Rime, di Gaspara Stampa
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LXXXI

      Questo aspro conte, un cor d'orsa e di tigre,
che 'n così vago e mansueto aspetto
per forza di valor e d'intelletto
a la strada di gloria par che migre,
      non so per qual cagion guasti e denigre,
col mancarmi di fé, sì degno effetto,
e l'ali di sua fama col difetto
d'infedeltà renda restive e pigre.
      Almen gli foss'io presso, onde potessi
dimostrargli il suo fallo e 'l dolor mio,
sì che fido e pietoso lo facessi!
      Ma i' son qui, lassa, colma di desio,
e i miei lamenti a l'aure son commessi:
egli in Francia si sta colmo d'oblio.


LXXXII

      Qui, dove avien che 'l nostro mar ristagne,
conte, la vostra misera Anassilla,
quando la luna agghiaccia e 'l sol favilla,
pur voi chiamando, si lamenta ed agne.
      Voi, dove avien che l'Oceano bagne,
la notte, il giorno, a l'alba ed a la squilla,
menando vita libera e tranquilla,
mirate lieto il mar e le campagne.
      E sì l'assenzia e 'l poco amor v'invola
la memoria di lei, la vostra fede,
che pur non le scrivete una parola.
      O fra tutt'altre mia miseria sola!
o pena mia, ch'ogn'altra pena eccede!
Ciò si comporta, Amor, ne la tua scola?


LXXXIII

      Oimè, le notti mie colme di gioia,
i dì tranquilli, e la serena vita,
come mi tolse amara dipartita,
e converse il mio stato tutto in noia!
      E, perché temo ancor (che più m'annoia)
che la memoria mia sia dipartita
da quel conte crudel che m'ha ferita,
che mi resta altro omai, se non ch'io moia?
      E vo' morir, ché rimirar d'altrui
quel che fu mio quest'occhi non potranno,
perché mirar non sanno altri che lui.
      Prendano essempio l'altre che verranno
a non mandar tant'oltre i disir sui,
che ritrar non si possan da l'inganno.


LXXXIV

      O sacro, amato e grazioso aspetto,
o più che 'l chiaro sol lucenti lumi,
o sangue illustre, angelici costumi,
o alto ingegno, altissimo intelletto,
      o colmi di prudenzia e di diletto,
d'eloquenzia profondi e larghi fiumi,
o finalmente, ond'io più mi consumi,
d'ogni grazia e virtù, conte, ricetto,
      qual contra a' miei disir stella empia e cruda
già mi vi tolse, ed or vi tien discosto
contra la fé che voi mi deste pria?
      O morte dunque queste luci chiuda,
od apritele voi tornando tosto;
perché così non so quel ch'io sia.


LXXXV

      Quando talvolta il mio soverchio ardore
m'assale e stringe oltra ogni stil umano,
userei contra me la propria mano,
per finir tanti omai con un dolore.
      Se non che dentro mi ragiona Amore,
il qual giamai da me non è lontano:
- Non por la falce tua ne l'altrui grano:
tu non sei tua, tu sei del tuo signore,
      perché dal dì, ch'a lui ti diedi in preda,
l'anima e 'l corpo, e la morte e la vita
divenne sua, e a lui conven che ceda.
      Sì ch'a far da te stessa dipartita,
senza ch'egli tel dica o tel conceda,
è troppo ingiusta cosa e troppo ardita.


LXXXVI

      Piangete, donne, e poi che la mia morte
non move il signor mio crudo e lontano,
voi che sète di cor dolce ed umano,
aprite di pietade almen le porte.
      Piangete meco la mia acerba sorte,
chiamando Amor, il ciel empio, inumano,
e lei, che mi ferì, spietata mano,
che mi vegga morir e lo comporte.
      E, poi ch'io sarò cenere e favilla,
dica alcuna di voi mesta e pietosa,
sentita del mio foco una scintilla:
      - Sotto quest'aspra pietra giace ascosa
l'infelice e fidissima Anassilla,
raro essempio di fede alta amorosa.


LXXXVII

      Prendi Amor i tuoi strali e la tua face,
ch'io ti rinunzio i torti e le fatiche,
le voglie a' propri danni sempre amiche,
la guerra certa e la dubbiosa pace.
      Trova un novo soggetto e più capace,
cui 'l tuo foco arda e la sua rete intriche,
ch'io per me non vo' più che mi si diche:
- Questa per altri indarno arde e si sface.-
      Io son dal grave essilio tuo tornata,
e son resa a me stessa, e non men pento,
mercé di lui che m'ha la via mostrata.
      E ne' miei danni ho pur questo contento,
ch'almen, s'io fui da te sì mal trattata,
alta fu la cagion del mio tormento.


LXXXVIII

      Lassa, chi turba la mia lunga pace?
chi rompe il sonno e l'alta mia quiete?
chi mi stilla nel cor novella sete
di gir seguendo quel che più mi sface?
      Tu, Amore, il cui strale e la cui face
ogni contento uman recide e miete;
tu ber mi desti del tuo fiume Lete,
che più mi nòce, quanto più mi piace.
      Ahi, quando fia giamai ch'un giorno possa
voler col mio voler, resa a me stessa,
del grave giogo periglioso scossa?
      Quando fia mai che la sembianza impressa
dentro a le mie midolle e dentro a l'ossa
mi smaghi Amor, e' miei martìr con essa?


LXXXIX

      Ma che, sciocca, dich'io? perché vaneggio?
perché sì sfuggo questo chiaro inganno?
perché sgravarmi da sì util danno,
pronta ne' danni miei, ad Amor chieggio?
      Come, fuor di me stessa, non m'aveggio
che quante ebber mai gioie, e quante avranno,
quante fûr donne mai, quante saranno,
co' miei chiari martìr passo e pareggio?
      Ché l'arder per cagion alta e gentile
ogni aspra vita fa dolce e beata
più che gioir per cosa abietta e vile.
      Ed io ringrazio Amor, che destinata
m'abbia a tal foco, che da Battro a Tile
spero anche un giorno andar chiara e lodata.


XC

      Voi, che per l'amoroso, aspro sentiero,
donne care, com'io, forse passate;
ed avete talor viste e provate
quante pene può dar quel crudo arciero;
      dite per cortesia, ma dite il vero,
se quante ne son or, quante son state,
a l'aspre pene mie paragonate,
agguaglian un de' miei martìr intero.
      E dite se vedeste mai sembianza
più dolce in vista e più spietata poi
del signor mio, ne l'amorosa stanza.
      Così talvolta amor dia tregua a voi,
mentr'ei con questa dura lontananza
sfoga in me tutti ad uno i furor suoi.


XCI

      Novo e raro miracol di natura,
ma non novo né raro a quel signore,
che 'l mondo tutto va chiamando Amore,
che 'l tutto adopra fuor d'ogni misura:
      il valor, che degli altri il pregio fura,
del mio signor, che vince ogni valore,
è vinto, lassa, sol dal mio dolore,
dolor, a petto a cui null'altro dura.
      Quant'ei tutt'altri cavalieri eccede
un esser bello, nobile ed ardito,
tanto è vinto da me, da la mia fede.
      Miracol fuor d'amor mai non udito!
Dolor, che chi nol prova non lo crede!
Lassa, ch'io sola vinco l'infinito!


XCII

      Quasi quercia di monte urtata e scossa
da ogni lato e da contrari venti,
che, sendo or questi or quelli più possenti,
per cader mille volte e mille è mossa,
      la vita mia, questa mia frale possa
combattuta or da speme or da tormenti,
non sa, lontani i chiari lumi ardenti,
in qual parte piegar ormai si possa.
      Or m'affidan le carte del mio bene,
or mi disperan poi l'altrui parole;
ei mi dice: - Io pur vengo; - altri: - Non viene. -
      Sia morte meco almen, più che non suole,
pietosa a trarmi fuor di tante pene,
se non debbo veder tosto il mio sole.


XCIII

      Qual fuggitiva cerva e miserella,
ch'avendo la saetta nel costato,
seguìta da due veltri in selva e 'n prato,
fugge la morte che va pur con ella,
      tal io, ferita da l'empie quadrella
del fiero cacciator crudo ed alato,
gelosia e disio avendo a lato,
fuggo, e schivar non posso la mia stella.
      La qual mi mena a miserabil morte,
se non ritorna a noi da gente strana
il sol degli occhi miei, che la conforte:
      egli è 'l dittamo mio, egli risana
la piaga mia; e può far la mia sorte,
d'aspra e noiosa, dilettosa e piana.


XCIV

      A che, conte, assalir chi non repugna?
a che gittar per terra chi si rende?
a che contender con chi non contende?
con chi avete mai sempre fra l'ugna?
      Sapete che co' morti non si pugna;
ché lo splendor d'un cavalier offende,
e 'l vostro più, che l'ali oggimai stende
dove non so s'altrui chiarezza aggiugna.
      Guardate che la fama de le tante
vostre vittorie poi non renda oscura,
signor, quest'una sola, e non ammante.
      Io per me stimerei mia gran ventura
l'esser veduta al vostro carro innante;
ma voi del vostro onor abiate cura.


XCV

      Menami, Amor, ormai, lassa! il mio sole,
che mi solea non pur far chiaro il giorno,
ma non men che 'l dì chiara anco la notte,
tal ch'io sprezzava il ritornar de l'alba,
sì di quest'occhi la sua vaga luce
disgombrava le tenebre e la nebbia.
      Ed ora più non veggio altro che nebbia,
poi che l'usato mio lucente sole,
con la sua e del mondo altera luce
lume facendo in altra parte e giorno,
vuol che mai non si rompa per me l'alba,
perché da me non fugga unqua la notte.
      Deh discacciasse il vel di questa notte,
il vel di tanta e sì importuna nebbia,
e a l'apparir del suo ritorno l'alba
mi rimenasse il mio bramato sole,
sì che lieta vedessi ancora un giorno,
pria che chiudessi in tutto esta mia luce!
      Ben fôra chiara e graziosa luce,
che procedesse a sì beata notte;
ben fôra chiaro e desiato giorno,
e disgombrato di tempeste e nebbia,
che mostrasse a quest'occhi il lor bel sole,
spuntando tra le rose e tra i fior l'alba.
      Pur ch'innanzi che 'l ciel mi renda l'alba,
morte amara non spenga la mia luce,
invidiando a lei l'amato sole;
e chiusi gli occhi in sempiterna notte,
ne vada, lassa, a star fra quella nebbia,
dove mai non si vede chiaro giorno.
      Tu dunque, Amor, che fai di notte giorno,
e puoi condurmi in un momento l'alba
e via cacciar de' miei martìr la nebbia,
e di tenebre oscure trar la luce,
rompi omai 'l vel di questa lunga notte,
et adduci a quest'occhi il mio bel sole.
      Vivo sol, che solei far chiaro il giorno,
mentre la luce mia non vide nebbia,
perché non meni a la mia notte l'alba?


XCVI

      Deh perché, com'io son con voi col core,
non vi son, conte, ancor con la persona,
com'io vorrei, tanto 'l disio mi sprona,
tanto mi stringe il signor nostro Amore?
      Ché, mirando talor l'aspro furore
sovra di voi, quando arde più Bellona,
di qualche cavalier, che la corona
cercasse porsi di sì alto onore,
      vedendo scender qualche colpo crudo,
o pregherei Amor che lo schifassi,
o io del corpo mio li farei scudo.
      Ma 'l ciel pur fiero a le mie voglie stassi,
né m'ode, benché 'l duol, che dentro chiudo,
rompa per la pietate i duri sassi.


XCVII

      O gran valor d'un cavalier cortese,
d'aver portato fin in Francia il core
d'una giovane incauta, ch'Amore
a lo splendor de' suoi begli occhi prese!
      Almen m'aveste le promesse attese
di temprar con due versi il mio dolore,
mentre, signor, a procacciarvi onore
tutte le voglie avete ad una intese.
      I' ho pur letto ne l'antiche carte
che non ebber a sdegno i grandi eroi
parimente seguir Venere e Marte.
      E del re, che seguite, udito ho poi
che queste cure altamente comparte
ond'è chiar dagli espèri ai lidi eoi.


XCVIII

      Conte, il vostro valor ben è infinito
sì che vince qualunque alto valore,
ma verissimamente è via minore
del duol, ch'amando io ho per voi patito.
      E, se non s'è fin qui letto et udito
de l'infinito cosa unqua maggiore,
questi sono i miracoli d'Amore,
che vince ciò che 'n cielo è stabilito.
      Tempo già fu, che l'alta gioia mia
di gran lunga avanzava anco il mio duolo
mentre dolce la speme entro fioria:
      or ella è gita, ed ei rimaso è solo,
dal dì che per mia stella acerba e ria
prendeste, ahi lassa! verso Francia il volo.


XCIX

      Io pur aspetto, e non veggo che giunga
il mio signor o 'l suo fidato messo
al termin che da lui mi fu promesso:
lassa! ché 'l mio piacer troppo s'allunga.
      Ond'avien che temenza il cor mi punga,
che qualche intoppo non gli sia successo;
o ch'ei sol pensi in me quanto m'è presso,
e l'assenzia il suo cor da me disgiunga.
      Il che se fosse, io prego morte avara
che venga in vece sua, poi ch'ei non viene,
a trarmi fuor di tèma e vita amara.
      Ma se giusta cagion me lo ritiene,
io prego Amor, ch'ogni fosco rischiara,
ch'apra la via, ond'io vegga il mio bene.


C

      O beata e dolcissima novella,
o caro annunzio, che mi promettete
che tosto rivedrò le care e liete
luci e la faccia graziosa e bella;
      o mia ventura, o mia propizia stella,
ch'a tanto ben serbata ancor m'avete,
o fede, o speme, ch'a me sempre sète
state compagne in dura, aspra procella;
      o cangiato in un punto viver mio
di mesto in lieto; o queto, almo e sereno
fatto or di verno tenebroso e rio;
      quando potrò giamai lodarvi a pieno?
come dir qual nel cor aggio disio?
di che letizia io l'abbia ingombro e pieno?


CI

      Con quai degne accoglienze o quai parole
raccorrò io il mio gradito amante,
che torna a me con tante glorie e tante,
quante un non vide forse il sole?
      Qual color or di rose, or di viole
fia 'l mio? qual cor or saldo ed or tremante,
condotta innanzi a quel divin sembiante,
ch'ardir e tèma insieme dar mi suole?
      Osarò io con queste fide braccia
cingerli il caro collo, ed accostare
la mia tremante a la sua viva faccia?
      Lassa, che pur a tanto ben penare
temo che 'l cor di gioia non si sfaccia:
chi l'ha provato se lo può pensare.


CII

      Via da me le tenebre e la nebbia,
che mi son sempre state agli occhi intorno
sei lune e più, che 'n Francia fe' soggiorno
lui, che 'l mio cor, come gli piace, trebbia.
      È ben ragion ch'asserenarmi io debbia,
or che 'l mio sol m'ha rimenato il giorno;
or c'han pace le guerre, che d'attorno
mi fûr, qual vide Trasimeno e Trebbia.
      Sia ogni cosa in me di riso piena,
poi che seco una schiera di diletti
a star meco il mio sol almo rimena.
      Sia la mia vita in mille dolci, eletti
piaceri involta, e tutta alma e serena,
e se stessa gioendo ognor diletti.


CIII

      Io benedico, Amor, tutti gli affanni,
tutte l'ingiurie e tutte le fatiche,
tutte le noie novelle ed antiche,
che m'hai fatto provar tante e tanti anni;
      benedico le frodi e i tanti inganni,
con che convien che i tuoi seguaci intriche;
poi che tornando le due stelle amiche
m'hanno in un tratto ristorati i danni.
      Tutto il passato mal porre in oblio
m'ha fatto la lor viva e nova luce,
ove sol trova pace il mio disio.
      Questa per dritta strada mi conduce
su a contemplar le belle cose e Dio,
ferma guida, alta scorta e fida luce.


CIV

      O notte, a me più chiara e più beata
che i più beati giorni ed i più chiari,
notte degna da' primi e da' più rari
ingegni esser, non pur da me, lodata;
      tu de le gioie mie sola sei stata
fida ministra; tu tutti gli amari
de la mia vita hai fatto dolci e cari,
resomi in braccio lui che m'ha legata.
      Sol mi mancò che non divenni allora
la fortunata Alcmena, a cui stè tanto
più de l'usato a ritornar l'aurora.
      Pur così bene io non potrò mai tanto
dir di te, notte candida, ch'ancora
da la materia non sia vinto il canto.


CV

      Son pur questi i begli occhi e quelle, c'hanno
vinto il sol tante volte, alme bellezze;
son pur queste le grazie e le vaghezze
che luce e vita a la mia morte dànno.
      E tuttavia son sì pronte a l'affanno
le voglie mie ed a' tormenti avezze
di tanta assenzia omai, che l'allegrezze
ritornar a star meco più non sanno:
      quasi 'l gran re, che di sospetto pieno,
fuggendo il crudo zio, per lunga usanza
si fece natural cibo il veleno.
      Qui fa bisogno, Amor, la tua possanza,
che del primo dolor mi sgombri il seno,
sì che tanta mia gioia or v'abbia stanza.


CVI

      O diletti d'amor dubbi e fugaci,
o speranza che s'alza e cade spesso,
e nasce e more in un momento istesso;
o poca fede, o poco lunghe paci!
      Quegli, a cui dissi: - Tu solo mi piaci, -
è pur tornato, io l'ho pur sempre presso,
io pur mi specchio e mi compiaccio in esso,
e ne' begli occhi suoi chiari e vivaci;
      e tuttavia nel cor mi rode un verme
di fredda gelosia, freddo timore
di tosto tosto senza lui vederme.
      Rendi tu vana la mia tèma, Amore,
tu, che beata e lieta pòi tenerme,
conservandomi fido il mio signore.


CVII

      Or che ritorna e si rinova l'anno,
passato il verno e la stagion più fresca,
l'amoroso desir mio si rinfresca,
e la mia dolce pena, e 'l dolce affanno.
      E qual i novi umor gravidi fanno
gli arbori, onde lor frutto a suo tempo esca,
tal umor nel mio petto par che cresca,
al qual poi pensier dolci a dietro vanno.
      Ed è ben degno che gioia ed umore,
or ch'egli è meco la mia primavera,
mi rinovelli e mi ridesti Amore.
      Oh pur non giunga a sì bel giorno sera!
oh pur non cangi il bel tempo in orrore,
dipartendo da me l'alma mia sfera!


CVIII

      Poi che m'ha reso Amor le vive stelle,
che mi guidano al ciel per dritta via,
e ne le molte mie gravi tempeste
m'hanno mai sempre ricondotta in porto
di questo chiaro e fortunato mare,
ch'indarno turban le procelle e i venti;
      udite, benigne aure, amici venti,
e voi, occhi del cielo, ardenti stelle;
mentre qui sovra questo altero mare,
da la mia lunga e faticosa via,
la mercede d'Amor, tornata in porto,
lodo di lui gli strazi e le tempeste.
      Voi, voci, voi, sospir, voi le tempeste
sète, voi sète i graziosi venti,
che dimostrate poi sì dolce il porto,
quando il sol arde e quando ardon le stelle;
voi sète la sicura e dritta via,
che ci guidate de' diletti al mare.
      Qual d'eloquenzia fia sì largo mare,
e sì scarco di nubi e di tempeste,
che possa dir senza arrestar fra via,
mentre stan quete le procelle e i venti,
la gioia che mi dan le mie due stelle,
or c'hanno il mio signor ridotto in porto?
      Dolce sicuro e grazioso porto,
che del mio pianto l'infinito mare
m'hai acquetato al raggio de le stelle,
ch'ovunque splendon fugan le tempeste,
sì ch'io non posso più temer ch'i venti
turbin sì cara e dilettosa via!
      Menami, Amor, omai per questa via,
fin che quest'alma giunga a l'altro porto,
ch'io non vo' navigar con altri venti,
né di questo cercar più largo mare,
né nel viaggio mio vo' ch'altre stelle
mi sieno scorte, e sgombrin le tempeste.
      Aspre tempeste ed importuni venti
non m'impediran più del mar la via,
or che le stelle mie m'han mostro il porto.


CIX

      Gioia somma, infinito, alto diletto,
or che l'amato mio tesoro ho presso,
or che parlo con lui, che 'l miro spesso,
m'ingombrerebbe certamente il petto,
      se 'l cor non mi turbasse un sol sospetto
di tosto tosto rimaner senz'esso,
per quel ch'io veggo a qualche segno espresso,
ché sol apre Amor gli occhi a l'intelletto.
      E, se ciò è, io vo' certo finire
questa misera vita in un momento,
anzi ch'io provi un tanto aspro martìre;
      perché conosco chiaramente e sento
che senza lui mi converria morire,
ch'è l'appoggio, a cui 'l viver mio sostento.


CX

      Chi può contar il mio felice stato,
l'alta mia gioia e gli alti miei diletti?
O un di que' del ciel angeli eletti,
o altro amante che l'abbia provato.
      Io mi sto sempre al mio signor a lato,
godo il lampo degli occhi e 'l suon dei detti,
vivomi de' divini alti concetti,
ch'escon da tanto ingegno e sì pregiato.
      Io mi miro sovente il suo bel viso,
e mirando mi par veder insieme
tutta la gloria e 'l ben del paradiso.
      Quel che sol turba in parte la mia speme,
è 'l timor che da me non sia diviso;
ché 'l vorrei meco fin a l'ore estreme.


CXI

      Pommi ove 'l mar irato geme e frange,
ov'ha l'acqua più queta e più tranquilla;
pommi ove 'l sol più arde e più sfavilla,
o dove il ghiaccio altrui trafige ed ange;
      pommi al Tanai gelato, al freddo Gange,
ove dolce rugiada e manna stilla,
ove per l'aria empio velen scintilla,
o dove per amor si ride e piange;
      pommi ove 'l crudo Scita ed empio fere,
o dove è queta gente e riposata,
o dove tosto o tardi uom vive e père:
      vivrò qual vissi, e sarò qual son stata,
pur che le fide mie due stelle vere
non rivolgan da me la luce usata.


CXII

      Se voi poteste, o sol degli occhi miei,
qual sète dentro donno del mio core,
veder coi vostri apertamente fuore,
oh me beata quattro volte e sei!
      Voi più sicuro, e queta io più sarei:
voi senza gelosia, senza timore;
io di due sarei scema d'un dolore,
e più felicemente ardendo andrei.
      Anzi aperto per voi, lassa, si vede,
più che 'l lume del sol lucido e chiaro,
che dentro e fuori io spiro amor e fede.
      Ma vi mostrate di credenza avaro,
per tormi ogni speranza di mercede,
e far il dolce mio viver amaro.


CXIII

      Deh foss'io almen sicura che lo stato,
dov'or mi trovo, non mancasse presto,
perché, sì come or è lieto ed or mesto,
sarebbe il più felice che sia stato.
      I' ho Amore e 'l mio signor a lato,
e mi consolo or con quello, or con questo;
e, sempre che di loro un m'è molesto,
ricorro a l'altro, che m'è poi pacato.
      S'Amor m'assale con la gelosia,
mi volgo al viso, che 'n sé dentro serra
virtù ch'ogni tormento scaccia via:
      se 'l mio signor mi fa con ira guerra,
viene Amor poi con l'altra compagnia,
vera umiltà ch'ogni alto sdegno atterra.


CXIV

      Mille volte, signor, movo la penna
per mostrar fuor, qual chiudo entro il pensiero,
il valor vostro e 'l bel sembiante altero,
ove Amor e la gloria l'ale impenna;
      ma perché chi cantò Sorga e Gebenna,
e seco il gran Virgilio e 'l grande Omero
non basteriano a raccontarne il vero,
ragion ch'io taccia a la memoria accenna.
      Però mi volgo a scriver solamente
l'istoria de le mie gioiose pene,
che mi fan singolar fra l'altra gente:
      e come Amor ne' be' vostr'occhi tiene
il seggio suo, e come indi sovente
sì dolce l'alma a tormentar mi viene.


CXV

      Quelle rime onorate e quell'ingegno,
pari a la beltà vostra e al gran valore,
rivolgete a voi stesso in far onore,
conte, come di lor soggetto degno;
      o trovate di me più altero pegno,
se pur uscir da voi volete fore,
perché a sì larga vena, a tanto umore
son per me troppo frale e secco legno,
      e non ho parte in me d'esser cantata,
se non perch'amo e riverisco voi
oltra ogni umana, oltra ogni forma usata.
      Sì chiara fiamma merta i pregi suoi;
in questa parte io deggio esser cantata
fin ch'io sia viva, eternamente, e poi.


CXVI

      Lodate i chiari lumi, ove mirando
perdei me stessa, e quel bel viso umano,
da cui vibrò lo stral, mosse la mano
Amor, quando da me mi pose in bando.
      Lodate il valor vostro alto e mirando,
ch'al valor d'Alessandro è prossimano:
sallo il gran re, sallo il paese strano,
che di voi e di lui vanno parlando.
      Lodate il senno, a cui non è simile
nel bel verde degli anni; e, quel che 'n carte
vedrò famoso, il vostro ingegno e stile.
      In me, signor, non è pur una parte,
che non sia tutta indegna e tutta vile,
per cui sì vaghe rime sieno sparte.


CXVII

      A che vergar, signor, carte ed inchiostro
in lodar me, se non ho cosa degna,
onde tant'alto onor mi si convegna;
e, se ho pur niente, è tutto vostro?
      Entro i begli occhi, entro l'avorio e l'ostro,
ove Amor tien sua gloriosa insegna,
ove per me trionfa e per voi regna,
quanto scrivo e ragiono mi fu mostro.
      Perché ciò che s'onora e 'n me si prezza,
anzi s'io vivo e spiro, è vostro il vanto,
a voi convien, non a la mia bassezza.
      Ma voi cercate con sì dolce canto,
lassa, oltra quel che fa vostra bellezza,
d'accrescermi più foco e maggior pianto.


CXVIII

      Bastan, conte, que' bei lumi, quelli,
ch'al sol raggi, a Ciprigna alma beltate,
ad Amor arme, a me la libertate
furâr da prima che mirai in elli,
      a far ch'arda per voi sempre e favelli,
sì che l'intenda la futura etate,
senza cercar con pure rime ornate
d'aggiunger nove al cor piaghe e flagelli.
      Ché col vostr'alto procacciarmi onore
si strigneria, se si potesse, il laccio,
s'accresceria, se si potesse, ardore.
      Ma di questo e di quel son fuor d'impaccio,
ché quanto arder e strigner puote Amore,
io son stretta per voi, conte, e mi sfaccio.


CXIX

      Io non mi voglio più doler d'Amore,
poi che, quant'ei mi dà doglia e tormento,
tanto il signor, ch'io amo e ch'io pavento,
cerca scrivendo procacciarmi onore.
      O di tutte bellezze e grazie il fiore,
nido di cortesia e d'ardimento,
come posso bramar che resti spento
così famoso e così chiaro ardore?
      Anzi prego che 'l ciel mi doni vita,
sì che dovunque il sol nasca e tramonte,
sia la mia fiamma entro tai versi udita:
      e dica alcuna, ove d'amor si conte:
- Ben fu la sorte di costei gradita,
scritta e cantata da sì alto conte.


CXX

      Se qualche tema talor non turbasse,
o qualche sdegno, il mio felice stato,
sarebbe il più tranquillo, il più beato
di qualunque altra donna altr'uomo amasse.
      Ché, s'avien pur che 'l mio signor mi lasse,
talor a qualche degna opra chiamato,
dentro il mio core e bello ed onorato,
qual egli è meco, il suo sembiante stasse;
      sì che avendo mai sempre in compagnia
tutto quel che più amo e più mi piace,
turbarmi Amor o sorte non poria,
      s'egli, che nel mio pianto si compiace,
con qualche nova e strana fantasia
non turbasse o rompesse la mia pace.


CXXI

      Chi vuol veder l'imagin del valore,
l'albergo de la vera cortesia,
il nido di bellezza e leggiadria,
la stanza de la gloria alta e d'onore,
      venga a veder l'illustre mio signore,
dove si trova ciò che si disia,
fino il mio cor e fino l'alma mia,
che gli diè già, né poi mi rese, Amore.
      Ma, s'ella è donna, non s'affissi molto,
ché resterà subitamente presa
fra mille meraviglie del bel volto.
      Ivi Amor ha la rete sempre tesa,
indi saetta, ed ivi giace occolto,
quando vuol far qualche maggior impresa.


CXXII

      Quando io movo a mirar fissa ed intenta
le ricchezze e i tesor, ch'Amore e 'l cielo
dentro ne l'alma e fuor nel mortal velo
poser di lui, ch'ogn'altra luce ha spenta,
      resto del mio martìr tanto contenta,
sì paga del mio vivo, ardente zelo,
che la ferita e 'l despietato telo,
che mi trafige il cor, non par che senta.
      Sol mi struggo e mi doglio, quando penso
che da me tosto debba allontanarse
questo d'ogni mia gloria abisso immenso.
      A questo l'alma sol non può quetarse,
a ciò grida ed esclama ogni mio senso:
- O tante indarno mie fatiche sparse!


CXXIII

      O tante indarno mie fatiche sparse,
o tanti indarno miei sparsi sospiri,
o vivo foco, o fé, che, se ben miri,
di tal null'altra mai non alse ed arse,
      o carte invan vergate e da vergarse
per lodar quegli ardenti amanti giri,
o speranze ministre de' disiri,
a cui premio più degno dovea darse,
      tutte ad un tratto ve ne porta il vento,
poi che da l'empio mio signore stesso
con queste proprie orecchie dir mi sento
      che tanto pensa a me, quanto m'è presso,
e, partendo, si parte in un momento
ogni membranza del mio amor da esso.


CXXIV

      Signor, io so che 'n me non son più viva,
e veggo omai ch'ancor in voi son morta,
e l'alma, ch'io vi diedi non sopporta
che stia più meco vostra voglia schiva.
      E questo pianto, che da me deriva,
non so chi 'l mova per l'usata porta,
né chi mova la mano e le sia scorta,
quando avien che di voi talvolta scriva.
      Strano e fiero miracol veramente,
che altri sia viva, e non sia viva, e pèra,
e senta tutto e non senta niente;
      sì che può dirsi la mia forma vera,
da chi ben mira a sì vario accidente,
un'imagine d'Eco e di Chimera.


CXXV

      Vorrei che mi dicessi un poco, Amore,
c'ho da far io con queste tue sorelle
Temenza e Gelosia? ed ond'è ch'elle
non sanno star se non dentro il mio core?
      Tu hai mille altre donne, che l'ardore
provan, com'io, de l'empie tue facelle:
or manda dunque queste a star con quelle,
fa' ch'un dì n'escan dal mio petto fore.
      - Io ho ben - mi dic'ei - mille persone
a chi mandarle; ma nessuna d'esse
ha, qual tu, da temer alta cagione.
      Le luci ch'ami son le luci stesse,
che, per dar gelosia e passione
a tutto il mondo, la mia madre elesse.


CXXVI

      Così m'acqueto di temer contenta,
e di viver d'amara gelosia,
pur che l'amato lume lo consenta,
pur che non spiaccia a lui la pena mia.
      Perch'è più dolce se per lui stenta,
che gioir per ogn'altro non saria;
ed io per me non fia mai che mi penta
di sì gradita e nobil prigionia;
      perché capir un'alma tanto bene,
senza provarvi qualche cosa aversa,
questa terrena vita non sostiene.
      Ed io. che sono in tante pene immersa,
quando avanti il suo raggio almo mi viene,
resto da quel ch'esser solea diversa.


CXXVII

      Su, speranza, su fé, prendete l'armi
contra questa crudel nemica mia,
importuna e spietata gelosia,
che cerca quanto può di vita trarmi;
      diasi uscita a' sospir, verghinsi carmi,
sì che si sfoghi tanta pena ria;
trovisi dolce e grata compagnia,
sì che possa il dolor men danno farmi.
      E, se questo non basta, un altro amore
si prenda, e lassi questo onde ora avampo,
e così vinca l'un l'altro dolore.
      Perch'ogni fèra in selva, in prato, in campo
cerca per natural forza e vigore
di tentar ogni via per lo suo scampo.


CXXVIII

      S'io 'l dissi mai, signor, che mi sia tolto
l'arder per voi, com'ardo in fiamma viva;
s'io 'l dissi mai, ch'io resti d'amar priva,
e resti il cor del suo bel laccio sciolto.
      S'io 'l dissi mai, che 'l lume del bel volto,
di cui convien ch'ognor ragioni e scriva,
a la mia luce di tutt'altro schiva
non si mostri giamai poco né molto.
      S'io 'l dissi mai, che gli uomini a vicenda
tutti, e li dèi, fortuna disdegnosa
a mio danno, a ruina ultima accenda.
      Ma s'io nol dissi, e non feci mai cosa
degna del vostro sdegno, omai si renda
la vita mia, qual fu, lieta e gioiosa.


CXXIX

      O mia sventura, o mio perverso fato,
o sentenzia nemica del mio bene,
poi che senza mia colpa mi conviene
portar la pena de l'altrui peccato.
      Quando si vide mai reo condannato
a la morte, a l'essilio, a le catene
per l'altrui fallo e, per maggior sue pene,
senza esser dal suo giudice ascoltato.
      Io griderò, signor, tanto e sì forte,
che, se non li vorrete ascoltar voi,
udranno i gridi miei Amore o Morte;
      e forse alcun pietoso dirà poi:
- Questa locò per sua contraria sorte
in troppo crudo luogo i pensier suoi.


CXXX

      Qual fu di me giamai sotto la luna
donna più sventurata e più confusa,
poi che 'l mio sole, il mio signor m'accusa
di cosa, ov'io non ho già colpa alcuna?
      E, per farmi dolente a via più d'una
guisa, non vuol ch'io possa far mia scusa;
vuol ch'io tenga lo stil, la bocca chiusa,
come muto, o fanciul piccolo in cuna.
      A qual più sventurato e tristo reo
di non poter usar la sua difesa
sì dura legge al mondo unqua si dèo?
      Tal è la fiamma, ond'hai me, Amor, accesa,
tal è il mio fato dispietato e reo,
tal è 'l laccio crudel, con che m'hai presa.


CXXXI

      Poiché da voi, signor, m'è pur vietato
che dir le vere mie ragion non possa,
per consumarmi le midolle e l'ossa
con questo novo strazio e non usato,
      fin che spirto avrò in corpo ed alma e fiato,
fin che questa mia lingua averà possa,
griderò sola in qualche speco o fossa
la mia innocenzia e più l'altrui peccato.
      E forse ch'averrà quello ch'avenne
de la zampogna di chi vide Mida,
che sonò poi quel ch'egli ascoso tenne.
      L'innocenzia, signor, troppo in sé fida,
troppo è veloce a metter ale e penne,
e, quanto più la chiude altri, più grida.


CXXXII

      Quando io dimando nel mio pianto Amore,
che così male il mio parlar ascolta,
mille fiate il dì, non una volta,
ché mi fere e trafigge a tutte l'ore:
      - Come esser può, s'io diedi l'alma e 'l core
al mio signor dal dì ch'a me l'ho tolta,
e se ogni cosa dentro a lui raccolta
è riso e gioia, è scema di dolore,
      ch'io senta gelosia fredda e temenza,
e d'allegrezza e gioia resti priva,
s'io vivo in lui, e in me di me son senza?
      - Vo' che tu mora al bene ed al mal viva -
mi risponde egli in ultima sentenza -
questo ti basti, e questo fa' che scriva.


CXXXIII

      Così, senza aver vita, vivo in pene,
e, vivendo ov'è gioia, non son lieta;
così fra viva e morta Amor mi tiene,
e vita e morte ad un tempo mi vieta.
      Tal la sua sorte a ognun nascendo viene,
tal fu il mio aspro e mio crudo pianeta;
di sì rio frutto in sitibonde arene,
senza mai sparger seme, avien ch'io mieta.
      E s'io voglio per me stessa finire
con la vita i tormenti, non m'è dato,
ché senza vita un uom non può colpire.
      Qual fine Amore e 'l ciel m'abbia serbato
io non so, lassa, e non posso ridire;
so ben ch'io sono in un misero stato.


CXXXIV

      Queste rive ch'amai sì caldamente,
rive sovra tutt'altre alme e beate,
fido albergo di cara libertade,
nido d'illustre e riposata gente,
      chi 'l crederia? mi son novellamente
sì fattamente fuor del cor andate,
che di passar con lor le mie giornate
mi doglio meco e mi pento sovente.
      E tutti i miei disiri e i miei pensieri
mirano a quel bel colle, ove ora stanza
il mio signor e i suoi due lumi alteri.
      Quivi, per acquetar la desianza,
spenderei tutta seco volentieri
questa vita penosa che m'avanza.


CXXXV

      Quanto è questo fatto ora aspro e selvaggio
di dolce, ch'esser suole, e lieto mare!
Dopo il vostro da noi allontanare
quanta compassione a me propria aggio,
      tanto ho invidia al bel colle, al pino, al faggio,
che gli fanno ombra, al fiume, che bagnare
gli suole il piede ed a me nome dare,
che godono or del vostro vivo raggio.
      E, se non che egli è pur quell'il bel nido,
dove nasceste, io pregherei che fesse
il ciel lui ermo, lor secchi e quel torbo:
      per questo io resto, e prego voi, o fido
del mio cor speglio, ove mi tergo e forbo,
a tornar tosto e serbar le promesse.


CXXXVI

      Chi mi darà di lagrime un gran fonte,
ch'io sfoghi a pieno il mio dolor immenso,
che m'assale e trafige, quando io penso
al poco amor del mio spietato conte?
      Tosto che '1 sol degli occhi suoi tramonte
agli occhi miei, a' quali è raro accenso,
tanto ha di me non più memoria o senso,
quanto una tigre del più aspro monte.
      Ben è 'l mio stato e 'l destin crudo e fero,
ché tosto che da me vi dipartite,
voi cangiate, signor, luogo e pensiero.
      - Io ti scriverò subito - mi dite -
ch'io sarò giunto al loco ove andar chero; -
e poi la vostra fede a me tradite.


CXXXVII

      Prendete il volo tutti in quella parte,
ove sta chi può dar fine a' miei mali
col raggio sol de' lumi suoi fatali,
o sospir, o querele al vento sparte.
      E con quanta eloquenzia e con quant'arte
vi detterà colui c'ha face e strali,
dite a la vita mia pietose quali
dì provo, quando egli da noi si parte.
      E se con vostri umili modi adorni
potrete far pietoso il vago aspetto,
sì ch'a star oggimai con noi ritorni,
      non tornate più voi, ch'io non v'aspetto:
rimanetevi pur in que' soggiorni,
e venga a me con lui gioia e diletto.


CXXXVIII

      Sacro fiume beato, a le cui sponde
scorgi l'antico, vago ed alto colle,
ove nacque la pianta ch'oggi estolle
al ciel i rami e le famose fronde,
      ben fûr le stelle ai tuoi desir seconde,
ché 'l sì spesso veder non ti si tolle
e 'l far talor la bella pianta molle,
ch'a me, lassa, sì spesso si nasconde.
      Tu mi dài nome, ed io vedrò se 'n carte
posso con le virtù che la mi rende,
al secol, che verrà, famoso farte.
      Oh pur non turbi il ciel, cui sempre offende
la gioia mia, i miei disegni in parte!
Altri ch'ella so ben che non m'intende.


CXXXIX

      Fiume, che dal mio nome nome prendi,
e bagni i piedi a l'alto colle e vago,
ove nacque il famoso ed alto fago,
de le cui fronde alto disio m'accendi,
      tu vedi spesso lui, spesso l'intendi,
e talor rendi la sua bella imago;
ed a me che d'altr'ombra non m'appago,
così sovente, lassa, lo contendi.
      Pur, non ostante che la nobil fronde,
ond'io piansi e cantai con più d'un verso,
la tua mercé, sì spesso lo nasconde,
      prego 'l ciel ch'altra pioggia o nembo avverso
non turbi, Anasso, mai le tue chiar'onde
se non quel sol che da quest'occhi verso.


CXL

      O rive, o lidi, che già foste porto
de le dolci amorose mie fatiche,
mentre stavan con noi le luci amiche,
che sempre accese ne l'interno porto,
      quanta mi deste già gioia e conforto,
tanto mi sète ad or ad or nemiche,
poi che 'l mio sol (lassa, convien che 'l diche!)
voi e me ha lasciato a sì gran torto.
      Io cangerei con voi campagne e boschi
e colli e fiumi, là dove dimora
chi partendo lasciò gli occhi mei foschi,
      e di tornar non fa pensier ancora,
non ostante, crudel, che ben conoschi
che, se sta molto, converrà ch'io mora.


CXLI

      Sovente Amor, che mi sta sempre a lato,
mi dice: - Miserella, quale or fia
la vita tua, poi che da te si svia
lui che soleva far lieto il tuo stato? -
      Io gli rispondo: - E tu perché mostrato
l'hai a questi occhi, quando 'l vidi pria,
se ne dovea seguir la morte mia,
subito visto e subito rubbato? -
      Ond'ei si tace, avvisto del suo fallo,
ed io mi resto preda del mio male:
quanto mesta e dogliosa, il mio cor sallo!
      E, perch'io preghi, il mio pregar non vale,
per ciò che a chi devrebbe, ed a chi fàllo,
o poco o nulla del mio danno cale.


CXLII

      Rimandatemi il cor, empio tiranno,
ch'a sì gran torto avete ed istraziate,
e di lui e di me quel proprio fate,
che le tigri e i leon di cerva fanno.
      Son passati otto giorni, a me un anno,
ch'io non ho vostre lettre od imbasciate,
contro le fé che voi m'avete date,
o fonte di valor, conte, e d'inganno.
      Credete ch'io sia Ercol o Sansone
a poter sostener tanto dolore,
giovane e donna e fuor d'ogni ragione,
      massime essendo qui senza 'l mio core
e senza voi a mia difensione,
onde mi suol venir forza e vigore?


CXLIII

      Quando fia mai ch'io vegga un dì pietosi
gli occhi, che per mio mal da prima vidi
in queste rive d'Adria, in questi lidi
dov'Amor mille lacci aveva ascosi?
      Quando fia mai che libera dir osi,
dato bando a' miei pianti ed a' miei gridi:
- Or ti conforta, anima cara, or ridi,
or tempo è ben che godi e che riposi? -
      Lassa, non so; so ben che ad ora ad ora
ho cercato placar o lui o morte,
e né questa né quello ho mosso ancora.
      Tal è, misera, il fin, tal è la sorte
di chi troppo altamente s'innamora:
donne mie, siate a l'invescarvi accorte.


CXLIV

      Ricorro a voi, luci beate e dive,
a voi che sète le mie fide scorte,
da poi che 'l cielo, Amor, fortuna e sorte
sono ai soccorsi miei sì tardi e schive.
      Se per me in voi si spera e 'n voi si vive,
come avien che per voi pur si comporte
a star lunge da me quest'ore corte,
che 'l mio ben la pietà vostra prescrive?
      Deh non state oggimai da me più lunge!
Fate che questo breve spazio sia
concesso a me d'avervi sempre presso;
      ché l'ardente disio tanto mi punge,
che certo finirà la vita mia,
se non m'è 'l vagheggiarvi ognor concesso.


CXLV

      Liete campagne, dolci colli ameni,
verdi prati, alte selve, erbose rive,
serrata valle, ov'or soggiorna e vive
chi può far i miei dì foschi e sereni,
      antri d'ombre amorose e fresche pieni,
ove raggio di sol non è ch'arrive,
vaghi augei, chiari fiumi ed aure estive,
vezzose ninfe, Pan, fauni e sileni,
      o rendetemi tosto il mio signore,
voi che l'avete, o fategli almen cónta
la mia pena e l'acerbo aspro dolore:
      ditegli che la vita mia tramonta,
s'omai fra pochi giorni, anzi poch'ore
il suo raggio a quest'occhi non sormonta.


CXLVI

      Come posso far pace col desio,
o farvi tregua, poi ch'egli pur vuole,
non essendo qui nosco il suo bel sole,
tranquillo porto e sole al viver mio?
      Egli fa giorno al suo colle natio,
come a chi nulla o poco incresce e duole
o 'l morir nostro o 'l pianto o le parole:
lassa, ch'io nacqui sotto destin rio!
      Là dove converrà che tosto ceda
a morte l'alma o tosto a noi ritorni
la beltà ch'al mio mal non par che creda.
      Tal qui, fra questi d'Adria almi soggiorni,
io misera Anassilla, d'Amor preda,
notte e dì chiamo i miei due lumi adorni.


CXLVII

      - Or sopra il forte e veloce destriero -
io dico meco - segue lepre o cerva
il mio bel sole, or rapida caterva
d'uccelli con falconi o con sparviero.
      Or assal con lo spiedo il cignal fiero,
quando animoso il suo venir osserva;
or a l'opre di Marte or di Minerva
rivolge l'alto e saggio suo pensiero.
      Or mangia, or dorme, or leva ed or ragiona,
or vagheggia il suo colle, or con l'umana
sua maniera trattiene ogni persona. -
      Così, signor, bench'io vi sia lontana,
sì fattamente Amor mi punge e sprona,
ch'ogni vostr'opra m'è presente e piana.


CXLVIII

      Se 'l cielo ha qui di noi perpetua cura,
e partisce ad ognun, come conviene,
che maraviglia è, s'a me diede pene,
e mi diè vita dispietata e dura?
      e se 'l mio sol di me poco si cura?
se mi vede morir e lo sostiene?
Ei vince il sol con sue luci serene,
illustre e bel per studio e per natura.
      A lui convien regnare, a me servire,
vil donna e bassa; e parmi ancora troppo
ch'egli non sdegni il mio per lui patire.
      Queste ragioni ed altre insieme aggroppo
meco talor, per dar tregua al martìre
col desir sempre presto e 'l poter zoppo.


CXLIX

      Sì come tu m'insegni a sospirare,
arder di fiamma tal, che Etna pareggia,
pianger di pianto tal, che se n'aveggia
omai quest'onda e cresca questo mare,
      insegnami anche, Amor, tu che 'l puoi fare,
come men duro il mio signor far deggia,
come, quando adivien che pietà chieggia,
possa placarlo al suon del mio pregare.
      Ch'io ti perdono e danni e strazi e torti,
che tu m'hai fatto e fai, tanti e sì gravi,
ch'io non so come il ciel te lo comporti;
      perché non fia più pena che m'aggravi,
pur ch'io faccia pietosi e faccia accorti
gli occhi che del mio cor hanno le chiavi.


CL

      Larghe vene d'umor, vive scintille,
che m'ardete e bagnate in acqua e 'n fiamma,
sì, che di me omai non resta dramma,
che non sia tutta pelaghi e faville,
      fate che senta almeno una di mille
aspre mie pene chi mi lava e 'nfiamma,
né di foco che m'arda sente squamma,
né d'umor goccia che dagli occhi stille.
      - Non son - mi dice Amor - le ragion pari;
egli è nobile e bel, tu brutta e vile;
egli larghi, tu hai li cieli avari.
      Gioia e tormento al merto tuo simìle
convien ch'io doni. - In questi stati vari
io peno, ei gode; Amor segue suo stile.


CLI

      Piangete, donne, e con voi pianga Amore,
poi che non piange lui, che m'ha ferita
sì, che l'alma farà tosto partita
da questo corpo tormentato fuore.
      E se mai da pietoso e gentil core
l'estrema voce altrui fu essaudita,
dapoi ch'io sarò morta e sepelita,
scrivete la cagion del mio dolore:
      "Per amar molto ed esser poco amata
visse e morì infelice, ed or qui giace
la più fidel amante che sia stata.
      Pregale, viator, riposo e pace,
ed impara da lei, sì mal trattata,
a non seguir un cor crudo e fugace".


CLII

      Io vorrei pur ch'Amor dicesse come
debbo seguirlo e con qual arte e stile
possa sperar di far chi m'arde umìle,
o diporr'io queste amorose some.
      Io ho le forze omai sì fiacche e dome,
sì spaventosa son tornata e vile,
che, quasi ad Eco imagine simìle,
di donna serbo sol la voce e 'l nome:
      né, perché le vestigia del mio sole
io segua sempre, come fece anch'ella,
e risponda a l'estreme sue parole,
      posso indur la mia fiera e dura stella
ad oprar sì ch'ei, crudo come suole,
s'arresti al suon di mia stanca favella.


CLIII

      Se poteste, signor, con l'occhio interno
penetrar i segreti del mio core,
come vedete queste ombre di fuore
apertamente con questo occhio esterno,
      vi vedreste le pene de l'inferno,
un abisso infinito di dolore,
quanta mai gelosia, quanto timore
Amor ha dato o può dar in eterno.
      E vedreste voi stesso seder donno
in mezzo a l'alma, cui tanti tormenti
non han potuto mai cavarvi, o ponno;
      e tutti altri disir vedreste spenti,
od oppressi da grave ed alto sonno
e sol quei d'aver voi desti ed ardenti.


CLIV

      Straziami, Amor, se sai, dammi tormento,
tommi pur lui, che vorrei sempre presso,
tommi pur, crudo e disleal, con esso
ogni mia pace ed ogni mio contento,
      fammi pur mesta e lieta in un momento,
dammi più morti con un colpo stesso,
fammi essempio infelice del mio sesso,
che per ciò di seguirti non mi pento.
      Perché, volgendo a quei lumi il pensiero,
che vicini e lontani mi son scorta
per l'aspro, periglioso tuo sentiero,
      move da lor virtù, che 'l cor conforta
sì che, quanto più sei crudele e fiero,
tanto più facilmente ei ti comporta.


CLV

      Due anni e più ha già voltato il cielo,
ch'io restai presa a l'amoroso visco
per una beltà tal, che, dirlo ardisco,
simil mai non si vide in mortal velo;
      per questo io la divolgo, e non la celo,
e non mi pento, anzi glorio e gioisco;
e, se donna giamai gradì, gradisco
questa fiamma amorosa e questo gelo;
      e duolmi sol, se sarà mai quell'ora,
che da me si disciolga e leghi altronde
la beltà ch'ogni cosa arde e inamora.
      E, se Morte a chi prega unqua risponde,
la prego che permetta, anzi ch'io mora,
che non vegga d'altrui l'amata fronde.


CLVI

      Mentr'io penso dolente a l'ora breve,
che del suo lume fien mie luci prive,
questi lidi lo sanno e queste rive,
io mi disfaccio com'al sol la neve;
      e quel che par che più m'annoi e aggreve,
è che 'l termine mio tant'oltra arrive,
e che prima di vita non mi prive
morte, a tutt'altri grave, a me sol lieve.
      Ché, s'io morissi innanzi a tanta doglia,
l'anima andrebbe altrove consolata,
lasciando qui la sua terrena spoglia;
      ma fortuna ed Amor m'hanno lasciata,
perché morend'ognora più mi doglia,
questa vita penosa che m'è data.


CLVII

      A che pur dir, o mio dolce signore,
ch'esca frutto da me di lode degno,
a che alzarmi a sì gradito segno,
a che scrivendo procacciarmi onore,
      se da quel dì, ch'entrar mi fece Amore
con l'arme de' vostr'occhi entro 'l suo regno,
voi movete lo stil, l'arte, l'ingegno,
sensi, spirti, pensier, voglie, alma e core?
      Se da me dunque nasce cosa buona,
è vostra, non è mia; voi mi guidate,
a voi si deve il pregio e la corona.
      Voi, non me, da qui indietro omai lodate
di quanto per me s'opra e si ragiona:
ché l'ingegno e lo stil, signor, mi date.


CLVIII

      Deh lasciate, signor, le maggior cure
d'ir procacciando in questa età fiorita
con fatiche e periglio de la vita
alti pregi, alti onori, alte venture;
      e in questi colli, in queste alme e sicure
valli e campagne, dove Amor n'invita,
viviamo insieme vita alma e gradita
fin che 'l sol de' nostr'occhi alfin s'oscure.
      Perché tante fatiche e tanti stenti
fan la vita più dura, e tanti onori
restan per morte poi subito spenti.
      Qui coglieremo a tempo e rose e fiori,
ed erbe e frutti, e con dolci concenti
canterem con gli uccelli i nostri amori.


CLIX

      Quella febre amorosa, che m'atterra
due anni e più e quel gravoso incarco
ch'io sento, poi ch'Amor mi prese al varco
di duo begli occhi, onde l'uscir mi serra,
      potea bastare a farmi andar sotterra,
lasciar lo spirto del suo corpo scarco,
senza voler ch'oltra i suoi strali e l'arco,
altra febre, altro mal mi fesse guerra.
      Padre del ciel, tu vedi in quante pene
questo misero spirto e questa scorza
a tormentare Amor e febre viene.
      Di queste febri o l'uno o l'altra smorza,
ché due tanti nemici non sostiene
donna sì frale e di sì poca forza.


CLX

      Care stelle, che tutte insieme insieme
con Cupido e Ciprigna vaghe e pronte
deste il mio cor a quell'altero conte,
che per premio m'ha poi tolto la speme,
      poi che vedete ch'ei, che nulla teme,
contra voi, contra me alza la fronte,
vendicate le vostre e le mie onte
con vendette più crude e più supreme.
      E questo sia non che 'l mio cor mi renda,
ma mi dia il suo, e rendami la spene,
e così si dia otta per vicenda.
      Fate che 'n quelle ond'io son or catene
presa e legata, il conte i' leghi e prenda;
questo strazio al superbo si convene.


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