da "Primavera e altri racconti"
(1877)
Primavera
Allorché Paolo era arrivato a Milano colla sua musica sotto il braccio -
in quel tempo in cui il sole splendeva per lui tutti i giorni, e tutte le donne erano
belle - avea incontrato la Principessa: le ragazze del magazzino le davano quel titolo
perché aveva un visetto gentile e le mani delicate; ma soprattutto perch'era
superbiosetta, e la sera, quando le sue compagne irrompevano in Galleria come uno stormo
di passere, ella preferiva andarsene tutta sola, impettita sotto la sua sciarpetta bianca,
sino a Porta Garibaldi. Così s'erano incontrati con Paolo, mentre egli girandolava,
masticando pensieri musicali, e sogni di giovinezza e di gloria - una di quelle sere beate
in cui si sentiva tanto più leggiero per salire verso le nuvole e le stelle, quanto meno
gli pesavano lo stomaco e il borsellino -. Gli piacque di seguire le larve gioconde che
aveva in mente in quella graziosa personcina, la quale andava svelta dinanzi a lui,
tirando in su il vestitino grigio quand'era costretta a scendere dal marciapiedi sulla
punta dei suoi stivalini un po' infangati. In quel modo istesso la rivide due o tre volte,
e finirono per trovarsi accanto. Ella scoppiò a ridere alle prime parole di lui; rideva
sempre tutte le volte che lo incontrava, e tirava di lungo. Se gli avesse dato retta alla
prima, ei non l'avrebbe cercata mai più. Finalmente, una sera che pioveva - in quel tempo
Paolo aveva ancora un ombrello - si trovarono a braccetto, per la via che cominciava a
farsi deserta. Gli disse che si chiamava la Principessa, poiché, come spesso avviene, il
suo pudore rannicchiavasi ancora nel suo vero nome, ed ei l'accompagnò sino a casa,
cinquanta passi lontano dalla porta. Ella non voleva che nessuno, e lui meno d'ogni altro,
potesse vedere in qual castello da trenta lire al mese vivessero i genitori della
Principessa.
Trascorsero in tal modo due o tre settimane. Paolo l'aspettava in Galleria,
dalla parte di via Silvio Pellico, rannicchiato nel suo gramo soprabito estivo che il
vento di gennaio gli incollava sulle gambe; ella arrivava lesta lesta, col manicotto sul
viso rosso dal freddo; infilava il braccio sotto quello di lui, e si divertivano a contare
i sassi, camminando adagio, con due o tre gradi di freddo.
Paolo chiacchierava spesso di fughe e di cannoni, e la ragazza lo pregava di
spiegarle la cossa in milanese. - La prima volta che salì nella cameretta di lui,
al quarto piano, e l'udì suonare sul pianoforte una di quelle sue romanze di cui le
avevano tanto parlato, cominciò a capire, ancora in nube, mentre guardava attorno fra
curiosa e sbigottita, si sentì venir gli occhi umidi, e gli fece un bel bacio - ma questo
avvenne molto tempo dopo.
Dalla modista si ciarlava sottovoce, dietro le scatole di cartone e i mucchi
di fiori e di nastri sparsi sulla gran tavola da lavoro, del nuovo moroso della
Principessa, e si rideva molto di quest'altro, il quale aveva un soprabitino che
sembrava quello della misericordia di Dio, e non regalava mai uno straccio di vestito
alla sua bella. La Principessa fingeva non intendere, faceva una spallata, e agucchiava,
zitta e fiera.
Il povero grande artista in erba le avea tanto parlato della gloria futura, e
di tutte le altre belle cose che dovevano far corteo a madonna gloria, che ella non poteva
accusarlo di essersi spacciato per un principe russo o per un barone siciliano. - Una
volta ei volle regalarle un anellino, un semplice cerchietto d'oro che incastonava una
mezza perla falsa - erano i primi del mese allora. - Ella si fece rossa e lo ringraziò
tutta commossa - per la prima volta - gli strinse le mani forte forte, ma non volle
accettare il regalo: avea forse indovinato quante privazioni dovesse costare il povero
gingillo al Verdi dell'avvenire, e sì che aveva accettato assai più da quell'altro,
senza tanti scrupoli, ed anche senza tanta gratitudine. Quindi, per fare onore al suo
amante, si sobbarcò a gravi spese; prese a credenza una vesticciuola al Cordusio;
comperò una mantellina da venti lire sul Corso di Porta Ticinese, e dei gingilli di vetro
che si vendevano in Galleria Vecchia. L'altro le aveva ispirato il gusto e il
bisogno di certe eleganze. Paolo non lo sapeva, lui; non sapeva nemmeno che si fosse
indebitata, e le diceva: - Come sei bella così! - Ella godeva di sentirselo dire, era
felice per la prima volta di non dover nulla della sua bellezza al suo amante.
La domenica, quand'era bel tempo, andavano a spasso fuori la cinta daziaria, o
lungo i bastioni, all'Isola Bella, o all'Isola Botta, in una di quelle isole di terraferma
affogate nella polvere. Erano i giorni delle pazze spese; sicché quand'era l'ora di
pagare lo scotto, la Principessa si pentiva delle follie fatte nella giornata, si sentiva
stringere il cuore, e andava ad appoggiare i gomiti alla finestra che dava sull'orto. Egli
veniva a raggiungerla, si metteva accanto a lei, spalla contro spalla, e lì, cogli occhi
fissi in quel quadretto di verdura, mentre il sole tramontava dietro l'Arco del Sempione,
sentivano una grande e melanconica dolcezza. Quando pioveva avevano altri passatempi:
andavano in omnibus da Porta Nuova a Porta Ticinese, e da Porta Ticinese a Porta Vittoria;
spendevano trenta soldi e scarrozzavano per due ore come signori. La Principessa
arricciava blonde e attaccava fiori di velo su gambi di ottone durante sei giorni,
pensando a quella festa della domenica; spesso il giovanotto non desinava il giorno prima
o il giorno dopo.
Passarono l'inverno e l'estate in tal modo, giocando all'amore come dei bimbi
giocano alla guerra o alla processione. Ella non accordavagli nulla più di codesto, e
l'innamorato si sentiva troppo povero per osare di chieder altro. Eppure ella gli voleva proprio
bene; ma aveva troppo pianto, per via di quell'altro, ed ora credeva aver messo
giudizio. Non sospettava che dopo quell'altro, ora che gli voleva proprio bene, non
buttarglisi fra le braccia fosse l'unica prova d'amore che il suo istinto delicato le
suggerisse: povera ragazza!
Venne l'ottobre; ei sentiva la grande melanconia dell'autunno, e le avea
proposto di andare in campagna, sul lago. Approfittarono di un giorno in cui il babbo di
lei era assente per fare una scappata, una scappata grossa che costò cinquanta lire, e
andarono a Como per tutto un giorno. Quando furono all'albergo, l'oste domandò se
ripartivano col treno della sera; Paolo lungo il viaggio avea domandato alla Principessa
come avrebbe fatto se fosse stata costretta a rimaner la notte fuori di casa; ella avea
risposto ridendo: - Direi di aver passata la notte al magazzino per un lavoro urgente -.
Ora il giovane guardava imbarazzato lei e l'oste, e non osava dir altro. Ella chinò il
capo e rispose che partivano il domani; quando furono soli si fece di bracia - così gli
si lasciò andare.
Oh, i bei giorni in cui si passeggiava a braccetto sotto gli ippocastani
fioriti senza nascondersi, senza vedere le belle vesti di seta che passavano nelle
carrozze a quattro cavalli, e i bei cappelli nuovi dei giovanotti che caracollavano col
sigaro in bocca! le domeniche in cui si andava a far baldoria con cinque lire! le belle
sere in cui stavano un'ora sulla porta, prima di lasciarsi, scambiando venti parole in
tutto, tenendosi per mano, mentre i viandanti passavano affrettati! Quando avevano
cominciato non credevano che dovessero arrivare a volersi bene sul serio; - ora che ne
avevano le prove sentivano altre inquietudini.
Paolo non le avea mai parlato di quell'altro di cui avea indovinato
l'esistenza fin dalla prima volta che Principessa si era lasciata mettere sotto il suo
ombrello; l'avea indovinato a cento nonnulla, a cento particolari insignificanti, a certo
modo di fare, al suono di certe parole. Ora ebbe un'insana curiosità. - Ella possedeva in
fondo una gran rettitudine di cuore, e gli confessò tutto. Paolo non disse nulla;
guardava le cortine di quel gran letto d'albergo su cui delle mani sconosciute avevano
lasciato ignobili macchie.
Sapevano che quella festa un giorno o l'altro avrebbe avuto fine; lo sapevano
entrambi e non se ne davano pensiero gran fatto, - forse perché avevano ancora dinanzi la
gran festa della giovinezza. - Lui anzi si sentì come alleggerito da quella confessione
che la ragazza gli avea fatto, quasi lo sdebitasse di ogni scrupolo tutto in una volta, e
gli rendesse più agevole il momento di dirle addio. A quel momento ci pensavano spesso
tutt'e due, tranquillamente, come cosa inevitabile, con certa rassegnazione anticipata e
di cattivo augurio. Ma adesso si amavano ancora e si tenevano abbracciati. - Quando quel
giorno arrivò davvero fu tutt'altra storia.
Il povero diavolo avea gran bisogno di scarpe e di quattrini; le sue scarpe
s'erano logorate a correr dietro le larve dei suoi sogni d'artista, e della sua ambizione
giovanile, - quelle larve funeste che da tutti gli angoli d'Italia vengono in folla ad
impallidire e sfumare sotto i cristalli lucenti della Galleria, nelle fredde ore di notte,
o in quelle tristi del pomeriggio. Le meschine follie del suo amore costavano care! A
venticinque anni, quando non s'è ricchi d'altro che di cuore e di mente, non si ha il
diritto di amare, fosse anche una Principessa; non si ha il diritto di distogliere lo
sguardo, fosse anche per un sol momento, sotto pena di precipitare nell'abisso, dalla
splendida illusione che vi ha affascinato e che può farsi la stella del vostro avvenire;
bisogna andare avanti, sempre avanti, cogli occhi intenti in quel faro, avidi, fissi, il
cuore chiuso, le orecchie sorde, il piede instancabile e inesorabile, dovesse camminare
sul cuore istesso. Paolo fu malato, e nessuno seppe nulla di lui per tre interi giorni,
nemmen la Principessa.
Erano incominciati i giorni squallidi e lunghi in cui si va a passeggiare
nelle vie polverose fuori le porte, a guardare le mostre dei gioiellieri, e a leggere i
giornali appesi agli sportelli delle edicole, i giorni in cui l'acqua che scorre sotto i
ponti del Naviglio dà le vertigini, e guardando in alto si vedono sempre le guglie del
Duomo che vi affascinano. La sera, quando aspettava in via Silvio Pellico, faceva più
freddo del solito, le ore erano più lunghe, e la Principessa non aveva più la solita
andatura svelta e leggiadra.
In quel tempo gli capitò addosso una fortuna colossale, qualcosa come
quattromila lire all'anno perché andasse a pestare il piano pei caffè e i concerti
americani. Accettò colla stessa gioia come se avesse avuto il diritto di scegliere: dopo
pensò alla Principessa. La sera, la invitò a cena, in un gabinetto riservato dei Biffi,
al pari di un riccone dissoluto. Avea avuto un acconto di cento lire e ne spese buona
parte. La povera ragazza spalancava gli occhi a quel festino da Sardanapalo, e dopo il
caffè, col capo alquanto peso, appoggiò le spalle al muro, seduta come era sul divano.
Era un po' pallida, un po' triste, ma più bella che mai. Paolo le metteva spesso le
labbra sul collo, vicino alla nuca; ella lo lasciava fare, e lo guardava con occhi
attoniti, quasi avesse il presentimento di una sciagura. Ei sentivasi il cuore stretto in
una morsa, e per dirle che le voleva un gran bene le domandava come avrebbero fatto quando
non si fossero più visti. La Principessa stava zitta, volgendo il capo dalla parte
dell'ombra, cogli occhi chiusi, e non si muoveva per dissimulare certi lagrimoni grossi e
lucenti che scorrevano e scorrevano per le guance. Allorché il giovane se ne accorse ne
fu sorpreso: era la prima volta che la vedeva piangere. - Cos'hai? - domandava. Ella non
rispondeva, o diceva - nulla! - con voce soffocata; - diceva sempre così, ch'era poco
espansiva, e aveva superbiette da bambina. - Pensi a quell'altro? - domandò Paolo per la
prima volta. - Sì! - accennò ella col capo, - sì - ed era vero. Allora si mise a
singhiozzare.
L'altro! voleva dire il passato: voleva dire i bei giorni di sole e
d'allegria, la primavera della giovinezza, il suo povero affetto destinato a strascinarsi
così, da un Paolo all'altro, senza pianger troppo quand'era gaio; voleva dire il presente
che se ne andava, quel giovane che oramai faceva parte del suo cuore e della sua carne, e
che sarebbe divenuto un estraneo anche lui, fra un mese, fra un anno o due.
Paolo in quel momento ruminava forse vagamente i medesimi pensieri e non ebbe
il coraggio di aprir bocca. Soltanto l'abbracciò stretto stretto e si mise a piangere
anche lui. - Avevano cominciato per ridere.
- Mi lasci? - balbettò la Principessa. - Chi te l'ha detto? - Nessuno, lo so,
lo indovino. Partirai? - Ei chinò il capo. Ella lo fissò ancora un istante cogli occhi
pieni di lagrime, poi si voltò in là, e pianse cheta cheta.
Allora, forse perché non avea la testa a casa, o il cuore troppo grosso,
ricominciò a vaneggiare, e gli raccontò quel che gli aveva sempre nascosto per timidità
o per amor proprio; gli disse com'era andata con quell'altro. A casa non erano
ricchi, per dir la verità; il babbo aveva un piccolo impiego nell'amministrazione delle
ferrovie, e la mamma ricamava; ma da molto tempo la sua vista s'era indebolita, e allora
la Principessa era entrata in un magazzino di mode per aiutare alquanto la famiglia.
Colà, un po' le belle vesti che vedeva, un po' le belle parole che le si
dicevano, un po' l'esempio, un po' la vanità, un po' la facilità, un po' le sue compagne
e un po' quel giovanotto che si trovava sempre sui suoi passi, avevano fatto il resto. Non
avea capito di aver fatto il male, che allorquando aveva sentito il bisogno di nasconderlo
ai suoi genitori: il babbo era un galantuomo, la mamma una santa donna; sarebbero morti di
dolore se avessero potuto sospettare la cosa, e non l'aveano mai creduto possibile,
giacché avevano esposto la figliuola alla tentazione. La colpa era tutta sua... o
piuttosto non era sua; ma di chi era dunque? Certo che non avrebbe voluto conoscere quell'altro,
ora che conosceva il suo Paolo, e quando Paolo l'avrebbe lasciata non voleva conoscer più
nessuno...
Parlava a voce bassa, sonnecchiando, appoggiando il capo sulla spalla di lui.
Allorché uscirono dal Biffi indugiarono alquanto pel cammino, rifacendo tutta
la triste via crucis dei loro cari e mesti ricordi: la cantonata dove s'erano
incontrati, il marciapiedi sul quale s'erano fermati a barattar parole la prima volta. -
To'! - dicevano, - è qui! - No è più in là -. Andavano come oziando, intontiti; nel
separarsi si dissero - a domani -.
Il giorno dopo Paolo faceva le valige, e la Principessa, inginocchiata dinanzi
al vecchio baule sgangherato, l'aiutava ad assestavi le poche robe, i libri, le carte di
musica sulle quali ella avea scarabocchiato il suo nome, in quei giorni là. - Quei panni
glieli aveva visti indosso tante volte! - una cosa copriva l'altra, e stringeva il cuore
il vederle scomparire così, una alla volta. Paolo le porgeva ad uno ad uno i panni che
andava a prendere dal cassettone o dall'armadio; ella li guardava un momento, li voltava e
rivoltava, poi li riponeva per bene, senza che facessero una piega, fra le calze e i
fazzoletti; non dicevano molte parole, e mostravano d'aver fretta. La ragazza avea messo
da banda un vecchio calendario sul quale Paolo soleva fare delle annotazioni. - Questo me
lo lascerai? - gli disse. Ei fece cenno di sì senza voltarsi.
Quando il baule fu pieno rimanevano ancora qua e là, su per le seggiole e il
portamantelli, dei panni logori e il vecchio soprabito. - A quella roba penserò domani, -
disse Paolo; la ragazza premeva sul coperchio col ginocchio mentre egli affibbiava le
corregge; poi andò a raccogliere il velo e l'ombrellino che aveva lasciati sul letto e si
mise a sedere sulla sponda tristamente. Le pareti erano nude e tristi; nella camera non
rimaneva altro che quella gran cassa, e Paolo il quale andava e venia, frugando nei
cassetti, e raccogliendo in un gran fagotto le altre robe.
La sera andarono a spasso l'ultima volta. Ella gli si appoggiava al braccio
timidamente, quasi l'amante cominciasse a diventare un estraneo per lei. Entrarono al
Fossati, come nei giorni di festa, ma partirono di buon'ora, e non si divertirono molto.
Il giovine pensava che tutta quella gente lì ci sarebbe tornata altre volte e avrebbe
trovato la Principessa - ella, che non avrebbe più visto Paolo fra tutta quella gente.
Solevano bere la birra in un caffeuzzo al Foro Bonaparte; Paolo amava quella gran piazza
per la quale avea passeggiato tante volte, nelle sere di estate, colla sua Principessa
sotto il braccio.
Da lontano s'udiva la musica del caffè Gnocchi, e si vedevano illuminate le
finestre rotonde del Teatro Dal Verme. Di tratto in tratto, lungo la via oscura,
formicolavano dei lumi e della gente dinanzi i caffè e le birrerie. Le stelle sembravano
tremolare in un azzurro cupo e profondo; qua e là, nel buio dei viali e fra mezzo agli
alberi, luccicava una punta di gas, davanti alla quale passavano a due a due delle ombre
nere e tacite. Paolo pensava: - Ecco l'ultima sera! -
S'erano messi a sedere lontano dalla folla, nel cantuccio meno illuminato,
volgendo le spalle ad una controspalliera di arbusti rachitici piantati in vecchie botti
di petrolio; la Principessa strappò due fogliuzze e ne diede una a Paolo - altre volte si
sarebbe messa a ridere. - Venne un cieco che strimpellava un intero repertorio sulla
chitarra; Paolo gli diede tutti i soldoni che aveva in tasca.
Si rividero un'ultima volta alla stazione, al momento della partenza, nell'ora
amara dell'addio affrettato, distratto, senza pudore, senza espansione e senza poesia, fra
la ressa, l'indifferenza, il frastuono e la folla della partenza. La Principessa seguiva
Paolo come un'ombra, dal registro dei bagagli allo sportellino dei biglietti, facendo
tanti passi quanti ne faceva lui, senza aprir bocca, col suo ombrellino sotto il braccio:
era bianca come un cencio e null'altro. - Egli al contrario era tutto sossopra e avea
un'aria affaccendata. Al momento d'entrare nella sala d'aspetto un impiegato domandò i
biglietti; Paolo mostrò il suo; ma la povera ragazza non ne aveva; - colà dunque si
strinsero la mano in fretta dinanzi un mondo di gente che spingeva per entrare, e
l'impiegato che marcava il biglietto.
Ella era rimasta ritta accanto all'uscio, col suo ombrellino fra le mani, come
se aspettasse ancora qualcheduno, guardando qua e là i grandi avvisi incollati alle
pareti, e i viaggiatori che andavano dallo sportello dei biglietti alle sale d'aspetto; li
accompagnava con quello stesso sguardo imbalordito dentro la sala, e poi tornava a
guardare gli altri che giungevano.
Infine, dopo dieci minuti di quell'agonia, suonò la campana, e s'udì il
fischio della macchina. La ragazza strinse forte il suo ombrellino, e se ne andò lenta
lenta, barcollando un poco; fuori della stazione si mise a sedere su di un banco di
pietra.
- Addio! tu che te ne vai, tu con cui il mio cuore ha vissuto! Addio tu che
sei andato prima di lui! Addio tu che verrai dopo di lui, e te ne andrai come lui se n'è
andato, addio! - Povera ragazza!
E tu, povero grande artista da birreria, va a strascinare la tua catena; va a
vestirti meglio e a mangiare tutti i giorni; va ad ubbriacare i tuoi sogni di una volta
fra il fumo delle pipe e del gin, nei lontani paesi dove nessuno ti conosce e
nessuno ti vuol bene; va a dimenticare la Principessa fra le altre principesse di laggiù,
quando i danari raccolti alla porta del caffè avranno scacciato la melanconica immagine
dell'ultimo addio scambiato là, in quella triste sala d'aspetto. E poi, quando tornerai,
non più giovane, né povero, né sciocco, né entusiasta, né visionario come allora, e
incontrerai la Principessa, non le parlare del bel tempo passato, di quel riso, di quelle
lagrime, ché anche ella si è ingrassata, non si veste più a credenza al Cordusio, e non
ti comprenderebbe più. E ciò è ancora più triste - qualchevolta.
copertina |
precedente |
successiva |
inizio pagina |