non della stessa caratura di
Falcone. E' stato ucciso anche il generale Dalla Chiesa. Vi è
stata un prima reazione ma poi è finito
                         Pag. 329
tutto. Non vi sono stati organi che si sono impegnati a
fondo, come invece sta avvenendo oggi.
  ALFREDO GALASSO. E' passata la legge sulle misure di
prevenzione.
  ANTONINO CALDERONE. Le misure di prevenzione non sono
niente! Basti pensare che Totò Riina, ancora prima di avere
una misura di prevenzione, è diventato latitante. Per loro se
la misura di prevenzione c'è o non c'è è la stessa cosa.
  PRESIDENTE. A questo proposito, una legge che inasprisca
le pene vi spaventa?
  ANTONINO CALDERONE. Quando si parla di andare in carcere
ci si spaventa sempre.
  PRESIDENTE. Non parlo della sentenza o del mandato di
cattura, ma della legge in sé che aumenta le pene. Questa vi
spaventa?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico!
  PRESIDENTE. E se la legge non viene attuata?
  ANTONINO CALDERONE. Questo è un bene.
  PRESIDENTE. Che tipo di provvedimenti prende Cosa nostra
quando sa che qualcuno sta proponendo una legge che potrebbe
provocare danni?
  ANTONINO CALDERONE. Non glielo so dire. Comunque se ne
parla molto, si discute su che cosa fare e, nei confronti di
chi propone questa legge, di poterlo ....
   Ricordo che, quando venne il generale Dalla Chiesa,
Pasquale Costanzo mi disse: "Siamo rovinati, non ci farà più
lavorare". Erano tutti spaventati dal generale Dalla Chiesa.
  PRESIDENTE. Questi però non proponeva leggi, ma faceva
applicare quelle esistenti.
  ANTONINO CALDERONE. Ma le faceva applicare bene!
  PRESIDENTE. Quindi, il problema che più vi preoccupa è
quello dell'applicazione "pesante" della legge?
  ANTONINO CALDERONE. Quando in un paesino vi sono uomini
della polizia e degli altri organi dello Stato che vivono e
hanno la famiglia nello stesso luogo, come possono lavorare
tranquilli e andare fino in fondo? A combattere la mafia deve
essere chiamata gente senza faccia, che non abbia un nome né
preoccupazioni per la famiglia e i figli. Devono essere
persone senza nome né faccia, in modo che loro non possano
combatterli.
   I giudici, di cui si conosce l'identità, devono essere
guardati molto attentamente.
   Ho avuto a che fare con gli uomini che mi guardano e che
non sono conosciuti: c'è per esempio il Servizio centrale
operativo della polizia, uno dei cui responsabili è il dottor
Manganelli. Vi sono uomini che nessuno conosce e che sono così
umani; io ho molta stima in loro. Ma la cosa importante è che
i mafiosi non li conoscono.
  PRESIDENTE. Quindi, lei sostiene che finché vi sono
uomini delle forze dell'ordine che hanno famiglia, figli ....
  ANTONINO CALDERONE. Non possono lavorare serenamente.
Per esempio, il capitano Basile è stato ucciso con un bambino
vicino.
   Questa era gente che faceva il proprio dovere. Certamente
anche gli altri lo fanno, ma ....
  PRESIDENTE. Se il generale Dalla Chiesa fosse andato
avanti nel suo lavoro avrebbe creato molte difficoltà?
                         Pag. 330
  ANTONINO CALDERONE. Sì, soprattutto se gli avessero dato
i pieni poteri che chiedeva. In quel caso la mafia sarebbe
stata debellata. Dalla Chiesa aveva già sconfitto il
terrorismo e avrebbe debellato anche la mafia.
  PRESIDENTE. Lei ha detto, in un'intervista rilasciata
dopo l'assassinio di Falcone, che la mafia ha già stabilito
rapporti con nuovi referenti politici. Ricorda questa frase?
  ANTONINO CALDERONE. Non ho detto "ha stabilito".
Intendevo dire che avranno già uomini politici. Non posso
dire....
  PRESIDENTE. .... quali sono.
  ANTONINO CALDERONE. Non posso dire quali siano e neppure
lo so. Penso che avranno i loro uomini politici.
  PRESIDENTE. La mafia ha bisogno costante di un rapporto
con i politici?
  ANTONINO CALDERONE. I politici fanno le leggi e tutto il
resto. Perciò la mafia ha bisogno di chiedere, di vedere come
vanno le cose, di sapere. Ricordo che Graziano Verzotto disse
che una volta il vertice del suo partito lo chiamò dicendogli:
"A noi non piace che tu incontri Beppe Genco Russo, grande
uomo d'onore della provincia di Caltanissetta". Non piaceva
loro neanche che egli fosse stato al matrimonio di Di Cristina
e tante altre cose. Egli rispose: "Se voi mi volete ricattare
su questo, io vi ricatto dicendo che quello è pederasta, Rumor
è così ....". Così hanno chiuso tutto e lui ci si faceva delle
risate.
  PRESIDENTE. Il processo per l'omicidio del capitano
Basile è stato "aggiustato"?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
  PRESIDENTE. In sostanza, lei dice che proprio perché la
mafia ha bisogno dei rapporti con i politici probabilmente
uccide questi ...
  ANTONINO CALDERONE. O li cercano o li hanno.
  PRESIDENTE. Desidero tornare brevemente sulla questione
del voto a dispetto, dopo il quale la mafia si trova con
minori alleanze politiche, perché non ha votato i vecchi e i
nuovi non la sostengono.
  ANTONINO CALDERONE. Probabilmente è così, ma non le so
rispondere. Avranno speranze nei confronti di altri.
  PRESIDENTE. Quindi lei ritiene che il dispetto sia più
importante?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, per dare un insegnamento.
Infatti, quando si perdono decine di migliaia di voti, ci si
chiede che cosa stia succedendo.
  PRESIDENTE. Quali erano i rapporti tra Costanzo e il
mondo politico di Catania?
  ANTONINO CALDERONE. Costanzo diceva che dava soldi a
tutti i partiti perché era come un marinaio, per cui dove va
il vento va la bandiera. Non aveva una politica sua; aveva,
per così dire, la politica del lavoro e dava soldi a chi lo
faceva lavorare. Egli diceva sempre: "Io pago tutti".
  PRESIDENTE. Antonio Minore secondo lei sarebbe morto?
  ANTONINO CALDERONE. Questa è un'altra cosa che non
capisco. Mi trovavo nel carcere di Marsiglia quando ho letto
sui giornali che hanno mandato alla famiglia la sua testa
incartata in un giornale o qualcosa del genere. Ma la mafia
non fa questo.
   Certamente Totò Minore era un po' uno spaccone e non
seguiva i dogmi
                         Pag. 331
di Totò Riina. Forse erano molto legati nel periodo in cui
dovevano fare questo atto di forza; Totò Riina doveva entrare
anche nel trapanese e vi è entrato tramite Totò Minore,
scavalcando i Rimi, che erano parenti di Gaetano Badalamenti,
nemico dei corleonesi.
   Non so se dopo lo abbiano ammazzato per il suo carattere
spaccone o perché ha commesso qualcosa. Ma solo i corleonesi,
e non altri, potevano ammazzarlo.
  PRESIDENTE. Che rapporti vi sono stati fra Totò Minore e
Abate Mariano.
  ANTONINO CALDERONE. I rapporti erano molti intimi. Totò
Minore ha fatto crescere Abate Mariano?
  PRESIDENTE. Poi ha preso il suo posto?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
  PRESIDENTE. Qual è stato il ruolo di Madonia a
Caltanissetta?
  ANTONINO CALDERONE. Si riferisce a Giuseppe Madonia?
  PRESIDENTE. Sì.
  ANTONINO CALDERONE. Io ho conosciuto molto bene il padre
e il nonno, che erano mafiosi. Era tutta una famiglia di
mafiosi.
   Per quanto riguarda il ruolo del Madonia, egli ha avuto
l'accortezza di avvicinarsi molto ai corleonesi dopo la morte
del padre. Quest'ultimo era con i corleonesi, ma cercava di
barcamenarsi senza farlo capire. Andava contro Di Cristina
nell'elezione del rappresentante provinciale; gli metteva i
bastoni tra le ruote perché era diretto dai corleonesi. Dopo
la morte di Madonia Francesco sicuramente i corleonesi hanno
gestito la vendetta e non hanno fatto diventare "grande" il
Madonia.
  PRESIDENTE. C'è stata una riunione della commissione
regionale nella masseria di Ferro?
  ANTONINO CALDERONE. Molte.
  PRESIDENTE. Dov'era questa masseria?
  ANTONINO CALDERONE. A Falconara, vicino Gela. Madonia
Francesco è stato ucciso lì.
  PRESIDENTE. Nella tenuta di Salvo si sono svolte
riunioni?
  ANTONINO CALDERONE. Una volta, nella tenuta di Alberto
Salvo. Dopo l'attentato a Di Cristina, questi ha chiesto che
si svolgesse una riunione molto ristretta, alla quale avrebbe
voluto partecipasse Michele Greco, il quale però non è venuto
perché Di Cristina gli aveva detto che avrebbe fatto questa
riunione, non regionale, ma di pochi rappresentanti
provinciali. Infatti, c'era mio fratello ed avrebbe dovuto
esserci Michele Greco. Questi ha mandato a dire che
dell'attentato forse erano responsabili i Calcagnusi,
malavitosi di Catania, con i quali eravamo in guerra, ma che
non conoscevano Di Cristina.
  PRESIDENTE. Alberto Salvo lo sa-peva?
  ANTONINO CALDERONE. Era lì, ma non era uomo d'onore.
  PRESIDENTE. Quindi lo sapeva?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PRESIDENTE. Quando ha descritto il posto dove abitava
Salvo ha parlato di un palazzo vecchio.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, però dalla parte di dietro non
era vecchio. La parte dell'ingresso principale era non proprio
vecchia, ma comunque non era
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una costruzione moderna, mentre il lato dal quale si entrava
era un po' moderno.
  PRESIDENTE. Può dirci qualcosa a proposito dei rapporti
tra mafia e camorra?
  ANTONINO CALDERONE. No. So che nell'anno 1980 un uomo
d'onore della famiglia di Catania che non andava più d'accordo
con Nitto (un certo Salvatore Palermo) è stato arrestato
vicino Messina insieme ad un altro: si stavano recando a
Napoli (avevano una bomba a mano ed altre armi) da Ciro
Mazzarella perché erano in guerra con i cutoliani.
  PRESIDENTE. C'era una famiglia di Cosa nostra a Napoli?
  ANTONINO CALDERONE. C'era e forse c'è ancora.
  PRESIDENTE. Uomini della camorra facevano parte di Cosa
nostra?
  ANTONINO CALDERONE. No, erano contro.
  PRESIDENTE. Zaza e Nuvoletta?
  ANTONINO CALDERONE. Sono uomini d'onore della famiglia
di Napoli, il cui rappresentante era Salvatore Zaza; vi erano
poi Sciorio, Mazzarella, Michele Zaza ed altri. Invece una
decina, a capo della quale vi era Nuvoletta, abitava a Marano,
si era staccata dalla famiglia di Napoli ed era diretta da
Michele Greco.
  PRESIDENTE. Lei ha mai avuto notizie di rapporti di Cosa
nostra con i servizi di sicurezza?
  ANTONINO CALDERONE. Quali sono i servizi di sicurezza?
  PRESIDENTE. I cosiddetti servizi segreti.
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
  PRESIDENTE. Lei ha fatto una distinzione molto
importante per noi perché non era mai stato così chiaro in
precedenza: Costanzo era appoggiato da voi, Rendo no.
Quest'ultimo era appoggiato da qualcun altro?
  ANTONINO CALDERONE. No. Non ha mai voluto farsi
appoggiare. Ricordo che all'inizio degli anni sessanta negli
uffici di Rendo è stata messa una bomba. Inoltre, gli venivano
inviate lettere anonime. Egli si è rivolto al sindaco Succi,
il quale gli ha detto di parlarne con i Costanzo, che avevano
l'uomo giusto. Rendo è venuto dai Costanzo - l'unica volta in
cui lo ha fatto -, si è fatto aprire il portone in fretta
perché era molto spaventato. Qui ha incontrato mio zio,
incaricato della protezione dei Costanzo, e gli ha esposto le
sue lamentele. Mio zio gli ha detto che avrebbe sistemato la
questione. Questo è stato per poterselo mettere nelle mani, ma
lui non ha abboccato.
  PRESIDENTE. Chi aveva messo questa bomba?
  ANTONINO CALDERONE. La famiglia di Catania.
  PRESIDENTE. Per convincerlo?
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Carmelo Costanzo era
contentissimo, perché finalmente aveva visto Rendo spaventato.
   Ho saputo che un ingegnere o geometra, un certo Simola,
per poter lavorare, aveva preso contatti con un uomo d'onore
della famiglia di Catania, Maugeri, e con Madonia, però Rendo
non si è esposto mai. Vi è stato poi un certo Natale Reito,
che non era uomo d'onore, che gli ha fatto la protezione,
anche se era all'acqua di rose.
  PRESIDENTE. Lei ha detto che Rendo era forte nella
politica. Ciò vuol dire che non era poi così necessaria la
vostra protezione, nel senso che si poteva anche essere
protetti dai politici?
                         Pag. 333
  ANTONINO CALDERONE. No, era forte nella politica quando
prendeva i lavori; aveva sempre qualcosa in più degli altri.
Ma non era protetto. Sapeva meglio degli altri come muoversi a
Roma e Costanzo non sopportava che egli avesse amicizie più
importanti delle sue.
  PRESIDENTE. Quali erano queste amicizie?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so. Comunque, non aveva la
protezione e quindi gli succedevano guai.
  PRESIDENTE. Abbiamo saputo che per prendere un lavoro a
Palermo bisognava avere la copertura di Cosa nostra. Rendo
come faceva?
  ANTONINO CALDERONE. Non so se ha lavorato a Palermo.
  PRESIDENTE. Credo che abbia lavorato a Trapani. Quindi,
riusciva ad ottenere gli appalti attraverso la politica.
  ANTONINO CALDERONE. A Roma i suoi affari erano molto più
facili di quelli di Costanzo.
  PRESIDENTE. La protezione politica gli bastava per
ottenere gli appalti; per il resto ci pensava da solo?
  ANTONINO CALDERONE. Se subiva danni, veniva risarcito
dall'assicurazione. Inoltre, cercava di salvarsi il più
possibile con guardiani e luci.
  ALFREDO GALASSO. Come mai è stata sopportata una
presenza come la sua?
  PRESIDENTE. L'onorevole Galasso intende dire che ad un
certo punto Rendo poteva rappresentare un brutto esempio,
perché si poteva desumere che non fosse necessario appoggiarsi
a Santapaola.
  ANTONINO CALDERONE. Noi non lo disturbavamo tanto ma
solo quando Costanzo faceva delle lamentele.
   Attualmente è normale circolare con le scorte ma Rendo,
negli anni settanta, quando usciva, bloccava le strade ed
aveva una forte guardia del corpo. Non so quanti uomini
pagasse: preferiva pagare loro piuttosto che la mafia.
  ALTERO MATTEOLI. Da ciò dobbiamo dedurre che il privato
Rendo sapeva difendersi meglio di quanto abbia fatto lo Stato.
  ANTONINO CALDERONE. Per quei tempi, perché oggi non
potrebbe difendersi. Vi dico che aveva una sua polizia
privata.
  ALTERO MATTEOLI. Ora è chiaro.
  PRESIDENTE. Lei ha detto che Cosa nostra non appoggiava
i partiti estremisti, però ha appoggiato il governo Milazzo,
del quale facevano parte partiti estremisti.
  ANTONINO CALDERONE. Il "milazzismo" ha rappresentato una
ribellione alla democrazia cristiana, dalla quale Milazzo era
uscito formando il nuovo gruppo dell'USCOP e poi il governo
con altri partiti. A noi però interessava Milazzo e non gli
altri.
  PRESIDENTE. Quali sono stati i vantaggi che avete avuto
dal rapporto con i Costanzo?
  ANTONINO CALDERONE. A mio fratello davano un milione al
mese.
  PRESIDENTE. E basta?
  ANTONINO CALDERONE. Se raggiungevamo qualche accordo con
i fornitori potevamo avere una piccola percentuale.
  PRESIDENTE. Potevate far lavorare uomini di Cosa nostra
nei cantieri?
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  ANTONINO CALDERONE. Ne abbiamo fatti lavorare migliaia.
  PRESIDENTE. Questo era un vantaggio per voi dal punto di
vista del potere e del prestigio.
  ANTONINO CALDERONE. Era un vantaggio perché davamo
lavoro. In certi paesi gli uomini d'onore svolgevano lavori
manuali e questa era una vergogna. Allora li facevamo lavorare
come guardiani o altro.
  PRESIDENTE. Lavori, quindi, non manuali.
  ANTONINO CALDERONE. Sì. Mio fratello diceva: "Che
peccato, un uomo d'onore che va a zappare!".
  PRESIDENTE. Quando ha iniziato Santapaola a difendere
Costanzo?
  ANTONINO CALDERONE. Dopo la morte di mio fratello.
  PRESIDENTE. Suo fratello Pippo ha passato a Santapaola
l'elenco dei cantieri Costanzo?
  ANTONINO CALDERONE. L'ho passato io, dopo la morte di
mio fratello, che aveva un elenco nel quale erano segnati
nomi, non del tutto comprensibili, e cifre riferite al
pagamento delle mie guardie, guardie che non esistevano.
Infatti, i soldi venivano dati alle famiglie. Dopo la morte di
mio fratello mi sono occupato di questo una volta, insieme a
Nitto.
  PRESIDENTE. Come mai la polizia stradale si serviva del
suo distributore di benzina, pur sapendo chi lei fosse?
  ANTONINO CALDERONE. A quei tempi, non si sapeva chi
fossimo. Il mio distributore era vicino alla caserma ed era
aperto 24 ore su 24.
  PRESIDENTE. Quando l'onorevole Madaudo chiese i voti
offrì qualcosa in cambio?
  ANTONINO CALDERONE. No, niente; era sottinteso.
  ROMANO FERRAUTO. Ma fu dato qualcosa?
  ANTONINO CALDERONE. Non so; se ne è interessato Nitto.
  ALTERO MATTEOLI. Nitto Santapaola si è interessato per
far ottenere voti a Madaudo?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, insieme a Bonomo.
  PRESIDENTE. In che anno si è verificata questa
richiesta?
  ANTONINO CALDERONE. Dopo la morte di mio fratello. Mi
pare che in quel periodo si sono svolte le elezioni nazionali.
  PRESIDENTE. Lei ha fatto riferimento all'onorevole
Madaudo, dicendo che prima vi era Lupis ed in seguito la sua
eredità è passata ad un altro uomo politico. Ricorda altri
eredi di uomini politici che appoggiavate?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Non ne ricorda, quindi, altri?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Zaza e Nuvoletta erano affiliati?
  ANTONINO CALDERONE. Quando li ho conosciuti io già erano
affiliati a Cosa nostra. Ho conosciuto Zaza nel 1975 o nel
1976 e Nuvoletta nel 1976.
                         Pag. 335
  PRESIDENTE. Non è un po' anomalo che gente di Napoli si
affiliasse a Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. E' successo così. Molti e molti anni
fa i palermitani si spostavano a Napoli per il mercato
ortofrutticolo, dove vendevano arance, mandarini e limoni.
Andavano lì annualmente. Qualche palermitano si è fermato a
Napoli e hanno fatto la famiglia; poi, hanno messo dentro pure
i napoletani.
  PRESIDENTE. Quando Riina era latitante dove stava?
  ANTONINO CALDERONE. Non l'ho mai saputo. L'unico che lo
sapeva, ai tempi miei, era Giuseppe Giacomo Gambino. Non lo
faceva sapere a nessuno.
  PRESIDENTE. Era in Sicilia?
  ANTONINO CALDERONE. A Palermo. Mi era venuto il dubbio
che abitasse vicino alla Favorita, perché gli appuntamenti gli
venivano dati sempre là vicino, ma non l'ho mai saputo.
  PRESIDENTE. Dove vi incontravate?
  ANTONINO CALDERONE. Per strada, al ristorante,
camminavamo tranquilli, armati.
  PRESIDENTE. Perché nessuno arrestava Riina?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
  PRESIDENTE. Ma lo conoscevano?
  ANTONINO CALDERONE. Avevano una fotografia vecchissima.
Solo ora è comparsa qualche fotografia più recente. Avevano
una fotografia in cui aveva i baffetti.
  PRESIDENTE. Stava a Palermo, era latitante, girava ed
entrava nei ristoranti, ma nessuno lo catturava. Aveva parlato
di protezioni e di coperture che gli venivano assicurate?
  ANTONINO CALDERONE. Eravamo tranquilli, entravamo nei
ristoranti.
  PRESIDENTE. Ma girare con Riina era pericoloso. Anche
lei era tranquillo?
  ANTONINO CALDERONE. Ma non era pericoloso girare con
Liggio! Liggio a Catania lo portavamo in giro, a farsi le
fotografie, a tagliarsi i capelli, a pranzo al ristorante.
Aveva la patente e la carta d'identità di Antonio Faruggia. Si
camminava tranquilli.
  PRESIDENTE. Nessuno vi ha mai fermato?
  ANTONINO CALDERONE. No, no. Quando qualche giovane lo
andava a prendere per fargli fare un giro, Liggio una sera
disse a Giuseppe Madonia: " Ce l'hai un revolver, così andiamo
in giro, vediamo se troviamo un carabiniere e l'ammazziamo".
  PRESIDENTE. Perché, se stava così bene a Catania, Liggio
andò a Milano?
  ANTONINO CALDERONE. Perché ci fu il processo dei
centoquattordici e Catania è stata un po' scoperta con mio
fratello. E' sembrata una zona un po' calda. E poi lui aveva
l'intenzione di andare a fare soldi e se ne andò a Milano a
fare i sequestri. Prima lavorò con un po' di droga, ma terra
terra (cinquanta o cento grammi), poi si portò un uomo che
abbiamo fatto uomo d'onore apposta per lui, perché prometteva,
era di Catania, era vicino a Madonia. Ma l'abbiamo inserito
non nella nostra città, ma nella famiglia di Vallelunga, di
Madonia. L'abbiamo fatto io, Francesco Madonia e Luciano
Liggio, a casa di questo Nello Pernice, che poi è diventato
suo compare perché gli ha battezzato il figlio. Se l'è portato
a Milano, hanno cominciato a
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lavorare un po' con la droga, poi si sono buttati nei
sequestri.
  PRESIDENTE. Ho capito. Come si manteneva Liggio quando
era a Catania, visto che era latitante?
  ANTONINO CALDERONE. Mio fratello gli dava un po' di
soldi.
  PRESIDENTE. Solo suo fratello?
  ANTONINO CALDERONE. Se ne riceveva da altri non lo
diceva.
  PRESIDENTE. Ha accennato prima alla presenza di Cosa
nostra a Torino e a Milano. Sa nulla di rapporti con politici
del nord?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Ha mai sentito parlare di Giuseppe Sciorio e
di Vincenzo Casillo?
  ANTONINO CALDERONE. Giuseppe Sciorio era molto amico di
Stefano Bontade. Sono stato tanto tempo a Napoli e l'ho
incontrato parecchie volte, due o tre a casa sua. Poi l'hanno
ammazzato. Era consigliere della famiglia di Napoli.
  PRESIDENTE. Come mai lo hanno ucciso a Foggia?
  ANTONINO CALDERONE. L'hanno ammazzato a Foggia? Non lo
sapevo.
  PRESIDENTE. Sì. Si può parlare di presenza della camorra
o di Cosa nostra a Foggia?
  ANTONINO CALDERONE. Non lo so.
   Stiamo parlando di Giuseppe Sciorio?
  PRESIDENTE. Che era il luogotenente di Cutolo.
  ANTONINO CALDERONE. No, no.
  PRESIDENTE. E' un altro Sciorio?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, io parlo di un uomo d'onore.
  PRESIDENTE. Non poteva essere luogotenente di Cutolo?
  ANTONINO CALDERONE. No.
  PRESIDENTE. Allora è un omonimo.
  ANTONINO CALDERONE. Quello che dico io è nato a
Giugliano, era commerciante ortofrutticolo. Erano due o tre
fratelli, uno dei quali l'hanno ammazzato tempo fa. Poi hanno
ammazzato anche lui.
  PRESIDENTE. E' questo al quale faceva riferimento lei,
onorevole Cafarelli?
  MICHELE CAFARELLI. Sì, presidente. Sapevo che era
camorrista, invece apprendo che era mafioso.
  PRESIDENTE. Ma il signor Calderone spiega che se era
uomo d'onore non poteva essere luogotenente di Cutolo.
  MICHELE CAFARELLI. Probabilmente abbiamo delle
informazioni sbagliate.
  ANTONINO CALDERONE. Ma è stato ucciso a Foggia?
  PRESIDENTE. Sì, nel 1983.
  ANTONINO CALDERONE. No, allora non era lui. Quanti anni
aveva?
  MICHELE CAFARELLI. Sotto i cinquanta.
  ANTONINO CALDERONE. Non sarà lui.
  PRESIDENTE. Perché è così difficile trovare i documenti
contabili di Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. E' difficilissimo, perché tanti li
tengono in mente e poi come fanno i conti li strappano.
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  PRESIDENTE. Essendo ormai diventata una cosa grossa,
devono anche servirsi di commercialisti, di gente che lavora
in borsa.
  ANTONINO CALDERONE. Non so, ai miei tempi non c'erano
queste cose.
  PRESIDENTE. Ho terminato le domande che avevamo
predisposto. Qualche collega vuole aggiungere qualche cosa?
  MICHELE CAFARELLI. Vorrei sapere dal signor Calderone se
sa qualcosa della Sacra corona unita in Puglia.
  ANTONINO CALDERONE. Ne ho letto sul giornale nel 1990.
Non ne so nulla.
  PRESIDENTE. E Cosa nostra in Puglia?
  ANTONINO CALDERONE. Non saprei. So che molti andavano a
sbarcare sigarette vicino la Puglia, un po' più sotto, in
Calabria. C'erano uomini d'onore che andavano lì.
  PRESIDENTE. Come mai Vernengo, da latitante, andò
proprio in Puglia?
  ANTONINO CALDERONE. Può darsi che aveva degli amici,
forse dei contrabbandieri. Non bisogna meravigliarsi se
arrestano un mafioso a Milano, a Torino o altrove. Stanno per
aprire le frontiere: se l'Italia è grande, signor presidente,
pensi quanto è grande l'Europa. Ecco perché dobbiamo pensarci
prima.
  PRESIDENTE. Però se se ne vanno non comandano più.
  ANTONINO CALDERONE. Ma con due ore di aereo sono a Roma.
  PRESIDENTE. Ci sono famiglie all'estero?
  ANTONINO CALDERONE. Famiglie di Cosa nostra...ho sentito
qualcosa su una decina che poteva essere in Francia.
  PRESIDENTE. A Marsiglia?
  ANTONINO CALDERONE. No, ora non ricordo il paese. Era
una decina della provincia di Enna, ma non ricordo il paese.
So anche che in Germania un uomo della provincia di
Caltanissetta aveva fatto uomini d'onore, ma non so dire
altro.
  PRESIDENTE. Quindi una in Francia e una in Germania. E a
Tunisi?
  ANTONINO CALDERONE. A Tunisi c'era una famiglia di
uomini d'onore, ma non so se esiste più, perché li hanno
buttati fuori. Ho conosciuto il rappresentante della famiglia
di Tunisi.
  PRESIDENTE. C'è una famiglia negli Stati Uniti?
  ANTONINO CALDERONE. No, quella non...
  PRESIDENTE. Ma c'è una rappresentanza di Cosa nostra
negli Stati Uniti?
  ANTONINO CALDERONE. Non credo, non gliela farebbero
fare. Possono esserci uomini d'onore che abitano negli Stati
Uniti, ma non credo che possano formare una famiglia. Forse
c'era qualcosa nel Venezuela, dai Caruana e Cuntrera: avevano
qualche famiglia autorizzata da Giuseppe Settecase,
rappresentante della provincia di Agrigento. Ma non credo che
negli Stati Uniti Cosa nostra americana li avrebbe autorizzati
a fare qualcosa. Uomini d'onore ce ne saranno tanti, ma così.
  PRESIDENTE. Dei Cuntrera e dei Caruana cosa può dire
alla Commis-sione?
  ANTONINO CALDERONE. Ho conosciuto i Caruana, uno dei
Caruana. So che Giuseppe Settecase ne parlava tanto, dei
Cuntrera e dei Caruana. Giuseppe Settecase era il
rappresentante provinciale di Agrigento, dove cade Siculiana.
Ho sentito parlare di loro alla fine del 1968. Si
                         Pag. 338
diceva che lavoravano con la droga in America. Me ne ha
parlato un loro conterraneo venuto a Catania perché era
soggiornato. Ho sentito sempre, di tutti gli uomini d'onore,
che questi erano ricchissimi per la droga, ma di cose
specifiche non so.
  PRESIDENTE. Madonia è stato arrestato recentemente
vicino Vicenza. Sa se aveva una sua famiglia in Veneto?
  ANTONINO CALDERONE. Non so.
  ALTERO MATTEOLI. Questa mattina ci diceva che a Palermo
vi è un numero di mafiosi assai più grande che nelle altre
province. Potrebbe dirci qual è all'incirca il numero degli
uomini d'onore?
  ANTONINO CALDERONE. Non posso quantificare, ma erano
molti, un paio di migliaia. E' grossissima pure ad Agrigento.
  ALTERO MATTEOLI. Un paio di migliaia solo a Palermo?
  ANTONINO CALDERONE. A Palermo e provincia.
  PRESIDENTE. Anche ad Agrigento è molto forte?
  ANTONINO CALDERONE. Moltissimo.
  PRESIDENTE. Anche lì porta i voti?
  ANTONINO CALDERONE. Ma ad Agrigento sono molto forti i
famosi "stiddari". A Palermo ai miei tempi non ce n'erano.
  PRESIDENTE. Quindi sono gli "stiddari" che controllano
tutto?
  ANTONINO CALDERONE. No, controllano anche gli
"stiddari".
  PRESIDENTE. Si possono mettere d'accordo per votare la
stessa persona, "stiddari" e Cosa nostra?
  ANTONINO CALDERONE. Se c'è pace tra di loro sì, se sono
in guerra no.
  PRESIDENTE. Signor Calderone, noi avremmo finito. La
ringraziamo molto per la collaborazione che ha offerto alla
Commissione parlamentare. Ha qualcosa da aggiungere?
  ANTONINO CALDERONE. Devo dire solo questo. Oggi è il
momento più propizio per mettere in ginocchio la mafia. Si
deve fare ancora di più, si deve fare uno sforzo sovrumano
perché ci si può riuscire. Altrimenti, questi sono capaci di
fare qualunque cosa. Sono come quei topi che quando la nave
affonda si aggrappano a qualsiasi cosa: sono capaci di tutto e
ce l'hanno fatto vedere. Sono ormai organizzati militarmente e
si devono trattare da militari. Se si prende questa gente
bisogna metterli in un lager, in un campo di concentramento,
senza fare processi. Non c'è democrazia per loro.
  PRESIDENTE. Forse, se riusciamo a fare i processi senza
"aggiustarli", possiamo riuscire.
  ANTONINO CALDERONE. Se non si può contestare un omicidio
o un altro reato grave ad un uomo d'onore, dopo due o tre anni
esce e siamo da capo. Invece, questi non devono più uscire. E'
come quando si sterilizzano gli animali, si devono
sterilizzare.
  PRESIDENTE. Però, sulla base delle dichiarazioni sue e
degli altri collaboratori, abbiamo un quadro dei responsabili
degli omicidi.
  ANTONINO CALDERONE. Sì, e avete anche tutti i nomi degli
uomini d'onore. Nelle questure di ogni città ci sono le famose
carpette con la M rossa: quelli dovrebbero essere tutti chiusi
in un'isola,
                         Pag. 339
senza avere rapporti con nessuno. Quando finirà la guerra, si
valuterà se potranno essere riammessi nella società umana.
  PRESIDENTE. Un uomo politico sostenuto da voi può
sostenere una legge contro di voi?
  ANTONINO CALDERONE. Penso di no, perché se la cosa si sa
egli viene ucciso.
  PRESIDENTE. E' possibile che quel politico sostenga una
legge contro la mafia dicendo che purtroppo è necessario
approvarla sulla spinta dell'opinione pubblica promettendo
però di aggiustare poi le cose?
  ANTONINO CALDERONE. Sì, se promette di "aggiustarla".
Tra l'altro, i mafiosi non sono lì presenti quando si
discutono queste cose.
  PRESIDENTE. Se vi fosse un momento in cui è comunque
necessario approvare determinate leggi, Cosa nostra
comprenderebbe che anche un uomo politico suo amico non si può
sottrarre ad un certo obbligo?
  ANTONINO CALDERONE. Questo politico potrebbe dire: "Io
non posso fare più niente, stanno approvando la legge".
Infatti, non è lui che deve fare la legge, ma sono tutti gli
uomini politici. Egli al massimo potrebbe esprimere il suo
voto contrario ma la legge sarebbe comunque approvata. Egli
comunque li avvisa.
  PRESIDENTE. Quindi li informa che non si è schierato
dall'altra parte?
  ANTONINO CALDERONE. E' logico, questa è la cosa
principale. Egli dovrebbe dire: "Sta succedendo questo, ma non
è colpa mia". Analogamente Graziano Verzotto ci ha riferito
che gli avevano detto di non frequentarci. Egli ha risposto
che se lo mettevano sotto accusa per questo, lui avrebbe
svelato molte cose su di loro.
  PRESIDENTE. Quindi, l'importante è che, anche se si
sostengono leggi contro di voi, prima si prenda contatto con
voi dicendo che si tratta di una cosa inevitabile?
  ANTONINO CALDERONE. Anche loro capiscono che in questo
caso il politico non può fare niente.
  ALTERO MATTEOLI. Riina potrebbe non essere più vivo?
  ANTONINO CALDERONE. Tutto è possibile. Me lo augurerei,
ma non ci credo. Comunque si sarebbe saputo.
  VITO RIGGIO. Verzotto si vantava con voi perché qualcuno
gli aveva detto di non frequentarvi più e lui invece
rispondeva che poteva continuare a frequentarvi perché
comunque non potevano fargli niente?
  ANTONINO CALDERONE. Lo aveva chiamato la Commissione
della DC (non so chi fossero) e gli avevano detto: "Tu non
devi più frequentare apertamente i mafiosi". Lo minacciarono
anche di adottare qualche misura, non so di che tipo. Verzotto
rispose: "Se voi prendete delle misure, io dirò in una
discussione aperta chi siete voi, chi è Rumor e chi sono
altri".
  VITO RIGGIO. Quindi era stato chiamato dal partito per
impedirgli di fare determinate cose?
  ANTONINO CALDERONE. Sì.
  PIETRO FOLENA. La fotografia di Riina pubblicata in
questi giorni sui giornali assomiglia all'ultimo Riina che lei
ha incontrato?
  ANTONINO CALDERONE. All'ultimo no. Però gli occhi sono i
suoi. Egli è più grosso, ma le fattezze sono lì. Non è facile
prenderlo, ma se si guarda attentamente ....
                         Pag. 340
   Pensi che io non lo vedo dal 1979, cioè da circa 13-14
anni.
  PRESIDENTE. La ringrazio per la collaborazione che ha
prestato.
  ANTONINO CALDERONE. Desidero ringraziare i signori
parlamentari per avermi dato la possibilità di dire che
dobbiamo combattere. Ringrazio inoltre le forze dell'ordine,
in particolare il Servizio centrale operativo della polizia e
all'interno di questo la divisione del dottor Manganelli, i
suoi uomini, che sono persone molto umane. Anche se nella mia
vita vi sono stati momenti brutti, essi hanno saputo darmi
coraggio ed è anche merito loro se sono ancora qui.
  PRESIDENTE. Ringraziamo anche noi le forze dell'ordine,
il Servizio centrale operativo della polizia e tutte le
persone che, a loro rischio e con grande sacrificio,
garantiscono la sua sicurezza e rendono al paese un servizio
di cui siamo loro grati.
La seduta termina alle 15,30.

 


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