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Dracula, L'uomo della notte, di Bram Stoker
Dracula, L'uomo della notte, di Bram Stoker

Copertina


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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Dràcula, L'uomo della notte
AUTORE: Stoker, Bram
TRADUTTORE: Nessi, Angelo
CURATORE:
NOTE: Si ringraziano i volontari di Wikisource che hanno collaborato alla digitalizzazione del testo utilizzato come base per la riuscita di questo ebook: it.wikisource.org/wiki/Dracula. Le illustrazioni sono di: Nunzio Brugaletta, Francesca Guerrieri, Giulia Mochi, Stefano Piacenti, Sergio Piludu, Francesco Antonio Tarantino. Altre illustrazioni sono state generate utilizzando Midjourney, www.midjourney.com.

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828103189

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: https://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: immagine generata da Midjourney, https://www.midjourney.com.

TRATTO DA: Dràcula : l'uomo della notte / Brahm Stoker ; traduzione di A. Nessi. - Milano : Sonzogno, [1922] (Milano : Matarelli). - 195 p. ; 19 cm.

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 13 dicembre 2022

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità standard
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima

SOGGETTO:
FIC015000 FICTION / Horror
FIC024000 FICTION / Occulto e Sovrannaturale

DIGITALIZZAZIONE:
it.wikisource.org/wiki/Dracula

REVISIONE:
Marco Totolo (revisione ePub, ODT)

IMPAGINAZIONE:
Ugo Santamaria (ePub, ODT)

PUBBLICAZIONE:
Ugo Santamaria


Liber Liber

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Copertina della prima edizione italiana 1922

Copertina della prima edizione italiana 1922


Dràcula
L'uomo della notte

di

Bram Stoker


Frontespizio della prima edizione italiana 1922

Frontespizio della prima edizione italiana 1922


Indice


Dracula, disegno di Francesca Guerrieri

Dracula,
disegno di Francesca Guerrieri


CAPITOLO PRIMO.

Giornale di Jonathan Harker.

(Stenografato.)

3 maggio. – Bistritz.

Lasciato Monaco alle 8.55 di sera, il 1° maggio. Giunto a Vienna l’indomani, di buon mattino. Il treno aveva un’ora di ritardo. Budapest mi parve molto curiosa da quel che potei vederne stando in treno. Fatta una passeggiata breve attraverso la città. Ebbi l’impressione nitidissima di lasciare l’Occidente per entrare nell’Oriente. Il magnifico ponte gettato sul Danubio ricorda la dominazione turca.

Giunto a Klausenberg sul far della notte. Cenato all’Albergo Reale con un pollo alla pàprica, specie di pepe rosso, (pro memoria: ho chiesto la ricetta di questo piatto, per Mina). Il mio cattivo tedesco m’è utilissimo qui, non so come me la caverei altrimenti.

Prima di lasciar Londra, e poichè son chiamato da un nobile di questo paese, ho consultato al British Museum alcuni libri e carte sulla Transilvania.

Il distretto che il conte Dràcula abita confina con tre Stati: la Transilvania, la Moldavia e la Bucovia, in mezzo ai Carpazi, in uno degli angoli più selvaggi e meno conosciuti dell’Europa.

Non ho potuto esattamente riscontrare il castello Dracula ma so che Bistritz, la piccola località vicina, è abbastanza importante.

Secondo le mie note, la popolazione della Transilvania conta quattro nazionalità: i Sassoni nel Nord, alleati dei Valacchi; i Magiari nell’Ovest; e i Szekelys nell’Est e nel Nord. E io sono in procinto di frequentare questi ultimi; hanno la pretesa di discendere da Attila e dagli Unni. Hanno qui certe curiose superstizioni di cui chiederò al conte la spiegazione.

Dormito male. Il mio letto è eccellente, eppure faccio sogni strani. Tutta la notte abbaiò un cane sotto le mie finestre; senza dubbio è lui il responsabile della mia insonnia, a meno che non sia la pàprica: ho vuotato la boccia d’acqua tant’ero assetato. Soltanto verso il mattino mi sono addormentato d’un sonno pesante.

A colazione, m’hanno ancora offerto la pàprica e una specie di poltiglia di mais che chiamano « mamaliga » (anche di questa ho domandato la ricetta per Mina).

Ho dovuto sbrigare questa leggiera colazione perchè il treno partiva alle otto. In realtà, ho aspettato un’ora buona nel carrozzone prima che degnasse di mettersi in moto. Man mano ci avanziamo verso l’Oriente i ritardi diventano inverosimili. Che cosa deve succedere in China?

Il treno attraversa un bel paese. Talvolta si scorgono piccole ville, o castelli appollaiati sopra colline dirupate che ricordano i castelli dei vecchi messali; talvolta si costeggiano fiumi dall’acque limpide. Ad ogni stazione gruppi di contadini in costumi nazionali. Le donne son graziose da lontano, ma viste da vicino appaiono massiccie e volgari. Indossano camicette di cotonina bianca e grandi cinture di colore sopra gonne a crespe.

Gli slovacchi sembrano dei barbari con i loro gran cappelli da cowboys, gli ampi calzoni di un bianco sporco e le enormi cinture di pelle dai fermagli d’ottone. Calzano stivali enormi, portano i capelli lunghi e folti baffi neri. Non farebbe piacere incontrarne uno nell’angolo d’un bosco.

Siamo giunti a Bistritz verso sera. È una vecchia cittadina pittoresca, sulla frontiera.

Il conte Dràcula m’aveva indicato l’albergo della Corona d’Oro, ov’ero aspettato: un’ostessa dall’aria sveglia, vestita del costume nazionale e col grembiulino ricamato mi diè il benvenuto.

— Il signore inglese? – mi chiese.

— Sì, Jonathan Harker.

Sorrise, fe’ un segno a un vecchio che disparve e tornò di lì a poco con una lettera per me.

Lessi quanto segue:

« Amico mio, siate il benvenuto nel nostro paese. Vi aspetto con impazienza. Vi auguro la buona notte. Domani alle tre, prendete la diligenza che va da Bistritz a Bukovina. La mia vettura vi aspetterà al passo del Borgo. Spero che abbiate fatto un viaggio gradevole.
« Dev. vostro Dràcula. »

4 maggio.

Il mio oste mi disse che il conte l’aveva pregato di fissare per me un posto nella diligenza. Quando lo interrogai si rinchiuse in un silenzio ostinato e pretese di non capire affatto il mio tedesco, il che era falso poichè prima m’aveva capito. Quando chiesi all’ostessa se conosceva il conte ed il suo castello, si fece il segno della croce, e dichiarò di non saper nulla. Era ora di partire. Non posso interrogare altri, benchè molto incuriosito e alquanto inquieto.

Pochi minuti prima della mia partenza, l’ostessa salì nella mia stanza e mi disse con voce tremante:

— È proprio necessario che voi partiate? Dite, è proprio necessario?

Era tanto commossa che durai fatica a capirla poichè al suo tedesco frammischiava un dialetto a me ignoto. Le risposi che vi ero aspettato per un lavoro importante e che dovevo partire senza indugio.

— Sapete che giorno abbiamo? – chiese angosciata?

— Il 4 maggio.

Scosse la testa.

— Oh! non è questo che voglio dire!

— Spiegatevi!

— È la vigilia di San Giorgio. Stanotte, a mezzanotte, gli spiriti maligni saranno onnipotenti. Sapete ciò che vi aspetta?

Pareva tanto inquieta che tentai di rassicurarla. Invano. Si buttò a ginocchi e mi supplicò di non partire subito, di aspettare almeno un giorno o due. Quella scena ridicola finì con l’irritarmi. Le affermai che affari della più alta importanza mi chiamavano presso il conte e che non potevo differire il mio viaggio. Allora si alzò, asciugandosi gli occhi, e staccandosi una crocetta appesa al collo me l’offerse. Non sapevo che farmene, avvezzo, nella mia qualità di protestante, a considerare questi oggetti come idolatrie. Vide senza dubbio la mia esitazione, poichè agganciò ella stessa la catenella intorno al collo dicendo:

— Accettatela per l’amore di vostra madre.

E uscì subito dalla stanza.

Scarabocchio queste righe nell’aspettativa della diligenza ch’è molto in ritardo. Ho sempre la crocetta intorno al collo. È la presenza di quest’oggetto oppure l’inquietudine dell’ostessa che comincia a invadermi, ma non mi sento nelle mie condizioni di spirito solite. Se questo giornale dovesse giungere un giorno prima di me alla mia cara Mina, le porti il mio pensiero fedele.

Ma ecco la diligenza.

5 maggio. – Al castello.

La nebbia del mattino s’è dissipata, il sole è già alto sull’orizzonte.

Quante impressioni diverse e singolari dalla mia partenza da Bistritz!

Quando salii sulla diligenza, il conduttore parlava con l’ostessa, di me evidentemente, poiché mi guardavano di sfuggita. Strane parole entravano di sovente nella loro conversazione. Le tradussi con l’aiuto del mio dizionario poliglotta e la mia inquietudine si accrebbe. Queste parole erano « ordog » – satana; « pokel » – inferno; « stregòica » – strega; « vrolek » – e « vlkoslak » che ambedue significano la stessa cosa, l’uno in slovacco e l’altro in serbo: lupo o vampiro; (bisognerà che m’informi dal conte circa queste superstizioni).

Quando la diligenza s’avviò, i contadini che s’erano radunati sul limitare dell’osteria fecero il segno della croce, e puntarono due dita nella mia direzione. Uno de’ miei compagni di viaggio mi disse che volevano preservarmi dal malocchio. Tutte quelle ridicolaggini avevano finito con l’impressionarmi.

Scordai presto la mia inquietudine alla vista del meraviglioso paesaggio che mi s’offriva agli occhi. Vallate verdeggianti, fitte foreste, piccoli boschi; qua e là belle fattorie, circondate da orti pieni d’alberi in fiore e che promettono un bel raccolto. Mi sarei volentieri fermato ad ammirare quel magnifico scenario ma il conduttore guidava i cavalli al trotto; pareva aver una gran fretta di arrivare al Passo del Borgo. La strada era tanto cattiva che noi eravamo terribilmente sballottati.

Verso sera, c’inoltrammo in una gola; a destra e a sinistra i Carpazi si tingevano di turchino e di porpora sulle cime, e di verde e di bruno nei burroni. In lontananza, si scorgevano picchi nevosi che al tramonto si sfumarono di rosa. C’imbattevamo in rari passanti, degli slovacchi in costumi pittoreschi. Alcuni avevano un gozzo orrendo.

Lungo la strada sorgevano delle croci. Davanti a ognuna, i miei compagni si facevano piamente il segno della croce.

La notte s’annunziò fresca e mi abbottonai il mantello fino al collo. La strada saliva; il valico era vicino. Le stelle brillarono; dei fuochi scintillavano qua e là, nella campagna. Il conduttore si fermò per accendere le sue lanterne poi l’ascesa ricominciò. Chiesi di scendere per sgranchirmi le gambe.

— No, no, – disse il conduttore con vivacità – i cani sono cattivi da queste parti e incorrerete già in altri pericoli, fra poco.

Quando la notte fu interamente scesa, regnò un’animazione singolare. La diligenza s’avanzava a gran trotto eppure i viaggiatori eccitavano il conduttore ad andare ancora più in fretta. Egli con il lungo frustino spronava i cavalli, incoraggiandoli con la voce. Pareva che le montagne ci corressero incontro; la strada diventò migliore, si entrava nel Passo del Borgo.

Dietro i vetri, i viaggiatori cercavano con lo sguardo di forare l’oscurità. Che aspettavano? Li interrogai ma non poterono o non vollero spiegarmi la causa della loro inquietudine.

All’uscire dal passo, cercai con gli occhi la vettura del conte e non vidi nulla. Le nostre lanterne soltanto gettavano sulla strada una luce vacillante. I miei compagni tornarono a sedersi con un sospiro di sollievo, e il conduttore mormorò sottovoce alcune parole che tradussi così: « siamo in anticipo d’un’ora ».

Si volse verso di me e pasticciò in tedesco:

— Non ci sono vetture. Certo il signore non è aspettato questa sera; non gli resta che venire con noi fino a Bucovina, il che sarà meglio.

Ma in quel momento i cavalli diedero segni d’agitazione e nitrirono. Un calesse tirato da quattro magnifici cavalli neri venne ad allinearsi accanto alla diligenza. I viaggiatori si fecero il segno della croce.

Un uomo di bella presenza, dalla lunga barba rossa con un cappello di feltro nero calcato in testa, che gli ricopriva in parte il viso ci s’accostò. I suoi occhi brillanti avevano uno splendore di bragia.

— Siete in anticipo stassera, amico mio – disse al conduttore.

Costui balbettò una scusa:

— Il gentleman inglese aveva fretta, – disse.

— È per questo che volevate condurlo fino a Bucovina. Non tentate d’ingannarmi, amico mio, sarebbe inutile.

Un sorriso crudele gli spaccò la bocca e scoperse fra le labbra rosse dei denti acuti e bianchi come l’avorio.

— Datemi il bagaglio del gentleman – disse.

Io salii nel calesse, mentre lo strano conduttore prendeva le redini e, senza rivolgermi una parola, lanciava i cavalli sopra una strada oscura. Udii la diligenza allontanarsi e provai allora un sentimento penoso di solitudine. L’uomo si volse verso di me, per buttarmi una coperta sulle ginocchia.

— La notte è fredda, mein Herr – disse in un tedesco eccellente. – E il mio padrone mi ha raccomandato d’aver cura di voi. Troverete un fiasco di slivovitz, sotto la banchetta, è una specie di brandy.

Lo ringraziai. Una vaga inquietudine mi stringeva il cuore: se in quel momento mi avessero proposto di tornare indietro, non mi sarei fatto pregare. La vettura costeggiò un monticello, fe’ un giro breve e s’avviò sopra una strada diritta. Che ora poteva essere?

Consultai il mio orologio e sfregai un cerino. Le sfere segnavano mezzanotte meno cinque minuti. Ero dunque superstizioso? Fu una sorpresa sgradevole.

Mi giunse un abbaiar lontano, altri risposero e repentinamente un urlo di bestia lacerò il silenzio della notte. I cavalli si impennarono. Ma il postiglione li calmò subito con la voce. Tuttavia tremavano in tutte le membra ed erano inondati di sudore. Altre urla ancora e riconobbi il grido del lupo. La vettura volse a destra. Una neve leggera cominciò a cadere e ricoperse in breve la terra con un mantello bianco. Il vento ci portò ancora l’abbaiar dei cani ma indebolito, mentre al contrario il grido dei lupi si accostava.

Il cocchiere serbava il suo sangue freddo. Di botto a sinistra vidi luccicare una lieve fiammella turchina. Il cocchiere pure la vide perchè fermò i cavalli, balzò a terra e sparve sotto gli alberi.

Due minuti dopo tornò, salì nuovamente al suo sedile e sferzò i cavalli. Senza dubbio m’ero addormentato agli sballottamenti della vettura, poichè ebbi l’impressione di vedere in sogno dei lupi che circondavano la vettura. Discernevo i loro denti bianchi aguzzi e le loro lingue rosse: la paura mi paralizzò. Come avremmo valicato quel cerchio vivente? L’uomo si drizzò sul sedile e agitò le braccia come per respingere un ostacolo invisibile. I lupi domati s’allontanarono e noi ripartimmo a gran velocità. Sogno o realtà?

Poco dopo, entravamo nella corte d’un vasto castello in rovina.

Interno del castello, disegno di Nunzio Brugaletta

Interno del castello,
disegno di Nunzio Brugaletta


CAPITOLO II.

Giornale di Jonathan Harker.

(Continuazione.)

5 maggio.

Il calesse si fermò ed il cocchiere m’aiutò a scendere; constatai che aveva un polso di acciaio. Prese i miei bagagli e li depose davanti ad una grande porta tarlata e con liste di ferro. Poi l’uomo risalì sul sedile, sferzò i cavalli e sparve dietro il castello. Aspettai. Nessuna traccia di campanello o di battente. Inutile chiamare; la mia voce non sarebbe penetrata attraverso quei muri massicci come quelli d’una fortezza. L’aspettativa mi parve lunga. Mille timori mi assalsero. In quale avventura m’ero imbarcato?

Non era una cosa banale per me, scrivanello di notaio, quel viaggio intrapreso per spiegare ad uno straniero in qual modo egli doveva trattare l’acquisto d’un possedimento in Inghilterra. Semplice scrivano, che dico? Mina protesterebbe indignata. Non avevo ottenuto pochi giorni prima della partenza il mio diploma di procuratore?

Mi sfregavo gli occhi e mi pizzicavo il braccio per essere sicuro di non sognare. Era un incubo certo e stavo per svegliami in casa mia, nella mia stanzetta di studente. Ma no!

Udii dietro la grande porta un rumore di passi pesanti. La chiave stridette nella serratura, l’enorme catenaccio venne tirato e la porta si aperse.

Davanti a me stava un vecchio dal mento accuratamente sbarbato e i lunghi baffi bianchi, vestito di nero da capo a piedi. Teneva in mano un’antica lampada d’argento e mi disse, accompagnando le parole con un gesto cortese:

— Siate il benvenuto in casa mia, signore.

Parlava nell’inglese più puro ma con una intonazione singolare.

Varcai la soglia ed egli mi prese bruscamente la mano. Trasalii al contatto gelido delle sue dita.

— Siate il benvenuto in casa mia – ripetè – entratevi liberamente, ripartitene sano e salvo e lasciatevi un po’ della gioia che vi portate.

Perchè ebbi in quel momento l’intuizione che forse il postiglione ed il mio interlocutore non facevano che una sola ed unica persona?

— Il conte Dràcula? – dissi salutando.

— Egli stesso, mister Harker. Entrate, vi prego, la notte è fresca e voi abbisognate di cibo e di riposo.

Depose la lampada entro una nicchia del muro e si caricò della mia valigia.

— Non permetterò – dissi, volendo prenderla.

— No, no, siete il mio ospite. Questa cura riguarda me, poichè i miei famigliari sono a letto.

Seguii il Conte lungo un corridoio, poi una scala di pietra, poi un secondo corridoio lastricato in capo al quale egli spinse una porta. Vidi con piacere una stanza ben rischiarata, una tavola servita per la cena e un gran fuoco di legna nel camino.

Il Conte richiuse la porta, attraversò la stanza e aperse una porticina che dava in una seconda stanza stretta e senza finestre dalla quale si accedeva ad una stanza grande e ben rischiarata: un enorme fuoco di legna bruciava nel camino.

— Voi desiderate, io credo, fare un briciolo di toeletta. Vi lascio dunque – disse il mio ospite; quando sarete pronto, venite nella stanza attigua, troverete da cena.

Quell’accoglienza benevola dissipò i miei timori.

Mi accorsi d’avere una fame da lupo e sbrigai la mia toeletta. Il Conte mi aspettava nel locale attiguo.

— Mettetevi a tavola – disse – e scusate se non vi tengo compagnia. Ho già pranzato e non ceno mai.

Gli diedi la lettera che mister Hawkins m’aveva incaricato di consegnargli. La lesse gravemente e me la porse con un amabile sorriso. Diedi con piacere un’occhiata agli elogi che il mio principale faceva di me:

« Mi duole che un attacco di gotta m’impedisca per qualche tempo di viaggiare. Ma sono lieto di potervi affermare che mister Harker mi sostituirà benissimo. Ho la massima fiducia in lui.
È energico e intelligente, discreto e silenzioso e vi darà tutte le informazioni e tutti i consigli da voi desiderati circa la questione che vi interessa. »

Il Conte stesso scoperse i piatti e fiutai non senza piacere l’odore di un eccellente pollo arrosto. Un’insalata, del formaggio ed una bottiglia di vecchio Tokay completavano gradevolmente la mia cena, durante la quale il Conte mi interrogò sul mio viaggio. Quando fui satollo, ci insediammo accanto al fuoco ed accettai con riconoscenza il sigaro offertomi. Il Conte, da parte sua, si scusò di non fumare. Esaminai a bell’agio la sua fisionomia.

Aveva un naso aquilino, le narici assai dilatate, una gran fronte e una bella capigliatura che però si diradava sulle tempia. Aveva sopracciglia folte che si univano, una bocca crudele, e denti aguzzi che denotavano una straordinaria vitalità in un uomo della sua età. Il mento era marcato, le guance liscie. Ciò che maggiormente colpiva era il suo strano pallore.

Le mani pelose erano volgari, le dita allargate s’adornavano d’unghie lunghe e taglienti. A un dato momento si chinò verso di me e mi toccò col dito; non potei reprimere un brivido, nè dominare un senso di repulsione. Il Conte se n’accorse certo poichè si tirò indietro con un sorriso. Seguì un breve silenzio.

Guardando verso la finestra, vidi che l’alba sorgeva. A un tratto, dalla valle salì il grido dei lupi. Gli occhi del Conte scintillarono.

— Ascoltate questa musica – disse con estasi.

Vide il mio stupore e aggiunse:

— Voialtri, cittadini, non potete capire le gioie dei cacciatori.

E, alzandosi:

— Dovete essere stanco – disse – la vostra stanza vi aspetta. Alzatevi domani all’ora che vorrete, io sarò assente tutta la mattina.

Cortese, m’aperse egli stesso la porta della stanza.

Da quando sono solo, m’agitano i sentimenti più contraddittori; dubito, temo, tremo; mio malgrado provo presentimenti sinistri che non mi voglio confessare. Che il cielo mi protegga!

7 maggio.

Mi sono riposato bene in queste ultime ventiquattr’ore; mi svegliai tardi e non appena vestito mi recai nella stanza ove la vigilia avevo cenato.

Una piccola colazione mi aspettava, il caffè stava in caldo davanti al fuoco. Sulla tavola, c’era un biglietto con queste parole:

« Bisogna che m’assenti per alcune ore, non aspettatemi. »

Dopo il pasto, volli pregare il domestico di sparecchiare, ma non vidi nessun campanello.

È strana questa omissione: il Conte è così ricco! Il vasellame è d’oro meravigliosamente cesellato, di un valore inestimabile: tende e tappezzerie sono in bellissima seta antica. (Ne vidi di simili ad Hampton Court). Ma non vidi specchi in nessuna stanza. Neppure sul mio tavolo da toletta. Per farmi la barba ho dovuto servirmi dello specchietto del mio astuccio. Nessuna traccia di domestici.

Quand’ebbi finito questo pasto che non posso chiamare « la prima colazione » poich’era fra le cinque e le sei di sera, mi misi in cerca d’un libro. Apersi una porta e mi trovai in una biblioteca. Là, con mia grande gioia, scopersi una quantità di libri inglesi, di riviste e giornali rilegati. Sopra un tavolo, nel centro del locale, altre riviste inglesi ma molto antiche.

C’erano le opere più svariate riguardanti la politica, la storia, la geografia, la botanica, la geologia, il diritto inglese e fino il Bottin inglese.

Il Conte entrò in quel momento e amichevolmente m’augurò il buongiorno.

— Sono contento che abbiate scoperto la biblioteca, vi troverete di che interessarvi. Questi amici – disse posando la mano sopra i suoi vecchi libri – mi sono stati di grande aiuto. Attraverso loro, ho imparato a conoscere ed amare il vostro paese. Ma non parlo ancora correntemente la vostra lingua.

Protestai sinceramente.

— No, no – disse – a Londra vedrebbero bene che sono uno straniero, un boiardo! Spero che vorrete fermarvi qualche tempo con me affinchè io possa perfezionarmi nella lingua inglese prima di prendere possesso della terra che il vostro principale, Pietro Hawkins, m’ha ben voluto comperare nei dintorni di Londra.

— Volentierissimo.

Lo pregai d’autorizzarmi a venire qualche volta ad insediarmi in quella biblioteca.

— Potete circolare a piacer vostro nel castello, tranne, beninteso, là dove le porte sono chiuse a chiave. Siamo in Transilvania, sapete, e molte cose forse vi stupiranno – aggiunse vedendo la mia aria di meraviglia.

Incoraggiato dalla sua franchezza, gli chiesi il significalo delle fiamme turchine che avevamo scorto la vigilia, il postiglione ed io.

— Si pretende – disse – che la vigilia di San Giorgio una fiamma turchina appare nel punto in cui è sepolto un tesoro. Ora, è assolutamente certo che dei tesori sono sepolti nella regione. Per secoli e secoli, i Valacchi, i Sassoni e i Turchi combatterono su questo suolo volta a volta reso fertile dal sangue dei patrioti o degli invasori. Quando gli Austriaci e gli Ungheresi invasero il paese, il popolo si fece massacrare dopo aver sepolto tutte le sue ricchezze.

— Perchè dunque i paesani nella notte di San Giorgio non cercano questi tesori?

— Perchè sono tutti paurosi – disse il Conte con un sorriso crudele. – Si tappano in casa e non ne li fareste uscire nemmeno per un impero. Ma parlatemi piuttosto di Londra e della mia futura dimora.

Andai nella mia stanza alla ricerca delle carte e dalla porta rimasta aperta udii un rumore di stoviglie smosse. Quando tornai, vidi che la tavola era stata sparecchiata ed il fuoco acceso.

Le lampade rischiaravano ora la biblioteca ed il Conte, steso sopra un divano, sfogliava l’orario delle ferrovie inglesi. Stesi sul tavolo le mie carte e gli mostrai i piani e i preventivi. Le sue parole mi provarono che n’era al corrente al par di me. Gliene feci l’osservazione.

— Non è naturale? – disse. – Quando sarò laggiù, il mio amico Jonathan Harker non sarà più al mio fianco per darmi i ragguagli, poiché sarà a Exeter, vale a dire a parecchi chilometri di là, accanto al suo collega Pietro Hawkins.

Completai dunque le informazioni concernenti il suo nuovo dominio del Purfleet; egli mise le firme ed io, sotto la sua dettatura, scrissi l’ordine d’acquisto ad Hawkins.

— In qual modo avete scoperto quel possedimento? – mi chiese. – E com’è?

— Lo scopersi a caso. Durante un’escursione, un cartello « da vendere » attirò i miei sguardi. Il parco è circondato da un alto muro di pietre da intaglio non fu più curato da molti anni. Le porte sono di vecchia quercia e di ferro arrugginito. Il possedimento si chiama Carfax. Dev’essere una corruzione della parola « quattro-facce » poiché la casa è quadrata. Dei begli alberi molto vecchi oscurano i locali. Davanti al castello, c’è un laghetto donde parte un ruscello che serpeggia attraverso il dominio. La casa è grande e di parecchi stili: ha poche finestre e tutte munite di sbarre di ferro. Questo torrione confina con la cappella: è isolato nella campagna. La casa più vicina è un asilo d’alienati.

— Sono contentissimo che la casa sia antica – disse il Conte. – Appartengo a una vecchia famiglia, e mi vi sentirò più a bell’agio che in una casa nuova. E anche che vi sia una cappella; noialtri nobili transilvani non amiamo dormire il nostro ultimo sonno fra gli stranieri. Quanto alla tristezza, non mi fa paura, non sono più giovine, ahimè, e la gaiezza non è più della mia età.

Il suo viso non mi parve d’accordo con le parole e credetti di leggervi un sorriso satanico.

Poco dopo mi lasciò e sfogliai un atlante che s’aperse come a caso sulla carta d’Inghilterra. Curvandomi su questa carta, vidi che tre località erano state segnate con un piccolo circolo fatto ad inchiostro; erano, all’est di Londra, il suo nuovo possedimento, poi Exeter e Whitby sulla costa dell’Yorkshire.

Trascorse una mezz’ora prima del ritorno del Conte.

— Ah! – diss’egli – sempre immerso fra i libri, non bisogna che vi affatichiate. Venite, credo che la vostra cena vi aspetti.

Mi trascinò nella stanza accanto ove infatti alcuni piatti erano disposti sul tavolo.

Il Conte si scusò nuovamente; aveva pranzato fuori; ma, come la vigilia, mi sedette accanto e parlò mentre io mangiavo.

Come la vigilia, discorremmo tardissimo nella notte; il conte non si stancava d’interrogarmi sui soggetti più svariati; io non avevo sonno e non m’accorsi della fuga delle ore.

Il canto del gallo ci fece trasalire.

— Come – fece il conte alzandosi bruscamente – già l’alba! Mi serberete rancore per avervi carpito le ore del sonno! Ma mi destate tanto interesse!… Vi lascio riposare.

Così finì la mia seconda serata!

…scrissi l'ordine di acquisto, disegno di Francesca Guerrieri

…scrissi l’ordine di acquisto,
disegno di Francesca Guerrieri

8 maggio.

Regna in questo castello una strana atmosfera. Vorrei esserne uscito o non mai esservi entrato. Senza dubbio questa esistenza notturna mi deprime; e non solo questo. Avessi almeno qualcuno con cui confidarmi. Ma non vedo che il Conte. E lui!… Sono forse l’unico essere vivente di questa casa. Voglio cercar d’analizzare le mie sensazioni. Sono perduto se mi lascio trasportare dalla mia immaginazione.

A malapena potei dormire alcune ore. Appesi il mio specchietto alla finestra e cominciavo a radermi quando una mano si posò sulla mia spalla.

— Buongiorno – disse la voce del Conte.

Trasalii, sgradevolmente sorpreso: come non l’avevo veduto entrare poiché il mio specchietto rifletteva tutta la stanza? Nella mia emozione mi feci un leggero taglio al mento. Salutai il Conte e ripresi la mia occupazione. Non c’era da sbagliarsi stavolta: il Conte benché fosse ancora dietro a me non si rispecchiava nel vetro.

Quell’incidente, che avveniva dopo tante cose insolite, accrebbe il malessere che provavo sempre alla presenza del mio ospite. Vidi allora che un po’ di sangue colava dalla leggera ferita e, deponendo il rasoio, stesi la mano verso una salvietta. Lo sguardo del Conte scintillò d’un furore demoniaco. Che follia attraversò la sua mente? Mi si buttò addosso afferrandomi alla gola, le sue dita toccarono la piccola croce appesa al mio collo. Fu la virtù di questo oggetto sacro? Si calmò immediatamente.

— Badate – disse con voce dolce; – i tagli, in questo paese, sono più pericolosi che voi non pensiate.

Afferrò il mio specchio e disse:

— Questo pezzo di vetro è la causa di tutto, non voglio più vederlo.

Vivamente aprì la finestra e lo gettò nella corte ove si spezzò in mille frantumi.

Dopo questo scoppio uscì senz’aggiungere sillaba.

Sono molto contrariato da tale incidente. Come radermi, adesso? Non ho più che il coperchio del mio orologio o il mio piattello della barba che per fortuna è di metallo.

La mia prima colazione m’aspettava. Mi misi a tavola solo. È curioso ch’io non abbia ancora veduto il Conte a bere o a mangiare. Si nutre forse dell’aria del tempo? È un originale certo.

Ho esplorato poi il castello; dall’ala sud, si gode una vista meravigliosa. Il castello è a picco sopra un precipizio profondo, tappezzato d’alberi. Non descrivo il paesaggio perchè ho il cuore stretto. Ho visto una quantità di porte: son tutte chiuse a chiave.

Il castello è un vero torrione, ed io sono un prigioniero.

… e io sono prigioniero, disegno di Giulia Mochi

… e io sono prigioniero,
disegno di Giulia Mochi


CAPITOLO III.

Giornale di Jonathan Harker.

(Continuazione.)

Questa constatazione mi fa impazzire. Ho salito delle scale, sono sceso da altre, scuotendo tutte le porte, esaminando tutte le finestre. Il sentimento della mia impotenza m’opprime. Sono come un topo in una trappola. Passata la prima disperazione mi sedetti per riflettere.

Che fare? Non trovo soluzioni. Una sola cosa è certa: non devo fidarmi del Conte.

Egli sa certissimo che io sono suo prigioniero e ha senza dubbio segreti motivi per fare così. Terrò i miei timori per me ed aprirò gli occhi.

O io mi sgomento ed impazzisco a torto o sono perduto! Ero giunto a questa conclusione quando la porta grande si aprì; il Conte rientrava.

Non venne subito nella biblioteca. Andai in punta di piedi nella mia stanza e lo sorpresi in procinto di rifare il mio letto. Questo precisò la mia convinzione che non ci son domestici nel castello. E quando lo vidi dal buco della serratura mettere il coperto nella sala da pranzo, non ebbi più il minimo dubbio: tranne lui e me non c’è nessuno nel castello!…

Ma allora? Il postiglione che mi condusse la prima sera è il conte stesso? Sì, incontestabilmente.

Ed è anche un conduttore di lupi! Perchè i miei compagni di viaggio lo temevano? Perchè uno di essi mi ha dato un fiore d’aglio e un altro una rosa selvatica? Benedetta sia la brava ostessa che mi fece dono di questa crocetta il cui solo contatto mi rassicura. Chi è questo Conte Dràcula? Cercherò di farlo parlare, stassera, senza tuttavia destar sospetti.

Mezzanotte.

Ho parlato a lungo col Conte, gli ho rivolto alcune domande sulla storia della Transilvania e questo soggetto lo appassiona. Parla degli eroi nazionali come se li avesse conosciuti e delle battaglie come se vi avesse preso parte. « La gloria dei Boiardi, ha detto, è la mia. » Quando parla della sua casa, dice sempre « noi » come un re. Mi ha interessato molto col suo entusiasmo.

« Ahimè! ha sospirato, i tempi guerreschi non torneranno più, non si osa più spargere il sangue, ai dì nostri, e i grandi nomi non possono più segnalarsi in combattimenti gloriosi.

Non mi sono coricato che al mattino. Questo giornale somiglia alle Mille e una Notte; la storia si ferma al canto del gallo.

12 maggio.

Non voglio dar relazione qui che di fatti constatati. Iersera il Conte è venuto nella mia stanza e m’ha interrogato su questioni legali. Mi ha chiesto se in Inghilterra un uomo potesse avere due procuratori e più?

— Una dozzina, se lo desiderate – gli ho risposto; – ma non servirebbe che ad aggrovigliare gli affari e sarebbe contrario ai vostri interessi.

Parve capire. Poco dopo mi domandò a bruciapelo:

— Avete scritto delle lettere dopo quella indirizzata a mister Pietro Hawkins?

Gli risposi, con leggera ironia, che non sapevo in qual modo avrei fatto partire la mia corrispondenza.

— Ma me ne incaricherò io, mio giovane amico, scrivete! – disse, appoggiandomi sulla spalla la mano pesante. Scrivete per annunziare ai vostri amici ed alle vostre conoscenze che vi trattengo per tutto un mese.

— Tanto tempo! – esclamai, sentendomi stringere il cuore.

— Lo desidero – ribattè con autorità. – Mister Hawkins mi ha detto che posso disporre di voi interamente. Mi avrebbe forse ingannato?

Che fare, se non arrendermi? Devo aderire agli interessi del mio principale; e inoltre, non sono il prigioniero del Conte, che io lo voglia o no?

Vide il mio turbamento e aggiunse:

— Spedite poche righe soltanto ai vostri amici per informarli che state bene ed annunziare il prossimo ritorno.

Mi tese tre fogli di carta e tre buste così sottili ch’era facile leggervi attraverso.

Manderò, per la forma, lettere insignificanti ma, in segreto, scriverò ad Hawkins; ed a Mina stenograferò la mia lettera. Tanto peggio se il Conte s’incuriosisce.

Il Conte, di fronte a me, fece la sua corrispondenza, poi si alzò portando via inchiostro e penna. Durante la sua assenza, mi permisi di scorrere i suoi indirizzi. La prima lettera era indirizzata a Samuele Billington, n. 7. La Mezzaluna, Whitby. Un’altra a Leutner, Yarna. La terza a Coutts e C., Londra, e la quarta a Klopstock e Billreuth, banchieri, a Budapest.

Avrei spinto l’indiscrezione fino a leggere le due prime lettere che non erano suggellate, ma il Conte entrò. Timbrò le buste e mi disse:

— Scusatemi se vi lascio stassera, ma ho una quantità di cose da fare.

Nel momento di richiudere la porta mi lanciò quest’avviso:

— Vi consiglio, mio giovine amico, di non dormire che nella vostra stanza; il castello è vecchio e non potrei giurare che non ci siano gli spiriti. Credo davvero che voi non siate al sicuro se non in quest’ala del castello. Ma beninteso fate ciò che vi piacerà, io me ne lavo le mani.

Queste parole non erano fatte per rassicurarmi.

Alcune ore dopo.

M’ero dapprima ritirato nella mia stanza. Dopo qualche tempo, il silenzio m’oppresse e provai il bisogno di respirare l’aria pura. Soffocavo di sentirmi prigioniero. Questa esistenza notturna mi deprime; trasalisco alla mia propria ombra e sono angosciato dai più sinistri presentimenti. Scesi la grande scala di pietra in fondo alla quale una larga vetrata lascia scorgere tutta la corte e l’ala sud del castello. Un magnifico chiaro di luna bagnava di luce il paesaggio. Le colline sfumavano in lontananza e in quella pallida luce le vallate parevano grandi buchi d’ombra. La dolcezza di questa bella notte mi riconfortò alquanto.

A un tratto vidi muoversi una cosa lungo il muro esterno nel punto ove guardano, credo, le finestre degli appartamenti del Conte. Mi celai un po’ nell’ombra senza tuttavia staccar gli occhi dal muro. In quell’ombra movente riconobbi il Conte. Non distinguevo il viso ma le sue mani speciali lo tradiscono abbastanza. La mia prima impressione fu di curiosità; di lì a poco provai del terrore: l’uomo, con la testa all’ingiù, strisciava su quel muro a piombo sull’abisso. Il suo mantello si spiegava a foggia d’ali. Come credere a’ miei occhi? Non era un giuoco della mia immaginazione? No, davvero non mi sbagliavo: quell’uomo, con l’agilità d’un ramarro s’aggrappava mani e piedi ad ogni angolo della pietra.

A quale creatura mi sono dato in mano? Ho paura! ho paura! ho paura!

15 maggio.

Vidi un’altra volta il Conte uscire dal castello in quello strano modo. Ne ho subito approfittato per esplorare gli appartamenti. Ho preso nella mia stanza l’unica lampada e sono sceso nell’hall, ove ho constatato che si poteva facilmente tirare i catenacci della grande porta e togliere le catene. Ma la serratura è chiusa a chiave. Bisognerà che io cerchi questa chiave. Errai per i corridoi, tentando d’aprir le porte. Invano. Una o due, tuttavia, erano spalancate: le stanze non racchiudevano nulla di notevole, ma soltanto vecchi mobili polverosi e tarlati. In cima ad una scala una porta cedette dopo qualche resistenza. Dava adito all’ala sud. Come l’altra, domina un precipizio. Mi rendo conto che il castello è costrutto sopra una collina e circondata per tre lati da un abisso. All’ovest si stende la vallata e sullo sfondo s’ergono le montagne. È in questi appartamenti che si viveva, senza dubbio, or sono alcuni anni, poiché i mobili qui sono più comodi che altrove.

La luna, dalle finestre senza tende, versa il suo chiarore e la mia lampada non serve a nulla: ma la sua piccola fiamma mi riscalda il cuore.

Questo posto mi piace, non vi sento la detestata presenza del Conte. Mi sono seduto davanti a un tavolino di quercia ove forse, nel passato, qualche bella dama scarabocchiò la sua corrispondenza amorosa e ho stenografato nel mio giornale il racconto di queste ultime ore.

16 maggio, mattina.

Purché io non diventi pazzo! È il mio solo timore. Per fortuna posso analizzare e scrivere per disteso le mie impressioni; è un gran sollievo.

I misteriosi avvertimenti del Conte non erano superflui: non dubiterò più di lui, nell’avvenire.

Perchè ebbi l’imprudenza di disobbedirgli?

Finito ch’ebbi il mio giornale, non volli lasciare il luogo ospitale, tirai fuor dall’alcova un tarlato divano che trascinai davanti alla finestra per contemplare la valle bagnata di luna. Poi, devo essermi addormentato. Spero di aver dormito, perchè se non ho sognato son diventato pazzo. Eppure!… Ecco:

Sono tuttora nello stesso locale e scorgo la traccia delle mie scarpe nella polvere; di fronte a me, in un raggio di luna, tre leggiadre donne mi contemplano. Cosa strana, non proiettano ombre dietro a loro. S’accostano a me, m’osservano con attenzione e mormorano alcune parole di cui non afferro il senso. Le due prime sono brune, con nasi aquilini come quello del Conte, e grandi occhi neri taglienti che luccicano di strano splendore. L’ultima è bionda al par della canape; ha occhi di zaffiro. Mi par di conoscerla. Ma mi è impossibile ricordarmi dove e quando l’ho incontrata. Tutt’e tre hanno denti di avorio la cui bianchezza risalta fra le belle labbra rosse. Mi inquietano e mi seducono insieme.

La bionda mi s’avvicina, ed io l’osservo fra le palpebre socchiuse. Col cuore che batte, aspetto. Essa si lecca le labbra golosamente ed applica la bocca sulla mia gola. Sento il morso di due denti acuti che mi fa svenire…

Di botto ho la sensazione della presenza del Conte. Apro gli occhi e vedo il mio ospite furibondo afferrare il fragile collo della giovine bionda. Gli occhi del Conte scintillano come due bragie ardenti, il suo viso è pallido e contratto. Con un gran gesto, simile a quello con cui fece indietreggiare i lupi, ordina alle donne di ritirarsi.

— Come osate voi toccarlo! – grida con voce sorda. – Come osate avvicinarvi a lui quando ve l’ho proibito! Indietro, vi dico, quest’uomo mi appartiene.

— Non avremo nulla, dunque, stassera – chiese una delle brune, indicando un sacco che il Conte aveva gettato sul pavimento e che si muoveva come se contenesse un animale.

— Prendete – disse il Conte.

Allora una delle donne aperse vivamente il sacco. Se le mie orecchie non mi hanno ingannato, ho udito istintivamente i vagiti d’un neonato. Poi tutt’e tre sparvero con la loro preda. Non so dove fuggirono poichè svenni d’orrore.

Le mogli di Dracula, disegno di Giulia Mochi

Le mogli di Dracula,
disegno di Giulia Mochi


CAPITOLO IV.

Giornale di Jonathan Harker.

(Continuazione.)

Mi sono svegliato nel mio letto. Ho sognato o no? I miei vestiti sono piegati in modo diverso dalle altre sere ed il mio orologio non fu rimontato, mentre io non dimentico mai questo rito. Sono indizii? In ogni caso se il Conte mi ha egli stesso svestito e coricato come un bimbo doveva aver molta fretta poichè non ha frugato nelle mie tasche. Ho ritrovato il mio giornale intatto.

Riprendo possesso con gioia della mia stanza. È il mio solo rifugio. Non lo lascerò più ormai, non ci tengo a rivedere le orribili donne che volevano succhiare il mio sangue.

18 maggio.

Di giorno, tuttavia, bramoso di conoscere la verità, sono ritornato alla piccola stanza ma non potei entrarvi, la porta essendo chiusa a chiave. Ho paura di non aver sognato.

19 maggio.

Iersera, il Conte mi pregò con tono soave di scrivere tre lettere ad Hawkins: la prima per informarlo che il mio lavoro era quasi finito e che fra poco mi sarei messo in viaggio. La seconda per dire che partivo il giorno stesso, e la terza attestante che avevo lasciato il castello ed ero giunto a Bistritz.

Sono stato lì lì per sottrarmi, ma a che pro’! Il mio rifiuto sveglierebbe i sospetti ed il furore del Conte. Ne so già troppo per la mia salvezza.

— I corrieri – diss’egli – sono scarsi ed incerti e voi arrischiereste di non spedire queste lettere a tempo e d’inquietare i vostri amici. Le manderò io all’ora giusta. Quest’ultima non partirà che quando avrete lasciato il castello.

Finsi di non dubitare delle sue parole.

— Che data devo mettere a queste lettere? – chiesi.

Fece rapidamente un calcolo:

— La prima al 12 giugno: la seconda al 19 e la terza al 29 giugno.

So adesso quanti giorni di vita mi rimangono! Che Dio mi protegga!

28 maggio.

C’è per me una probabilità di salvezza. Una banda di zingari si accampa a’ piedi del castello; scriverò alcune lettere ai miei e le consegnerò a loro. Ho già parlato loro dalla mia finestra, abbiamo fatto conoscenza per mezzo di segni.

Ho scritto a Mina in caratteri stenografici e avverto mister Hawkins ch’essa gli darà mie notizie. Spiego a Mina la mia situazione, attenuandone l’orrore per non spaventarla troppo. Ho lanciato agli zingari le lettere, facendo scivolare entro un’altra busta per loro una moneta d’oro. L’uomo le ha messe nella sua cintura e mi ha fatto capire che m’avrebbe obbedito. Non posso fare altro.

29 maggio.

Stamane sono stato alcune ore nella biblioteca a leggere.

Il Conte è venuto a raggiungermi; teneva in mano due lettere.

— Gli zingari mi hanno dato questo – disse con voce dolce: – non so donde vengano. (E strappò le mie lettere). To’, voi avevate scritto a Pietro Hawkins! L’altra (non potè decifrarne i caratteri ed il suo viso s’oscurò) l’altra oltraggia l’amicizia, d’altronde non è firmata, non provo nessuno scrupolo a bruciarla.

E tese la carta alla fiamma che la consumò.

— Spedirò la lettera ad Hawkins – disse. – Scusatemi, amico mio, d’averla dissuggellata, ignoravo che fosse vostra. Volete rifare la busta?

Obbedii, con la rabbia nel cuore.

Egli la portò via e udii la chiave girar nella serratura. Mi chiude dentro, è il colmo.

Rassegnato, mi stesi sul divano e m’addormentai.

Due ore dopo, il Conte venne a svegliarmi. Pareva d’eccellente umore.

— Cadete dal sonno – mi disse – andate a riposare nella vostra stanza. Intanto io lavorerò.

Seguii il consiglio e, cosa strana, non appena disteso, m’addormentai d’un sonno profondo.

31 maggio.

Svegliandomi, ebbi l’idea di munirmi di carte e buste per approfittare della prima combinazione che mi si presentasse. Ma ahimè! ebbi un bel mettere a soqquadro la mia sacca da viaggio: tutte le mie carte erano scomparse: orari ferroviari, lettere di credito, tutto ciò che poteva essermi utile.

Apersi allora le valigie: l’abito da viaggio era scomparso, come il mio pastrano e il completo di ricambio.

17 giugno.

M’ero appena alzato quando udii nella corte uno schioccar di fruste e un rumor di zoccoli. Mi precipitai alla finestra e due grandi furgoni tirati ognuno da otto solidi cavalli e condotti da due slovacchi con grandi cappelli calcati sulla testa, cinture di cuoio e stivaloni alti. M’avventai alla porta per correr giù dalle scale e, approfittando del fatto che la porta d’entrata era spalancata, scivolar fuori ma… la mia porta è chiusa all’esterno.

Allora mi sono chinato alla finestra lanciando alte strida. Quei contadini m’han guardato con aria stupida. Il capo degli zingari si avvicinò a loro dicendo qualche cosa che li fece ridere. Si voltarono subito e nè le mie grida nè le mie suppliche li impietosirono; m’ignoravano volontariamente.

I furgoni contenevano dei grandi cofani legati colle corde. Senza dubbio erano vuoti poichè gli slovacchi li sollevavano senza difficoltà. Furono deposti in un angolo della corte; lo zingaro diede del denaro a quegli uomini che sferzarono i cavalli e s’allontanarono.

24 giugno all’alba.

Iersera il Conte mi lasciò di buon’ora. Non appena solo, scesi la grande scalinata di pietra e ripresi il mio posto d’osservazione accanto alla finestra che dà sull’ala sud.

Gli zingari sono alloggiati in una parte del castello e lavorano per il Conte a qualche cosa che ignoro. Odo talvolta, attutiti, colpi di zappa o di vanga. Che cos’altro ancora preparano?

A capo d’una mezz’ora, vidi aprirsi la finestra del Conte e una forma strisciar sul muro. Indossava i miei vestiti da viaggio ed aveva sulla spalla il sacco di cui s’erano impadronite le tre donne.

Dunque si affibbia i miei vestiti perchè la gente mi attribuisca i suoi delitti e possa certificare che non sono prigioniero!

Con la rabbia nel cuore, ho deciso d’aspettare il suo ritorno e mi son seduto sopra un gradino della scala. L’abbaiar d’un cane m’ha fatto trasalire. Che cosa sono quelle forme? Mi par di riconoscere le tre donne! Davvero, divento pazzo. Mi alzo bruscamente e raggiungo in fretta la mia stanza.

Finalmente respiro! La lampada rischiara dolcemente la stanza e mi sento al sicuro.

Qualche ora trascorse, poi odo un rumore venir dalla stanza del Conte e un gemito che mi stringe il cuore. Il silenzio ritorna. Tento d’aprir la porta: è chiusa. Allora mi son seduto e ho pianto come un bambino.

Un grido nella corte. Mi precipito alla finestra: una donna come impazzita scuote il cancello, urlando:

— Mostro! rendimi il mio bambino!

Mi scorge, si butta a ginocchi, alza le braccia come per implorarmi e ripete quella supplica che mi strazia. Si strappa i capelli, si lacera il petto e cerca invano di smuovere la porta.

Dominando quelle grida, odo un fischio prolungato al quale risponde l’abbaiar dei lupi.

Dopo alcuni minuti, ne distinguo le forme magre. S’avvicinano alla donna che non tenta neppure di fuggire.

Indovino la sorte del suo fanciullo e non la compiango: meglio per lei morire!

25 giugno, mattina.

Coloro che non hanno conosciuto le angoscie di una notte tragica ignorano la dolcezza dell’alba.

Il sorger del sole scaccia i miei timori. Voglio agire per non pensare. La prima lettera venne spedita ieri.

Non ho ancora veduto il Conte durante il giorno. Dorme quando gli altri si alzano? Se almeno potessi sorprenderlo nella sua stanza! Ma il mezzo? La sua porta è sempre chiusa?

Sì, tuttavia c’è un mezzo, ma oserò impiegarlo? Perchè non seguirei la via che fa lui ogni notte? Striscerò lungo il muro e m’introdurrò nella sua stanza, dalla sua finestra. Che cosa arrischio, dopo tutto? poichè la morte m’aspetta in ogni modo. Addio, Mina. Ti rivedrò?

Qualche ora dopo.

Grazie a Dio, eccomi di ritorno sano e salvo, nella mia stanza! Posso stendere la relazione, nel mio giornale, della straordinaria spedizione.

Senza indugiarmi a riflettere, sono scivolato fuori, dalla finestra della scala. Le enormi pietre da intaglio mi servirono da scaglioni; m’ero tolto le scarpe. Per fortuna, non patisco le vertigini.

Potei giungere alla finestra del Conte. La stanza è vuota. Ha un mobilio sommario e non sembra abitata poichè gli oggetti sono coperti di polvere. In un angolo, un grosso mucchio d’oro, monete d’ogni sorta, romane, inglesi, austriache, ungheresi, greche e turche, vecchie d’un secolo circa. Anche alcune pietre preziose. Nel fondo, una porta massiccia che alla spinta si aperse. Conduce, per mezzo d’un corridoio, ad una scala a chiocciola piuttosto ripida; sono sceso con prudenza per via dell’oscurità, bucata a malapena qua e là da alcuni pertugi praticati nel muro.

Gli ultimi gradini conducono ad un sotterraneo donde sale un odore insipido di terra rimossa di fresco. Pochi passi ancora e cado entro una cappella in rovina di cui s’è fatto un cimitero. La vôlta, in due punti, lascia scorgere il cielo. Riconosco i cofani portati dagli slovacchi: sono pieni di terra. Non c’è altra uscita all’infuori di quella dalla quale sono venuto. Delle nicchie si aprono nel muro; discerno nelle prime degli avanzi di bare. Nella terza… steso sopra uno dei cofani pieni di terra… il Conte!

Sembra morto ma i suoi occhi fissi e spalancati non hanno lo sguardo vitreo dei morti; le sue guancie sono pallide e le labbra rosse. Mi curvo verso di lui; non respira più e il suo cuore non batte.

Mi accingevo a esplorare le sue tasche per trovarvi le chiavi del castello; ma benchè fosse incosciente della mia presenza, lessi ne’ suoi occhi una tale sguardo di odio che fuggii spaventato e raggiunsi la stanza dalla strada che m’aveva condotto.

Mi gettai rabbrividendo sul letto.

29 giugno.

Oggi la mia ultima lettera partirà. Ho veduto il Conte uscir dal castello, dalla finestra, sempre indossando i miei vestiti. Non penso più che a procurarmi un’arma da fuoco per sparargli addosso. Ma temo assai che le palle siano senza effetto sopra questo demone.

Non volli spiare il suo ritorno dalla scala per tema d’incontrare le tre sorelle. Mi insediai nella biblioteca con un libro e non tardai ad addormentarmi. Fu il Conte a svegliarmi. Mi contemplava con inesprimibile amarezza.

— Amico mio – mi disse, – domani ci lasceremo. Ritornerete nella vostra bella Inghilterra. Ho fatto partire la vostra lettera. Domani sarò assente, ma tutto sarò pronto per la vostra partenza. La vettura verrà a prendervi e vi condurrà al Passo del Borgo ove troverete la diligenza che va da Bucovina a Bistritz. Spero bene di rivedervi qui un giorno.

Queste parole non mi rassicurarono che a metà e, per provare la sua sincerità, chiesi:

— Perchè non posso partire stasera?

— Perchè, caro signore, cocchiere e cavalli sono assenti.

— Ma camminerei volentieri. Preferirei partire subito.

Egli ebbe un sorriso melato e diabolico che conoscevo fin troppo:

— E i vostri bagagli? – obbiettò.

— Li farò prendere più tardi.

Egli s’inchinò cortesemente:

— Come vorrete, mio giovine amico, non voglio trattenervi vostro malgrado, per triste che mi faccia la vostra insistenza. Venite dunque!

Prese la lampada con gesto solenne e mi precedette fino al basso della scala, nell’hall d’entrata.

A un tratto si fermò.

— Udite! – disse.

Udii l’abbaiar dei lupi, vicinissimi. S’accordavano insieme, come i violini d’un’orchestra quando il direttore alza la sua bacchetta. Il Conte tirò i catenacci, fece cader le catene. La porta s’aprì da sola.

L’abbaiare raddoppiò e vidi luccicare occhi feroci e denti di belve. Capii che sarebbe inutile lottare col Conte. Con alleati simili, era onnipotente. Allora un presentimento orribile attraversò la mia mente: il Conte aveva deciso la mia morte e formava il piano di darmi in pasto ai lupi.

— Chiudete la porta! – esclamai – aspetterò fino al mattino.

Mi copersi il viso colle mani per nascondere le lagrime. Il Conte mi contemplò con ironia, rinchiuse la porta e mi seguì nella biblioteca. Ve lo lasciai per fuggirmene nella mia stanza.

A capo di alcuni minuti, udii un mormorio dietro la porta. Incollai l’orecchio alla serratura e mi parve udire la voce del Conte.

— Indietro, la vostra ora non è ancora venuta. Pazienza, egli vi apparterrà domani sera.

Con un gesto brusco, spalancai la porta e vidi le tre terribili sorelle che alla mia vista scoppiarono in una risata e si diedero alla fuga.

Domani! Domani! La mia fine è dunque così prossima?

30 giugno. Di mattina.

Ecco forse le ultime righe che potrò scrivere. Mi sono svegliato al canto del gallo e, col cuore alleggerito, sono sceso nell’hall. Poichè la porta non era chiusa a chiave la vigilia, certo potrò fuggirmene. Ho tirato i catenacci pesanti e fatto cadere le catene. Ma la porta non si è mossa. Ho tirato, tirato con tutte le mie forze. Invano.

Allora ho deciso di procurarmi la chiave a qualunque costo. Scivolerò ancora nella stanza del Conte. Arrischio la morte; tanto peggio! Questa angoscia è intollerabile.

Sono strisciato lungo il muro, introducendomi dalla finestra. La stanza del Conte è vuota. Dalla scala a chiocciola giungo al passaggio sotterraneo e alla vecchia cappella. La grande bara è sempre nella sua nicchia, ma stavolta il coperchio è abbassato. L’ho sollevato pianamente: bisogna pure che frughi nelle tasche del mio nemico. Lo spettacolo che m’appare mi terrifica.

E il Conte, sì, ma ringiovanito: i capelli e i baffi bianchi sono ridiventati grigi, le guancie sono più rotonde, la carnagione è più chiara, la bocca più rossa; sugli angoli della bocca, sul collo e sul mento, alcune goccie di sangue si sono seccate. Ho toccato i suoi vestiti con inesprimibile repulsione; ho frugato le sue tasche, non ho trovato la chiave. Il Conte mi contempla con un sorriso beffardo. Ecco dunque il mostro che io aiuto ad attirare a Londra ove commetterà altri delitti. No, no, non è possibile! Bisogna che ne sbarazzi il mondo. Bisogna che questo uomo perisca.

Non ho armi, ma ecco una vanga, scordata senza dubbio da uno degli operai. Brandisco l’arnese, sto per colpirlo in viso… In quel momento, il Conte volge il capo e mi volge uno sguardo di orrore. I suoi occhi mi affascinano e paralizzano il mio gesto. La vanga mi sfugge dalle mani e cade sul coperchio che si riabbassa con un rumore secco.

Che fare? Odo a un tratto delle voci, dei canti, uno scoppiettar di frusta, uno stridere di ruote. Gli zingari, senza dubbio. Scivolerò fuori, quando apriranno. Ritorno in fretta nella stanza del Conte. Tendo l’orecchio. Una grossa chiave stride in una serratura. Si direbbe che la porta si apra dalla parte della cappella. Dei passi scalpicciano. C’è senza dubbio nel castello un’entrata ch’io non conosco. Torno nel sotterraneo, ma, in quel mentre, una brusca ventata rinchiude la porta che dà sul cimitero. Eccomi prigioniero!

Odo nella cappella degli scalpicci, dei colpi di martello; si direbbe che inchiodano dei coperchi. La porta si è richiusa; ho udito nuovamente stridere la chiave nella serratura.

Dalla corte giunge fino a me lo scoppiettio delle fruste e il cigolar delle ruote che s’allontanano. Sono solo nel castello con quelle orribili donne.

Bisogna, bisogna che trovi il mezzo di fuggire.

Mi riempirò le tasche d’oro, poi mi lascierò scivolare lungo il muro. Se sfuggo, raggiungerò la stazione più vicina e mi allontanerò da questo luogo maledetto ove i demoni hanno viso umano. Arrischio di uccidermi nella caduta, ma preferisco questo genere di morte a quello che mi aspetta.

Arrivederci, Mina!

…Che data devo mettere a queste lettere?, disegno di Giulia Mochi

…Che data devo mettere a queste lettere?,
disegno di Giulia Mochi


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CAPITOLO V.

Lettera di Mina Murray a miss Lucy Westenra.

9 maggio.

Mia cara Lucy.

Perdonami d’aver tardato tanto a scriverti, ma sono oppressa dal lavoro. La vita d’un’istitutrice è molto presa. Non vedo il momento di ritrovarmi teco sulle rive del mare. Per far piacere a Jonathan, ho stenografato molto in questi ultimi tempi; potrò essergli molto utile quando saremo sposati. Mi scrive talvolta delle lettere stenografate per abituarmi e so che egli stenografa le sue note di viaggio. Anch’io voglio tenere un giornale in caratteri stenografici, sarà un esercizio eccellente.

Jonathan non m’ha inviato che poche righe brevi; sta bene e tornerà fra una settimana. Mi tarda l’ora di rivederlo! Quante cose avrà da raccontarmi! Ho una gran voglia di esplorare con lui quei paesi lontani quando saremo sposati. Ma ecco la campana delle dieci. Arrivederci, mia cara.

La tua affezionata Mina.

P. S. – Dammi tue notizie. Che cosa ti succede? Ho udito certe voci circa un bel signore dalla capigliatura ricciuta!

Lucy Westenra a Mina Murray, 17 Chatanstreet.

Mercoledì.

Mia cara Mina,

Che cosa ti racconterò? Londra è piacevolissima in questo momento. Andiamo alle esposizioni di pittura e passeggiamo nel parco.

Non almanaccare con la tua mente: il signore dalla capigliatura ricciuta non è altri che mister Arturo Holmwood. Viene di frequente a trovarci e se l’intende benissimo con la mamma.

Feci ultimamente conoscenza con un giovinotto che sarebbe proprio l’affar tuo, se tu non fossi già fidanzata con Jonathan. È un partito eccellente. Bello. Di buona famiglia. E, inoltre, un dottore d’avvenire. Non ha che ventinove anni e dirige già un grande asilo d’alienati. Il signor Holmwood ce l’ha presentato, ed è venuto a farci visita. La sua calma ammirevole deve agire fortemente sui malati. Vi guarda dritto in viso come se volesse leggervi nel pensiero. Pretende che io sia un curioso studio psicologico.

Non ti descriverò le mode; tu sai che io non sono gran che civetta. Per lo meno, è Arturo che lo dice. To’, il mio segreto mi sfugge; ma già, fin dall’infanzia, non abbiamo mai potuto nascondere nulla l’una all’altra. Oh! Mina, tu hai indovinato, io l’amo. Non si è dichiarato ancora ma sono certa che condivide i miei sentimenti.

Lo amo, lo amo e mi fa bene il dirlo a te.

Arrivederci, Mina, dimmi che cosa ne pensi.

Ti abbraccio con tutto il cuore.

La tua amica Lucy.

Lucy a Mina.

24 maggio.

Mia cara Mina,

Grazie mille volte della tua lettera così affettuosa. Lo crederesti? Io che sto per avere venti anni al mese di settembre e che mai fino ad oggi fui chiesta in matrimonio, ho avuto tre richieste contemporanee in una sola giornata.

Tre alla volta! Te lo immagini, Mina? Sono tanto felice che non so da che parte cominciare.

Il primo pretendente si è presentato al momento di colazione, te ne ho già parlato: è il dottore John Seward, il direttore dell’asilo d’alienati. Pareva calmissimo ma, in fondo, era nervoso. Nella sua emozione, si è seduto sul suo cappello a cilindro e s’è messo a giuocare con una lancetta, il che m’ha impressionato. Mi ha detto subito che mi conosceva poco, certo, ma che io gli ero già necessaria. E siccome mi sono messa a piangere, si è accusato d’essere un bruto e ha fatto l’atto d’alzarsi. L’ho trattenuto e allora mi ha chiesto se credevo di poterlo amare un giorno. Dissi di no, colla testa. Allora replicò che non voleva essere indiscreto ma desiderava sapere se ne amassi un altro. Ho sentito che dovevo dirgli la verità…

Allora, gravemente, mi ha prese le mani, augurandomi di essere felice. « Se avete bisogno di un amico, mi ha detto, pensate a me. »

Ah! Mina! è piacevole l’essere chiesta in matrimonio, ma è triste assai spezzare il cuore d’un uomo!

Le lagrime m’acciecano, riprenderò fra poco questa lettera.

Nella serata.

Arturo è uscito or ora. Sono molto felice. Ma procediamo per ordine.

Il numero due è venuto dopo colazione. È un seducente americano del Texas. È giovanissimo: non si direbbe mai che ha viaggiato tanto.

Mister Quincy Morris mi trova sola. Mi siede accanto sul divano, mi prende la mano e intavola subito il soggetto:

Miss Lucy, dice gravemente, io non sono degno di sciogliere i lacci delle vostre scarpette, ma se voi cercate un uomo che ne sia degno, potete aspettare un pezzo. In mancanza di meglio, non vi contentereste dell’imperfetto compagno che sarei io?

Questo discorsetto m’impressionò meno della confessione del povero dottore. Gli risposi ridendo che non avevo bisogno d’un compagno. Allora si turbò e mi fece una dichiarazione in regola. Lì per lì fui disorientata; egli se n’accorse:

Lucy, siete una ragazza onesta – mi disse; – se il vostro cuore è già preso, ditemelo francamente, non vi seccherò altro e resterò il vostro amico devoto.

Mia cara Mina, indovini la mia emozione. Quest’uomo è generoso davvero.

Sono rotta dalle emozioni e più tardi ti racconterò la mia felicità.

La tua Lucy.

P. S. Non fa mestieri dirti il nome del numero tre, l’hai già indovinato. E poi tutto ciò è accaduto così rapidamente… Egli entrò nella stanza; mi prese fra le braccia e mi baciò.

Sono pazza dalla gioia; che ho fatto mai per meritarmela? Aggiungo che il dottor Seward e Quincy Morris rimangono amici miei e d’Arturo.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

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CAPITOLO VI.

Giornale di Mina.

24 luglio, Whitby.

Sono andata alla stazione a prendere Lucy e sua madre. È ancora più bella di prima. Siamo scese nel quartiere della Mezzaluna ove la signora Westenra ha preso in affitto una villetta. Il paese è incantevole. Il fiume dell’Ersk taglia la vallata che s’allarga in vicinanza del mare. Le case violacee fanno ricordare quelle di Norimberga. Fuori della città, si trova l’antica Badia di Whitby, vecchia e imponente ruina. Si dice che sia frequentata dallo spirito di una signora Bianca. La chiesa confina con un gran cimitero, donde si gode una vista stupenda sul porto e sulla baia. È una meta di escursione. Ci verrò sovente. È di qui che scrivo queste righe. Ho come vicino un vecchio marinaio dalla faccia rugosa come una scorza d’albero. Dice d’aver cent’anni e afferma d’aver combattuto a Waterloo. Ho voluto interrogarlo sulla Dama Bianca e sulla leggenda la quale pretende che le campane si mettano a suonar di notte quando un battello si perde in mare, e sulla storia d’un suicidato la cui tomba sorge accanto a noi.

M’ha detto bruscamente:

— Non bisogna parlare di queste cose, miss.

Allo scoccar delle sei si è alzato, dicendo:

— La mia nipotina mi aspetta per il pranzo.

L’ho veduto scendere i gradini che dalla chiesa conducono alla città.

25 luglio.

Son salita al cimitero con Lucy. La mia amica indossava una veste di flanella bianca. Le son tornati i suoi bei colori. Tutti qui l’adorano. E tanto graziosa!

Mi ha parlato ancora di Arturo e del loro prossimo matrimonio, e questo mi ha un poco rattristata perchè già da un mese non ho notizie di Jonathan.

Son tornata sola al cimitero un po’ più tardi; sono inquieta. Non era arrivata nessuna lettera per me, all’ora della posta. Purchè non sia capitato niente a Jonathan! Le nove sono scoccate adesso. S’accendono delle luci nella piccola città. A destra la massa cupa della vecchia badia. Dei montoni belano nei campi e gli zoccoli d’un asinello risuonano sulla strada, sotto a me.

Dov’è Jonathan? Pensa a me? Come vorrei che fosse qui!

26 luglio.

Sono inquieta e non soltanto per Jonathan. Da molto tempo non sapevo più nulla di lui quando ieri il bravo signor Hawkins, che è pieno di riguardi per me, mi ha fatto avere una sua lettera, nella quale m’annunzia con due righe il suo ritorno. Questo laconismo non è solito in lui. La salute di Lucy m’inquieta: ha buona ciera, ma ha ripreso la sua vecchia abitudine di camminare dormendo. Ne ho parlato con sua madre alla quale ho promesso di chiudere accuratamente ogni sera la stanza che Lucy condivide con me.

La signora Westenra è persuasa che le sonnambule s’arrampichino sui tetti da cui arrischiano di rompersi il collo. Povera signora, ama tanto sua figlia! Mi ha confidato che suo marito aveva la stessa abitudine.

Lucy si sposerà quest’anno; pensa già al corredo ed alla casa. Mi fa augurarmi più vivamente il ritorno del mio fidanzato; ma la vita di noi due, di Jonathan e mia sarà ben più modesta; dovremo faticare per vivere alla bell’e meglio.

Mister Arturo Holmwood, lui, è figlio unico di Lord Godalming. Verrà a raggiungerci fra poco non appena la salute di suo padre glielo permetterà. Lucy conta i giorni. Forma già il piano di trascinarlo ad ammirare la bella vista del cimitero e le bellezze di Whitby. Questa aspettativa la rende nervosa, e si capisce.

27 luglio.

Nessuna notizia di Jonathan. Questo mi preoccupa benchè non ci sia ragione d’inquietudine. Mi scrivesse almeno una riga!

Lucy si alza tutte le notti ed io mi sveglio udendola camminare nella stanza. Per fortuna fa caldo e non corre il rischio d’un’infreddatura. Tuttavia queste insonnie finiscono col deprimermi e divento nervosa. Lucy non ne soffre, lei; ed è l’essenziale.

Mister Holmwood è sempre trattenuto accanto a suo padre che sta molto male. Lucy ne è desolata.

3 agosto.

Una settimana è trascorsa. Sempre senza notizie di Jonathan. Ah! purchè non sia malato!

Rileggo la sua ultima lettera indirizzata ad Hawkins e che non mi soddisfa. Eppure, è scritta di suo pugno.

6 agosto.

Quest’aspettativa è intollerabile! Sapessi almeno dove telegrafargli? Ma ha lasciato il castello. Come raggiungerlo?

La notte scorsa ci fu un gran vento; i marinai credono che la tempesta dovrà durare. La nebbia è intensa. Il mio vecchio marinaio predice naufragi. Sono andata sino al faro; il guardiano che esplorava il mare col cannocchiale mi ha detto:

— C’è un battello al largo, dev’essere un bastimento russo; danza terribilmente e si direbbe, vedendolo andare a destra e a sinistra, che non ci sia nessuno al timone; il pilota non conosce il suo mestiere. Potrà dirsi fortunato se non viene ad urtare contro gli scogli.

Mina e Lucy, disegno di Giulia Mochi

Mina e Lucy,
disegno di Giulia Mochi


CAPITOLO VII.

Ritagliato nel Daily-Telegraph dell’8 agosto e incollato nel giornale di Mina.

Nostra corrispondenza.

Whitby. – Una tempesta formidabile quale da anni non s’era vista, s’è scatenata nella regione.

La serata di sabato fu bella. Gruppi di passeggiatori si avventurarono verso i boschi di Mulgrave, verso la baia di Robin Hood, verso il Mulino di Rig, ecc, – I vaporini Emma e Nelson fecero un’escursione lungo la costa e l’animazione regnò nella piacevole città di Whitby. Verso sera, s’alzò il vento, ed il sole tramontò in una meravigliosa apoteosi di nuvole porporine che attirarono sulla spiaggia e nel vecchio cimitero in cima alla rupe una quantità di gitanti. Questo splendido spettacolo non sarà perduto per i pittori e ammireremo, spero al prossimo « Salon » dei « tramonti » oppure dei « prima della bufera » dei signori R. A. o dei signori K. I.

Tutte le barche da pesca tornarono in porto; soltanto una goletta straniera, dalle vele spiegate, rimase in mare. Quella bizzarra imprudenza suscitò molti commenti.

Verso le dieci l’atmosfera divenne soffocante e regnò un silenzio che impressionava.

Verso mezzanotte un brontolìo di tuono e l’uragano si scatenò. Le onde si alzarono a prodigiose altezze. A un tratto la goletta straniera apparve nel raggio del faro. Un grido d’angoscia sfuggì da tutti i petti. Eppure non c’eran lì che vecchi lupi di mare.

— È la morte sicura! Sono in procinto di spezzarsi contro le rocce!

Ma, sollevata da un’ondata gigantesca, la goletta fu lanciata nel porto. Alla luce del faro si vide con orrore una testa dondolare sul davanti del battello. Fu il solo essere umano che si scorgesse. Per quale miracolo quella goletta il cui timone stava fra le mani d’un morto, era entrata nel porto?

Portata dalle onde, naufragò sulla spiaggia. In quel momento, un immenso cane giallo saltò sulla riva e disparve verso il cimitero. Il guardiano del faro fu il primo a salir sul ponte. Io ero abbastanza lontano ma accorsi. Quando giunsi, c’era già folla sulla spiaggia e degli agenti interdicevano l’adito al ponte. Esibii la mia tessera di giornalista e in qualità di corrispondente potei unirmi al gruppetto esplorante il battello.

Il pilota aveva le mani attaccate al timone; le corde erano state legate così energicamente che i flussi e riflussi del battello avevano tagliato le carni. La mano destra del cadavere si rinchiudeva sopra un piccolo crocifisso. Il dottore, mister Caffyn, crede che la morte risalga a due giorni. Nelle sue tasche si trovò una bottiglia suggellata contenente un rotolo di carta… Dev’essere il registro del loch.

La tempesta s’è calmata, i curiosi si sono dispersi e sorge l’alba.

Per la prossima edizione vi invierò maggiori particolari.

9 agosto.

La goletta è russa. Viene da Varna e si chiama Demeter. Come carico, non aveva che grandi cofani pieni di terra, destinati a un notaio di Whitby, mister S. F. Billington, n. 7, Mezzaluna. Ne prese possesso stamane. Quanto al Console di Russia, che agiva in qualità di rappresentante, pagò i diritti d’entrata del battello del quale ha momentaneamente la custodia.

Non si parla d’altro. Ci si domanda che sia avvenuto del cane. Dei delegati della Società Protettrice degli Animali ne fecero ricerche ma invano. Deve essere fuggito verso le lande. Parecchi temono non sia un cane arrabbiato.

Stamane, sul far del giorno, un grosso cane appartenente a un negoziante di carbone venne trovato morto sulla strada, davanti alla sua porta. Deve certamente aver sostenuto una lotta poichè ha la gola squarciata e il fianco mezzo aperto.

Grazie alla cortesia della Camera di Commercio, potei sfogliare il libro del loch della Demeter.

Non presenta nulla di particolarmente interessante, tranne la scomparsa che vien segnalata di alcuni uomini dell’equipaggio. Il documento più interessante è quello della bottiglia: venne prodotto all’inchiesta. Ve ne mando una copia fedele omettendo tuttavia alcuni particolari tecnici. A quanto sembra prima di buttarsi a mare il capitano è stato preso dalla pazzia. Uno degli addetti al Consolato di Russia mi ha favorito la traduzione che segue:

Loch del « Demeter ».
Traversata da Varna a Whitby.
A bordo sono avvenute cose strane: voglio notarle prima di sbarcare.

Il 6 luglio abbiamo effettuato il carico della sabbia e cofani pieni di terra. A mezzodì venne spiegata la vela. Vento d’est fresco. Cinque uomini, più due secondi, il cuoco, ed io, il capitano.

L’11 luglio, all’alba, entrata del Bosforo. Visita della Dogana turca. Bakchich (mance). Tutto in regola. In rotta alle 4 pomeridiane.

Il 12 luglio, i Dardanelli. Ancora la Dogana. Trattative con la nave portabandiera. Nuovo bakchich. Rapida visita dei doganieri, premurosi di vederci partire. Traversata dell’Arcipelago, di notte.

Il 13 luglio, passato il capo Matapan. L’equipaggio è malcontento per una ragione da me ignorata.

14 luglio. – L’equipaggio sembra inquieto. Eppure questi uomini sono robusti e tarchiati; e han già navigato con me.

Dunque? c’è qualche cosa, ha detto uno di loro al mio secondo, senza volersi maggiormente spiegare. Costui esasperato ha perso il lume degli occhi al punto da batter l’uomo che, con mia grande sorpresa, non ha replicato. Regna la calma.

16 luglio. – Il secondo mi fa sapere che uno dei marinai, Petrowski, è scomparso. È incomprensibile.

Il 17 luglio, uno degli uomini, Olgaren, è venuto a parlarmi. Afferma che, oltre l’equipaggio, c’è a bordo uno sconosciuto. Ieri, mentr’era di quarto, ha veduto un’ombra alta e sottile camminare lungo il ponte e sparire. L’ha seguita a passi di lupo, non riconoscendo in lui uno dei nostri compagni. Quando giunse a prua, l’uomo s’eclissò senza ch’egli potesse capire da dove fosse passato. È invaso dalla paura e temo che questo panico non si comunichi a tutto l’equipaggio.

Per rassicurarli visiterò minuziosamente il battello, dall’alto al basso. Malgrado le proteste del mio secondo, il quale sostiene che io demoralizzo i miei uomini, abbiamo visitato i minimi cantucci. Non capisco davvero dove un uomo potrebbe celarsi.

28 luglio. – Tempo orribile da due giorni. Non si ha l’agio d’aver paura dei fantasmi. I miei uomini sono energici e coraggiosi. Mi sono congratulato con loro. Abbiamo passato Gibilterra. Tutto va bene.

24 luglio. – Una tristezza pesa sull’equipaggio. Un altro uomo è scomparso mentr’era di quarto. Il panico regna nuovamente. Gli uomini m’han chiesto il permesso di vegliare a due a due. Non vogliono restar soli. Il mio secondo biasima ciò che chiama la mia debolezza.

28 luglio. – Quattro giorni d’inferno. Vento e tempesta. Nessuno ha potuto dormire. Gli uomini sono estenuati. Nessuno è in istato di vegliare. Il secondo si è offerto affinchè gli uomini possono riposare per alcune ore. Il mare è in burrasca ma la costruzione è solida.

29 luglio. – Altra tragedia. Al mattino l’uomo di quarto è scomparso. Lo si cerca invano. Non abbiamo più che un solo secondo. Il panico è al colmo.

30 luglio. – Ci accostiamo all’Inghilterra. Il tempo è bello. Tutte le vele sono spiegate. Io mi riposo alquanto. Ma il secondo mi sveglia di lì a poco per dirmi che l’uomo di quarto e il pilota sono scomparsi. Non restiamo più a bordo che il secondo, io e due uomini per manovrare il battello.

1° agosto. – Due giorni di nebbia e neppure una vela in vista. Avevo tuttavia sperato una volta nella Manica poter fare segnali di richiamo. Inutile. Avanziamo contro il vento. Il mio secondo, adesso, è il più demoralizzato di tutti.

2 agosto, mezzanotte. – Sono svegliato da un grido dietro la mia porta. Mi precipito sul ponte ed urto contro il secondo. Ha udito un grido anche lui; non vediamo più l’uomo di quarto. Un altro ancora che è scomparso! Il cielo ci protegga! Abbiamo già passato Douvres ed entriamo nel mare del Nord.

3 agosto. – A mezzanotte, sono venuto io a sostituire il timoniere. Non c’era nessuno. Il vento imperversava. Ho preso il timone e ho chiamato il secondo che è accorso, a malapena vestito. Aveva un’aria smarrita. Temo che la sua ragione l’abbia abbandonato. Mormorò con voce rauca, come temesse d’essere udito:

« Esso è qui, adesso lo so. La notte scorsa l’ho veduto. Esso non è dissimile da un uomo: alto, sottile e pallido. Si curvava sul parapetto. Scivolai dietro a lui e gli diedi una coltellata. Ma il coltello l’ha trapassato senza ferirlo, come se avessi trapassato l’aria. Ma è lì, lo troverò, senza dubbio chiuso in uno dei cofani. Li aprirò ad uno ad uno. Voi restate al timone! »

Si allontanò col dito sulle labbra.

Poco dopo lo vidi risalire sul ponte con una scatola di arnesi ed una lanterna. È pazzo di sicuro. Inutile contrariarlo.

A un tratto, un grido terribile mi ha fatto rizzar i capelli in testa. Il mio secondo si precipitò sul ponte con un viso sconvolto dal terrore: — Salvatemi! salvatemi! gridò. Conosco il segreto! Capitano, prima che sia troppo tardi, seguitemi, è il solo mezzo di sfuggirlo!

E prima ch’io ne lo potessi impedire, scavalcò il parapetto e si buttò a mare.

Comincio a supporre la verità. Questo pazzo ha squilibrato i miei uomini ad uno ad uno comunicando loro la sua follia suicida. Ed oggi li raggiunge. Che il signore mi venga in aiuto! Chi mi crederà quand’io racconterò tutto questo? Ma arriverò io mai in porto?

4 agosto. – Sempre una nebbia intensa che il sole non può forare. Tuttavia lo indovino al di là delle nubi. Non oso abbandonare la sbarra. Stanotte, l’ho veduto, lui. Capisco che il secondo si sia ucciso. Se osassi… Ma il dovere mi comanda di non abbandonare il mio bastimento. Se occorre mi legherò le mani al timone, nella tema di cedere alla tentazione, e fra le mani stringerò il talismano che mi preserverà da lui. Le forze mi abbandonano e la notte si avvicina… Se naufraghiamo, questa bottiglia rivelerà il mio segreto… Si capirà… E in ogni caso si vedrà che son rimasto fedele al mio posto, fino all’ultimo. Che la Santa Vergine e tutti i Santi del Paradiso veglino su di me… »

L’inchiesta non ha dimostrato altro. Qui il capitano viene considerato come un eroe e si conta di fargli funerali pubblici. Lo seppelliranno nel cimitero che domina il mare. Parecchie centinaia di marinai seguiranno il suo feretro.

E si risolverà in questo modo quest’ultimo « mistero marittimo ».

Giornale di Mina.

8 agosto. – Stanotte Lucy fu molto agitata. Io non potei chiudere occhio. La burrasca imperversò senza tregua ed il vento urlava nei camini. A due riprese. Lucy si alzò e si vestì. Per fortuna me n’accorsi in tempo e potei svestirla pianamente. E davvero curioso questo stato di sonnambulismo.

Ci siamo alzate presto e siamo scese verso il porto. C’era molta gente, il sole brillava e l’aria era pura. Come sono felice di pensare che Jonathan ieri non era in mare! Ma, in fin dei conti, che ne so io? Dov’è? Che fa? Se almeno potessi fare qualche cosa!

10 agosto. – I funerali del povero capitano furono commoventi. Dei marinai portavano la bara ed una folla enorme seguiva. Lucy ed io li avevamo preceduti al cimitero ch’è la mèta favorita delle nostre passeggiate. La processione ci raggiunse in breve.

Lucy sembra molto depressa. Credo che le sue notti la affatichino. È vero che abbiamo anche saputo la morte del nostro vecchio amico il marinaio. L’hanno scoperto al mattino sul banco dove stiamo noi, inanimato. Aveva negli occhi uno sguardo di terrore intenso. Senza dubbio ha veduto venire la Morte. Povero vecchio! L’avevamo preso in amicizia.

Un altro lieve incidente ha snervato Lucy. E davvero troppo sensibile. Povera cara! Uno dei marinai s’era fatto accompagnare dal suo cane, un grosso terranova bonario, dolce come un agnello. Ora, nel bel mezzo del servizio funebre, al cimitero, il cane si mise ad abbaiare in modo lamentoso. Il marinaio volle farlo tacere, lo chiamò e gli fece segno di venire a stendersi sopra una tomba accanto a lui, quella del suicida. Ma il cane s’è allontanato, raddoppiando l’abbaiare. L’uomo infuriato gli fu addosso, lo prese per il collare e lo adagiò a viva forza sulla pietra. Istantaneamente il povero animale si calmò ma fu preso da un tremito spaventevole che durò tutto il tempo della cerimonia. Lucy pareva molto impressionata e considerava con pietà il povero animale. Sono certa che stanotte sognerà l’incidente. Le farò fare una lunga passeggiata per stancarla e nella speranza di farla dormire poi d’un sonno di piombo.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

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CAPITOLO VIII.

Il giornale di Mina.

11 agosto. Le tre del mattino.

Non posso dormire; sono nervosissima. Ma però, quale avventura!

Sonnacchiavo da circa un’ora quando un brusco sussulto mi svegliò. Sfregai un cerino. Che vedo? Il letto di Lucy vuoto. La porta chiusa ma non a chiave. Per non svegliar sua madre, mi vestii senza rumore. Constatai che nessun vestito mancava dal portamantelli di Lucy; il suo accappatoio era lì sul letto. Non può essere lontana, pensai, poichè in camicia da notte.

Feci la scala a corsa ed esplorai il pianterreno. Nessuno.

La porta d’entrata era aperta. Mi sono avvolta in uno scialle, slanciandomi alla sua ricerca. L’orologio della Mezzaluna suonò la una. Nessuno in vista. Corsi lungo la spiaggia. Ma senza scorgere la forma bianca che spiavo. La luna brillava; discernevo le ruine della Badia, massa scura sul cielo chiaro, e la distesa del cimitero. Là, sul nostro banco favorito, scorsi una figura bianca indistinta e un po’ indietro un’ombra nera; uomo o animale? Non avrei saputo dirlo perchè in quel momento una nube passò davanti la luna.

Scalai i ripidi gradini; mi pareva non finissero più; avevo l’impressione d’essere calzata di piombo. Quando raggiunsi la porta del cimitero, vidi nettamente una lunga forma nera curva verso la mia amica. Spaventata chiamai: « Lucy! Lucy! ». Ella non si mosse ma, dietro a lei, due occhi brillanti e rossi mi squadrarono. Spinsi il cancello; per un minuto, la chiesa mi mascherò il gruppo. Quando giunsi accanto a Lucy, la trovai sola.

Dormiva, con le labbra semiaperte, e respirava a fatica, come se le mancasse l’aria. Si portò le mani al collo come per incrociare il bavero d’un mantello. Temetti che non prendesse freddo e le gettai sulle spalle il mio scialletto, che agganciai con uno spillo da balia. La punsi forse senza saperlo? Si portò la mano al collo come se risentisse un dolore. Le calzai le mie scarpe e la svegliai dolcemente. A poco a poco riprese i sensi e non mi parve stupita di vedermi. Cominciò a tremare e mi gettò le braccia al collo. Le spiegai in qual modo fosse lì e perchè bisognasse rientrare subito in casa. Mi seguì docilmente e tornammo senza incontrare anima viva. Per fortuna! Quali storie assurde si sarebbero fatte circolare il dì dopo!

Quando fu a letto e le ebbi rincalzato le coperte, mi pregò di non raccontare a nessuno la sua avventura. Promisi; sua madre è così malata che preferisco non infliggerle un’emozione inutile.

Mezzodì.

Lucy dormiva tanto bene che dovetti svegliarla. E di buon umore. Devo averla stupidamente punta con l’ago poichè ha sul collo due piccole punture rosse e una goccia di sangue sulla camicia da notte.

Nella serata.

Buona giornata. Abbiamo fatto colazione nei boschi di Mullegrave. La signora Westenra era venuta in vettura. Il mio piacere sarebbe stato completo se Jonathan ci avesse accompagnato. Insomma, pazienza! Stassera siamo state al Casino a udire un po’ di musica e ci siamo coricate presto. Lucy sembra più tranquilla che di solito.

Chiuderò la porta a chiave e baderò a che l’incidente della scorsa notte non si riproduca.

12 agosto.

Mi sono sbagliata: due volte stanotte Lucy mi ha svegliata: voleva uscire ma davanti la porta chiusa si è ricoricata, malcontenta.

13 agosto.

Ancora un giorno trascorso. Iersera avevo messo ancora la chiave sotto il mio guanciale. Verso mezzanotte mi sono svegliata, Lucy, seduta sul suo letto, indicava la finestra dormendo. Mi sono alzata senza far rumore e ho sollevato la tenda. C’era un bel chiaro di luna, una gran pace saliva dal mare. Nel cielo, girava un pipistrello enorme. Si avvicinò alla finestra ma, spaventato alla mia vista, fuggì verso la badia. Lucy s’era ricoricata e dormiva pacificamente.

14 agosto.

Trascorso il pomeriggio leggendo sulle dune. A Lucy questo posto piace e duro fatica a ricondurla in casa per le ore dei pasti. Prima di tornare, stassera abbiamo voluto ammirare lo splendido tramonto. Le nubi di porpora incendiavano il cielo e gettavano una luce rosea sul paesaggio. Tacevamo da un momento quando Lucy mormorò come in sogno:

— Quegli occhi rossi, sempre!

Trasalii di sorpresa a quella frase che non aveva senso. Il suo sguardo assente si posava sulla figura straniera d’un uomo seduto sul banco di pietra; gli occhi di quell’uomo nella luce del tramonto brillavano con uno splendore di bragie. Ma l’illusione si dissipò quando si spense il raggio di sole che incendiava le vetrate della chiesa. Feci parte a Lucy di quel fenomeno, ella tornò in sè sussultando. Forse pensava a quella notte orribile di cui non parliamo mai.

Abbiamo camminato in silenzio; Lucy aveva male alla testa; si è coricata all’alzarsi da tavola. Quando la vidi addormentata, andai a fare un giretto verso le rocce.

Pensavo a Jonathan e non ero molto allegra. La notte era uno splendore.

Davanti alla casa, prima di rientrare, lanciai un’occhiata alla finestra di Lucy. Scorsi la mia amica con i gomiti sul davanzale e agitai il mio fazzoletto. Senza dubbio stava spiando il mio ritorno. Ma no: non parve che mi vedesse. Accostandomi, scorsi accanto a lei una vasta ombra nera che pareva quella d’un uccello gigantesco. Feci la scala in tre salti, entrai nella stanza: Lucy dormiva, respirando penosamente, e portava la mano al collo come per proteggerlo dal freddo. La ricopersi bene senza svegliarla e chiusi la finestra. È più pallida del solito.

15 agosto.

Ci siamo alzate più tardi del solito. Lucy è stanca. A colazione, una bella sorpresa: una lettera d’Arturo. Suo padre sta meglio e il matrimonio verrà anticipato. La mia cara Lucy è assai contenta. La signora Westenra mi ha confidato che si rallegrava di vederla affidata ad un protettore; la povera signora sa di non aver molto tempo da vivere: il suo cuore si indebolisce, non ne ha che per pochi mesi…

17 agosto.

Non potei scrivere in questi ultimi giorni; una tristezza pesa sulla casa. Nessuna notizia del mio fidanzato. Non capisco nulla dello stato di Lucy; ha buon appetito eppure s’indebolisce. Non esce più, quando dorme, da quando io nascondo la chiave sotto il mio cuscino; ma ogni notte, così addormentata va ad appoggiarsi al davanzale. La notte scorsa ve la sorpresi; volli svegliarla, era svenuta.

Durai fatica a rianimarla. Si mise a piangere, più debole d’una convalescente. I due punti rossi che porta alla gola, a cagione della mia malaccortezza, non si cicatrizzano; anzi le due piccole piaghe si sono allargate; la carne ne è bianca sugli orli. Se non guariscono fra due giorni consulterò un medico.

18 agosto.

Lucy sta meglio. Ridiventa rosea e me ne rallegro. Siamo andate al vecchio cimitero.

— Che cosa mi è venuto in mente di venire qui quella notte – ha detto ridendo.

— Sognavi di sicuro.

— Può darsi, ma ne conservo un ricordo preciso come una realtà. Ero attirata come da una calamita, ma avevo paura. Mi ricordo d’aver attraversato le strade addormentate ed il ponte: dei cani abbaiarono. M’arrampicai sui gradini della vecchia badia. Poi rivedo un uomo nero dagli occhi rossi: mi si è avvicinato, ho creduto di sprofondare in un’acqua profonda che mi riempiva le orecchie e m’è parso che l’anima si dileguasse. Poi mi sentii scuotere con violenza; eri tu che mi svegliavi.

Rise d’un risolino strano e non insistei.

19 agosto.

Gioia! gioia! gioia! Incompleta tuttavia. Finalmente ho notizie di Jonathan. Il caro amico cadde malato d’una febbre cerebrale a Budapest, all’ospedale delle Suore di San Giuseppe. Ecco perchè non m’ha scritto. Adesso che so, sono rassicurata. Parto stamattina per raggiungere Jonathan, curarlo, guarirlo e ricondurlo. La lettera di Suor Agata mi ha fatto piangere d’emozione e di gioia. Il mio fidanzato ha subito una terribile scossa nervosa. Nel suo delirio ha parlato di lupo e di sangue, ma è in via di guarigione. Gioia! gioia!

Giornale del Dottore Seward.

25 aprile.

Non ho dormito stanotte. Dopo il rifiuto subito da parte della dolce Lucy, sono demoralizzato. Tuttavia, voglio molto bene ad Arturo. La disciplina ed il lavoro mi rimetteranno in carreggiata ma sarà dura. Cerco d’interessarmi ai miei ammalati. Uno di essi sopratutto stimola molto la mia curiosità. È così bizzarro, così diverso dagli altri pazzi! Lo studio in modo particolare.

Oggi l’ho fatto parlare della sua follia, il che di solito evito. Ecco le osservazioni che annotai.

« Renfield, 59 anni, temperamento sanguigno, grande forza fisica, eccitazione morbosa, periodi di depressione, idea fissa che ancora non potei nettamente determinare. Pericoloso. »

5 giugno.

Il caso di Renfield m’interessa sempre più. Quest’uomo ha delle qualità: è discreto, poco egoista e possiede una certa coordinazione d’idee. Par che persegua uno scopo nascosto. Quale?

Ha un amore eccessivo per gli animali, ma che talvolta assume una forma crudele. La sua grande passione è acciuffare le mosche. Ne aveva una quantità tale che dovetti imporgli un alt! Non si è infuriato come m’aspettavo, ma parve riflettere profondamente:

— Datemi tre giorni per farle sparire – ha detto.

Gli ho accordato il permesso: bisogna che l’osservi.

18 giugno.

Adesso fa collezione di ragni che rinchiude entro una scatola. Li nutre con le mosche il cui numero è già diminuito.

1 luglio.

I suoi ragni diventano fastidiosi non meno delle sue mosche. L’ho pregato di sopprimerli. Questa idea parve rattristarlo molto.

Mentr’ero nella sua stanza, una grossa mosca turchina è entrata ronzando. L’ha acciuffata fra il pollice e l’indice, e, prima che potessi prevenire quel gesto, l’ha inghiottita. Siccome l’ho sgridavo, mi ha risposto con dolcezza ch’era un nutrimento eccellente.

— È vita! – ha detto.

Queste parole m’hanno suggerito un’idea che approfondirò.

Si capisce che medita grandi cose perchè prende delle note senza tregua, sopra un piccolo taccuino: la sua follia non è incoerente. Ha addomesticato una rondinella che nutre certo con i suoi ragni.

19 luglio.

Il mio malato adesso ha tutta una colonia di rondinelle e non gli rimangono quasi più nè ragni nè mosche.

È venuto a supplicarmi d’accordargli un gran favore. Con voce balbettante mi ha detto:

— Vorrei un gatto, un bel gattino per giocare con lui e dargli da mangiare.

— Rifletterò, ho risposto.

Aspetterà un pezzo, perchè non auguro alla sua graziosa famigliola di rondinelle la stessa sorte delle mosche e dei ragni.

— Subito? ha chiesto.

— No, più tardi.

M’ha lanciato uno sguardo d’assassino. Quest’uomo dolce in apparenza ha la mania omicida.

le 10 di sera.

Quando l’ho riveduto, mi si è buttato alle ginocchia, supplicandomi di dargli un gatto, come se la sua salvezza dipendesse dalla mia risposta. Ho tenuto duro. Non ha detto niente, ma s’è rincantucciato in fondo alla stanza, rosicchiandosi le unghie per la rabbia.

20 luglio.

Stamane ho cominciato il mio giro da Renfield. Zufolava mentre stava posando sul davanzale alcune zollette di zucchero prelevate dalla sua colazione. Senza dubbio, ne faceva un’esca per le mosche. Gli domandai che avesse fatto degli uccelli, poichè non li vedevo. Rispose, senza voltarsi, ch’erano volati via.

Scoprii sul pavimento alcune piume e sul suo guanciale una goccia di sangue. Non ho insistito; ma ho pregato il guardiano di sorvegliarlo in modo speciale.

le 11 di mattina.

Il guardiano è venuto a dirmi che Renfield è stato molto male e che ha rigettato un pacco di piume.

— Ho una vaga idea – m’ha detto quel bravo uomo – che egli abbia inghiottito i suoi uccelli così bell’e crudi.

le 11 di sera.

Ho fatto prendere un saporifero a Renfield e gli ho sottratto, mentre dormiva, il taccuino di note. Quel che supponevo si conferma. Bisogna classificare il mio cliente in una categoria nuova. E uno zoofago (mangiatore di carne viva). Ammiro l’ingegnosità mercè la quale ha raggiunto il suo scopo. Sul taccuino ha accuratamente annotato il computo delle vite da lui sacrificate.

19 agosto.

Cambiamento repentino nella condotta di Renfield. Iersera verso le otto, si agitò e si mise a fiutar l’aria come un cane che riconosca il passo del padrone. Il guardiano lo interrogò ed il mio malato, così cortese verso quell’uomo, gli rispose brutalmente:

— Non voglio parlare con voi: non esistete per me: io aspetto il Maestro.

Il guardiano lo crede colpito da una nuova forma di mania religiosa.

In tal caso, faremo raddoppiare la sorveglianza; nulla di più pericoloso della mania omicida unita alla mania religiosa. Alle nove, gli feci una visitina. Mi accolse con lo stesso sprezzo testimoniato al guardiano. S’immagina d’essere onnipotente? Fra breve si crederà Dio stesso. Allora, ho finto di non vederlo, benchè continuassi a tenerlo d’occhio. Sedette sulla sponda del letto, con lo sguardo vago. Per sapere se quella indifferenza fosse o no simulata gli parlai de’ suoi favoriti. Dapprima non rispose, poi esclamò con malumore:

— Me ne infischio come della mia prima pantofola!

— Come, feci io meravigliato, non vi piacciono più i ragni?

Al che egli rispose enigmaticamente:

— Le damigelle d’onore rallegrano gli occhi di coloro che aspettano la sposa, ma quando la sposa appare, ella eclissa le sue damigelle d’onore.

Non disse oltre.

Sono stanco, il ricordo di Lucy mi assilla più di quel che vorrei. Se non dormo, prenderò del cloralio. No, non è ragionevole, non voglio abituarmici…

Più tardi.

Ho fatto bene ad astenermene. Le due del mattino erano appena scoccate quando il guardiano corse ad avvertirmi che Renfield era scappato. Infilai i miei vestiti e mi precipitai fuori: il mio malato è troppo pericoloso perchè io lo lasci circolare in libertà. Il custode della sezione mi afferma che dieci minuti prima, dalla spia, vide Renfield sul proprio letto. Il rumore d’una finestra aperta lo mise all’erta. Accorse proprio in tempo per veder sparire il nostro pazzo, in camicia da notte. Fu allora che m’avvertirono. Il custode, che è un gigante, non può passare dalla finestra; ma io che sono sottile potevo seguire quella via. Saltai a terra; la finestra non è che a tre metri dal suolo. Corsi diritto davanti a me e, in fondo al giardino, attraverso un gruppo d’alberi, vidi Renfield dar la scalata al muro che separa il nostro giardino da un parco attiguo, attinente ad un maniero disabitato.

Ritornai all’asilo e diedi l’ordine al guardiano di recarsi con tre uomini sul dominio di Carfax. Abbiamo portato una scala fino al muro ed io mi lasciai scivolare dall’altra parte. Vidi il mio prigioniero slanciarsi verso la cappella; si fermò davanti la porta e scambiò alcune parole con qualcuno che si trovava al di là di essa. Non osai accostarmi per timore di farlo fuggire, ma potei udire queste parole:

— Sono venuto alla vostra chiamata, o Maestro. sono il Vostro schiavo e vi servirò fedelmente. E molto tempo che io Vi adoro, e spero mi vorrete ricompensare nella stessa guisa.

I miei uomini gli si gettarono addosso; egli si dibattè come una tigre; questo uomo sembra una belva più che un essere umano. Non ho mai veduto in nessun pazzo un tale parossismo di rabbia. Al presente, è al sicuro; gli hanno messo la camicia di forza, legandolo al muro con catene.

Lancia grida orribili.

Poco a poco si calma e dice:

— Sarò paziente, Maestro, l’ora verrà, l’ora verrà.

20 agosto.

Il caso di Renfield diventa sempre più interessante. Per una settimana parve un forsennato; poi, una sera, mentre la luna sorgeva, si calmò di botto, mormorando:

« Adesso, posso aspettare. »

Che spera? Ho dato l’ordine al guardiano di slegarlo. I guardiani esitavano. Il pazzo s’accorse della loro diffidenza e non appena libero si accostò a me mormorandomi all’orecchio:

— E dire che si figurano che io possa mai farvi del male, a voi!

Vede in me un amico oppure vuol lusingarmi per ottenere un favore? Cerco invano di farlo parlare; nulla lo tenta, neppure l’offerta d’un gatto.

Ha passato una notte pacifica, ma fin dall’alba ha ricominciato ad agitarsi mettendosi in uno stato di furore tale che una specie di coma ne conseguì.

… Ecco tre notti che lo stesso fenomeno si riproduce: violenza pazzesca per tutto il giorno, poi calma perfetta dal sorger della luna al sorger del sole. Non ne capisco nulla. Obbedisce a un’influenza astrale?

Voglio tendergli un tranello. Stassera, gli verrà lasciata la possibilità d’evadere; se ne approfitta, i miei uomini lo seguiranno; sapremo così ciò che medita.

23 agosto.

Renfield ha preferito non evadere dalla finestra lasciata aperta a bella posta; ma quando il guardiano andò come ogni sera a visitare la sua cella, gli diè uno spintone e infilò il corridoio. Subito avvertito, ho radunato alcuni guardiani e l’abbiamo inseguito. Come l’altra volta, l’abbiamo raggiunto nel maniero deserto; s’appoggiava alla porta della vecchia cappella. Vedendomi, entrò in furore, e se i guardiani non l’avessero afferrato m’avrebbe fatto un brutto scherzo. A un tratto alzò la testa calmandosi istantaneamente. Seguii il suo sguardo e non vidi nulla di strano, tranne un grande pipistrello che fuggiva verso l’ovest.

— Non val la pena di tenermi, mi ha detto, acconsento a seguirvi.

Infatti, siamo rientrati senza incidenti; ma la sua calma m’inquieta più del suo furore.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

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CAPITOLO IX.

Mina Harker a Lucy Westenra.

Budapest, 24 agosto.

Mia cara Lucy, devi aspettare con impazienza le mie notizie dal momento in cui ti lasciai alla stazione di Whitby. Sappi, mia cara, che sono arrivata senza inciampo, la stessa sera, a Hall ove presi il battello per Amburgo. Poi, parecchie ore di ferrovia. Non mi ricordo già più di questo viaggio; Jonathan occupa tutto il mio pensiero…

Ho trovato il mio diletto in tristi condizioni, assai dimagrato e pallido. I suoi occhi hanno perso il loro bello splendore, non è più che l’ombra di sè stesso ed ha perduto ogni memoria del passato. Almeno, così dice; e preferisco non insistere. Suor Agata, una buona creatura, m’afferma che il suo delirio fu gravissimo. Volevo che mi raccontasse quelle divagazioni ma ella si fece il segno della croce e non volle dir nulla. « È il segreto di Dio! » ha mormorato. È una brava e semplice creatura. M’ha soltanto lasciato capire ch’egli non aveva mai smesso di pensare a me e questo m’ha fatto piacere.

Egli riposa ed io ti scrivo seduta al suo capezzale. Ma ecco che si sveglia…

… Non appena svegliato, ha reclamato il suo vestito. Senza dubbio voleva far la verifica delle tasche. La buona suora glielo portò. Egli prese il taccuino contenente il suo giornale e credetti che stesse per darmelo. E mi rallegravo di scoprirvi il segreto delle sue avventure. Ma con tono solenne egli mi ha detto:

— Guglielmina (non mi chiama così che nelle occasioni gravi) voi conoscete le mie idee circa la fiducia reciproca che gli sposi si devono. Ho avuto una grande scossa nervosa; la febbre cerebrale che mi ha abbattuto non è che una specie di follia. Ora, il secreto di questa scossa, voi potreste trovarlo in questo libro, ma io non voglio conoscerlo affatto, per paura che… Voglio che la mia vita dati da oggi, dal nostro matrimonio al quale adesso nulla si oppone. Acconsentite. Guglielmina, a condividere la mia ignoranza. Ecco il libro. Prendetelo, tenetelo, leggetelo se volete, ma non parlatemene mai.

Ricadde estenuato sul guanciale ed io lo baciai sulla fronte; pregai suor Agata d’incaricarsi lei con la superiora delle formalità relative al nostro matrimonio.

… Mi ha detto appunto or ora che il cappellano della chiesa protestante è a nostra disposizione. Il nostro console è avvertito…

Lucy, è fatto, sono la moglie di Jonathan. Sono felicissima. Le suore hanno rispettato il nostro desiderio di solitudine ed io sono sola con mio marito. Mio marito! con che gioia scrivo queste parole!

Ho avvolto il suo giornale entro un foglio di carta e l’ho legato con un nastro turchino suggellandolo a cera. Ho promesso a Jonathan di non romperlo che nel caso in cui la sua sicurezza l’esigesse.

La mia felicità sarà completa quando Jonathan starà completamente bene. Ti auguro, mia cara Lucy, la mia stessa felicità.

La tua amica Mina Harker.

Giornale di Lucy.

Hillingham, 24 agosto.

Voglio prendere l’abitudine di Mina di tenere il mio giornale. È il solo modo di ricordarmi di tutto ciò che avrò da raccontarle. Come vorrei mi fosse accanto!

La notte scorsa ebbi un incubo orrendo, come mi capitava a Whitby. Forse è il cambiamento d’aria o il ritorno a casa. Mi sento triste e depressa; una vaga angoscia mi stringe il cuore. Arturo, vedendomi, parve colpito della mia cattiva cera! Ha cercato invano di distrarmi.

25 agosto.

Ancora una notte cattiva! Avevo proposto alla mamma di dormire nella sua stanza; ma è così stanca che me n’ha dissuaso. Ho cercato di star sveglia più a lungo che potei, ma quando mezzanotte suonò trasalii, il che prova che m’ero addormentata. Mi pareva che battessero ai vetri. Non mi sono alzata. Che cosa mai ho sognato? Stamane sono orribilmente pallida; e la mia gola mi fa male. Devo avere il polmone intaccato, poichè respiro a stento. Cercherò d’essere allegra a colazione per non inquietare Arturo.

Arturo Holmwood al Dottor Seward.

Albermale, Hôtel, 31 agosto.

Mio caro Giovanni,

Vi supplico d’accordarmi un favore. Lucy è sofferente e non capisco che cos’abbia; deperisce di giorno in giorno, non oso parlarne alla madre per cui ogni emozione è pericolosa. Fatemi la cortesia di venire. Ho tutta la fiducia nel vostro giudizio. Venite domani a far colazione a Hillingham: di modo che la vostra visita non desterà i sospetti della signora Westenra. Sono molto inquieto, non abbandonatemi.

il vostro amico Arturo.

Telegramma: Arturo Holmwood al Dottor Seward.

1° settembre.

Sono chiamato presso mio padre che sta peggiorando. Scrivetemi stassera al Ring e, se è necessario, telegrafatemi.

Il Dottor Seward ad Arturo Holmwood.

2 settembre.

Mio caro amico, per quei che concerne la salute di miss Westenra mi affretto a dirvi che non ho trovato nessun organo intaccato. D’altra parte, la sua cera non mi soddisfa affatto: ha cambiato molto dall’ultima volta che la vidi.

Il suo turbamento dev’essere mentale. Dopo ampia riflessione, ecco quel che ho deciso: ho scritto al mio vecchio amico e maestro il professore Van Helsing d’Amsterdam, specialista delle malattie nervose e dei turbamenti indeterminati. L’ho supplicato di venire. Mi è assai legato e possiamo contare su di lui. E un filosofo e un metafisico e uno degli scienziati più all’avanguardia della nostra epoca. È un cuore eccellente. Rivedrò domani miss Lucy, ma alla passeggiata, per non inquietare sua madre.

Vostro devotissimo John Seward.

Il Dottor Seward ad Arturo Holmwood.

3 settembre.

Mio caro Arturo, Van Helsing è venuto ed è ripartito. Mi ha accompagnato ad Hillingham. Lucy s’era aggiustata in modo che sua madre facesse colazione in casa d’un’amica. Van Helsing ha potuto esaminare a suo agio la nostra amica. Fra qualche giorno mi dirà la sua diagnosi. Sembra preoccupato.

— È una quistione di vita o di morte, forse anche più – mi ha confidato nel momento di riprendere il treno per Amsterdam.

Non ho potuto saper altro. Non vogliategliene male, io che lo conosco so che il suo cervello lavora a vantaggio di miss Lucy. Parlerà quando lo crederà opportuno. Ho promesso d’inviargli ogni giorno un telegramma e di richiamarlo se occorre:

— Quella graziosa bambina mi interessa – m’ha detto nel momento in cui il treno si metteva in moto.

Come sta vostro padre, mio povero amico? vi compiango d’essere così tenuto in sospeso fra queste due persone la cui salute vi è egualmente cara. Non temete, veglio su Lucy come sulla mia propria sorella.

Vostro John Seward.

Telegramma: Dottor Seward, Londra, al Dottor Van Helsing, Amsterdam.

4 settembre.

La nostra malata sta meglio.

Telegramma: Dottor Seward, Londra, al Dottor Van Helsing, Amsterdam.

5 settembre.

Il miglioramento perdura. Buon appetito, buon sonno.

Telegramma: Dottor Seward, Londra, al Dottor Van Helsing, Amsterdam.

6 settembre.

Cambiamento orribile. Venite immediatamente. Telegrafo a Holmwood.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

Disegno digitale ottenuto con www.midjourney.com


CAPITOLO X.

Il Dottor Seward a Arturo Holmwood.

6 settembre.

Mio caro Arturo, le notizie quest’oggi sono meno buone. Lucy non sta bene. A qualche cosa tuttavia servono anche le disgrazie. La signora Westenra sì è inquietata e m’ha pregato di curare sua figlia. Le ho parlato subito del mio vecchio amico Van Helsing ed ella ha affidato ad ambedue la cura di guarirla. Di fretta, vostro

John Seward.

Giornale del dottor Seward.

7 settembre.

La prima domanda di Van Helsing è stata questa: « Avete avvisato il fidanzato della giovinetta? »

— No, dopo aver riflettuto, mi sono accontentato di scrivergli poche parole che non lo inquietassero troppo. Ho preferito aspettarvi per diagnosticare.

— Avete ragione, mio giovine amico. Inutile inquietarlo, è meglio che sappia il più tardi possibile.

Gli ho descritto i sintomi e si è oscurato.

La signora Westenra ci ha ricevuti: pareva meno inquieta di quel che credevo. La povera donna è ella stessa tanto malata da non rendersi conto dello stato di sua figlia. Ci hanno fatto entrare nella stanza di Lucy. La sua vista stavolta mi ha colmato di terrore. Era d’un pallore terreo; aveva labbra e gengive scolorate e respirava a fatica. Van Helsing aggrottò le ciglia, la contemplò per qualche momento, le tastò il polso e mi fece segno di seguirlo fuor della stanza.

— Non c’è un secondo da perdere – disse; – il cuore funziona a malapena, non ha più sangue nelle vene. Bisogna trasfondergliene immediatamente. Chi sarà di noi due?

— Sono più giovane e più forte, Maestro, sarò io.

— Preparatevi, allora, vado a cercare il mio astuccio.

Lo seguii nel corridoio; un colpo di martello scuoteva la porta; la cameriera introdusse Arturo.

John, muoio d’inquietudine; la vostra lettera mi ha fatto perdere la testa. Babbo stava un po’ meglio e ho preso il primo treno. Non è il dottor Helsing al quale già devo tanta riconoscenza?

Il mio vecchio maestro lo contemplava con benevolenza.

— Arrivate in tempo, signore. La vostra fidanzata sta malissimo.

Arturo impallidì.

— Ma – riprese Van Helsing – rassicuratevi: voi potete salvarla.

— In qual modo? – chiese Arturo con voce spenta. – Che bisogna fare? La mia vita le appartiene e darei volontieri per lei fino all’ultima goccia di sangue.

Van Helsing ebbe un lieve sorriso ironico.

— Non ve ne domanderemo tanto – disse sorridendo. – Seguiteci.

Nel corridoio, spiegò:

— Siamo in procinto di operare la trasfusione del sangue. John s’era offerto, voi mi sembrate più adatto.

Arturo mi strinse calorosamente la mano.

— Sono pronto a morire per lei – disse gravemente.

Van Helsing si accostò al letto della giovinetta dopo aver pregato Arturo di non entrare.

Prese dal suo astuccio un pacchettino di polvere che versò in un bicchiere:

— Prendete, piccola Miss – disse gaiamente – bevete questa droga, vi farà del bene.

La fanciulla era così debole che stentò ad accostare alle labbra il bicchiere. Alcuni minuti trascorsero prima che il narcotico agisse. Quand’ella fu assopita, Van Helsing chiamò Arturo e lo pregò di togliersi la giacca. E destramente praticò l’operazione. Man mano che la trasfusione avveniva, tornava il colore sulle guance di Lucy ed il viso d’Arturo che impallidiva raggiava d’una gioia pura.

— Basta – disse a un tratto Van Helsing, che con l’orologio in mano cronometrava i minuti.

John, curate il vostro amico mentre io m’occupo di lei.

Quand’ebbe medicato la ferita, aggiustò i guanciali del letto; lo stretto nastro di velluto nero che Lucy porta al collo chiuso da una spilla di diamanti datale dal suo fidanzato si spostò rivelando una piccola ferita rossa alla gola. Van Helsing sussultò stupito.

— Conducete via il vostro amico – fece – e rinvigoritelo con un bicchiere di Porto. Poi, torni nella sua stanza e dorma!

Non appena Arturo fu partito, tornai accanto a Van Helsing. Lucy dormiva tranquilla. Chiesi sottovoce:

— Come spiegate quel segno alla gola?

— E voi?

— Non l’ho visto bene.

E, accostandomi al letto, sollevai delicatamente il nastro. Due piccoli fori, minuscole ferite impressionanti, stavano al disopra della vena iugulare. Era forse quella l’origine della sua debolezza. No, impossibile, il sangue sfuggendo avrebbe macchiato il lenzuolo.

— Ebbene? – domandò Van Helsing.

— Non capisco affatto.

— Io – disse il professore – stassera ritorno ad Amsterdam, mi occorrono libri e istrumenti indispensabili. Voi starete qui tutta la notte e non la perderete d’occhio.

— Bisogna cercare una infermiera?

— Inutile, voi ed io bastiamo. Vegliate a che sia nutrita bene che nessuno la disturbi. Sopratutto non addormentatevi. Sarò presto di ritorno e cominceremo la cura.

— Quale cura? – interrogai meravigliato.

— Vedrete.

E sul limitare della porta aggiunse:

— Ve la affido, vegliate su di lei.

11 settembre.

La notte scorsa andai a casa mia. Van Helsing essendo tornato, insistè per vegliare. Nel pomeriggio, oggi sono tornato ad Hillingham. Il Maestro pare rassicurato. Lucy è in buone condizioni. Mentr’ero lì, portarono un paniere venuto dall’estero e indirizzato al professore. Egli ne tolse un fascio di fiori bianchi.

— Sono per voi, miss Lucy – disse.

— Oh! dottore, voi mi guastate.

— Non è un regalo – disse – è una medicina. (Lucy fece una smorfia). Ma non arricciate il vostro bel nasino, vi prometto di non farne delle tisane. Bisognerà soltanto farne una ghirlanda che di notte annoderete intorno al collo. Come i fiori del loto, scacciano i sogni cattivi!

— Oh! dottore, scherzate – diss’ella ridendo dopo averli fiutati – non sono che dei volgari fiori d’aglio.

— Non scherzo – disse Van Helsing con un fare brusco che mi sorprese; – e se vi affermo che questi fiori avranno su di voi un felice effetto, bisogna credermi. Intreccerò io stesso la ghirlanda ed empirò la stanza di fiori. È ancora una fortuna che me n’abbiano potuto inviare in questa stagione. Ho dovuto telegrafare al mio amico Vanderpool di Harleem che ne coltiva tutto l’anno entro le sue serre.

Quella cura singolare mi stupì.

Egli richiuse accuratamente la finestra e sfregò i mobili con i fiori affinchè l’aria che entrasse nella stanza fosse piena del loro profumo; eguale maneggio intorno alla porta ed al camino.

— Si direbbe, maestro, che vogliate esorcizzare uno spirito maligno – dissi ridendo.

— Può darsi – rispose mentre intrecciava la ghirlanda.

Nel frattempo. Lucy nella stanza attigua si spogliava per la notte. Quando fu coricata, il maestro le annodò egli stesso la collana intorno al collo.

— Abbiate cura di non staccarla. E sopratutto non aprite nè la porta nè la finestra.

— Ve lo prometto – disse – e vi ringrazio della vostra bontà.

La mia vettura m’aspettava alla porta. Van Helsing vi accettò un posto.

— Possiamo dormire tranquilli stassera – disse. – Una buona notte ci rinvigorirà. Venite a prendermi domattina; torneremo insieme a vedere miss Lucy.

La sua fiducia non mi rassicurò interamente.

Disegno di Stefano Piacenti

Disegno di Stefano Piacenti


CAPITOLO XI.

Giornale del dottor Seward.

13 settembre.

Stamattina, verso le otto, visita a miss Lucy. Tempo radioso; l’autunno è splendido davvero quest’anno.

Ci accolse la signora Westenra:

Lucy dorme ancora – disse – non ho voluto svegliarla.

— Ah! ah! – fece il maestro soddisfatto – la mia diagnosi era giusta poichè la cura comincia già ad operare.

— Credo che vi vantiate, dottore, e che mia figlia dovrà a me la sua guarigione.

— In qual modo, signora?

— Stanotte ero un po’ inquieta; mi alzai per andare a vedere la mia bambina. Dormiva sodo, ma nella stanza c’era un’atmosfera soffocante; non c’è da stupirsene con tutti quei fiori! Ho pensato che il loro odore avrebbe dato noia alla bimba; allora li portai via e socchiusi la finestra. Spero troverete che sta bene.

Osservai il viso del mio amico, aveva orribilmente impallidito. Si contenne, però.

— Sta bene, signora, andiamo a vedere.

E afferrandomi il braccio mi trascinò nella stanza di Lucy.

Sollevai la tenda mentr’egli si accostava al letto.

— Me l’aspettavo – mormorò.

Stavolta la povera piccina mi parve in condizioni disperate.

Egli chiuse a chiave la porta e preparò gli strumenti per l’operazione. Tesi il mio braccio.

Un’ora dopo, egli supplicava la signora Westenra di non togliere i fiori dalla stanza di sua figlia. – Fanno parte – disse – della cura e sono necessari alla guarigione.

Che cosa significa? Comincio a chiedermi se, vivendo tutto il giorno con i pazzi, non divento anch’io per caso un po’ tocco.

Giornale di Lucy.

17 settembre. notte.

Muoio di debolezza ma faccio uno sforzo per scrivere queste ultime righe. Mi sono coricata come al solito, dopo essermi accertata che i fiori fossero al posto come il dottore desidera. Mi sono addormentata subito.

Fui svegliata nel mezzo della notte da un bussare ai vetri; questo bussare s’è ripetuto ogni notte dopo quella in cui Mina mi trovò nel cimitero. Non ebbi paura ma avrei preferito sapere il dottor Seward nella stanza vicina. Feci uno sforzo per riaddormentarmi. Poi la paura a poco a poco s’impadronì di me. Apersi la porta e chiamai una delle domestiche. Nessuno rispose. Allora rinchiusi la porta per non svegliare la mamnma. Udii un abbaiar di cane acuto e prolungato; mi accostai alla finestra e vidi attraverso i vetri un grosso pipistrello; senza dubbio era esso che batteva all’imposta. Mi ricoricai, decisa a non dormire. La porta si aprì a un tratto e mia madre entrò.

— Come stai, mia cara? – mi disse.

— Un po’ d’insonnia; ma prenderai freddo, vieni nel mio letto.

Si stese accanto a me e quasi subito i colpi alla finestra ricominciarono. Ella sussultò:

— Che cos’è?

La rassicurai e in breve s’assopì ma il suo povero cuore batteva con violenza. L’abbaiare ricominciò e in pari tempo un rumore di vetri spezzati: la lastra volò in pezzi e scorgemmo dall’apertura la testa d’un gran lupo giallo. Mia madre si rizzò con un grido di terrore e s’aggrappò a me con tanta violenza da strapparmi la ghirlanda di fiori. I suoi occhi si dilatarono con orrore inesprimibile e con un gemito ricadde all’indietro. Il lupo era scomparso. Impossibile muovere nè braccia nè gambe: ero come paralizzata: accanto a me la mia povera mamma si raffreddava: il suo cuore aveva cessato di battere. Io caddi in deliquio.

Quando rinvenni, una campana suonava, dei cani abbaiavano e un usignuolo cantava. Ero annientata dal dolore e dalla debolezza. Le donne erano accorse alla mia chiamata. Emisero dei gemiti vedendo mia madre inanimata.

Mi sono alzata e le ho aiutate a stendere il corpo sul letto; l’abbiamo ricoperto d’un lenzuolo. Ho sparso i fiori su di lei.

E adesso sono sola e piango. Spero di non sopravvivere a questa notte atroce.

Lettera di Mina Harker a Lucy Westenra.

17 settembre.

Mia cara Lucy, è molto tempo che non mi scrivi ma ti perdono. Scuserai anche il mio silenzio quando saprai quel che m’avvenne.

Abbiamo fatto buon viaggio. A Exeter, il buon mister Hawkins ci aspettava alla stazione malgrado un attacco di gotta. Ci aveva preparato nella sua stessa casa due stanze comode. Un eccellente pranzo ci aspettava. Alle frutta, disse:

— Miei cari ragazzi, bevo alla vostra salute. Vi ho visti crescere e vi amo come figli miei. Poichè il cielo non mi ha accordato eredi, la mia sostanza sarà vostra, se vorrete con la vostra cara presenza raddolcire gli ultimi giorni del vostro vecchio amico.

Ho pianto d’emozione. Mio marito non potè che stringere silenziosamente la mano del nostro benefattore.

Eccoci dunque insediati in questa bella vecchia casa. Dalla mia stanza, scorgo le torri della cattedrale: la vista è magnifica. Il mio compito di padrona di casa mi assorbe molto. Mister Hawkins ha associato mio marito a’ suoi lavori e si scarica su di lui della maggior parte de’ suoi affari.

Come sta la tua cara mamma? Vorrei venire da te per un paio di giorni, ma non oso in questi momenti tanto più che Jonathan abbisogna ancora delle mie cure. Comincia a riprendere le forze ma è ancora molto nervoso.

Ho parlato abbastanza di noi. Quando ti sposi, mia cara, e dove?

Jonathan t’invia il suo migliore ricordo ed io t’abbraccio di tutto cuore.

Mister Patrick Hennesey, medico, a Mister John Seward.

20 settembre.

Signore, secondo l’accordo preso, vi invio le osservazioni concernenti i malati dei quali m’avete affidato il compito.

Il nominato Renfield ebbe una nuova crisi che avrebbe potuto avere spiacevoli risultati.

Nel pomeriggio d’oggi, una carretta guidata da due uomini, passò davanti la casa, diretta al maniero vicino. Gli uomini si fermarono davanti alla nostra porta per informarsi sulla strada che dovevano fare, poichè non conoscevano il paese. Stavo appunto con i gomiti appoggiati al davanzale fumando una sigaretta; Renfield anche lui li vide dalla sua cella poichè li caricò d’ingiurie grossolane. Feci segno agli uomini di non tenerne conto.

— Ah! bene bene – esclamò uno di essi; – non mi piacerebbe proprio vivere in una casa di pazzi!

L’altro mi chiese cortesemente la strada ed io ne l’informai mentre il pazzo non cessava d’ingiuriarli.

Andai a vedere Renfield per placarlo ma egli mi accolse con una calma imperturbabile e quando gli parlai dell’incidente finse di non capire. Una mezz’ora dopo, saltava dalla finestra, fuggendo lungo il viale. Mi slanciai con due guardiani e lo potemmo raggiungere davanti alla porta del contiguo possedimento. I carrettieri avevano finito di scaricare delle casse pesanti e s’asciugavano la fronte madida di sudore. Renfield si buttò addosso a uno di quegli uomini, massacrandolo di pugni; siamo riusciti in tre a padroneggiarlo.

— Sventerò i loro piani – urlava il pazzo; – non sarò defraudato in tal modo! Non voglio morire a fuoco lento! Combatterò per il mio Signore e Padrone!

I carrettieri malcontenti ci minacciarono ma due bicchierini d’acquavite e un marengo vinsero la loro indignazione. Rilevai il loro nome, che ci può servire: Jack Smollet e Tommaso Snelling. Lavorano per conto di Harris e Figlio, Compagnia marittima di Soho Londra.

Vi terrò al corrente se si produrranno altri incidenti.

Vostro Patrick Hennessey.

Mina Harker a Lucy Westenra.

18 settembre.

Mia cara Lucy, devo annunziarti una notizia tristissima: Mister Hawkins è morto all’improvviso. Molta gente stimerà che non siam troppo da compiangere: ma non per questo siamo meno afflitti: amavamo il caro uomo come un padre.

Jonathan è assai demoralizzato; il senso della sua responsabilità l’opprime sempre più; dubita di sè stesso. Temo che risenta per lungo tempo questa scossa nervosa.

La settimana prossima andrò a Londra per i funerali. Jonathan regolerà il servizio funebre; dopo, cercherò di scappar via un momento per venire ad abbracciarti.

La tua amica Mina.

Giornale del Dottor Seward.

20 settembre.

Lucy si rimetterà anche stavolta; ma l’ha sfuggita bella! Van Helsing, Arturo ed io la vegliamo volta a volta. Stanotte veglierò io. Prima di adagiarmi, ho guardato dalla finestra: il giardino è inondato dalla luna: un grosso pipistrello s’avvicina di quando in quando alla casa, attirato certo dalla luce. Lucy quando dorme scarta i fiori dal collo ma quando si sveglia li stringe invece contro di sè.

21 settembre.

Alle sei del mattino Van Helsing è venuto a sostituirmi. Gettò un grido.

— Presto, togliete la benda – ordinò.

Scoperse il collo della giovinetta.

— Ah! Dio mio! – gridò.

I due punti rossi erano scomparsi.

— Sta per morire – disse con gravità il maestro – chiamate il suo fidanzato.

Corsi a cercare Arturo che dormiva nella sala da pranzo e lo preparai con precauzione.

Il povero ragazzo mi ha fatto pena.

Vedendolo entrare nella stanza, Lucy ha mormorato:

— Arturo, amor mio, sono felice di vedervi.

Si curvò per baciarla ma Van Helsing l’ha respinto:

— Non ancora, prendetele soltanto la mano.

Arturo s’inginocchiò davanti al letto. Lucy chiuse gli occhi e s’assopì. Il suo respiro placido dapprima si fece ansante. Le sue labbra si socchiusero, scoprendo le gengive pallide; i canini mi parvero più lunghi. Aperse gli occhi e lo sguardo era fisso e duro. Con voce rauca che non le conoscevo, mormorò:

— Arturo, baciatemi.

Arturo si chinò, ma Van Helsing si gettò bruscamente su di lui e, scostandolo dal letto, lo spinse verso la porta con una energia di cui non l’avrei creduto capace.

— Perdio, non la toccate! Andatevene!

Arturo rimase come inebetito. Non toglievo gli occhi dalla giovinetta, un’espressione di rabbia contrasse il suo viso. Poi chiuse gli occhi; quando li riaperse, tese la mano a Van Helsing.

— Amico mio, mio solo amico – disse – vegliate bene su di lui.

— Ve lo prometto – egli rispose. – Venite, ragazzo mio – disse ad Arturo – potete baciarla sulla fronte.

Pochi secondi dopo, Lucy rantolava. Poi avvenne un gran silenzio.

— Tutto è finito – disse Van Helsing – ella non è più!

Presi Arturo fra le braccia e lo trascinai nella stanza vicina; egli si coperse il viso con le mani e singhiozzò. Mi allontanai discretamente.

Van Helsing era curvo sul corpo della giovinetta.

— Povera ragazza! – ho detto io – ha finalmente trovato il riposo.

Egli ha replicato con accento solenne:

— Ahimè, no! non è che il principio.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

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CAPITOLO XII.

Il giornale del Dottor Seward.

(Continuazione.)

La sepoltura avverrà domani; madre e figlia verranno inumate insieme. Mi sono occupato delle formalità mortuarie. Non esistono parenti da avvertire. Abbiamo dunque preso conoscenza delle carte di famiglia: e scoperto così un minuscolo taccuino che è il giornale della povera piccina.

— Hum! – ha detto Van Helsing – mi pare inutile di lasciar questo agli uomini d’affari. Quanto alle carte della signora Westenra, Arturo se n’occuperà domani poichè la sepoltura di suo padre ha avuto luogo quest’oggi. Adesso sarebbe tempo che riposassimo.

Prima di separarci, siamo entrati nella stanza mortuaria trasformata in cappella ardente. Vennero messi fiori a profusione. Il Maestro ha sollevato dolcemente il lenzuolo che ricopre il viso; fummo colpiti dalla sua bellezza. Par che dorma; stento a credere che non si sveglierà mai più.

— Aspettatemi – ha detto il Maestro.

È andato a cercare un fascio di fiori d’aglio e li ha disseminati sul corpo e intorno al letto. Poi, staccandosi dal collo un piccolo crocifisso d’oro l’ha posato sulle labbra della morta; poi ha riabbassato il lenzuolo e siamo usciti.

— Domani dovrete portarmi il mio astuccio d’operazione – m’ha detto.

— Perchè? Contate di fare un’autopsia?

— Sì e no. Staccherò dal tronco la testa e leverò il cuore. E come, impallidite? voi, un chirurgo? Voi, ch’io vidi compiere senza tremare le più gravi operazioni? Già, è vero, l’avete amata. Avrei preferito fare quest’operazione stassera, ma bisogna risparmiare Arturo, che vorrà rivederla. Aspetteremo che sia nella bara e nessuno ne saprà nulla, all’infuori di noi!

— Ma perchè? perchè mutilare questo povero corpo? Quale benefizio pensate di ritrarne? È mostruoso!

Egli mi ha posato una mano sulla spalla:

— Amico, ho pietà della vostra angoscia; ma, credetemi, non agisco senza ragione. Ieri, non dovete aver capito perchè mai impedii ad Arturo di baciare la sua fidanzata morente, e tuttavia – l’avete veduto – ella mi ringraziò pregandomi di vegliare su di lui. Abbiate fede in me. Non agisco che a fin di bene.

Si è ritirato nella sua stanza e stavo per rientrare nella mia quando vidi una delle domestiche entrare nella stanza di Lucy; quella pietà, mi commosse.

Ho dormito profondamente poichè era giorno alto quando Van Helsing è venuto a svegliarmi.

— Non occupatevi del mio astuccio, caro amico – mi ha detto; – non ne ho più bisogno.

— E perchè dunque? – domandai molto meravigliato.

— Perchè – mi rispose con voce grave – è troppo tardi… o troppo presto.

Si tolse di tasca il piccolo crocefisso d’oro.

— Perchè hanno rubato questo crocefisso. Lo ritolsi alla sciagurata che l’aveva carpito alla morta. La sua unica scusa è ch’ella ignorava la gravità del suo atto.

Il notaio di famiglia è giunto stassera. È un bravo uomo, poco scaltro. C’informò che la signora Westenra, sentendo prossima la sua fine, aveva dato ordine ai propri affari. Ad eccezione d’un capitaletto destinato a certi lontani parenti, lasciava tutta la sostanza alla figlia o, in mancanza di lei, ad Arturo Holmwood.

Arturo è giunto alle cinque molto abbattuto. Questi lutti successivi sono per lui una prova ben crudele.

L’ho accompagnato nella stanza di Lucy, trasformata in cappella ardente. Sollevò adagio il lenzuolo.

— Com’è bella! – mormorò; – è mai possibile che sia morta!

— Ahimè!

Condussi via quel disgraziato, poichè stavano per mettere il corpo nella bara.

Stanotte ho condiviso la stanza di Arturo; quanto a Van Helsing non ha voluto coricarsi. Errò per la casa come per sorvegliarla. Entrò più volte nella stanza ove Lucy riposa nel suo feretro ricoperto di tuberose e di fiori d’aglio, il cui profumo si mescola a quello dei gigli.

Giornale di Mina.

22 settembre.

Nel treno che ci riconduce ad Exeter. Jonathan sonnecchia.

La cerimonia religiosa di quel povero mister Hawkins è stata semplicissima; seguivano il convoglio soltanto i domestici, dei vecchi amici di Exeter, il suo corrispondente di Londra e Sir John Paston, presidente della Società di Diritto.

Poi, abbiamo preso l’omnibus che ci ricondusse a Hyde Park ove sedemmo per un momento. Poi siam tornati a Piccadilly; Jonathan mi dava il braccio.

Davanti a Giulano, guardavo una bella donna alta seduta in un calesse fermo, quando Jonathan mi strinse il braccio con violenza, dicendo:

— Ah! mio Dio!

Era diventato orribilmente pallido; seguii la direzione del suo sguardo e vidi che squadrava un uomo alto e magro, dal naso a becco e i baffi neri, che guardava egli pure la bella giovine. Lo sconosciuto aveva un’espressione crudele accentuata dai denti di lupo. Jonathan lo fissava con tanta insistenza che io temevo l’altro se ne accorgesse.

— Vedi quell’uomo? – mi disse con angoscia.

— Chi è? Non lo conosco.

Mi ha risposto con voce misteriosa:

È Lui.

Il povero amico evidentemente era sotto il colpo d’una violenta emozione; se non fossi stato lì a sostenerlo, credo, sarebbe caduto.

L’uomo fe’ cenno ad una vettura; parlamentò col vetturale e s’allontanò nella stessa direzione della donna del calesse.

— Sì, è il conte – riprese Jonathan sottovoce; – ma com’è ringiovanito!

Non osai interrogarlo per non aumentare il suo turbamento.

Dopo aver fatto qualche passo, entrammo in Green Park. Era una bella giornata d’autunno. Sedemmo su di una panca; Jonathan appoggiò la testa sulla mia spalla e s’addormentò. Dopo venti minuti si svegliò:

— Come mai! ho dormito? – esclamò gaiamente. – Vi chiedo scusa della mia poca educazione. Andiamo subito a prendere il thè.

Aveva certo scordato l’incidente di poco prima. Mi piacciono poco queste lacune nella memoria. D’altronde, preferisco non ravvivare ricordi penosi. Ma forse farò bene a prendere conoscenza del suo giornale.

Triste ritorno. La casa è vuota. Jonathan è ancora pallidissimo. Mi portano un telegramma firmato Van Helsing così concepito:

« Avrete senza dubbio avuto il dispiacere di sapere che la signora Westenra è morta or son cinque giorni e che sua figlia Lucy soccombette l’altro ieri. La doppia sepoltura ebbe luogo stamane. »

Che dispiacere enorme! Compiango sinceramente il povero Arturo…

Giornale del Dottor Seward.

28 settembre.

Tutto è finito. Arturo è ripartito per Ring. Si porta seco Quincy Morris. Il povero ragazzo non era meno addolorato di noi. Van Helsing riposa. Stassera parte alla volta di Amsterdam ma tornerà stanotte. Deve regolare a Londra certi affari, così disse.

Nella vettura che ci riconduceva, Van Helsing ed io, a Londra dal cimitero di Hampstead, il mio vecchio amico ebbe una crisi di nervi; si mise a ridere, a ridere fino alle lagrime.

Abbassai le tendine per non attirare i commenti della gente malevola.

— Che avete mai? – gli chiesi quando si fu alquanto calmato.

Egli si fece grave e mi disse:

— C’è un’ironia tale in tutto questo! quale triste commedia! Quei pastori in cotta bianca che biascicano delle preghiere pensando a tutt’altro!

— Ma, insomma, non capisco che ci sia di buffo. La cerimonia potè parervi tale, a rigore di termini lo posso ammettere; ma il dolore del povero Arturo è davvero straziante.

— Scusate la mia nervosità, amico mio – egli aggiunse. – Se poteste leggere nel fondo dell’animo mio, vedreste che quando rido sono ancor più da compiangere.

— Perchè? – gli chiesi, turbato da quella repentina gravità.

— Perchè io… io so.

La “Westminster Gazette„ del 25 settembre.

Il mistero di Hampstead.

Scene misteriose si svolgono nei dintorni di Hampstead. In questi ultimi tre giorni parecchi ragazzi sono scomparsi per un’intera serata. Questi bambini, piccolissimi, non hanno saputo spiegare l’impiego del loro tempo, ma tutti raccontarono d’essere stati trascinati da una « signora bianca ». Due di essi non furono ritrovati che al mattino. Si suppone che il primo ragazzo smarrito abbia inventato questa storia per non essere sgridato; e che gli altri non abbiano fatto che imitarlo. Adesso tutti i monelli di Hampstead si danno al giuoco emozionante della « Dama bianca ».

C’è però un fatto singolare; i fanciulli di cui fu constatata l’assenza portano sul collo una leggera ferita simile al morso d’un topo o d’un cagnolino. Sarà bene vegliar sui bambini e impedire che siano accostati dai cani randagi.

La “Westminster Gazette„ del 25 settembre.

Edizione speciale
Il mistero di Hampstead. La Dama bianca.

Stamane, sul colle di Sheeter Hill si ritrovò un fanciullo di cui i parenti facevano ricerche fin dalla vigilia. Portava sul collo una piccola ferita; ed era in uno stato d’esaurimento gravissimo. Gli fecero bere uno stimolante ed egli pure sostiene d’essere stato trascinato dalla Dama Bianca.

Il Giornale di Mina.

23 settembre.

Jonathan sta un po’ meglio, dopo una notte cattiva. Sono contenta che abbia molto lavoro; mentre lavora non pensa ad altro. Oggi starà assente tutto il giorno per appuntamenti d’ affari. La casa è in ordine; potrò dunque leggere il suo antico giornale.

24 settembre.

Ieri non ebbi il coraggio di continuare nel mio giornale. La lettura di quello di Jonathan m’aveva completamente demoralizzato. Povero amico! Come dovette soffrire! Mi chiedo quale sia la parte dell’immaginazione in tutto questo. Ha realmente vissuto quelle ore atroci?… Eppure, l’incontro di ieri… C’è di che essere veramente turbati. Ricopierò a macchina questo manoscritto nel caso fosse utile produrlo.

Lettera di Van Helsing alla signora Harker.

Personale.

25 settembre.

Cara signora, scusate la mia indiscrezione. So, per aver consultato le carte di Miss Lucy, che voi eravate la sua migliore amica, il che m’autorizza a sollecitare il vostro aiuto. Si tratta di rischiarare certi fatti rimasti oscuri e di castigare dei grandi delinquenti. Quando posso vedervi? Potete aver fiducia in me. Sono l’amico del Dottor Seward e di Lord Arturo Godalming, il fidanzato di miss Lucy. La nostra intervista deve rimanere segreta. Verrò a vedervi non appena me ne avrete dato licenza. Dalle vostre lettere indirizzate alla povera Lucy, so quanto siete buona e quanto sofferse vostro marito.

Credetemi, signora, vostro devotissimo

Van Helsing.

Telegramma: La signora Harker a Van Helsing.

25 settembre.

Prendete se possibile treno due e un quarto. Vi aspetto.

Guglielmina Harker.

Giornale di Mina.

25 settembre.

Attendo con impazienza l’arrivo del dottor Van Helsing. Forse può gettar qualche luce sul triste passato del mio povero marito. Mi parlerà degli ultimi momenti della mia povera Lucy. Mio malgrado sono alquanto nervosa; è la prima volta che Jonathan mi lascia per ventiquattr’ore. Purchè non gli capiti nulla! Sono le due del pomeriggio. Il dottore non può tardare. Ho ricopiato il mio proprio giornale e lo farò leggere al dottore se desidera informazioni sull’esordio della malattia di Lucy.

Un po’ più tardi.

È venuto ed è partito. Che strana conversazione! La testa mi gira: ho l’impressione di sognare. È possibile tutto questo? Se già non avessi letto il giornale di mio marito, avrei trattato da pazzo quel dottore. Sarà un conforto per Jonathan, sapere che i suoi occhi e le sue orecchie non lo hanno ingannato e che ha vissuto davvero quelle ore terribili. Egli teme sovente d’essere pazzo; ecco una cosa che lo rassicurerà.

Ho affidato il suo giornale al dottor Van Helsing; tocca a lui di rischiarare i fatti! Domani tornerà a vedere Jonathan.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

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CAPITOLO XIII.

Giornale del Dottor Seward.

26 settembre.

Ricevo una lettera da Arturo che pare riattaccarsi alla vita. Quincy Morris lo riconforta più che può.

Stamattina Van Helsing entrò come una folata nel mio studio.

— Che dite di questo! – esclamò gettandomi sul tavolo un numero della Westminster Gazette.

Lessi il paragrafo che constata la scomparsa dei ragazzi di Hampstead. La descrizione della loro ferita sul collo mi fece trasalire:

Lucy aveva lo stesso segno! – esclamai.

— Che ne concludete?

— Ch’ebbe la stessa causa!

— E di che cosa credete che essa sia morta?

— D’un esaurimento generale cagionato da una formidabile anemia.

— Ma in qual modo potè avvenire un’anemia simile? Ecco quello che non vi siete chiesto. – E siccome restavo muto, aggiunse:

— Certe cose esistono, benchè sfuggano al vostro intendimento. Voi, immagino, non credete alla reincarnazione, nè alla materializzazione dei corpi? Nè al corpo astrale? Nè alla trasmissione del pensiero? Nè all’ipnotismo?

— Domando scusa, ma credo a quest’ultimo fenomeno, provato da Charcot.

— Ma se credete all’ipnotismo, perchè non credete alla trasmissione del pensiero? Noi siamo circondati dai misteri. Pensate all’elettricità. Nel medioevo, sarebbe costata il rogo a colui che l’avesse scoperta. Nessuno ha risolto il mistero della vita e della morte. Ci sono dei ragni che vivono un giorno soltanto; e altri, dei secoli. Nelle Pampas vi sono certi grossi pipistrelli che succhian di notte il sangue del bestiame. In talune isole dei mari orientali, si vedono fra gli alberi, simili a grosse noci, dei pipistrelli che si animano soltanto di notte. Disgrazia al viaggiatore che s’avventura nei loro paraggi; al mattino, lo si ritrova morto e dissanguato… come miss Lucy.

— Mio Dio, non vorrete raccontarmi che in piena città di Londra e nel XX secolo la povera fanciulla sia stata vittima d’uno di quei vampiri?

Riprese animandosi:

— Potete dirmi perchè certe tartarughe vivono più a lungo delle generazioni d’uomini? Un fachiro indiano ordinò che seminassero del grano sulla sua tomba. Quel grano germogliò e venne falciato: germogliò ancora e lo falciarono nuovamente. Allora, come aveva richiesto, apersero la sua tomba e lo trovarono risuscitato. Si alzò e ricominciò a vivere.

— E che cosa volete dedurne? – chiesi interdetto.

— Credete, nevvero, che la piccola ferita dei fanciulli d’Hampstead abbia la stessa causa di quella di miss Lucy?

— Lo presumo.

— Errore! È assai più grave.

— Spiegatevi.

— Quei fanciulli – disse con aria d’inesprimibile orrore – furono morsicati da miss Lucy.

Per alcuni momenti la collera mi paralizzò. Veniva insultato il mio caro ricordo. Battei il pugno sul tavolo.

— Siete pazzo, Van Helsing!

Mi guardò compassionevolmente.

— Vorrei esserlo – rispose. – La follia sarebbe preferibile alla certezza che m’opprime. Ah! amico mio, non dubitate della mia amicizia. So d’essere crudele parlando così. La vostra pietà, la vostra ragione non possono accettare questa mostruosità. E tuttavia stasera stessa posso darvi la prova di quel che enuncio. Mi accompagnerete?

Mi vide trasalire e aggiunse:

— Non chiedo che di sbagliarmi. Andremo in primo luogo all’ospedale a vedere il bambino ferito. Il dottor Vincenzo che lo cura è uno de’ miei amici. Poi…

Si tolse di tasca una chiave:

— Passeremo la notte nel cimitero ove Lucy riposa; ecco la chiave della tomba.

Il mio cuore rallentò i suoi battiti; ma fu con voce ferma che dissi:

— Sta bene. Vi seguirò.

Abbiamo trovato sveglio il bambino: il dottor Vincenzo sollevò la piccola fasciatura per mostrarci la gola. Era la stessa ferita osservata sul collo di Lucy.

— A che cosa l’attribuite? – chiese Van Helsing.

— A una morsicatura di topo, forse; a meno che non sia uno dei pipistrelli tanto diffusi sulle colline al nord di Londra.

Van Helsing scosse la testa.

— Tenetelo in attenta osservazione, finchè sia interamente guarito – disse al Dottore.

Cadeva la notte mentre uscivamo dall’ospedale.

— È inutile affrettarci – disse Van Helsing; – abbiamo tutto il tempo.

Desinammo in una piccola osteria suburbana e verso le dieci ci avviammo.

I fanali distanziati rischiaravano appena gli scarsi viandanti sulla strada. Finalmente si arrivò al muro del cimitero. Gli demmo la scalata, non senza fatica, poichè era buio e scorgemmo l’avello dei Westenra. Il dottore introduce la chiave nella serratura e mi prega cortesemente di passare per primo; avrei fatto a meno di quella cortesia. Dopo aver accuratamente rinchiuso il cancello, si cava di tasca una candela e l’accende. Questa tomba che, fiorita, m’era già di pieno giorno parsa lugubre, sprigiona stasera, con i suoi fiori avvizziti, le sue ragnatele e i suoi cancelli arrugginiti, una tristezza opprimente.

Il mio compagno estrae di tasca un cacciavite.

— Che state per fare?

— Aprire il feretro, poichè è il solo mezzo di convincerci.

Toglie le viti ad una ad una, solleva il coperchio e lascia vedere la cassa di piombo.

Voglio impedire quella profanazione.

— Lasciatemi fare – ripete.

Con l’aiuto d’una piccola lima ha fatto un buco nel coperchio. Indietreggio alquanto, temendo lo spandersi dei gas della putrefazione.

Il maestro pratica un’apertura di alcuni centimetri, avvicina la candela e mi fa segno di guardare: la bara è vuota.

— Siete convinto adesso? – mi chiede.

— Il corpo di Lucy è scomparso: che cosa prova? Si potè sottrarlo. C’è della gente che dissotterra i cadaveri.

— Incredulo! – dice Van Helsing sospirando – vi si farà toccar col dito la verità.

Rimette a posto il coperchio, prende i suoi arnesi e spegne la candela.

— Serbate la chiave – mi dice.

— No, grazie: che ne farei?

Egli non insiste e mi dice di far la guardia ad una delle porte del cimitero, mentr’egli sorveglierà l’altra. M’apposto a’ piè d’un salice piangente ed egli s’allontana. L’aspettativa è lunga. Odo suonare mezzanotte, poi la una, poi le due. Rabbrividisco di freddo e mando il mio compagno a tutti i diavoli. A un tratto credo di vedere un’ombra bianca scivolare fra due cipressi verso la tomba di Lucy. Una figura d’uomo la segue: Van Helsing certo. Accorro verso di lui. In quel punto, il gallo canta.

Van Helsing tiene fra le braccia un bimbo.

— Dubitate ancora?

— Sì – faccio io, aggressivo.

— Usciamo dal cimitero – dice bruscamente.

Lo seguo sulla strada; egli sfrega un cerino e non ci curviamo verso il bimbo. Il suo piccolo collo non porta la minima graffiatura.

— Vedete bene! – io obietto trionfalmente.

— Nient’altro se non che siamo arrivati a tempo – dice Van Helsing con calma.

Che fare di questo fanciullo? Impossibile portarlo dal commissario: avremmo dovuto spiegare la nostra presenza nel cimitero.

Dopo aver riflettuto abbiamo deciso di lasciarlo sulla piazza di Hampstead, ove fatalmente deve venire scoperto. Le nostre previsioni si avverano. Udendo venire un policeman, abbiamo deposto il bimbo sull’orlo del marciapiede; ci siamo allontanati vivamente mentre vedevamo l’uomo abbassare la sua lanterna emettendo un’esclamazione di sorpresa. Una vettura ci riconduce a casa.

27 settembre.

Van Helsing è venuto a prendermi alle due del pomeriggio per condurmi al cimitero. Vuol convincermi interamente. Dovemmo nasconderci dietro una tomba perchè c’era una sepoltura. Finalmente siamo soli. Per la prima volta, io penso al delitto legale da noi commesso violando questa sepoltura. E non è inutile dal momento che Lucy non è più nella bara?

Eccoci ancora nella tomba. È meno lugubre che di notte; il sole vi entra. Van Helsing ha sollevato il coperchio del feretro. M’avvicino. Orrore! È lì! è proprio lì! quale la vidi la notte della sua morte, più bella ancora se è possibile. Nessuna alterazione sul viso. La carnagione è fresca, le guancie sono rosee e le labbra rosse attestano la vita!

— Vedete bene! – dice Van Helsing.

Insinua la mano e scopre i denti.

— Sono più aguzzi di prima – dice: – ed ecco i due canini che morsicano, sul collo, i bambini.

Ho respinto quell’idea mostruosa!

— E come spiegate voi che il corpo non si decomponga? – egli mi ha chiesto.

Stavolta non ho saputo che rispondere.

— Il caso di Lucy – mi ha spiegato – è particolare. Era in un stato di sonnambulismo quando un vampiro la succhiò. Era nello stesso stato quando morì. È per ciò che, durante questo sonno diurno essa conserva l’espressione di dolcezza angelica che la rendeva così attraente, mentre gli altri vampiri… Avrò il coraggio di ucciderla?

Il sangue mi si è gelato nelle vene. Eppure, se veramente è morta, che cosa può importarmene? Van Helsing, che ha veduto il mio turbamento, mi dice quasi allegramente:

— Finalmente, intravedete la verità?

— Come farete? – gli ho chiesto rabbrividendo.

— Le taglierò la testa; riempirò la sua bocca di fiori d’aglio e le toglierò il cuore.

No, no, non mutilerà questa donna che ho amato; questa morta-viva! Non sarò complice d’una profanazione simile! Van Helsing dev’essere pazzo. Ci dev’essere una spiegazione logica, certo, per tutti questi fatti così strani!

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

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CAPITOLO XIV.

Giornale del Dottor Seward.

28 settembre.

Van Helsing sta formando il piano d’una nuova spedizione al cimitero, ma ci tiene a che Arturo e Quincy Morris ci accompagnino. Ha telegrafato loro. Ambedue hanno risposto alla sua chiamata e ci fu una lunga spiegazione alla quale assistetti. Il povero Arturo è dolorosamente impressionato; la sola cosa che ancora lo sostiene è che, al par di me, dubita ancora.

A mezzanotte meno un quarto abbiamo dato la scalata al muro del cimitero. La notte era cupa. Van Helsing ci dirigeva. Nella tomba ha acceso una lanterna e, volgendosi verso di me:

— Volete attestare, amico mio, che il corpo di Lucy si trovava ieri nel suo feretro?

— Certo – risposi.

— Avvicinatevi, Arturo – disse Van Helsing.

Il povero ragazzo rabbrividiva ed era pallidissimo.

— Guardate – disse Van Helsing sollevando il coperchio.

Arturo potè constatare che il feretro era vuoto.

— Adesso – disse Van Helsing – usciamo e stiamo in appostamento presso la tomba.

L’aria della notte ci parve divina, a confronto con l’aria soffocante dell’avello. Van Helsing rinchiuse la porta e la inghirlandò con fiori d’aglio.

— Perchè questa precauzione? – chiesi.

— Perch’ella non rientri a nostra insaputa.

Non insistemmo, impressionati dalla serietà del professore; ed occupammo in silenzio il posto assegnato ad ognuno di noi.

L’aspettativa ci pare interminabile in quel silenzio angoscioso.

— Attenzione! – mormorò a un tratto Van Helsing.

Una forma bianca si avanzava lungo il viale dei cipressi. Pareva si stringesse contro un oggetto. Man mano si avanzava, vedemmo ch’era un bambino. La bianca apparizione si fermò ad alcuni metri da noi e si curvò sul bambino che emise un lieve grido. Stavo per slanciarmi quando Van Helsing mi trattenne.

La forma bianca si diresse alla nostra volta e sotto la luna bruscamente sorta riconobbi con spavento il viso di Lucy Westenra, ma quanto cambiato!… La dolcezza e la purità erano scomparse per far posto ad una fisonomia atroce, di una crudeltà ferina.

Van Helsing ci fece segno d’allinearci davanti il cancello della tomba. Alzò la sua lanterna che rischiarò la parte inferiore del viso di Lucy: le labbra e il mento erano rosse di sangue. Rabbrividimmo con orrore.

Quando Lucy – la chiamo con tal nome non sapendo quale altro applicarne a quel fantasma spaventoso e orribile – ci vide, fece un salto all’indietro lanciando un grido di rabbia. I suoi occhi brillarono d’uno splendore lugubre; e rigettò brutalmente il bambino. In quel momento, tutto il mio amore si cangiò in odio; avrei soppresso senza esitare quella creatura malefica, come una bestia pericolosa.

Ella si avanzò verso Lord Godalming con un sorriso incantevole:

— Venite Arturo, la vostra fidanzata vi tende le braccia.

Arturo, affascinato, fece un passo verso di lei, ma Van Helsing sorse fra loro.

Lucy indietreggiò e la sua espressione si fece odiosa. S’avventò alla porta della tomba e si fermò impietrita, livida: i suoi occhi gettarono scintille, i suoi capelli si rizzarono, torcendosi: si sarebbe detto una testa di medusa.

— Devo proseguire la mia opera? – chiese Van Helsing ad Arturo.

— Fate ciò che credete di dover fare – rispose costui – nessun orrore sorpasserà un orrore simile.

Pronunziando a fatica queste parole, mi svenne fra le braccia.

Mentre m’occupavo a rianimarlo, Van Helsing sbarazzava il cancello dai fiori; e, con ugual sorpresa, vedemmo la forma di Lucy scivolare fra due sbarre.

— Andiamocene adesso, amici miei – disse il maestro; non possiamo agire prima di domani. C’è una sepoltura verso mezzogiorno; verremo dunque verso le due. Quanto a questo povero bimbo che per fortuna non è gravemente colpito, lo deporremo sulla piazza d’Hampstead, ove di certo lo raccoglieranno.

29 settembre.

Alla una e mezza eravamo tutti fedeli all’appuntamento; i becchini se n’andavano. Non c’era nulla da temere per noi. Van Helsing aveva portato un lungo sacco di cuoio.

Nella tomba, il maestro accese la sua lanterna e due candele che pose da ogni lato della bara. Dopo alcuni minuti d’un lavoro silenzioso, il corpo apparve in tutta la sua bellezza. Ma ogni pietà era morta nel mio cuore e non risentivo più che repulsione per quella Cosa che aveva l’apparenza di Lucy e non la sua anima.

Arturo provava senza dubbio lo stesso sentimento poichè disse:

— È davvero colei che ho amato oppure un demone?

— Non è che il suo involucro carnale – disse Van Helsing.

Tolse dal sacco dei pallini, una piccola macchinetta a spirito che, accesa in un angolo dell’avello, lanciò una grande fiamma turchina, poi i suoi strumenti operatorî e, finalmente, un piuolo di legno grosso tre pollici e lungo tre spanne. Ne presentò la punta alla fiamma. E disse:

— Attingo alla scienza ed agli usi degli antichi, che avevano studiato a fondo tutto ciò che concerne i vampiri.

E spiegò:

— I vampiri, per la loro maledizione, sono immortali; e le loro vittime si moltiplicano d’età in età, poichè tutti coloro ch’essi hanno fatto morire diventano vampiri a loro volta. Così la cerchia s’allarga smisuratamente, come quei circoli che si formano alla superficie dell’acqua se vi si getta una pietra… Uno di noi deve avere il coraggio di sopprimere in lei l’elemento vitale che ancora le resta: poichè dopo ella dormirà del sonno del giusto e la coscienza di noi tutti ne sarà alleggerita.

I nostri sguardi si fissarono su Arturo ch’era il più indicato.

— Che bisogna fare? – diss’egli con voce tremante.

Van Helsing gli pose una mano sulla spalla.

— Coraggio! sto per chiedervi una cosa orrenda. Ma mi ringrazierete. Prendete questo piuolo, appoggiatelo sul petto, e, con l’aiuto d’un martello, immergetelo fino al cuore. Nel frattempo, noi pregheremo per il riposo dell’anima.

Arturo obbedì eroicamente.

La Cosa si contorse al primo urto. Il viso si contrasse, una schiuma rossa venne alle labbra e i denti scricchiolarono. Arturo, come un Dio vendicatore, batteva, batteva, spietatamente, e il sangue scaturiva. Ma, di botto, le convulsioni cessarono, il viso si spianò in un’espressione di beatitudine ed il maglio sfuggì dalle mani d’Arturo che svenne. Ci affrettammo a rianimarlo. Finalmente, riaperse gli occhi e posò lo sguardo sulla bara. Il suo viso si rischiarò. La morta aveva ripreso l’espressione serena e di pura dolcezza che noi amavamo tanto in Lucy. Ella non viveva veramente più, stavolta; entrava finalmente nel gran silenzio dell’eternità.

— Mi perdonate, ragazzo mio? – disse Van Helsing stringendo la mano d’Arturo.

— Vi devo la salvezza d’un essere adorato – disse il nostro amico asciugandosi le lagrime. – Siate benedetto!

Arturo e Quincy ci precedettero sulla strada mentre io aiutavo il Maestro a segare il piuolo perchè la punta ne rimanesse conficcata nel cuore. Poi staccammo la testa dal tronco e Van Helsing riempì la bocca di fiori d’aglio.

Quindi, rinchiudemmo la tomba e andammo a raggiungere gli amici. Il sole brillava, gli uccelli cantavano. Nell’uscire da quell’incubo, avevamo l’impressione di risuscitare.

— Amici miei – disse Van Helsing – non siamo alla fine del nostro compito. Dobbiamo scoprire l’autore di tutti i nostri mali e castigarlo senza pietà. Ho qualche indizio, ma il lavoro sarà lungo e difficile, pericoloso anche. M’aiuterete fino all’ultimo?

Gliel’abbiamo giurato.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

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CAPITOLO XV.

Giornale del Dottor Seward.

(Continuazione.)

28 settembre.

Van Helsing mi pregò di accompagnarlo all’albergo. Aveva diverse istruzioni da lasciarmi prima di partire per Amsterdam.

L’aspettava un dispaccio:

« Arrivo col primo treno. Jonathan è a Whitby. Notizie importanti.
Mina Harker.

Il maestro parve incantato.

— Questa donnina è stupefacente – disse. – Per disgrazia, io parto quand’ella arriva. La riceverete voi, amico mio. Andate ad aspettarla alla stazione.

Prima di bere una tazza di thè, mi affidò il giornale di Jonathan Harker, e quello di sua moglie.

— Studiate questo – mi disse – e ne saprete quanto me. E serbate questi giornali; possono esserci utili.

Andai alla stazione ad aspettare la signora Harker.

Una giovine donna sottile e slanciata mi parve corrispondesse ai connotati descrittimi.

— La signora Harker? – ho chiesto.

Ebbe l’aria sorpresa e io le spiegai perchè avevo sostituito il mio amico.

Aveva per tutto bagaglio una borsetta a mano e una macchina da scrivere di cui m’incaricai io. Avevo avvisato telefonicamente la mia donna di servizio di preparare un appartamento per lei nel padiglione dell’asilo.

La vidi trasalire nel varcar la soglia.

— Non abbia paura dei miei clienti – dissi: – sono accuratamente custoditi.

Ella allora mi chiese qualche particolare sulla morte di Lucy. Poichè conosce già l’esistenza del Vampiro, le ho dato il mio giornale.

Più tardi.

Quando la signora Harker ritornò, aveva gli occhi rossi come se avesse pianto.

— Vi ho fatto pena? – le chiesi dolcemente.

— No, ma il vostro dolore sincero mi ha commosso; sento che amavate tanto la mia povera piccola Lucy; credevo di udirvi parlare. Il vostro giornale mi ha detto assai più cose che non crediate; rischiara alquanto questo cupo mistero. Indovino, senza saperlo, in qual modo la nostra povera amica, ci è stata tolta. Jonathan mi aiuta a scoprire la verità. È andato a Whitby per raccogliere alcune informazioni. Non abbiamo dunque segreti fra noi, dottore, poichè lavoriamo per la stessa causa!

E mi lanciò uno sguardo supplichevole e deciso insieme.

— Sia come volete – risposi. – Ma prima venite a pranzo. Poi, saprete il resto.

29 settembre.

Mister Harker è arrivato alle nove. È un ragazzo intelligente; e, a giudicarne dal suo giornale, un cervello solido.

Ha potuto riscontrare a Whitby la destinazione delle cinquanta casse spedite da Varna e sbarcate a Whitby dal vascello fantasma. S’è anzi procurato il nome dei conducenti i carri. Che cosa decideranno?

Ma eccolo…

Ah via! è abbastanza inaspettato! A quanto pare, il Conte abita il maniero vicino. La condotta di Renfield avrebbe tuttavia dovuto illuminarmi. Harker ha aggiunto all’incartamento le lettere attestanti la compera del possedimento.

Se l’avessimo saputo più presto, avremmo forse salvato la povera Lucy.

Sono andato a visitare Renfield. Era seduto accanto alla finestra e mi sorrise. Sedetti accanto a lui: egli sfiorò parecchi soggetti con lucidità perfetta. Per la prima volta tuttavia dacchè è qui, espresse il desiderio di tornare a casa sua. E siccome parevo sorpreso, mi chiese alquanto bruscamente di accordargli il suo permesso d’uscita.

Ecco una cosa losca. Le sue crisi, così come le vedo, corrispondevano alla presenza del Conte nel castello. Che nasconde sotto la sua calma?

Potei eludere la sua domanda, ma temo la sua vendetta e raccomandai al guardiano di raddoppiar la sorveglianza e mettergli, al caso, la camicia di forza.

più tardi.

Lord Godalming e Quincy Morris sono arrivati prima di quel che pensassimo. Il povero Arturo pareva così triste che mistress Harker, commossa, gli prese la mano dicendo:

— So quel che Lucy era per voi; l’amavo come una sorella; vogliate, in ricordo di lei, accettare la mia amicizia.

Egli ne parve tocco e la ringraziò con effusione.

— Son giorni e notti – disse – che non oso gridare il mio dolore per tema di parer vile; ma non provo nessuna vergogna davanti alla vostra simpatia di donna. Lasciatemi offrirvi in cambio, signora, tutta la mia devozione.

Un colpettino di tosse ci ricordò la presenza di Quincy Morris.

— Ed io? – disse. – Che cosa faccio in tutto questo? Diventerò geloso. Non volete che sia anch’io vostro amico, signora Harker?

— Ma sì, di certo!

Ci intendiamo benissimo tutti quanti.

30 settembre.

Godalming e Morris hanno già preso conoscenza di tutte le carte concernenti l’affare. La graziosa signora Harker ci servì il thè. E, per la prima volta, la mia vecchia casa ha l’aria di un « home ».

— Dottor Seward – m’ha chiesto la signora Harker – m’accordereste un favore? Vorrei vedere il vostro malato, Renfield. Quel che dite di lui nel vostro giornale m’interessa vivamente.

Non ho osato rifiutarglielo e l’ho condotta meco, precedendola nella cella di Renfield al quale annunciai una visitatrice.

— Perchè? – mi chiese.

— Perchè desidera vedere tutti i miei clienti.

— Sta bene. Fatela entrare. Ma aspettate un minuto che io faccia un po’ d’ordine.

Si accontentò di inghiottire le mosche e i ragni rinchiusi in una scatola; e non appena finita questa disgustosa operazione, disse allegramente.

— Entri pure!

Sedette sull’orlo del letto, a testa bassa, ma alzò gli occhi per vedere la visitatrice. Per un istante temetti non avesse intenzioni omicide e mi collocai ad alcuni passi da lui.

La signora Harker entrò nella stanza con graziosa disinvoltura. È un atteggiamento che in generale impone il rispetto ai pazzi. La calma li impressiona. Ella s’avanzò verso di lui con la mano tesa.

— Buongiorno, signor Renfield. Il dottor Seward mi ha parlato di voi.

Il pazzo non rispose subito, ma la squadrò intensamente.

— Voi non siete la fanciulla che il dottore voleva sposare – disse finalmente; – no, è impossibile, poiché quella è morta.

— Infatti – rispose la signora Harker sorridendo. – Ero sposata prima di conoscere il dottore e mi chiamo Harker.

— Che cosa fate qui, allora?

— Mio marito ed io siamo in visita dal dottor Seward.

— Ebbene, non fermatevi!

— Perchè?

Io pensai che quel genere di conversazione poteva impressionare Mistress Harker; e per tagliar corto chiesi al pazzo:

— In qual modo sapete che io avevo pensato di sposarmi?

— Che domanda stupida! – diss’egli lanciandomi uno sguardo breve.

— Ma perchè? – interrogò Mistress Harker prendendo le mie parti.

Egli le rispose con una cortesia contrastante col fare brusco usato con me:

— Capirete bene, signora, che quando un dottore è amato come lo è il dottor Seward, tutto quello che lo riguarda interessa la nostra piccola colonia. Ora, il signor Seward è amato non soltanto da’ suoi amici ma anche da’ suoi malati, alcuni dei quali non avendo completamente il loro equilibrio mentale, sono inclini a snaturare le cause e gli effetti. Ho già abitato una casa da pazzi ed osservato che le idee sofistiche di taluni de’ suoi abitanti tendevano a certi errori di non causa et ignoratio elenchi.

Spalancai gli occhi a quella tesi. E che! il più pazzo fra i miei malati discorreva di filosofia elementare a guisa d’un gentleman? La presenza della signora Harker faceva vibrare in lui qualche corda dimenticata? Parlammo ancora per qualche momento. Siccome pareva proprio ragionevole, la signora Harker s’arrischiò, dopo avermi consultato con lo sguardo, a intavolare il suo soggetto favorito.

— Vedete, signora – diss’egli con lucidità stupefacente – sono stato io pure in preda ad una strana fissazione e non è da meravigliarsi che i miei amici abbiano preferito farmi sorvegliare. Ero persuaso che mi fosse possibile prolungare indefinitamente la mia vita assorbendo una quantità senza tregua rinnovata di vite animali. L’ho creduto tanto, anzi, che fui tentato di prendermi una vita umana. Il dottore può testimoniare che ho cercato d’ucciderlo, allo scopo di rinforzare il mio poter vitale con l’assorbimento del suo sangue, secondo quella frase della Scrittura che dice: « Il Sangue è la Vita ». Dei ciarlatani, con il loro elisir, hanno ribassato questa evidente verità. Non è così, dottore?

Lo ascoltavo stupito, non sapendo che pensare di quell’uomo che, cinque minuti prima, davanti a me, aveva inghiottito mosche e ragni.

Consultai l’orologio e vidi ch’era l’ora d’andare alla stazione incontro a Van Helsing. Ne avvertii la signora Harker che mi seguì fuor della stanza dopo avere amabilmente detto a Renfield:

— Arrivederci, signore, spero d’avere il piacere di incontrarvi ancora sotto auspici più favorevoli.

Con mia grande sorpresa, rispose:

— Addio, mia cara, il cielo mi preservi di mai più rivedere il vostro amabile viso. Che Dio vi protegga!

Van Helsing mi strinse la mano con l’aspetto della gioia più viva:

— Tutto va bene? Tanto meglio. I miei affari sono in ordine e posso fermarmi qualche tempo con voi. La signora Mina è qui? Sì? E anche suo marito e gli altri amici? Benone. Lo informai che la casa comperata dal Conte era appunto il possedimento di Carfax accosto al mio.

— Che disgrazia! – esclamò. – Avremmo potuto salvare la povera Lucy! Ma non pensiamoci più, ormai; pensiamo all’avvenire!

più tardi.

Due ore dopo colazione, eravamo radunati tutti nel mio studio, in circolo intorno al tavolo.

— Miei cari amici – disse il Maestro – credo sia bene spiegarvi con quale sorta di nemico abbiamo da trattare.

« I vampiri esistono. Ne abbiamo la prova. Senza parlare del disgraziato esempio di questi ultimi tempi, li troviamo ad evidenza nel passato. Non abbiamo potuto salvare la nostra povera amica, ma possiamo prevenire altre disgrazie.

« Il nosferatu non muore del proprio morso, ma ne vive, e vi acquista una forza nuova. Il Vampiro che noi combattiamo ha la forza di venti uomini insieme. Si aiuta con la negromanzia, che significa, secondo l’etimologia della parola, la Scienza dei morti; e tutti i morti che furono avvicinati da lui obbediscono al suo comando. È un vero Dèmone. Può assumere certe apparenze e svaporare come una nube. Come agire per distruggerlo? Dove prenderlo? Il compito è rude, la lotta può essere tragica. Io son vecchio e non importa; ma voi che siete giovani oserete affrontarlo?

— Io rispondo di Mina e di me – disse Jonathan.

— Contate su di me, professore – aggiunse Quincy Morris, con decisione.

— Vi seguirò! – confermò Lord Godalming.

Quanto a me mi contentai di chinare la testa.

— Non bisogna d’altronde nasconderci – riprese Van Helsing – che dal canto nostro abbiamo un certo potere, il potere della scienza. E poi ci appartengono tanto le ore del Giorno quanto quelle della Notte. Or fa un anno, noi tutti quanti siamo ci saremmo ricusati a credere all’esistenza dei vampiri… e oggidì!

« Eppure il Vampiro rivelò la sua esistenza in tutti i luoghi abitati: nell’antica Grecia, nell’antica Roma, nelle Indie, in Francia, in Germania, nella China; e ovunque fu sempre temuto con un flagello. Il Vampiro è immortale; non muore di vecchiaia e si fortifica ogni volta che si nutre di sangue umano. Inoltre, sappiamo che ringiovanisce, se può saziarsi di sangue giovane; che il suo corpo non proietta ombra alcuna e che non si riflette negli specchi; Jonathan potè convincersene; può trasformarsi in nebbia, in lupo, come vedemmo all’arrivo del battello di Whitby, in pipistrello, come fu intravveduto dietro la finestra di Lucy. Corpo fluido, può infiltrarsi come un fumo attraverso spazi piccolissimi, come fece Lucy, prima della sua vera morte, fra le sbarre del sepolcreto; comanda ai topi, ai lupi e ai pipistrelli. Finalmente, vede nel buio al par dei gatti e non è il minore de’ suoi vantaggi!… Tuttavia, malgrado tutte queste facoltà, il Vampiro non è onnipotente. Sotto certi aspetti è prigioniero più del galeotto, più del pazzo nella sua cella. Poiché deve obbedire a certe leggi di natura. Perchè? Non si sa. Non può entrare in una casa senza esservi chiamato. Ma, poi, potrà entrarvi quanto vorrà. Il suo potere cessa, come quello degli spiriti del male, dopo il sorger dell’aurora. Non può trasformarsi che all’alba oppure al tramonto. Non può riposare che nella terra dove fu sotterrato, oppure in una tomba sacrilega, come il suicida di Whitby. Difficilmente lo si può esorcizzare. Il fiore d’aglio e la tuberosa tuttavia gli sono ostili; posti sul suo feretro gli impediscono d’uscirne.

E Van Helsing aggiunse:

« Dobbiamo dunque bloccare il mostro nella sua tomba e immergergli un piuolo nel corpo per ridurlo al nulla.

« Ho consultato il mio amico Arminius, dell’Università di Budapest. Mi ha dato informazioni sugli antecedenti del Conte.

« Egli fu certo, un tempo, quel Dràcula che rese famoso il nome combattendo contro i Turchi. La sua bravura e la sua crudeltà lo resero celebre. I Dràcula, m’ha detto Arminius, erano una grande e nobile razza. Ma i loro contemporanei affermavano che fossero in relazione col Diavolo. Satana rivelava loro i suoi segreti nelle montagne che dominano il Lago Hermanstadt. In una delle memorie del tempo, si parla d’un certo Dràcula come d’un Vampiro. Eppure da quella razza uscirono grandi uomini e donne oneste; e le loro ossa santificano la terra ove riposano. Poiché, ahimè! il bene si frammischia al male, come la gramigna al vero grano.

Durante quel discorso, Morris che guardava attentamente la finestra, si alzò pianamente e lasciò la stanza. Ci fu un piccolo silenzio e il Maestro riprese:

— E adesso, decidiamo il nostro piano d’azione. Per mezzo dell’inchiesta di Jonathan sappiamo che cinquanta casse piene di terra – la terra maledetta ove fu sepolto il Conte – vennero portate al maniero di Carfax. Sono i covi del « Mostro »… Si tratta di sapere se vi si trovano tuttora oppure se…

Un colpo di rivoltella l’interruppe. Un vetro volò in frantumi, una palla colpì il muro opposto alla finestra. Ci alzammo a precipizio. Lord Godalming corse alla finestra e l’aperse.

In quel momento si udì la voce di Quincy Morris.

— Scusatemi, temo di avervi inutilmente impauriti. Aspettatemi, che vengo a spiegarmi.

Entrò.

— Poco fa – diss’egli – mentre il professore parlava, ho veduto sul margine della finestra un grosso pipistrello. Siccome non posso più soffrire questi uccelli di malaugurio, dacchè capitarono gli ultimi casi, decisi di sopprimerlo.

— L’avete colpito? – chiese vivamente Van Helsing.

— No; credo che sia fuggito verso il bosco.

Sedemmo ancora e il professore riprese:

— Bisogna in primo luogo accertarci che tutte le casse sono là. Allora potremmo santificare la terra che contengono per impedire al mostro di rientrarvi; poi sorprenderlo di pieno giorno, sotto la sua forma umana, vale a dire nel momento in cui è maggiormente disarmato e così potremmo aver ragione di lui.

« Fin da stassera, ci metteremo in campagna; ma voi non ci accompagnerete, signora Mina; voi siete la nostra stella e la nostra speranza e non vogliamo esporvi ai rischi che potremmo affrontare.

Mistress Harker dovette assoggettarsi.

Morris suggerì:

— Propongo d’andare subito a fare un giro in casa del nemico.

Vidi lo sguardo ansioso della signora Harker. Ma seppe nascondere il proprio turbamento per non inquietare suo marito.

1 ottobre, 4 del mattino.

Ci preparavamo a lasciare la casa quando vennero ad avvertirmi che Renfield desiderava vedermi senza indugio: doveva farmi una comunicazione importante. Risposi al guardiano che l’avrei veduto l’indomani, al mattino, essendo occupato. Egli rispose: « Il malato mi sembra molto nervoso, signore; e se ricusate di vederlo, temo non s’abbandoni a un violento accesso di furore ».

— Sta bene, andrò! – dissi.

E pregai i miei amici d’aspettarmi un momento.

— Conducetemi – disse il professore. – Il suo caso m’interessa.

— Posso venire anch’io? – domandò Lord Godalming.

— Ed io? – fece Quincy Morris.

Annuii; e tutt’e quattro infilammo il corridoio. Trovammo infatti il pazzo piuttosto agitato, ma coerente ne’ suoi discorsi.

Mi pregò soltanto di rendergli la libertà e di permettergli di tornare a casa. Invocò la sua guarigione completa e aggiunse:

— Prendo a testimoni i vostri amici. Ma già non m’avete presentato.

La sua serietà m’impressionò e senza pensare al ridicolo della cosa, presentai:

— Dottor Van Helsing, Lord Godalming, Mister Quincy Morris.

Egli strinse loro la mano. E disse:

Lord Godalming, ebbi il piacere altra volta di incontrare vostro padre. In gioventù, fu l’inventore d’un famoso punch al rum, assai rinomato. Constato con dispiacere che è morto, poichè ne avete ereditato il titolo.

« Signor Morris, mi congratulo del bel posto da voi occupato nella società.

« Ma che dirò del piacere che provo nell’incontrarmi col celebre Van Helsing? Scusatemi, dottore, se non aggiungo altri titoli. Quando un uomo ha messo in rivoluzione la scienza con le sue meravigliose scoperte sull’evoluzione del cervello, è noto nel mondo intero.

« Dunque, signori, vi prendo a testimoni che sono sano di mente… per lo meno quanto la maggioranza degli uomini – aggiunse con un sorriso.

« E sono persuaso che voi, dottor Seward, giurista ed uomo di scienza, stimerete opportuno accedere alla mia richiesta. Pronunziò queste ultime parole con una cortesia piena di garbo.

Noi eravamo stupefatti. Quanto a me, non dubitavo che non avesse riacquistato l’uso della ragione e, obbedendo al mio impulso, gli risposi che non dubitavo del suo buon senso e fin dall’indomani mi sarei occupato della sua liberazione, deciso d’altronde, ad assicurarmi prima del suo reale stato di mente.

Il che non lo soddisfece, poichè riprese vivamente:

— Temo, dottor Seward, che voi non abbiate capito la mia preghiera: desidero andarmene subito, senza indugio: il tempo stringe.

Vedendomi poco convinto, si volse verso i miei amici, scrutandone il viso.

— Mi sarei dunque ingannato, sperando d’ottenere l’immediato ricupero della mia libertà? – chiese con segni di grande meraviglia.

— È impossibile – dissi io con dolcezza.

Stette in silenzio e finì col dire lentamente:

— Non reclamo un diritto ma imploro, supplico, non soltanto nell’interesse mio ma in quello di tutti. Non posso sgraziatamente dirvi le mie ragioni ma vi prego di credere che sono eccellenti e oneste. Se poteste leggere nel mio cuore, signore, approvereste il sentimento che mi anima; anzi, mi contereste fra i vostri migliori amici.

Quelle parole mi mostravano una nuova forma della sua pazzia. Lo lasciai parlare nella speranza che finisse col rivelare la incrinatura della sua ragione stravolta.

Van Helsing allora gli rivolse la parola come ad un individuo in pieno senno.

— Non potete dirci per quale ragione vorreste essere libero stassera? Se lo sapessimo, potremmo forse influenzare il dottor Seward.

Egli scosse tristemente la testa e con aria di rammarico angoscioso:

— Non ho niente da dire. Se potessi parlare, non esiterei, ma non sono padrone in quest’affare. Vi prego di credermi sulla parola. Se rigettate la mia richiesta, le conseguenze ricadranno su di voi.

Volli metter fine a quella scena ridicola:

— Venite, amici miei, dobbiamo lavorare. Buona sera, Renfield.

Feci un passo verso la porta ma il contegno del malato mutò subito. Si avventò così vivacemente verso di me che temetti un attacco omicida. Ma no: mi cadde soltanto davanti a ginocchi, giungendo le mani per implorarmi.

— Oh! dottor Seward! dottor Seward! – fece con le lagrime agli occhi – permettetemi di lasciar questa casa senza indugio. Mandatemi dove vorrete, fatemi sorvegliare da guardiani, legatemi le braccia, mettetemi magari la camicia di forza ma portatemi via di qui. Non vedete che ho ritrovato la mia ragione? Non voglio perderla di nuovo. Abbiate pietà di me, lasciatemi andare!

— Via, calma – dissi rialzandolo un po’ bruscamente. – Fareste meglio a coricarvi.

Tacque di botto e mi lanciò uno sguardo profondo. Poi sedette sull’orlo del letto. Nell’atto in cui mi ritiravo, disse con voce ferma:

— Mi renderete più tardi questa giustizia, dottor Seward, che stassera ho fatto tutto quanto era in poter mio per convincervi.

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CAPITOLO XVI.

Giornale di Jonathan Harker.

1 ottobre. Le cinque del mattino.

La scena con Renfield aveva impressionato tutti. Siamo tornati nello studio di Seward e Morris disse:

— Dite un po’, John, siete proprio certo che quest’uomo sia pazzo? Non vidi mai una lucidità simile. Doveva avere una ragione seria per allontanarsi di qui e non siamo stati molto duri a rifiutare.

— Si capisce che voi conoscete i pazzi meglio di noi – aggiunse Van Helsing. – Per fortuna, perchè io avrei abboccato e gli avrei accordato la libertà.

— Pareva sincero, infatti – disse Seward pensoso; – in qualunque circostanza avrei ceduto: ma quest’uomo è troppo immischiato negli avvenimenti che ci interessano per arrischiare una cosa tanto grave. E poi mi sono ricordato che quando desiderava aver un gatto, implorava con la stessa eloquenza. Chiama il Conte « suo Signore e Padrone ». Tutto ciò è losco. Eppure pareva sincero.

— Ebbene! partiamo? – chiese Van Helsing aprendo la porta.

Demmo la scalata al muro e ci dirigemmo verso il maniero avendo cura di tenerci nell’ombra degli alberi del viale, per via della luna. Ci fermammo davanti la porta. Il professore aperse il suo sacchetto.

— Amici miei – disse – incorriamo in pericoli d’ogni sorta. Difendiamoci come possiamo. Ognuno di noi si metta intorno al collo una ghirlanda di questi fiori, prenda una rivoltella e un coltello e si faccia scivolare in tasca queste lampadine elettriche. John, datemi il soprabito; cercheremo di aprire la porta.

Introdusse la chiave nella serratura, che finì per cedere. La porta s’aprì stridendo.

La rinchiudemmo dietro a noi. Il debole chiarore delle lampadine proiettava le nostre figure deformate sul soffitto come ombre danzanti. Tutti avevamo l’impressione sgradevole d’avere qualcuno alle spalle, ed il minimo rumore ci faceva trasalire. Affondavamo i piedi in uno strato fitto di polvere. Negli angoli, enormi ragnatele sostenevano pacchi di polvere. Sopra un tavolo del vestibolo, un mazzo di chiavi dalle etichette cancellate dal tempo.

Van Helsing si volse verso di me.

— Voi conoscete i luoghi, Jonathan. Poichè avete fatto i rilievi del piano; conduceteci dunque alla cappella.

Dopo molti giri, arrivammo davanti ad una porticina bassa ornata di ferramenta antiche.

La chiave entrò senza fatica, la porta girò sui cardini ed un odore orribile ci prese subito alla gola… Dopo il primo movimento di repulsione, entrammo bravamente. Un’occhiata sommaria: la cappella è piccola: ci si soffoca.

— Quante casse restano? – chiese Van Helsing.

I cofani erano allineati contro il muro. Ne rimanevano ventinove.

A un tratto, Lord Godalming si volse indietro, a guardare verso la porta. Seguii la direzione del suo sguardo ed il mio cuore cessò di battere. Nel corridoio s’incorniciava nella porta un’orrenda visione: il naso prominente, gli occhi rossi, il pallore estremo del viso del Conte. Ma l’apparizione svanì tosto:

— Non è che un giuoco di luce – disse Godalming.

Poco convinto, uscii nel corridoio; alla luce della mia lampadina, frugai i minimi cantucci. I muri sono grossi e lisci. Da dove è entrato? Eppure non credo d’aver sognato.

Fu allora che Morris attirò la nostra attenzione verso un punto fosforescente. Repentinamente tutta la cappella si riempì di topi. Quell’inaspettata invasione ci disorientò. Soltanto Godalming serbò la sua presenza di spirito. Si avventò verso la grande porta di quercia che, in fondo alla cappella, dava sul giardino: la spalancò e portò alle labbra un fischietto d’argento. Gli rispose un abbaiare che veniva dall’asilo e in pochi secondi tre fox-terriers accorrevano.

I topi si moltiplicavano talmente che le loro schiene bigie formavano un suolo mobile. I cani si fermarono sulla soglia della porta abbaiando lamentosamente. Arturo ne afferrò uno per la pelle del collo e lo gettò sul pavimento. Allora la brava bestia si gettò all’inseguimento de’ suoi nemici che s’affrettarono a lasciar libero il campo con tanta velocità che tutt’e tre insieme i fox-terriers non riuscirono a massacrarne che una ventina.

Rinchiudemmo la porta sul giardino e, preceduti dai cani, visitammo il castello. Dappertutto un favoloso strato di polvere. Nulla d’anormale, intorno. L’alba si alzava quando uscimmo dal portico.

Van Helsing aveva staccato dal mazzo la chiave del portone; e se la mise in tasca senza complimenti.

— Non abbiamo perduto il nostro tempo – dichiarò; – poichè abbiamo imparato che se il Conte può farsi obbedire da un reggimento di topi, così come in Transilvania comandava ai lupi, non comunica loro il suo potere poichè tre fox-terriers bastano a metterli in rotta.

Tutti quanti dormivano certo nell’asilo: nessuna luce trapelava dalle finestre. Ma, passando davanti alla cella di Renfield abbiamo udito dei gemiti. Il povero pazzo certo si disperava.

Mina dormiva quando entrai nella stanza. Pareva più pallida del solito e respirava debolmente. Purchè queste ultime ansietà non la deprimano; ha un bell’essere coraggiosa, sono emozioni terribili per una donna. Le parlerò meno che sia possibile delle nostre spedizioni notturne.

1 ottobre.

Abbiamo dormito come talpe. Quando mi alzai, il sole era alto in cielo. Mina dormiva ancora; dovetti chiamarla tre volte di seguito prima che aprisse gli occhi; parve uscire da un sonno pesante e mi guardò con occhio smarrito come al risveglio dopo un sogno cattivo. Si dolse d’una grande stanchezza e la supplicai di riposare ancora un poco.

Sappiamo che ventun casse vennero portate via dal maniero. Bisogna che indaghiamo che cosa ne è avvenuto; il che semplificherà il nostro compito. Oggi vedrò Tommaso Snelling, il conducente del carro.

Giornale di Mina.

1 ottobre.

Non ne capisco nulla; mi tengono in disparte, eppure non sono impressionabile. Jonathan s’è rifiutato a darmi relazione della loro spedizione. Mi fa pena che mi nasconda qualche cosa, fosse pure per delicatezza; e non ho potuto a meno di piangere come una sciocca. D’altronde sono assai depressa; è il contraccolpo dei giorni scorsi.

Non appena sola, iersera andai a letto. Ero molto inquieta e tardavo ad addormentarmi. Dei cani abbaiavano e dalla stanza di Renfield, situata sotto alla mia, saliva una preghiera esaltata. Poi ci fu il silenzio. Mi alzai avvicinandomi alla finestra. Era buio. Nulla si muoveva sul paesaggio. Una leggera bruma bianca ondeggiava sul prato e, come dotata di vita, si riaccostava alla casa. Mi ricoricai. Ma il sonno non venne. Allora mi alzai nuovamente. La nebbia adesso avvolgeva la casa come se volesse penetrarvi ma non osasse. Il povero pazzo lanciava grida strazianti; pareva supplicasse disperatamente. Poi udii il rumore d’una lotta, i guardiani lo domavano certo. Presa dal terrore scivolai nel letto. Rialzai le lenzuola fin sopra la testa e mi turai le orecchie. Non avevo nessuna voglia di dormire e tuttavia il sonno dovette prendermi prestissimo perchè feci un sogno strano.

Aspettavo il ritorno di Jonathan, ero inquieta e come paralizzata e oppressa da un’atmosfera pesante e glaciale. Rigettai le lenzuola e constatai che il becco a gaz lasciato acceso per Jonathan non rischiarava più che con un piccolissimo punto rosso appena visibile nella nebbia che aveva invaso la stanza. Avevo gli occhi chiusi, certo e tuttavia vedevo attraverso le palpebre (quali assurdità si immaginano nel sogno!)

La bruma diventò più fitta e mi parve formasse una specie di pilastro nuvoloso sormontato dal puntino rosso del gaz. La stanza girò, poi vidi due punti rossi invece di uno; luccicavano come occhi. Mi ricordarono gli occhi rossi che vedemmo Lucy ed io nel cimitero, in quel bel tramonto. Mi parve che un viso livido si delineasse fra la nebbia, accostandosi a me. Non so perchè pensai allora alle tre orribili donne che Jonathan scorse in un raggio di luna. E mi parve di svenire per lo spavento.

Spero di non rifare simili sogni d’incubo; sono spossanti e nefasti per l’equilibrio mentale.

Una notte simile mi ha depresso più che se non avessi chiuso occhio.

2 ottobre.

La notte scorsa ho dormito bene, non ho sognato, e neppure ho sentito Jonathan rientrare. Tuttavia, non ho riposato neanche stanotte. Mi sento orribilmente debole. Trascorsi tutta la giornata di ieri leggendo o piuttosto tentando di leggere. Sono come intorpidita. Renfield ha chiesto di vedermi. Povero uomo! Pare assai inoffensivo nei momenti di calma. Mi baciò la mano. La sua dolcezza mi commosse fino alle lagrime; ma piango per nulla, è un segno di debolezza.

I miei uomini tornarono all’ora di pranzo, tutt’e tre stanchissimi; cercai distrarli del mio meglio. Dopo pranzo mi pregarono di ritirarmi, col pretesto che essi dovevano fumare un sigaro. So quel che significa.

Volli evitare una nuova insonnia e pregai il dottor Seward di darmi un leggero soporifero. Mi preparò egli stesso la pozione.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

Disegno digitale ottenuto con www.midjourney.com


CAPITOLO XVII.

Giornale di Jonathan Harker.

1 ottobre.

Ho scoperto Tommaso Snelling ma nulla di nuovo. Sua moglie mi disse ch’egli era soltanto l’assistente di Smolett e che soltanto da quest’ultimo avrei potuto avere informazioni.

Mi feci condurre in vettura a Walworth. Il rispettabile personaggio beveva il suo thè con la gravità che un tal atto comporta. È il tipo del bravo operaio malizioso e buon ragazzo. Si ricordava benissimo del trasporto a Carfax; ma per precisare i ricordi tolse un vecchio registro tutto unto ricoperto di geroglifici a matita. Recentissimamente aveva trasportato sei casse da Carfax a Londra, all’indirizzo seguente:

197, Chicksand Street, Mile End, New Town.

E sei altri a:

Jamaïca Lane, Bermandsey.

È probabile che il mostro disperda nella città ognuno di quegli invii. Evidentemente ha fatto il piano di prepararsi a Londra parecchi « pieds à terre ».

— Avete fatto altri trasporti? – gli chiesi.

— Sto per dirvelo, signore! La notte scorsa all’osteria del Cavallo bianco, c’è un tipo nominato Bloscam che s’è lamentato d’aver dovuto fare un lavoro niente affatto gradito in una vecchia casa di Purfleet. Forse se l’interrogate ve lo dirà.

— E dove lo posso trovare?

— Alla manifattura del Poplar.

Con quel vago indirizzo, partii alla volta del Poplar.

Era mezzodì quando scopersi quel lontano quartiere londinese. Anzitutto, non sapendo ove si trovasse la suddetta manifattura, m’informai in un caffè: gli operai che facevano colazione a un angolo del tavolo mi dissero che non molto lontano ce n’era una, recente.

Vi andai. Il capomastro, interrogato, rispose che Bloscam lavorava infatti per conto loro. Lo chiamarono in seguito alla mia promessa di pagare il tempo che stavo per fargli perdere.

Era un giovinottone vigoroso dai lineamenti duri e l’aria ostinata. Una moneta da venti soldi gli sciolse la lingua.

Aveva fatto due viaggi fra Carfax e una casa di Piccadilly per trasportare in questa nove grandi casse « che pesavano enormemente! »

— Potreste dirmi il numero di quella casa in Piccadilly!

— Perdiana, signore, non so più il numero. Ma so ch’era a pochi passi da un grande fabbricato bianco, forse una chiesa. Anche quella era una casa piena di polvere.

— Avete potuto caricare e scaricar da solo quelle casse?

— No, il vecchio galantuomo che m’aveva impegnato per fare quel lavoro mi diè una mano. Non ho mai veduto un uomo di quella forza.

— Ah! – feci io, con interesse.

— Si, un vecchio con i capelli bianchi. Eppure!… Sollevò una delle impugnature della prima cassa come fosse stata un pacchetto di thè mentre io sbuffavo per sollevare l’altra. Bisognava vedere! Lo stesso avvenne a Piccadilly. Era giunto prima di me e m’aperse la porta.

— Deponeste le casse nell’hall?

— Sicuro, dove volevate metterle? Poi ripartii; ed egli mi chiuse l’uscio alle spalle.

— E non vi ricordate il numero?

— No, signore. Ma è facile ritrovare la casa: c’è una gran facciata di pietra e un alto limitare.

Non potendo avere più precise informazioni, gli feci scivolare in mano un marengo e mi diressi al Piccadilly.

Non c’era tempo da perdere. Il Conte deve già avere disperso qua e là qualcuna delle sue casse.

A Piccadilly Circus, lasciai la vettura e feci alcuni passi. Scopersi prestissimo la casa descritta da Sam. Non fu certo abitata da molto tempo perchè uno strato di polvere l’annerisce. Le imposte sono aperte. Il cartello di vendita venne tolto ma disegna sul muro un quadrato più chiaro. Mi duole che non ci sia più: senza dubbio m’avrebbe dato il nome del proprietario dal quale forse avrei avuto il permesso di entrare nella casa.

Ma il cameriere del caffè lì di fronte potrà informarmi.

— Il proprietario di quella casa là? Il nome scritto sul cartello era mister Mitchell e Figlio.

Trovai l’indirizzo nella guida. Pochi minuti dopo arrivai all’ufficio dell’agenzia Mitchell e Figlio.

In assenza dei padroni fui ricevuto dal primo scrivano. Siccome pareva assai reticente, mi provai a prenderla dall’alto.

— Sono inviato da Lord Godalming che ha veduto la casa dall’esterno e vorrebbe comperarla. A chi deve rivolgersi?

E gli tesi il mio biglietto da visita.

— La cosa cambia aspetto, signore – disse repentinamente ossequioso. – Vi darei volentieri informazioni, poichè sarebbe usare cortesia a Lord Godalming. Ma per disgrazia non posso dirvi nulla senza l’autorizzazione dei miei principali. D’altronde, che desiderate sapere?

— Il nome del nuovo proprietario della casa.

— Sentite, volete lasciarmi l’indirizzo di sir Arturo? Faremo per lui un’eccezione alla regola. Conferirò con i miei padroni e gli scriverò subito stasera.

Al postutto, meglio valeva farmi di quell’uomo un alleato. Lo ringraziai garbatamente, gli diedi l’indirizzo dell’asilo e lo lasciai con una stretta di mano.

Dopo essermi rifocillato con del thè, ripresi il primo treno per Purfleet.

Tutti erano in casa. Mina par più triste e più stanca. Mi si stringe il cuore di non parlarle con fiducia, come prima. Ma d’altronde… E poi, il soggetto par che le ripugni e quando vi alludiamo non può reprimere un brivido. Temo che questi ultimi fatti l’abbiamo fortemente scossa.

Dopo pranzo, abbiamo fatto un po’ di musica. Poi condussi Mina nella sua stanza. La povera fanciulla mi strinse forte fra le braccia, quasi temesse per me nuovi pericoli. Grazie a Dio, ci amiamo teneramente.

Raggiunsi in salotto gli altri e diedi loro il risultato delle mie ricerche.

— Ecco una buona giornata di lavoro – disse Van Helsing. – Siamo sulla pista e potremo fra poco preparare il colpo finale e sbarazzarci di questo mostro.

— Ma come entrare in quella casa di Piccadilly? – chiese Morris.

— Siamo pur entrati nell’altra – replicò Lord Godalming.

— Non è la stessa cosa. A Carfax, siamo al riparo dagli indiscreti. Mentre laggiù, in piena Londra, non so davvero come potremo eseguire quella entrata da borsaiuoli di nuovo genere?

— Bisognerebbe aver la chiave.

— In qual modo?

— Sottraendola al Conte – dissi io.

— Aspettate prima la risposta di Mitchell – disse Van Helsing. – Adesso andiamo a dormire.

Non ce lo siamo fatto dire due volte. Sono salito nella mia stanza.

Mina dorme profondamente. Ha il respiro regolare ma debole: ha l’aria preoccupata e mi sembra molto pallida. Come vorrei saperla tranquilla, là a Exeter!

Giornale del Dottor Seward.

2 ottobre.

L’agenzia di Londra informa Lord Godalming che la casetta situata al numero 347 in Piccadilly fu comperata da un nobile straniero: il Conte de Ville. Si tratta certo di Dràcula.

Harker è nuovamente in giro; Arturo e Quincy s’occupano a procurarci dei cavalli. Sostengono, e a ragione, che non appena in possesso di tutte le informazioni necessarie al nostro piano d’azione, non ci sarà tempo da perdere. Infatti, dovremo, fra l’alba e il tramonto, purificare con fiori d’aglio e tuberose tutte le casse di terra importate dal Conte, per sopprimergli ogni rifugio e vincerlo.

Van Helsing è andato al British Museum a consultare alcuni antichi trattati di medicina; è bene sapere qual rimedio applicare alle ferite fatte da un vampiro.

Mi chiedo, certe volte, se non siamo tutti pazzi e se non farebbero bene a metterci la camicia di forza.

Nuovo conciliabolo.

Siamo sulla buona pista e domani sera ci sarà forse qualche novità.

Renfield è calmo. Che cosa nasconde questa calma? Ieri ricominciò ad acciuffare le mosche.

— To’! che cosa è questo grido selvaggio? Pare venga dalla sua stanza. Un guardiano entra a precipizio:

Renfield ha dovuto ferirsi: l’abbiamo trovato steso a terra tutto insanguinato.

3 ottobre.

Quando giunsi, Renfield giaceva in un mare di sangue. Lo rialzai: aveva parecchie ferite in molte parti. Il viso era orribilmente martoriato, come se avesse battuto la faccia contro il pavimento.

— Si direbbe – disse il guardiano che l’esaminava – che s’è rotto la colonna vertebrale. Guardate: il braccio, la gamba e il viso da tutta la parte destra sono come paralizzati. In qual modo questi due accidenti poterono capitare simultaneamente? Si potè sfigurare la faccia battendo a terra. Potè rompersi la colonna vertebrale cadendo dal letto: ma di questi due accidenti l’uno esclude l’altro.

— Andate a cercare il dottore Van Helsing.

Il professore accorse subito in pantofole e veste da camera.

— Triste accidente! – disse laconico. – Quest’uomo dev’essere vegliato. Vado a vestirmi e ritorno.

Il malato respirava a stento; soffriva certo.

Van Helsing tornò con il suo astuccio.

— Congedate il guardiano – mi disse sottovoce. – Dobbiamo essere soli con quest’uomo quando tornerà in sè, dopo l’operazione.

— Potete continuare il vostro giro, Simons – dissi al guardiano. – Il dottore Van Helsing ed io basteremo.

Osservai, quando fu uscito:

— Le ferite al viso non sono che superficiali: ma c’è frattura del cranio.

— Bisogna agire subito – disse Van Helsing. – Tutti i nervi motori sono colpiti. Bisogna fare la trapanazione senza indugio.

In quel momento fu bussato all’uscio.

Apersi e vidi Arturo e Quincy in pigiama.

— Possiamo essere utili a qualche cosa? – chiesero.

— Si, entrate.

In poche parole li mettemmo al corrente. Van Helsing rimboccò le maniche per l’operazione; il suo viso non mi rassicurava affatto. Purché il disgraziato non spirasse prima di avere parlato! Non respirava che a sbalzi.

— Spicciamoci – disse Van Helsing – praticherò l’apertura verso l’orecchio.

Con mano abile e sicura maneggiava i suoi utensili.

A un tratto il malato emise un profondo sospiro e aperse gli occhi senz’aver l’aria di vederci.

Lentamente rinvenne e finì col riconoscerci.

— Starò tranquillo, dottore, dite loro di togliermi la camicia di forza. Ho fatto un sogno orribile che m’ha lasciato molto debole. Mi duole la faccia, perchè?

Volle voltare la testa, ma lo sguardo diventò vitreo, credetti che stesse per morire.

— Che avete sognato, Renfield? – interrogò Van Helsing.

Il viso del malato s’illuminò:

— Ah! siete voi, dottor Van Helsing! Come siete buono d’essere venuto!

« Ho sognato…

Non potè dir di più.

— Presto, Quincy, un po’ d’acqua e di brandy! – gridai.

Quincy tornò con una fiala. Ne umettai le labbra del paziente che riprese i sensi.

— Non è un sogno – riprese – ma un’atroce realtà. Ancora un po’ di brandy, sento che me ne vado e devo dire parecchie cose. Grazie.

« Vedete, tutto il male cominciò quella sera in cui vi supplicai d’allontanarmi di qui. Allora non potei parlare: la mia lingua era legata ma la ragione limpida. Quando partiste, ebbi una crisi di disperazione. Poi mi calmai. I cani abbaiavano accanto alla casa, ma Egli era altrove.

Van Helsing mi lanciò un’occhiata significativa.

— Continuate – feci io dolcemente.

Egli riprese:

Egli si avvicinò alla finestra sotto forma di nebbia, quale già lo avevo veduto parecchie volte. Ma aveva più l’apparenza d’uomo reale che di ombra; i suoi occhi scintillavano d’uno splendore straordinario, la bocca rossa sogghignava scoprendo i denti aguzzi. Io non gli dissi di entrare, come egli sperava.

« Allora, per sedurmi, fece sfilare davanti a me tutte le tentazioni. Vidi milioni di topi, d’uccelli, di gatti e di cani; e tutto ciò rappresentava del bel sangue rosso, della vita, e dei secoli d’esistenza.

« *- Tutte queste vite sono vostre e molte altre ancora – mi disse – se volete adorarmi.

« Allora mi vidi avvolto da una nube rossa. Spinto da un impulso irresistibile, dissi:

« *- Entrate, mio signore e padrone.

« Tutti gli animali erano scomparsi; egli era scivolato dalla finestra appena socchiusa. »

La voce di Renfield s’indeboliva sempre più; gli diedi ancora alcune goccie di brandy ed egli riprese il suo racconto, ma con una lacuna.

« Tutto il giorno aspettai che manifestasse il suo potere, ma egli nulla m’inviò, nemmeno una meschina piccola mosca. Quindi quando ritornò, quella sera, lo colmai d’ingiurie. Mi guardò con sprezzo ed i suoi occhi rossi parevano beffarmi. Poi, entrò nella stanza della signora Harker.

Il professore trasalì e lo vidi impallidire.

Renfield riprese:

— Oggi ho riveduto la signora Harker, nel pomeriggio, e la trovai cambiata. Non mi piace la gente pallida: mi piace vigorosa e dotata di un sangue ricco. Ella pareva aver perduto tutto il suo. Riflettei, dopo la sua partenza; e l’idea che Egli avesse potuto, che Egli avesse osato prendere un po’ della vita della signora Harker mi fece impazzire.

« Così, stasera, ho spiato l’arrivo del Mostro. Dicono che i pazzi hanno talvolta una forza strabiliante. Mi gettai addosso a lui e strinsi con tutte le mie forze. Ma allora i suoi occhi mi hanno abbruciato come due ferri infocati. Sentii svanire tutta la mia forza e rallentai la stretta. Egli mi sollevò e mi lanciò a terra con violenza; fui acciecato da una luce rossa, intontito da un rumor di tuono e il fantasma scivolò sotto la porta.

La sua voce si spense. Van Helsing si rialzò gridando:

— È nella casa, dunque! Purchè non sia troppo tardi! Andiamo ad assalirlo con le sue stesse armi.

Ci precipitammo nelle nostre stanze. Equipaggiati come la prima volta dell’escursione notturna nel maniero, ci ritrovammo davanti alla porta degli Harker.

— Siamo costretti a sfondare la porta – disse Van Helsing – poichè se svegliamo i nostri amici, Egli avrà il tempo di sfuggire.

Con lo stesso slancio, ci avventammo contro la porta la quale cedette tanto bruscamente che fummo lanciati in mezzo alla stanza.

Lo spettacolo che apparve mi agghiacciò di spavento. Il chiaro di luna era così luminoso che, malgrado le imposte chiuse, si vedevano gli oggetti nella stanza. Jonathan che occupava il letto accanto alla finestra, dormiva con un respiro irregolare. Accanto al letto di Mina si delineava un’indistinta forma nera.

Al nostro avvicinare, il Conte si voltò; i suoi occhi scintillarono di furore diabolico; le sue larghe narici si dilatarono, digrignò i denti e si allontanò con violenza dal letto di Mina e venne alla nostra volta. Il Professore agitò la sua ghirlanda di tuberose ed il Conte indietreggiò, come la povera Lucy davanti alla propria tomba. Allora brandimmo tutti i nostri fiori d’aglio, obbligando così il mostro a indietreggiare. Una nube passò davanti alla luna, oscurando la stanza. Quincy sfregò un cerino e l’accostò al gas; si vide allora un lieve vapore bianco scivolare nel corridoio.

Poi la signora Harker lanciò un grido stridente che udirò fino alla morte. Noi siamo accorsi verso di lei. Era d’un pallore livido e aveva lo sguardo folle di terrore. Si ricoperse il viso con le mani che portavano le traccie della rude stretta del Conte.

Arturo scivolò fuor della stanza e Van Helsing mormorò:

— Bisogna risvegliare Jonathan che pare sotto l’effetto d’un narcotico.

Immerse una salvietta nell’acqua e gliene sferzò il viso. Apersi le imposte. La luna brillava nuovamente; mi permise di vedere Quincy Morris attraversare il prato e nascondersi all’ombra d’un grande cipresso. Con quale scopo?

Harker si svegliò con un grido: un profondo stupore si dipinse sul suo viso.

— Che c’è? – balbettò.

Sua moglie gli tese le braccia, poi bruscamente se ne ricoperse il viso rabbrividendo.

— Che c’è? – replicò Jonathan. – Perchè quel sangue sul lenzuolo di Mina? Dio, Dio… il vampiro? È mai possibile?

Saltò giù dal letto e s’infilò rapidamente gli abiti.

— Bisogna salvar Mina, dottor Van Helsing – disse. – Io mi lancio all’inseguimento di quel miserabile. Occupatevi di lei.

— No, no, Jonathan – gridò Mina – non lasciarmi. Non voglio perderti!

Gli si avviticchiava disperatamente al collo.

— Non temete, figlia mia – disse Van Helsing dando alla giovine donna alcuni fiori di tuberosa – siamo qui noi che vegliamo.

Tutta tremante, ella nascose il volto contro il petto di suo marito. La piccola ferita al collo imprimeva sulla camicia di Jonathan due traccie rosse. A quella vista, ella singhiozzò gemendo:

— Impura! sono impura! Non posso più toccare mio marito! Sono la sua peggiore nemica! Non deve più avvicinarsi a me! Ah! è orrendo! è orrendo!

— Via, Mina – disse Jonathan con severità – ti proibisco di parlare così. Dici delle cose assurde.

La prese fra le braccia cullandola come una bimba.

— Adesso, dottore – diss’egli quando ella si fu alquanto calmata – ditemi tutto ciò ch’è avvenuto.

Gli esposi gli ultimi avvenimenti.

Egli mi ascoltò senza muoversi, livido.

Quincy e Godalming tornarono.

— Dov’eravate andati?

— Nella stanza di Renfield – disse Arturo; – il poveretto era morto.

Esitò un secondo come se volesse aggiungere altro; ma non osò e tacque.

— E voi, amico Quincy, che avete a dirci? – chiese Van Helsing.

— Andai nel giardino a spiare la sua uscita ma non vidi altro se non un grosso pipistrello che pareva fuggirsene dalla stanza di Renfield e allontanarsi in direzione dell’ovest. Speravo che il Conte rientrasse a Carfax, ma senza dubbio giudicò prudente scegliersi un altro rifugio. Il cielo si rischiara ad oriente, l’alba è prossima. Aspettiamo il giorno.

Attacco a Mina, disegno di Francesca Guerrieri

Attacco a Mina,
disegno di Francesca Guerrieri


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CAPITOLO XVIII.

Giornale di Jonathan Harker.

3 ottobre.

Dopo colazione venne tenuto consiglio; Mina stavolta era con noi. Sarà la nostra segretaria e, mentre lavorerà, scorderà un poco l’orrendo incubo della notte scorsa.

— Bisogna – disse Van Helsing – che da qui a stasera noi abbiamo purificato e reso quindi inabitabili per il Mostro tutte le casse di terra, di modo che, non trovando nessun rifugio, egli sia ridotto a conservare la forma mortale che avrà preso. E adesso, cominciamo dalla casa di Piccadilly.

— Ma come entrarvi? – chiese Arturo.

— Non importa come! – esclamai; – anche a costo di rompere la serratura.

— E la polizia? – osservò Quincy.

— Ohibò! non s’occuperà di noi! – disse Van Helsing: – anzi, se sappiamo fare, ci verrà in aiuto. Tutto dipende dal comportarci come proprietari legittimi della casa, e di presentarvici ad un’ora congrua; verso le dieci del mattino, per esempio.

Vidi con piacere che la povera Mina, interessata dalla nostra discussione, scordava un po’ la sua angoscia. Ma era pallida, tanto pallida, e le labbra esangui scoprivano i denti, che mi parvero un po’ più appuntiti. Ahimè! ahimè!… No, non voglio pensarvi.

Decidemmo, prima di partire, di distruggere il covo del Conte al maniero. Poi, di prendere il treno per Piccadilly. Lord Godalming e Quincy sarebbero andati a Walwort e Mile End a esorcizzare gli altri rifugi del Conte. Insistei per restare accanto a Mina, ma ella non volle saperne.

— Non temo più nulla, adesso – disse tristemente. – E starò all’erta. Partite senza timore, amico mio.

— Avviamoci, dunque! – esclamai – non perdiamo tempo!

— Scusate – disse Van Helsing; – ci tengo a far colazione, io, prima di partire; abbiamo bisogno di riprendere le forze.

Pasto strano, nel quale cercavamo bravamente di distrarci e in cui ciascuno di noi era ossessionato dall’idea fissa.

— Adesso si parte davvero – disse Van Helsing quando ci alzammo da tavola. Signora Mina, non correte nessun pericolo fino al tramonto.

Per quell’ora saremo di ritorno. E d’altronde ho purificato la vostra stanza, siate senza timore: Egli non potrebbe rientrarvi. Lasciatemi adesso preservare la vostra persona, toccandola con i fiori.

Un grido stridulo risuonò; nel momento in cui appoggiava le tuberose sulla fronte di Mina, costei provò una scottatura atroce.

La mia povera moglie diletta si buttò a terra e gemette nascondendosi il viso fra i capelli.

— Sono maledetta! sono maledetta! Porterò questo marchio di vergogna fino al giudizio finale!

La rialzai e la riconfortai come meglio seppi; i nostri amici si asciugavano lagrime furtive.

— Signora Mina – disse Van Helsing con voce profonda – questa bruciatura sparirà il giorno in cui perirà il Vampiro. La vostra redenzione non può tardare.

Quelle parole confortarono un po’ la mia povera cara che si calmò.

Era tempo di andare. Abbracciai Mina con tenerezza come se non dovessi rivederla più, giurandomi di vendicarla. Ma se la maledizione si accanisse su di lei, se ella dovesse diventare (avrò il coraggio di dir la parola?)… un Vampiro… ebbene l’accompagnerò! È così, io immagino, che nei tempi addietro l’amore faceva dei proseliti. Sì, piuttosto che dormire solo in terra santa, voglio essere maledetto con lei… Ma ciò non avverrà!

Siamo entrati facilmente nel maniero. Nulla è cambiato. Nella vecchia cappella le casse stanno allineate, come l’altro giorno.

— Adesso, amici miei – disse Van Helsing – si tratta di purificare questa terra, una volta sacra, ma resa impura dal suo contatto e che egli portò così da lontano con uno scopo delittuoso.

Si tolse dal secco un cacciavite e delle tenaglie; e dopo pochi minuti fece saltare il coperchio della prima bara.

Sulla terra contenuta in quella prima cassa, posò con rispetto dei fiori di tuberose, pronunziando una preghiera. Poi, pianamente, rinchiuse il coperchio che noi aiutammo ad avvitare. E così si fece per ognuna delle altre casse.

Quando rinchiudemmo la porta della cappella, Van Helsing esclamò:

— Ecco un buon lavoro. Auguriamoci che vada altrettanto bene anche il resto.

Prendemmo allora la via della stazione. Passando davanti all’Asilo, lanciai uno sguardo verso la finestra di mia moglie. Ella indovinò la mia presenza e agitò il fazzoletto. Le mandai un bacio, e raggiunsi in fretta i compagni. Il treno era già fermo in stazione. Siamo saltati in uno scompartimento, da dove scrivo queste note.

Piccadilly, 30, mezzodì.

A Londra abbiam preso una vettura. Poco prima di giungere alla casa, Lord Godalming disse:

Quincy verrà con me in cerca d’un fabbro. Troppo numerosi, susciteremmo la curiosità. Separiamoci dunque. Aspettateci in Green Park, donde si scorge la casa. Quando vedrete le finestre aperte, vorrà dire che non ci sarà più il fabbro. E allora raggiungeteci.

— Buona idea! – disse Van Helsing.

Godalming e Morris presero un altro cab mentre noi proseguivamo nel nostro, fino all’angolo d’Arlington Street. Io provai un battito di cuore scorgendo la casa triste e nera su cui si concentrava la nostra speranza. Sedemmo su di una panca aspettando pazientemente e fumando un sigaro. Il tempo ci parve lungo. Finalmente vedemmo i nostri amici tornare col fabbro. Si fermarono sul limitare della casa.

L’uomo si tolse la giacca. Passava un policeman in quel momento e s’accostò. Il fabbro gli disse qualche parola ed egli s’allontanò pacificamente. L’operaio provò diverse chiavi. Alla terza la porta cedette. Godalming e Morris entrarono nel vestibolo.

Noi osservavamo col cuore che batteva. Aspettammo che l’uomo se n’andasse. Poi attraversammo la strada. Morris ci aperse la porta. Lord Godalming aveva già acceso una sigaretta.

— È pestifero – disse. – Lo stesso odore che nella vecchia cappella di Carfax; il Conte dev’essere passato di qui da poco tempo.

Facemmo il giro della casa. Nella sala da pranzo non trovammo che otto casse di terra invece di nove come contavamo trovare. Le aprimmo ad una ad una santificandole come quelle di Carfax.

Sul tavolo, tutte le carte concernenti l’acquisto della casa; dei fogli da lettera, delle buste, penna e inchiostro; tutto quanto avvolto in carta. C’era anche una spazzola per gli abiti, un pettine, una brocca d’acqua e un catino, quest’ultimo piena d’acqua sporca, come rossa di sangue. E poi un mazzetto di chiavi delle altre case.

— È ora di andarcene – disse Godalming a Morris.

Ambedue presero nota degli indirizzi delle altre case e muniti delle chiavi si congedarono da noi.

Disegno di Stefano Piacenti

Disegno di Stefano Piacenti


CAPITOLO XIX.

Giornale del Dottor Seward.

3 ottobre.

Durante l’assenza dei nostri amici, il professore si sforzò distrarci con considerazioni molto interessanti.

Mentre parlava, fummo interrotti da un colpo bussato al portone. Trasalimmo. Van Helsing andò ad aprire. Un giovine fattorino del telegrafo gli diè un dispaccio. Egli subito l’aperse e lesse:

« Diffidate di D. Ha lasciato poco fa Carfax, certo diretto a Londra. Firmato : Mina. »

— Finalmente, potremo agire! – esclamò Van Helsing. – Oggi il potere del nostro nemico non oltrepassa quello d’un comune mortale: e da qui al tramonto non potrà trasformarsi. Ora non può tardare: speriamo che Arturo e Quincy sieno tornati prima.

Una mezz’ora dopo, un nuovo colpo di battente scuoteva la porta. Ci guardammo inquieti e ci precipitammo ad aprire.

Stavamo già pronti a brandire i nostri fiori d’aglio e le nostre rivoltelle, quando constatammo con gioia ch’erano Quincy Morris e Lord Godalming.

— Tutto va bene – disse Arturo: – abbiamo ritrovato le due case. Ci sono sei casse in ognuna: sono tutte santificate.

— Non c’è più che dà aspettare – disse Quincy. – Stavolta, se alle cinque non sarà giunto, faremo bene a ripartire perchè sarebbe imprudente lasciare sola la signora Harker dopo il tramonto.

— State tranquilli – disse Van Helsing; – non ci sarà tanto da aspettare, prendete le armi e pronti. Pssst!

Infatti una chiave veniva allora introdotta pianamente, con precauzione, nella porta d’entrata.

Ammiro come, nei momenti tragici, ognuno di noi riveli il suo carattere. In tutte le nostre antiche battute di caccia, Morris dirigeva il piano d’azione. Arturo ed io obbedivamo. Istintivamente egli riprese l’antica abitudine. Con un gesto, designò i nostri posti: Helsing, Harker ed io accanto all’uscio; Arturo e lui nascosti accanto alla finestra per tagliare la ritirata da quella parte al Conte.

I passi si avvicinavano prudenti e lenti. Temeva un agguato?

Di botto, con uno slancio brusco, piombò nella stanza prima che alcuno di noi potesse fare un gesto. La sua agilità aveva qualche cosa di felino. Harker si gettò con un balzo contro la porta di comunicazione.

Scorgendoci, il Conte ebbe un sogghigno orrendo che gli scoprì i suoi denti canini; poi prese un’aria di disdegno maestoso.

Cambiò faccia tuttavia quando, con un solo impeto, ci avanzammo alla sua volta. Per disgrazia, avevamo preparato male il nostro piano perchè io non sapevo neppure dove ferirlo nè se le nostre armi omicide avessero potuto servirci a qualche cosa.

Harker non esitò, lui. Brandendo il suo gran coltello, s’avventò sul nemico. Ma con uno scatto, il Conte sgusciò via. Il coltello tagliò soltanto il vestito all’altezza d’una tasca donde sfuggirono un fascio di biglietti di banca e parecchie monete d’oro.

L’espressione del Conte era così atrocemente piena d’odio che, temendo per la vita di Jonathan, m’avanzai tenendo con la sinistra delle tuberose e nella destra una rivoltella. I miei amici fecero altrettanto e il Demonio indietreggiò. Da livido che era, Dràcula diventò verde; i suoi occhi lanciarono fiamme. Con un balzo passò sotto il braccio di Harker che spiccò un salto per colpirlo nuovamente. L’uomo atroce raccolse rapidissimo alcune monete d’oro, le fece scivolare in tasca; e saltando dalla finestra sparve in mezzo ad un strepito di vetri infranti.

Era caduto nella corte senza farsi male. Lo vedemmo spingere la porta della scuderia e voltarsi verso di noi:

— Credete di vincermi? – gridò. – Ebbene, non siete ancora alla fine delle vostre tribolazioni. Credete d’avermi tagliato ogni ritirata? Errore! ho altri rifugi. La mia vendetta comincia appena. La stenderò sui secoli venturi poichè il tempo m’appartiene. Le vostre donne son già mie, per mezzo loro, sarete miei!

Con un sogghigno, tirò dietro a sè la porta della scuderia; poi l’udimmo aprire e chiudere un’altra porta.

Van Helsing fu il primo a riaversi.

— Ci teme tuttavia, poichè altrimenti non si sarebbe affrettato tanto a piantarci in asso. Perchè ha preso il denaro? Bisogna seguirlo senza indugio. Noi inseguiamo una bestia feroce; nessuna tregua finchè non l’avremo abbattuta.

Raccolse i biglietti di banca e l’oro; mise il denaro in tasca, e così pure gli atti relativi alla compera della casa.

— Non lasciamo qui nulla che gli possa servire – disse.

Il sole calava all’orizzonte. Visitammo invano la scuderia, la corte e i dintorni.

— Ahimè! – disse Van Helsing – credo che sia più saggio rinunziare per oggi al nostro inseguimento e tornare presso la signora Mina. Dobbiamo vegliare su di lei. Ma non ci scoraggiamo. Non rimane più che una cassa di terra; il bandito non ha più che un rifugio, lo scopriremo fra breve!

Siamo rientrati col cuore gonfio. La signora Harker ci aspettava con impazienza. Parve costernata venendo a sapere dello scacco subito, ma, con forza d’animo, seppe dominarsi.

Il pranzo manca d’allegria. Abbiamo deciso di vegliare a turno. C’è Quincy che monterà la guardia stanotte.

Giornale di Jonathan Harker.

3-4 ottobre, mezzanotte.

Mina dorme, calma in apparenza. Quali possono essere i suoi sogni? Povera! cara! l’amo ancora di più per tutto ciò che ha sofferto. Ah! quando usciremo da questo incubo? Quando dormiremo tranquilli?

4 ottobre, mattina.

Mina mi ha svegliato sul finir della notte. L’alba grigia filtrava dalle fessure delle imposte. Ella mi disse con agitazione:

— Va a cercare il dottore Van Helsing. Voglio parlargli subito.

— Perchè?

— Ho un’idea che m’è venuta durante la notte. Bisogna ch’egli m’ipnotizzi prima dell’alba; forse avrò delle rivelazioni da farvi. Presto, amico mio, il tempo stringe!

Corsi nella stanza del professore. Dormiva e parve sorpreso di vedermi.

— Mia moglie vi reclama. Venite presto!

Mi seguì senza protestare. Mina gli espresse il suo desiderio. Allora, senza chiedere particolari inutili, egli fece i passi d’uso. Mina lo guardava fissamente. A poco a poco i suoi occhi si chiusero.

Il Professore fece ancora alcuni gesti e si fermò poichè aveva la fronte madida di sudore. Mina riaprì degli occhi imbambolati. Pareva non vedesse nè noi due nè gli altri tre entrati senza far rumore.

— Dove siete? – chiese Van Helsing.

Ella rispose come in sogno, con una voce lontana:

— Non so, non conosco i luoghi.

— Che cosa vedete?

— Non vedo nulla, è buio.

— Che udite?

— Lo sciacquio delle acque. È il rumore delle onde.

— Allora siete su di una nave?

— Sì, sì, appunto!

— Che udite ancora?

— Sopra la mia testa dei passi d’uomini, un rumor di catena e uno scricchiolio simile a quello dell’argano sopra la ruota d’ingranaggio.

— Che fate?

— Non mi muovo; è calmo, calmo…

Chiuse gli occhi e respirò lievemente come se dormisse.

Il sole s’era alzato. Arturo spalancò le persiane. Il sole inondò la stanza.

Il dottor Van Helsing appoggiò dolcemente la testa di Mina sul guanciale e fece alcuni passi magnetici. Dopo alcuni istanti ella riaperse gli occhi. Guardò tutti noi.

— Ho parlato in sogno? – chiese.

Il Professore le riferì interrogatorio e risposte.

— Non c’è un momento da perdere – disse ella; – forse non è troppo tardi.

Arturo e Morris già si precipitavano.

— Ehi ragazzi miei, dove volete andare? – disse Van Helsing. – Il battello levava l’àncora nel momento in cui ella parlava e ci sono tanti battelli nel porto di Londra!… Ah! canaglia! Capisco adesso perchè gli ci voleva tanto denaro! Per fuggire! Perbacco, non ha che un solo rifugio, viene inseguito come un cane. Londra non è più abitabile per lui! Certo fece caricare su di una nave l’ultima cassa. Ma non speri di sfuggirci. Il sole sorge, la giornata è nostra. Vestiamoci, facciamo colazione e poi all’opera.

Mina ebbe uno sguardo implorante:

— Ma poichè s’allontanava, perchè inseguirlo?

— Perchè – rispose gravemente Van Helsing – vi ha segnata e si può temere qualunque cosa.

Arrivai in tempo ad accoglierla fra le mie braccia!

Il conte Dracula, disegno di Giulia Mochi

Il conte Dracula,
disegno di Giulia Mochi


CAPITOLO XX.

Giornale di Mina.

5 ottobre, le 5 di sera.

Quando ci fummo nuovamente riuniti, il dottore Van Helsing disse:

— Ho cercato di indagare con qual nave il Conte avesse potuto fuggire. Ho pensato che egli doveva cercare di raggiungere la Transilvania per il Mar Nero e l’imboccatura del Danubio. Bisognava sapere qual nave era partita per il Mar Nero. Ci informammo alla Compagnia Lloyd. Una sola goletta aveva fatto vela per Varna al momento della marea: La Czarina Caterina, ancorata sul quai di Doolittle. Congetturai subito che fosse il battello del Conte.

Eccoci dunque in via per il quai di Doolittle. Là, un impiegato ci diede tutte le informazioni desiderate. La vigilia, verso la fine del pomeriggio, un uomo alto e pallido i cui connotati rispondono a quelli del nostro nemico, è venuto a far registrare una gran cassa per Varna. Scaricò da solo quella cassa enorme portata da un autocarro, la quale tuttavia pesava tanto che ci vollero parecchi uomini per trasportarla sulla nave.

Fece molte raccomandazioni circa il posto che doveva occupare la sua cassa e il capitano esasperato lo mandò a tutti i diavoli. La goletta doveva alzar la vela la sera stessa, ma al momento della partenza una leggiera nebbia circondò il battello, ostacolandone la marcia. Il capitano bestemmiava come un turco.

Nella serata il Conte tornò; ci teneva a vedere dov’era il luogo che la cassa occupava. Il mozzo l’accompagnò, lo ricondusse sul ponte. Nessuno lo vide quando uscì dalla nave, ma la nebbia era tale che nessuno se ne meravigliò. L’alba scacciò la nebbia e la goletta alzò subito l’àncora. Quando arrivammo, era già in alto mare.

— Così, cara signora Mina – disse Van Helsing – abbiamo tutto il tempo di raggiungerlo, poichè lo precederemo sul continente.

« Auguriamoci di sorprendere il Conte fra l’aurora e il tramonto; se abbiamo la fortuna di trovarlo nella sua cassa, sarà in nostra balia.

« Conosco esattamente l’itinerario del battello; la cassa verrà scaricata a Varna e consegnata fra le mani d’un agente di Bristics.

— Mio Dio – obiettai – è necessario proprio che inseguiate il Conte? Non voglio che Jonathan mi lasci.

— Sì, è necessario – mi rispose Van Helsing con voce ruvida; – per voi, in primo luogo, e per l’umanità. Questo mostro ha fatto già troppe vittime. Il suo paese selvaggio e poco abitato non gli offriva risorse sufficienti. Non è senza scopo se egli volle scegliere il nostro bel paese così fervido di vita. Tutte le forze naturali e occulte l’hanno servito. Questo mostro ha compromesso la vostra salute. Se domani voi moriste, sareste eguale a lui. Ma questo non avverrà; l’abbiamo giurato. Lavoreremo per la vostra redenzione; e, simili agli antichi Crociati, partiremo per andare a combattere l’Infame e, come loro, vinceremo o moriremo per la buona causa.

Giornale del Dottor Seward.

5 ottobre.

Ci siamo alzati di buon’ora; la prima colazione ci riunì. Eravamo tutti alleggeriti d’un gran peso e quasi allegri. La vita umana ha davvero riserve straordinarie. Certe volte mi chiedo se non abbiamo sognato. E, senza il segno rosso che rimane sulla fronte di Mistress Harker

Van Helsing doveva parlarmi; alzandoci da tavola mi seguì nello studio.

— Amico John – mi disse dopo alcune parole insignificanti – voi indovinate forse quello che vi devo dire.

— Ma no, spiegatevi…

— La signora Mina, la nostra cara signora Mina subisce un cambiamento inquietante.

Fui preso da un brivido; i suoi timori confermavano i miei.

— Il triste precedente di Miss Lucy deve metterci in guardia. Vedo già sul suo viso i sintomi futuri del Vampiro. E ancora poca cosa; ma i suoi denti sono più aguzzi, i suoi occhi hanno, in certi momenti, uno splendore duro. Inoltre, temo che il Conte avendola ipnotizzata, sia in grado di conoscere i suoi pensieri e quindi ciò che meditiamo contro di lui. Ecco quello che dobbiamo impedire ad ogni costo. Il mezzo? Tenerla lontana dai nostri conciliaboli. È penoso ma saggio.

Si rattristò al pensiero del dispiacere che avrebbe dato alla giovine donna già messa a così dura prova.

Quella pena gli venne risparmiata. La signora Harker stessa preferì sottrarsi ai nostri colloqui.

Come il solito, Van Helsing prese la parola:

— La Czarina Caterina – disse – uscì ieri fuor dal Tamigi; le occorreranno tre settimane almeno per raggiungere Varna. Ora, questo percorso noi lo passiamo fare in tre giorni. Abbiamo davanti a noi due settimane di tregua e possiamo fin d’ora fissare la nostra partenza al 27. Così, lo precederemo a Varna e prepareremo il nostro piano d’azione.

— Io propongo – disse Quincy Morris ridendo – di portare, oltre le nostre armi spirituali, delle solide Winchester. Quel paese è, a quanto pare, infestato di lupi.

— Voi pensate a tutto – disse Van Helsing.

E aggiunse:

— Ma però, poichè nessuno ci trattiene qui, perchè non partiremmo tutt’e quattro per tastar terreno?

— Tutt’e quattro? – disse Harker sorpreso.

— Si capisce. Voi dovete stare con vostra moglie. Chi veglierebbe su di lei, se non siete voi?

— Parleremo di questo domattina, voglio prima consultare Mina.

Speravo che Van Helsing raccomandasse al nostro amico di diffidare di sua moglie. Gli feci segno con la coda dell’occhio. Ma per tutta risposta egli si mise un dito sulle labbra.

Giornale di Jonathan Harker.

5 ottobre. Pomeriggio.

Le decisioni di stamane mi danno da pensare. Perchè Mina non volle assistere al nostro Consiglio?

Perchè gli altri non protestarono?

Salii nella stanza di Mina; dormiva come una bimba. La sera cadeva. Ella aperse a un tratto gli occhi e mi guardò con tenerezza.

Jonathan – mi ha detto – promettetemi su quanto avete di più sacro d’accordarmi ciò che vi chiederò.

— Certo, se è in poter mio.

— Sì, e vedrete che il dottor Van Helsing mi sarà riconoscente d’avervelo chiesto.

— Che cosa? – feci io meravigliato.

— Promettetemi di non informarmi circa i piani di campagna formati da voi contro il Conte. Fa duopo che io non li sospetti neppure.

— Lo prometto – dissi col cuore stretto come se una porta si chiudesse fra noi due.

6 ottobre, mattina.

Nuova sorpresa. Stamane allo svegliarsi, Mina mi ha supplicato d’andare a cercare il dottor Helsing, come ieri. Le ho obbedito.

Egli è venuto.

— Voi state per mettervi in viaggio – disse Mina – bisogna che io vi accompagni.

Il dottor Van Helsing ebbe l’aria non meno sorpresa di me.

— Ma perchè?

— Bisogna condurmi – ripetè con ostinazione; – sarò più al sicuro con voi e voi sarete al sicuro con me.

— Ma – obiettò il dottore – andiamo ad affrontare dei pericoli più gravi per voi che per noi.

— Lo so – diss’ella portandosi la mano alla fronte; – ed è per questo che devo partire, lo so che se il Conte mi chiama andrò a ritrovarlo mio malgrado, costretta dalla sua volontà. Voi siete forti e coraggiosi; mi difenderete; inoltre potrò esservi utile rivelandovi nel sonno ipnotico i fatti e le gesta del Conte.

— Avete ragione, signora Mina – disse Van Helsing dopo un attimo di riflessione; – voi dunque ci accompagnerete e riunendo ogni mezzo e ogni sforzo, uniti vinceremo.

Finì appena di parlare che Mina s’addormentò.

Van Helsing mi fe’ segno di seguirlo; noi andammo nello studio di Seward ove ci aspettavano gli altri.

Egli li mise al corrente e stabilì:

— Partiremo dunque tutti per Varna.

— E là che faremo? – chiese Morris.

— Aspetteremo l’arrivo della nave, e non appena giungerà saliremo a bordo per identificare la cassa. Su quella cassa fisseremo delle tuberose, poichè questi fiori impediranno al nostro nemico di uscirne: poi, afferreremo la prima occasione per aprire la cassa…

— Non aspetterò l’occasione – esclamò Morris; – non appena vedrò quella cassa l’aprirò e distruggerò il mostro, fosse pure dinanzi a migliaia di spettatori e a rischio di essere fustigato poi.

— Bravo ragazzo! – disse il dottor Van Helsing. – Ma vedete, ragazzo mio, occorrerà affidarci un poco alle circostanze.

« Per il momento, pensiamo a partire. Vado ad occuparmi dei biglietti.

Un po’ più tardi.

Tutte le mie carte sono in ordine. Ho fatto il mio testamento. Mina, se sopravvive a me, sarà la mia sola erede.

La sera cade. Mina mi sembra a disagio. Io temo il tramonto.

15 ottobre. Varna.

Lasciato Londra il 12. Eravamo a Parigi la sera stessa ove ritenevamo i nostri posti nell’Express-Orient. Quarantott’ore di viaggio. Siamo giunti qui alle cinque di sera.

Lord Godalming è andato al Consolato per sapere se non ci fossero telegrammi per lui. Ci siamo ritrovati all’albergo. Mina sta meglio. Dorme molto. Tuttavia sembra inquieta quando il sole si alza o tramonta e Van Helsing ha preso l’abitudine di ipnotizzarla in quei momenti. Ella s’addormenta subito. Egli le chiede sempre ciò che vede ed ode. Risponde invariabilmente:

— Odo il rumore delle onde e dell’elica; il vento soffia nelle sartie.

La Czarina Caterina è dunque in mare tuttora e s’avvicina a Varna. Lord Godalming ha ricevuto quattro telegrammi dalla compagnia Lloyd con cui fece un accordo prima di lasciare Londra: la Czarina Caterina non fece scalo da nessuna parte.

Ci siamo coricati di buon’ora. Domani cercheremo d’ottenere dal Console il permesso di salire a bordo della goletta non appena getterà l’ancora nel porto. Se è dopo il levar del sole, il Conte è in nostra balìa. Spero che i doganieri non facciano ostacoli. Qui, per fortuna, il denaro è onnipotente e noi ne siamo abbondantemente provveduti.

17 ottobre.

Godalming seppe persuadere gli armatori che la cassa spedita da Londra rinchiudeva degli oggetti appartenenti ad uno de’ suoi amici al quale furono rubati. L’autorizzarono ad aprire la cassa a suo rischio e pericolo e l’armatore gli ha dato un permesso grazie al quale il capitano lo lascierà agire. Anzi mise amabilmente a nostra disposizione il suo agente; e costui, conquistato dalle larghezze del nostro amico, ci è acquisito.

Se possiamo aprire la cassa nelle condizioni che ci auguriamo, ed il conte vi è rinchiuso, Van Helsing e Seward gli taglieranno la testa e gli immergeranno un tizzone nel cuore mentre Morris, Godalming ed io impediremo a chiunque di accostarsi, dovessimo impiegare la forza. Il Professore non dubita che, non appena compiuta l’operazione, il corpo non cada in polvere. Noi siamo pronti ad arrischiare l’impiccagione. Non appena segnalata la Czarina ne saremo avvisati.

24 ottobre.

Una settimana di attesa. Ricevuto un telegramma di Smith Lloyd così concepito:

La Czarina Caterina ha varcato i Dardanelli stamane.

Giornale del Dottor Seward.

24 ottobre.

Grande emozione al ricevere il dispaccio. Soltanto la signora Harker rimane calma. È assai cambiata. È costantemente in uno stato letargico che inquieta Van Helsing e me. Noi celiamo i nostri timori al povero Jonathan che ne sarebbe atterrito. Van Helsing esamina attentamente i denti.

— Finché non diventano aguzzi, non c’è pericolo immediato.

Varna non è che a ventiquattr’ore dai Dardanelli. Il battello arriverà dunque nella mattinata: fino ad allora ci riposeremo.

25 ottobre, mezzodì.

Nessuna notizia della goletta. La signora Harker, interrogata stamane, ci ha fatto la solita risposta.

Noi siamo ansiosi.

La signora Harker ci ha un po’ inquietati.

Verso mezzodì è caduta in una specie di letargia. Jonathan crede che questo sonno le giovi.

26 ottobre.

Ancora un giorno trascorso e nessuna notizia della Czarina Caterina; dovrebbe essere entrata nel porto. Tuttavia è sempre in mare, dice la signora Harker. È la nebbia che la ferma?

27 ottobre, mezzodì.

È straordinario, la goletta non è segnalata. Interrogata, la signora Harker ha risposto la frase solita, aggiungendo tuttavia:

— L’acqua è calma.

Van Helsing è inquieto; m’ha confidato poco fa:

— Temo che egli ci sfugga. Non mi piacciono le letargie della signora Mina. Lo spirito può cose strane durante il sonno.

Stavo per pregarlo di spiegarsi, ma in quel momento entrò Harker e non insistetti.

Ecco il telegramma che riceviamo:

Smith, Londra, a Lord Godalming, Varna.
La Czarina Caterina oggi alla una è entrata nel porto di Galatz.

Questa notizia non ci stupisce oltremodo. Bisognava pure che il ritardo avesse una causa!

— A che ora il primo treno per Galatz? – domanda Van Helsing.

— Alle sei e trenta del mattino – dice la signora Harker, con una voce lontana.

— È esatto – dice Morris che consulta un orario: – anzi, non c’è altro treno.

— Non perdiamo tempo – dice Van Helsing. – Voi, Arturo, andate a prendere i posti per domattina. Voi, Jonathan, andate a trovare l’agente della Compagnia Marittima e ottenete da lui un’introduzione presso l’agente di Galatz con l’autorizzazione d’operare a bordo del battello, come volevamo far qui. Quincy Morris, andate dal viceconsole e pregatelo di raccomandarci al suo confratello di Galatz. John resterà con me accanto alla signora Mina e terremo consiglio.

— Cercherò d’aiutarvi del mio meglio – dice mistress Harker. – Mi sento meno oppressa degli scorsi giorni.

Van Helsing mi lanciò uno sguardo significativo.

Quando i tre uomini furono partiti, egli pregò la signora Harker di cercare nel Memoriale il giornale di Jonathan scritto nel Castello del Conte.

Quando la porta si fu rinchiusa alle spalle di lei, egli disse:

— Che succede mai? La nostra amica sembra come alleggerita. Me lo spiego così. Nel suo stato ipnotico, ella raggiungeva il Conte. E, per mezzo suo, egli conobbe tutti i nostri piani. Si è dunque aggiustato in modo da sfuggirci. Per il momento, non ha più bisogno di lei, e l’abbandona, persuaso ch’ella accorrerà al suo primo comando. Silenzio, eccola.

Il Castello, disegno di Nunzio Brugaletta

Il Castello,
disegno di Nunzio Brugaletta


CAPITOLO XXI.

Giornale del Dottor Seward.

29 ottobre.

Nel treno che ci porta da Varna a Galatz.

Iersera ci riunimmo tutti un po’ prima del calar del sole. Avevamo preparato tutto per il nuovo viaggio.

Van Helsing ipnotizzò ancora una volta mistress Harker. Stentò più del solito e per ottenere la risposta dovette ripetere più d’una volta la domanda.

— Non vedo nulla – ella disse alla fine. – Il battello è immobile. Delle voci si chiamano, odo stridere i remi. Odo un colpo di fucile la cui eco si ripercuote lontano. Poi un rumor di passi sulla mia testa. Trascinano corde e catene. Vedo un raggio di luce. L’aria mi soffia sul viso.

S’era alzata dal divano e con le due mani stese pareva voler sollevare un peso.

Van Helsing mi lanciò uno sguardo significativo.

Pensai che ella non avrebbe parlato più. Infatti di lì a poco riaperse gli occhi e disse con voce naturale:

— Non volete una tazza di thè? dovete essere stanchi.

E uscì per preparare il samovar.

— Vedete, amici miei – disse allora Van Helsing – egli è uscito dal feretro ma non è ancora a terra. Se non sbarca prima di domani mattina, arriveremo a tempo.

Stanotte non ci siamo coricati per poter interrogare la signora Harker prima del sorger del sole. Van Helsing stentò ancor di più ad addormentarla.

— Tutto è buio – diss’ella. – Odo il rumore delle onde e un leggero scricchiolìo.

In quel momento, il disco rosso del sole s’è alzato. Ella tacque. Non sapremo nulla d’altro fino a stassera.

Arriveremo a Galatz fra le due e le tre del mattino. Ma già a Bukarest ebbimo tre ore di ritardo. È promettente!

Un po’ prima del tramonto, Van Helsing ha nuovamente addormentato la nostra medium, con fatica. Temo che la sua facoltà di leggere nel pensiero del Conte si attenui proprio quando ne avremmo maggior bisogno. Invece di attenersi ai fatti, si esprime con enigmi.

— Qualche cosa si allontana; lo sento passarmi accanto come una brezza fresca. Odo in lontananza rumori confusi: degli uomini si esprimono in una lingua straniera. Odo una potente cascata d’acqua e gli urli dei lupi.

Si fermò, scossa da un violento tremito. Non abbiamo potuto cavarne altro, malgrado le domande imperiose del Professore.

Si destò agghiacciata, ma con la mente sveglia.

Giornale di Mina.

30 ottobre.

Mister Morris m’ha condotta all’albergo dove abbiamo fissato le stanze telegraficamente. Lord Godalming è andato al viceconsolato ove il suo titolo peserà a favore sulla bilancia. Jonathan e i due dottori sono andati agli uffici della Compagnia per assumere informazioni circa la Czarina Caterina.

Ecco Arturo di ritorno. Dice:

— Il console è assente e il vice console malato. Il cancelliere fu cortese e ci promise il suo concorso.

Giornale di Jonathan Harker.

30 ottobre.

Alle nove del mattino, Van Helsing, Seward ed io ci siamo presentati dai signori Mackenzie e Steinkeff, gli agenti della Compagnia. Gentilissimi, ci condussero a bordo della Czarina Caterina ch’era ancora nel porto. Là, abbiamo visto il capitano Donalson.

— Non avete a bordo una gran cassa al nome del Conte Dracula?

— Ne avevamo una, infatti: ma stamane un uomo è venuto a reclamarla. Ha presentato delle carte in regola e gliel’abbiamo consegnata.

— Chi era quest’uomo? – chiese vivamente Van Helsing.

— Oh! è facile sapersi – disse l’altro togliendosi di tasca una ricevuta. – Ecco il suo nome: Emanuele Hildessheim, Burgen stras, 16.

Il capitano non sapeva altro. Ringraziandolo, ci congedammo.

Trovammo Hildessheim nel suo ufficio sovraccarico. È un ebreo dal naso prominente. Porta il fez. Non si fece pregare per informarci.

Aveva ricevuto una lettera da un certo signor de Ville di Londra, che lo pregava di ritirare prima del sorger del sole una cassa la quale doveva giungere a Galatz con la Czarina Caterina. Quella cassa doveva venir consegnata nelle mani d’un certo Petroff Skinsky, il quale s’incaricava di trattare con gli slovacchi che eseguivano i trasporti lungo il fiume.

Cercammo invano questo Skinsky; uno dei suoi vicini ci affermò ch’era partito da due giorni. Aveva consegnato prima la chiave al padrone di casa. Stavamo conversando con quella degna persona quando si sparse la voce ch’era stato ritrovato il corpo di Skinsky nel cimitero di San Pietro; aveva la gola squarciata come da una bestia selvaggia.

Giornale di Mina.

30 ottobre, sera.

Ecco il risultato delle mie meditazioni. Le sottoporrò ai nostri amici, dopo averle stese per iscritto per meglio precisarle. Il conte certo medita di raggiungere il castello.

A). Bisogna che qualcuno ve lo riconduca, dal momento ch’egli si confina nel suo feretro.

B). Che via seguirà? La strada carreggiabile, la ferrovia o il fiume?

C). La strada? Deve temere gli impiegati daziarii, i curiosi. Temerà sopratutto di essere raggiunto più facilmente.

D). La ferrovia? Ma allora chi sorveglia la spedizione della cassa? Arrischia delle fermate, dei ritardi. Può, è vero, sfuggire di notte. Ma che avverrà se non ha rifugio?

E). L’acqua? È ancora il mezzo più sicuro. Credo che abbia scelto questa via.

Ho esaminato or ora la carta del paese. Gli Slovacchi possono aver seguito due strade: il Pruth oppure il Sereth. Nel mio sonno, udii un muggire di mucche, un gorgogliare d’acqua. Ne conclusi che il Conte non è uscito dal suo feretro e che la cassa è sopra un canotto messo in moto dai remi; dunque risale la corrente. Dei due fiumi, il Pruth è più navigabile; d’altra parte, il Sereth, a Fondu, raggiunge la Bistritza che gira intorno al passo del Borgo.

Ho fatto loro parte delle mie riflessioni; hanno riconosciuto la giustezza delle mie previsioni.

— Che suggerite? – chiese Van Helsing.

— Ho voglia di noleggiare un vaporino e seguire il canotto – disse Arturo.

— Io, potrei seguire a cavallo le sponde del fiume – disse Morris; – in tale modo, gl’impedirò di sbarcare.

— Io potrei accompagnare Quincy – propose il dottor Seward; – abbiamo già fatto la caccia insieme; e armati dei nostri winchesters, non temiamo nulla.

— Ecco quello che propongo io – disse Van Helsing. – Mentre Jonathan e Arturo seguiranno il canotto col vapore, John e Quincy costeggeranno la riva a cavallo. Io condurrò la signora Mina al castello Dràcula. Il potere ipnotico della signora Mina ci sarà di grande aiuto. Quanti punti da santificare nel castello! Bisogna distruggere quel nido di vampiri.

— E che! – disse vivamente Jonathan – vorreste condurre la mia povera moglie in quel covo! Non vi acconsentirò mai.

— Rassicuratevi, amico mio; ella non corre nessun rischio. È appunto per il suo bene che le infliggo questa prova meno crudele della morte del Conte alla quale assisterebbe rimanendo con voi.

La questione è regolata. Per fortuna Lord Godalming e Morris hanno del denaro e non sono avari nello spenderlo per noi.

Tre ore soltanto dopo questa discussione, Lord Godalming e Jonathan erano già in possesso di un grazioso steamer la cui caldaia è sotto pressione. Il dottor Seward e Morris hanno magnifici cavalli e tutti siamo muniti di carte topografiche.

Con Van Helsing prenderò il treno delle 11.40 per Veresti ove una vettura ci condurrà al passo del Borgo. Abbiamo delle armi; Jonathan m’ha regalato una preziosa piccola rivoltella.

Mio marito m’ha abbracciato strettamente. Ho il cuore gonfio al pensiero di lasciarlo. E tuttavia coraggio!

Giornale di Jonathan Harker.

30 ottobre, notte.

Scrivo alla luce della fornace che Lord Arturo attizza. Egli è esperto meccanico; non dimentica d’aver altra volta diretto egli stesso un yacht sul Tamigi.

Studio la carta topografica: Mina ha certamente ragione: il Conte raggiungerà il suo castello per il Sereth e la Bistritza. Lascerà il fiume al 47° grado di latitudine nord per raggiungere i Carpazi. Noi avanziamo con discreta velocità. Il fiume è profondo.

Morris e Seward ci precedono; seguono la riva destra. Purchè almeno siamo sulla buona via! Quattro cavalli sellati li seguono nel caso in cui ne avessimo bisogno.

31 ottobre.

Il giorno si alza. Arturo dorme e monto io la guardia. Fa freddissimo. Indossiamo grossi mantelli di pelliccia.

Abbiamo già oltrepassato parecchi canotti; ma nessuno ci parve contenere quel che cerchiamo. Quando dardeggiammo sui marinai il nostro faro elettrico, essi caddero a ginocchi.

1 novembre, sera.

Nulla di nuovo. Navighiamo adesso sulla Bistritza. Abbiamo interrogato tutti i battelli e tutti i canotti. Uno di essi stamattina ci prese per il battello del Governo, il che diede l’idea d’inalberare un vessillo rumeno e ci valse dei segni di deferenza.

Degli Slovacchi ci segnalarono il passaggio di un grande canotto che andava a gran velocità, prima d’arrivare a Fondu. Così non sappiamo se continuò sul Sereth o volse verso la Bistritza.

Io cado dal sonno; il freddo m’intorpidisce. Godalming insiste per fare lui la veglia imminente.

2 novembre, mattina.

È giorno alto. Il mio bravo compagno stanotte non m’ha svegliato. Sono adirato meco stesso d’aver dormito tanto senza pensare a rilevarlo dalla sua fazione! Questo sonno mi ha fatto un gran bene; adesso dorme lui e veglio io. Dove saranno Mina e Van Helsing? Devono avere raggiunto Veresti mercoledì verso mezzogiorno. Ma siccome avranno dovuto impiegare un certo tempo per procurarsi una carrozza, adesso soltanto saranno arrivati al Passo del Borgo. Sono inquieto. È impossibile correre di più. E Seward e Morris? Purchè nulla sia loro accaduto! Spero che li vedremo prima di giungere a Strasba, ove sarà bene tener consiglio.

Old bloody castle, disegno di Sergio Piludu

Old bloody castle,
disegno di Sergio Piludu


CAPITOLO XXII.

Giornale di Mina.

31 ottobre.

Giunti a Veresti verso mezzodì. Noleggiato una vettura e dei cavalli. Abbiamo davanti a noi più di 70 chilometri di percorso. Paese incantevole. Se viaggiassimo per diporto, sarebbe delizioso.

L’albergatrice di Veresti ci ha dato un cesto di provviste come per un reggimento.

— Non protestate – ha detto il professore; – trascorrerà forse una settimana prima che possiamo vettovagliarci.

1 novembre.

Tutta la giornata abbiam corso a gran velocità. Una fermata per il cambio dei cavalli e bere del caffè caldo. Van Helsing spende l’oro a piene mani. La contrada è splendida. Il popolo è prode, semplice ma superstiziosissimo. Al primo cambio, l’albergatrice vedendomi la scottatura in fronte si fece il segno della croce e puntò due dita verso di me per proteggermi dal malocchio. Adesso, tengo sempre il velo abbassato.

Il Professore è instancabile. Non volle prendersi nessun riposo: mi fece dormire alcune ore.

Al sorger del sole m’ha ipnotizzata. Ho risposto come al solito: — Oscurità. Acqua calma. Scricchiolìo dei remi.

Dunque il nostro nemico è sempre sul fiume. Io penso con inquietudine a Jonathan. Ci riposiamo in una fattoria aspettando i cavalli. Il Professore sembra molto stanco. Adesso gli chiederò di lasciarmi guidare e lo costringerò a riposare in fondo alla vettura.

2 novembre, sera.

Ancora una giornata di vettura. Siamo in mezzo ai Carpazi. Domattina arriveremo al Passo del Borgo. Ci sono poche abitazioni. Non potremo certo effettuare il cambio dei cavalli. E infatti nell’ultima tappa Van Helsing ne fece attaccare quattro.

Memorandum di Abraham Van Helsing.

4 novembre.

Scrivo per il mio caro amico Seward, nel caso non dovessi più vederlo. Scrivo accanto ad un fuoco che abbiamo mantenuto acceso tutta la notte, la signora Mina ed io. Fa freddo. Il cielo grigio e pesante è pieno di neve. La signora Mina par che ne soffra. Non mangia più e dorme d’un sonno pesante. Tuttavia stassera è più sveglia. Ho cercato invano d’ipnotizzarla, al tramonto.

Siamo giunti al Passo del Borgo iermattina, dopo la levata del sole. Andammo avanti senza mai sostare. Con l’aiuto d’un po’ di legna minuta, abbiamo acceso questo fuoco. Poi, andai ad esplorare un po’ la strada, staccai i cavalli e diedi loro da mangiare. Quando tornai, la cena era pronta.

— Mangiate – disse la signora Mina; – avevo tanta fame che non potei aspettarvi e ho pranzato.

Ho dei sospetti ma non oso formularli.

La pregai in seguito di dormire. Ella s’adagiò ma non potè chiudere gli occhi. Invece fui io che sonnecchiai, in parecchie riprese. E ogni volta che mi sveglio sussultando, vedo fissi su me i suoi occhi brillanti. È strano. Non s’è addormentata che sul mattino, d’un sonno pesante.

5 novembre, mattina.

Il paese diventa sempre più selvaggio. Ci sono grandi precipizi. La signora Mina dorme ancora. Ho cercato invano di svegliarla. Temo che questo paese non eserciti il suo incanto malefico e che la maledizione non cominci ad agire. Poichè dorme tutto il giorno, mi guarderò bene dal dormire io di notte!

Ci accostiamo ad una collina dominata da un castello somigliante, sotto ogni aspetto, a quello descritto da Jonathan. Ho svegliato la signora Mina. Mi par riposata e seducente quanto mai. Preparai il pasto; ma non volle mangiare protestando che non aveva fame. Ho dunque cenato solo non senza inquietudine. Poi, tracciai un circolo intorno al luogo ov’ella era seduta e prendendo alcune tuberose le sfogliai intorno. La signora Harker impallidì orribilmente.

— Venite accanto al fuoco – dissi per metterla alla prova.

Ella si alzò, fece un passo e si fermò.

— Venite – insistei.

Ma ella sedette nuovamente, scosse la testa e disse semplicemente:

— Non posso.

Respiro, poichè se il suo corpo è in pericolo, la sua anima è salva ancora.

A un tratto i cavalli nitrirono e s’impennarono. Durai fatica a calmarli. Il fuoco si spense alla mattina e la neve cominciò a cadere con una nebbia fitta, che faceva pensare a donne con sciarpe strascicanti. Il silenzio fu interrotto all’improvviso dal nitrito dei cavalli. Una vaga inquietudine s’impadronì di me. È il ricordo delle avventure di Jonathan? Ma mi sembra scorgere e muoversi fra i turbini di neve e la nebbia le tre orribili sorelle del Castello Dràcula!

La signora Mina è calma e mi sorride. Il fuoco essendosi spento, ho voluto alzarmi per riaccenderlo; ma la signora Mina mi prese il braccio.

— No, no, restate accanto a me – disse sottovoce soltanto qui siete al sicuro.

— Ma è per voi che io temo!

Allora ella ebbe un riso basso e strano:

— Per me? Perchè? Io non temo nulla.

Vidi allora la bruciatura della fronte e capii. Finalmente sorse il sole e dissipò il mio terrore. La signora Mina dormiva profondamente. M’accostai ai cavalli per attaccarli; ma constatai che erano stesi al suolo, morti tutti.

5 novembre.

Lasciando lì la signora Mina addormentata, mi munii di un’accetta e m’avventurai solo verso il Castello, pronto a sfondare le porte. Erano tutte spalancate; ma per prudenza le tolsi dai cardini, per essere sicuro che non si rinchiudessero dietro a me.

Grazie alle indicazioni di Jonathan trovai senza fatica la via della cappella. L’aria era opprimente e come appestata da esalazioni sulfuree. Sapevo di dover trovare almeno tre tombe. Dopo un po’ di tempo, trovai la prima. Una giovine donna incantevole dormiva del suo sonno di vampiro. Era tanto bella ch’ebbi l’impressione di commettere un omicidio. M’immobilizzai davanti a lei, muto d’ammirazione e come affascinato. Ma con uno sforzo violento mi strappai da quella contemplazione e continuai le mie ricerche.

In un feretro vicino scopersi l’altra sorella bruna, e in un gran monumento la terza sorella bionda. Era di così fulgida bellezza in quel sonno voluttuoso che il mio cuore battè d’emozione. Ma m’irrigidii e continuai le mie ricerche. Non c’erano altre forme umane. Ne dedussi che il castello era abitato soltanto da loro.

Una gran tomba più signorile delle altre, portava quest’iscrizione:

Qui giace il Conte Dracula.

Dunque, era quello il covo del Vampiro!

Prima di estinguere violentemente le tre belle sorelle, deposi nella tomba del Conte un fiore d’aglio benedetto per scacciarnelo per sempre.

Poi cominciai il mio orribile compito… Come potei compiere quel massacro?… Il pensiero della mia cara signora Mina mi sosteneva e il pensiero degli amici… E se non fossi stato ricompensato dalla beatitudine che lessi sul viso delle tre sorelle prima della decomposizione finale, mai, no, mai, avrei potuto per tre volte commettere lo stesso assassinio… Ma adesso tutto è finito. Quelle povere anime dormono in pace… Le ho salvate…

Prima di partire, protessi le uscite del castello in modo che il Conte non vi potrà rientrare.

Poi raggiunsi la signora Mina. Dormiva ancora, ma si svegliò di soprassalto al rumore de’ miei passi. Era molto pallida.

— Andiamo a raggiungere mio marito – disse.

— So che cammina alla nostra volta.

Giornale di Mina.

6 novembre.

Il pomeriggio era già inoltrato quando il Professore ed io ci riavviammo verso l’Est per andare incontro a Jonathan. Avanzavamo lentamente, essendo sovraccarichi di coperte, provviste, ecc.

Sul far della sera eravamo sfiniti dalla stanchezza. Nevica sempre. Il Professore scelse una specie di caverna formata dal riavvicinamento di due roccie. Spiegò e stese a terra le coperte.

— Adagiatevi – disse. – Veglierò io. Se i lupi s’avvicinano, saprò difendervi.

Mi provai a mangiare, per fargli piacere; ma invano. Qualunque cibo mi fa orrore. Van Helsing interrogò l’orizzonte con la scorta del suo binoccolo.

— Guardate! Guardate! – esclamò.

Mi tese il binoccolo, indicandomi una certa direzione. Dalla roccia su cui eravamo, si scorgeva tutta la campagna, lontano. Proprio di fronte a noi, a molta distanza, s’avanzava un gruppo di cavalieri scortanti una specie di carro che sobbalzava da destra a sinistra per le ineguaglianze del terreno. Dai vestiti, riconobbi dei paesani slovacchi, zingari. Sul carro, una lunga cassa.

Il cuore mi balzò in petto: eravamo presso alla meta. Ma la sera cadeva e sapevo che col tramonto il Mostro avrebbe ripreso la propria libertà arrischiando di sfuggirci. Mi volsi verso il professore. Era saltato giù dalla roccia e vi tracciava un gran cerchio intorno.

— Sì, sarete al sicuro – disse.

Mi riprese dalle mani il binoccolo e se lo portò agli occhi.

— Sferzano i cavalli continuamente. Visibilmente, vogliono giungere prima del tramonto.

Una nuova tempesta di neve ci acciecò.

— Guardate! guardate! – esclamò ancora Van Helsing quando il nevischio si fu dissipato. Due uomini a cavallo a gran trotto dal sud. Devono essere Quincy e Seward.

Guardai anch’io e vidi, a mia volta, venire dal nord due altri ch’erano evidentemente lord Godalming ed il mio caro Jonathan.

— Urrà! – gridò il professore come un monello.

Caricò il suo winchester, prevedendo l’attacco degli zingari. Quanto a me, estrassi la mia piccola rivoltella, poichè l’urlo dei lupi si avvicinava. Ogni momento pareva un secolo. Il vento soffiava con forza sollevando bufere di neve, tanto che, in certi momenti, non ci si vedeva davanti a sè.

Gli zingari s’accostavano ed i nostri cavalieri minacciavano di tagliar loro la ritirata. A un tratto, due voci gridarono: « Alt! » Riconobbi la cara voce del mio Jonathan e il tono deciso di Quincy Morris.

Gli zingari si fermarono, meravigliati. Ma il capo, un magnifico centauro vestito di rosso, nel suo linguaggio diede un comando breve ed essi si rimisero in moto.

Lord Godalming e Jonathan a destra, Seward e Morris a sinistra li circondarono, impugnando la loro winchester. Nello stesso punto, Van Helsing ed io ci mostrammo. Gli zingari, vedendosi circondati, estrassero le armi, pronti alla difesa.

Jonathan, incosciente del pericolo e trasportato dal proprio ardore, si slancia in mezzo agli uomini. Noi accorriamo alla riscossa. Il capo mostra il sole che cala sull’orizzonte e par esorti i compagni.

Jonathan è balzato sul camion e con una energia di cui non l’avrei creduto capace, ne butta giù la cassa. Gli zingari s’avventano su di lui; vedo luccicale un coltello e lancio un grido. Morris interviene; è lui che riceve la coltellata. Jonathan si sforza di scassinare il feretro. Gli zingari, sotto la minaccia dei fucili, sembrano domati. Il sole sta per scomparire. Vittoria! Jonathan ha fatto saltare il coperchio della cassa e scopre il corpo del nostro nemico: il Conte è pallido come la cera e da’ suoi occhi traluce un folle terrore.

Lo spazio d’un lampo e il largo coltello di Jonathan gli mozza il capo mentre Quincy Morris gli immerge il proprio pugnale nel cuore.

Il miracolo è istantaneo: il corpo cade in polvere.

Dietro di noi, il castello si stacca sul cielo rosso.

Gli zingari, atterriti, son saltati sul carro, allontanandosi a corsa.

Ma il nostro povero amico Quincy s’accascia, portandosi la mano sul fianco sinistro. Un fiotto di sangue gli cola fra le dita. Accorriamo. Egli mi prende la mano e guardando la mia fronte dice con aria di beatitudine: « Il segno è scomparso, posso morire tranquillo. »

Ci siamo inginocchiati accanto a lui, piamente.

È morto da prode.

Disegno digitale ottenuto con Midjourney

Disegno digitale ottenuto con www.midjourney.com


Dracula

Disegno di Antonio Tarantino

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