Rime, di Gaspara Stampa
click qui sopra per tornare alla copertina

<<< indietro
(Dedica)
Rime d'amore avanti >>>
(Rime d'amore - 2)

I

      Voi, ch'ascoltate in queste meste rime,
in questi mesti, in questi oscuri accenti
il suon degli amorosi miei lamenti
e de le pene mie tra l'altre prime,
      ove fia chi valor apprezzi e stime,
gloria, non che perdon, de' miei lamenti
spero trovar fra le ben nate genti,
poi che la lor cagione è sì sublime.
      E spero ancor che debba dir qualcuna:
- Felicissima lei, da che sostenne
per sì chiara cagion danno sì chiaro!
      Deh, perché tant'amor, tanta fortuna
per sì nobil signor a me non venne,
ch'anch'io n'andrei con tanta donna a paro?


II

      Era vicino il dì che 'l Creatore,
che ne l'altezza sua potea restarsi,
in forma umana venne a dimostrarsi,
dal ventre virginal uscendo fore,
      quando degnò l'illustre mio signore,
per cui ho tanti poi lamenti sparsi,
potendo in luogo più alto annidarsi,
farsi nido e ricetto del mio core.
      Ond'io sì rara e sì alta ventura
accolsi lieta; e duolmi sol che tardi
mi fe' degna di lei l'eterna cura.
      Da indi in qua pensieri e speme e sguardi
volsi a lui tutti, fuor d'ogni misura
chiaro e gentil, quanto 'l sol giri e guardi.


III

      Se di rozzo pastor di gregge e folle
il giogo ascreo fe' diventar poeta
lui, che poi salse a sì lodata meta,
che quasi a tutti gli altri fama tolle,
      che meraviglia fia s'alza ed estolle
me bassa e vile a scriver tanta pièta
quel che può più che studio e che pianeta,
il mio verde, pregiato ed alto colle?
      La cui sacra, onorata e fatal ombra
dal mio cor, quasi sùbita tempesta,
ogni ignoranza, ogni bassezza sgombra.
      Questa da basso luogo m'erge, e questa
mi rinnova lo stil, la vena adombra;
tanta virtù nell'alma ognor mi desta!


IV

      Quando fu prima il mio signor concetto,
tutti i pianeti in ciel, tutte le stelle
gli dier le grazie, e queste doti e quelle,
perch'ei fosse tra noi solo perfetto.
      Saturno diègli altezza d'intelletto;
Giove il cercar le cose degne e belle;
Marte appo lui fece ogn'altr'uomo imbelle;
Febo gli empì di stile e senno il petto;
      Vener gli dié bellezza e leggiadria;
eloquenza Mercurio; ma la luna
lo fe' gelato più ch'io non vorria.
      Di queste tante e rare grazie ognuna
m'infiammò de la chiara fiamma mia,
e per agghiacciar lui restò quell'una.


V

      Io assimiglio il mio signor al cielo
meco sovente. Il suo bel viso è 'l sole;
gli occhi, le stelle, e 'l suon de le parole
è l'armonia, che fa 'l signor di Delo.
      Le tempeste, le piogge, i tuoni e 'l gelo
son i suoi sdegni, quando irar si suole;
le bonacce e 'l sereno è quando vuole
squarciar de l'ire sue benigno il velo.
      La primavera e 'l germogliar de' fiori
è quando ei fa fiorir la mia speranza,
promettendo tenermi in questo stato.
      L'orrido verno è poi, quando cangiato
minaccia di mutar pensieri e stanza,
spogliata me de' miei più ricchi onori.


VI

      Un intelletto angelico e divino,
una real natura ed un valore,
un disio vago di fama e d'onore,
un parlar saggio, grave e pellegrino,
      un sangue illustre, agli alti re vicino,
una fortuna a poche altre minore,
un'età nel suo proprio e vero fiore,
un atto onesto, mansueto e chino,
      un viso più che 'l sol lucente e chiaro,
ove bellezza e grazia Amor riserra
in non mai più vedute o udite tempre,
      fûr le catene, che già mi legâro,
e mi fan dolce ed onorata guerra.
O pur piaccia ad Amor che stringan sempre!


VII

      Chi vuol conoscer, donne, il mio signore,
miri un signor di vago e dolce aspetto,
giovane d'anni e vecchio d'intelletto,
imagin de la gloria e del valore:
      di pelo biondo, e di vivo colore,
di persona alta e spazioso petto,
e finalmente in ogni opra perfetto,
fuor ch'un poco (oimè lassa!) empio in amore.
      E chi vuol poi conoscer me, rimiri
una donna in effetti ed in sembiante
imagin de la morte e de' martiri,
      un albergo di fé salda e costante,
una, che, perché pianga, arda e sospiri,
non fa pietoso il suo crudel amante.


VIII

      Se così come sono abietta e vile
donna, posso portar sì alto foco,
perché non debbo aver almeno un poco
di ritraggerlo al mondo e vena e stile?
      S'Amor con novo, insolito focile,
ov'io non potea gir, m'alzò a tal loco,
perché non può non con usato gioco
far la pena e la penna in me simìle?
      E, se non può per forza di natura,
puollo almen per miracolo, che spesso
vince, trapassa e rompe ogni misura.
      Come ciò sia non posso dir espresso;
io provo ben che per mia gran ventura
mi sento il cor di novo stile impresso.


IX

      S'avien ch'un giorno Amor a me mi renda,
e mi ritolga a questo empio signore;
di che paventa e non vorrebbe, il core,
tal gioia del penar suo par che prenda;
      voi chiamerete invan la mia stupenda
fede, e l'immenso e smisurato amore,
di vostra crudeltà, di vostro errore
tardi pentite, ove non è chi intenda.
      Ed io cantando la mia libertade,
da così duri lacci e crudi sciolta,
passerò lieta a la futura etade.
      E, se giusto pregar in ciel s'ascolta,
vedrò forse anco in man di crudeltade
la vita vostra a mia vendetta involta.


X

      Alto colle, gradito e grazioso,
novo Parnaso mio, novo Elicona,
ove poggiando attendo la corona,
de le fatiche mie dolce riposo:
      quanto sei qui tra noi chiaro e famoso,
e quanto sei a Rodano e a Garona,
a dir in rime alto disio mi sprona,
ma l'opra è tal, che cominciar non oso.
      Anzi quanto averrà che mai ne canti,
fia pura ombra del ver, perciò che 'l vero
va di lungo il mio stil e l'altrui innanti.
      Le tue frondi e 'l tuo giogo verdi e 'ntero
conservi 'l cielo, albergo degli amanti.
colle gentil, dignissimo d'impero.


XI

      Arbor felice, aventuroso e chiaro.
onde i due rami sono al mondo nati,
che vanno in alto, e son già tanto alzati,
quanto raro altri rami unqua s'alzâro:
      rami che vanno ai grandi Scipi a paro,
o s'altri fûr di lor mai più lodati
(ben lo sanno i miei occhi fortunati,
che per bearsi in un d'essi miraro),
      a te, tronco, a voi rami, sempre il cielo
piova rugiada, sì che non v'offenda
per avversa stagion caldo, né gelo.
      La chioma vostra e l'ombra s'apra e stenda
verde per tutto; e d'onorato zelo
odor, fior, frutti a tutt'Italia renda.


XII

      Deh, perché così tardo gli occhi apersi
nel divin, non umano amato volto,
ond'io scorgo, mirando, impresso e scolto
un mar d'alti miracoli e diversi?
      Non avrei, lassa, gli occhi indarno aspersi
d'inutil pianto in questo viver stolto,
né l'alma avria, com'ha, poco né molto
di Fortuna o d'Amore onde dolersi.
      E sarei forse di sì chiaro grido,
che, mercé de lo stil, ch'indi m'è dato,
risoneria fors'Adria oggi, e 'l suo lido.
      Ond'io sol piango il mio tempo passato,
mirando altrove; e forse anche mi fido
di far in parte il foco mio lodato.


XIII

      Chi darà penne d'aquila o colomba
al mio stil basso, sì ch'ei prenda il volo
da l'Indo al Mauro e d'uno in altro polo,
ove arrivar non può saetta o fromba?
      e, quasi amara e risonante tromba,
la bellezza, il valor, al mondo solo,
di quel bel viso, ch'io sospiro e còlo,
descriva sì, che l'opra non soccomba?
      Ma, poi che ciò m'è tolto, ed io poggiare
per me stessa non posso ove conviene,
sì che l'opra e lo stil vadan di pare,
      l'udranno sol queste felici arene,
questo d'Adria beato e chiaro mare,
porto de' miei diletti e di mie pene.


XIV

      Che meraviglia fu, s'al primo assalto,
giovane e sola, io restai presa al varco,
stando Amor quindi con gli strali e l'arco,
e ferendo per mezzo, or basso or alto,
      indi 'l signor che 'n rime orno ed essalto
quanto più posso, e 'l mio dir resta parco,
con due occhi, anzi strai, che spesso incarco
han fatto al sole e con un cor di smalto?
      Ed essendo da lato anche imboscate,
sì ch'a modo nessun fess'io difesa,
alla virtute e chiara nobiltate?
      Da tanti e ta' nemici restai presa;
né mi duol, pur che l'alma mia beltate,
or che m'ha vinta, non faccia altra impresa.


XV

      Voi, che cercando ornar d'alloro il crine
per via di stile, al bel monte poggiate
con quante si fe' mai salde pedate,
anime sagge, dotte e pellegrine,
      in questo mar, che non ha fondo o fine,
le larghe vele innanzi a me spiegate,
e gli onori e le grazie ad un cantate,
del mio signor sì rare e sì divine:
      perché soggetto sì sublime e solo,
senz'altra aita di felice ingegno,
può per se stesso al cielo alzarci a volo.
      Io per me sola a dimostrar ne vegno
quanto l'amo ad ognun, quanto lo còlo;
ma de le lode sue non giungo al segno.


XVI

      Sì come provo ognor novi diletti,
ne l'amor mio, e gioie non usate,
e veggio in quell'angelica beltate
sempre novi miracoli ed effetti,
      così vorrei aver concetti e detti
e parole a tant'opra appropriate,
sì che fosser da me scritte e cantate,
e fatte cónte a mille alti intelletti.
      Et udissero l'altre che verranno
con quanta invidia lor sia gita altera
de l'amoroso mio felice danno;
      e vedesse anche la mia gloria vera
quanta i begli occhi luce e forza hanno
di far beata altrui, benché si pèra.


XVII

      Io non v'invidio punto, angeli santi,
le vostre tante glorie e tanti beni,
e que' disir di ciò che braman pieni,
stando voi sempre a l'alto Sire avanti;
      perché i diletti miei son tali e tanti,
che non posson capire in cor terreni,
mentr'ho davanti i lumi almi e sereni,
di cui conven che sempre scriva e canti.
      E come in ciel gran refrigerio e vita
dal volto Suo solete voi fruire,
tal io qua giù da la beltà infinita.
      In questo sol vincete il mio gioire,
che la vostra è eterna e stabilita,
e la mia gloria può tosto finire.


XVIII

      Quando i' veggio apparir il mio bel raggio,
parmi veder il sol, quand'esce fòra;
quando fa meco poi dolce dimora,
assembra il sol che faccia suo viaggio.
      E tanta nel cor gioia e vigor aggio,
tanta ne mostro nel sembiante allora,
quanto l'erba, che pinge il sol ancora
a mezzo giorno nel più vago maggio.
      Quando poi parte il mio sol finalmente,
parmi l'altro veder, che scolorita
lasci la terra andando in occidente.
      Ma l'altro torna e rende luce e vita;
e del mio chiaro e lucido oriente
è 'l tornar dubbio e certa la partita.


XIX

      Come chi mira in ciel fisso le stelle,
sempre qualcuna nuova ve ne scorge,
che non più vista pria, fra tanti sorge
chiari lumi del mondo, alme, fiammelle;
      mirando fisso l'alte doti e belle
vostre, signor, di qualcuna s'accorge
l'occhio mio nova, che materia porge,
unde di lei si scriva e si favelle.
      Ma, sì come non può gli occhi del cielo
tutti, perch'occhio vegga, raccontare
lingua mortal e chiusa in uman velo,
      io posso ben i vostri onor mirare,
ma la più parte d'essi ascondo e celo,
perché la lingua a l'opra non è pare.


XX

      Il bel, che fuor per gli occhi appare, e 'l vago
del mio signor e del suo dolce viso,
è tanto e tal, che fa restar conquiso
ognun che 'l mira, di gran lunga, e pago.
      Ma, se qual è un cervier occhio e mago,
potesse altri mirar intento e fiso
quel che fuor non si mostra, un paradiso
di meraviglie vi vedrebbe, un lago.
      E le donne non pur, ma gli animali,
l'erbe, le piante, l'onde, i venti e i sassi
farian arder d'amor gli occhi fatali.
      Quest'una grazia agli occhi miei sol dassi
in guiderdon di tanti e tanti mali,
per onde a tanto ben poggiando vassi.


XXI

      - S'io, che son dio, ed ho meco tant'armi,
non posso star col tuo signor a prova,
ed è la sua bellezza unica e nova
pronta mai sempre a tante ingiurie farmi,
      come a tuo pro poss'ora io consigliarmi,
e darti il modo, con che tu rimova
per via di preghi, di consiglio o carmi?
      Ti bisogna aspettar tempo o fortuna,
quel saldo ghiaccio, che nel cor si trova,
che ti guidino a questo; ed altra via
non ti posso mostrar, se non quest'una. -
      Così mi dice, e poi si vola via;
ed io mi resto, al sole ed a la luna,
piangendo sempre la sventura mia.


XXII

      Rivolgete talor pietoso gli occhi
da le vostre bellezze a le mie pene,
sì che quant'alterezza indi vi viene,
tanta quindi pietate il cor vi tocchi.
      Vedrete qual martìr indi mi fiocchi,
vedrete vòte le faretre e piene,
che preste a' danni miei sempre Amor tiene,
quando avien che ver' me l'arco suo scocchi.
      E forse la pietà del mio tormento
vi moverà, dov'or ne gite altero,
non lo vedendo voi, qual io lo sento;
      così pensosa io meno, e men voi fiero
ritornerete, e cento volte e cento
benedirete i ciel che mi vi diêro.


XXIII

      Grazie, che fate mai sempre soggiorno
negli occhi ch'amo, e quei poi de le prede,
che fan tante di noi, vostra mercede,
fanno il tempio d'Amor ricco et adorno,
      quando scherzate a que' bei rai d'intorno
co' pargoletti Amor, che v'hanno sede,
fate fede a colui de la mia fede,
che 'n tante carte omai celebro ed orno.
      E, se di Grazie avete il nome e l'opra,
fatemi graziosi que' due giri,
ch'a lo splendor del sol stanno di sopra.
      E, poi c'hanno adescato i miei desiri,
fate (così mai morte non li copra)
che non mi lascin preda de' martìri.


XXIV

      Vengan quante fûr mai lingue ed ingegni,
quanti fûr stili in prosa, e quanti in versi,
e quanti in tempi e paesi diversi
spirti di riverenza e d'onor degni;
      non fia mai che descrivan l'ire e' sdegni,
le noie e i danni, che 'n amor soffersi,
perché nel vero tanti e tali fêrsi,
che passan tutti gli amorosi segni.
      E non fia anche alcun, che possa dire,
anzi adombrar la schiera de' diletti
ch'Amor, la sua mercé, mi fa sentire.
      Voi, ch'ad amar per grazia sète eletti,
non vi dolete dunque di patire;
perché i martir d'Amor son benedetti.


XXV

      -Trâmi - dico ad Amor talora - omai
fuor de le man di questo crudo ed empio,
che vive del mio danno e del mio scempio,
per chi arsi ed ardo ancor, canto e cantai.
      Poi che con tanti miei tormenti e guai
sua fiera voglia ancor non pago od empio,
o di Diana avaro e crudo tempio,
quando del sangue mio sazio sarai? -
      Poi torno a me, e del mio dir mi pento:
sì l'ira, il rimembrar pur lui, mi smorza,
che de' miei non vorrei meno un tormento.
      Con sì nov'arte e con sì nova forza
la bellezza ch'io amo, e ch'io pavento,
ogni senso m'intrica, offusca e sforza.


XXVI

      Arsi, piansi, cantai; piango, ardo e canto;
piangero, arderò, canterò sempre
(fin che Morte o Fortuna o tempo stempre
a l'ingegno, occhi e cor, stil, foco e pianto)
      la bellezza, il valor e 'l senno a canto,
che 'n vaghe, sagge ed onorate tempre
Amor, natura e studio par che tempre
nel volto, petto e cor del lume santo:
      che, quando viene, e quando parte il sole,
la notte e 'l giorno ognor, la state e 'l verno,
tenebre e luce darmi e tôrmi suole,
      tanto con l'occhio fuor, con l'occhio interno,
agli atti suoi, ai modi, a le parole,
splendor, dolcezza e grazia ivi discerno.


XXVII

      Altri mai foco, stral, prigione o nodo
sì vivo e acuto, e sì aspra e sì stretto
non arse, impiagò, tenne e strinse il petto,
quanto 'l mi' ardente, acuto, acerba e sodo.
      Né qual io moro e nasco, e peno e godo,
mor'altra e nasce, e pena ed ha diletto,
per fermo e vario e bello e crudo aspetto,
che 'n voci e 'n carte spesso accuso e lodo.
      Né fûro ad altrui mai le gioie care,
quanto è a me, quando mi doglio e sfaccio,
mirando a le mie luci or fosche or chiare.
      Mi dorrà sol, se mi trarrà d'impaccio,
fin che potrò e viver ed amare,
lo stral e 'l foco e la prigione e 'l laccio.


XXVIII

      Quando innanti ai begli occhi almi e lucenti,
per mia rara ventura al mondo, i' vegno,
lo stil, la lingua, l'ardire e l'ingegno,
i pensieri, i concetti e i sentimenti
      o restan tutti oppressi o tutti spenti,
e quasi muta e stupida divegno;
o sia la riverenza, in che li tegno,
o sia che sono in quel bel lume intenti.
      Basta ch'io non so mai formar parola,
sì quel fatale e mio divino aspetto
la forza insieme e l'anima m'invola.
      O mirabil d'Amore e raro effetto,
ch'una sol cosa, una bellezza sola
mi dia la vita, e tolga l'intelletto!


XXIX

      Mentr'io conto fra me minutamente
le doti del mio conte a parte a parte,
nobilitate, bellezza, ingegno ed arte,
che lo fan chiaro sovra l'altra gente,
      tale e tanto piacer l'anima sente,
che, sendo tutte le sue virtù sparte,
mi meraviglio come non si parte,
volando al ciel per starci eternamente.
      E certo v'anderia, se non temesse
che restasse il suo ben da lei diviso,
e men beato il suo stato rendesse;
      perché 'l suo vero e proprio paradiso,
quello che per bearsi ella si elesse,
è 'l mio dolce signor e 'l suo bel viso.


XXX

      Fra quell'illustre e nobil compagnia
di grazie, che vi fan, conte, immortale,
s'erge più d'altra e vaga stende l'ale
del canto la dolcissima armonia.
      Quella in noi ogni acerba cura e ria
può render dolce, e far lieve ogni male;
quella, quand'Euro più fiero l'assale,
può render queto il mar turbato pria.
      Il giuoco, il riso, Venere e gli Amori
si veggon l'aere far sereno intorno,
ovunque suoni il dolce accento fuori.
      Ed io, potendo far con voi soggiorno,
a l'armonia di quei celesti cori
poco mi curerei di far ritorno.


XXXI

      Chi non sa come dolce il cor si fura,
come dolce s'oblia ogni martìre,
come dolce s'acqueta ogni desire,
sì che di nulla più l'alma si cura,
      venga, per sua rarissima ventura,
una sol volta voi, conte, ad udire,
quando solete cantando addolcire
la terra e 'l cielo e ciò che fe' natura.
      Al suon vedrà degli amorosi accenti
farsi l'aere sereno ed arrestare
l'orgoglio l'acque, le tempeste e i venti.
      E, visto poi quel che potete fare,
crederà ben che tigri orsi e serpenti
arrestasse anche Orfeo col suo cantare.


XXXII

      Per le saette tue, Amor, ti giuro,
e per la tua possente e sacra face,
che, se ben questa m'arde e 'l cor mi sface,
e quelle mi feriscon, non mi curo;
      quantunque nel passato e nel futuro
qual l'une acute, e qual l'altra vivace,
donne amorose, e prendi qual ti piace,
che sentisser giamai né fian, né fûro;
      perché nasce virtù da questa pena,
che 'l senso del dolor vince ed abbaglia,
sì che o non duole, o non si sente appena.
      Quel, che l'anima e 'l corpo mi travaglia,
è la temenza ch'a morir mi mena,
che 'l foco mio non sia foco di paglia.


XXXIII

      Quando sarete mai sazie e satolle
del lungo strazio mio, de le mie pene,
luci, assai più che 'l sol chiare e serene,
ch'ora illustrate il vostro amato colle?
      Quando fia che non sia di pianto molle
il petto mio, ch'a gran pena sostiene
l'anima fuggitiva, or che la spene,
ch'era sì poca, ancora Amor ne tolle?
      Quando fia che vi vegga un dì pietose,
e duri la pietà vostra, e non manchi
tosto, come le lievi e frali cose?
      O non fia, lassa, mai, o saran bianchi
questi crin prima, e quei sensi amorosi,
accesi or sì, saranno freddi e stanchi.


XXXIV

      Sai tu, perché ti mise in mano, Amore,
gli stral tua madre, ed agli occhi la benda?
Perché quella saetti, impiaghi e fenda
i cor di questo e quel fido amatore;
      e con questi non possi veder fuore
de' colpi tuoi la crudeltà stupenda,
sì che pietoso affatto non ti renda,
o almen non tempri l'empio tuo furore.
      Che, se vedessi un dì la piaga mia,
o non saresti dio, ma cruda fèra,
o pietoso o men aspro ti faria.
      Non vorrei già che tu vedessi in cera
i raggi del mio sol; ché ti parria
forse a l'incontro picciola e leggera.


XXXV

      Accogliete benigni, o colle, o fiume,
albergo de le Grazie alme e d'Amore,
quella ch'arde del vostro alto signore,
e vive sol de' raggi del suo lume;
      e, se fate ch'amando si consume
men aspramente il mio infiammato core,
pregherò che vi sieno amiche l'ore,
ogni ninfa silvestre ed ogni nume
      e lascerò scolpita in qualche scorza
la memoria di tanta cortesia
quando di lasciar voi mi sarà forza.
      Ma, lassa, io sento che la fiamma mia,
che devrebbe scemar, più si rinforza,
e più ch'altrove qui s'ama e disia.


XXXVI

      Cesare e Ciro, i vostri fidi spegli,
in cui mai sempre, signor, vi mirate,
poi ch'a seguir le lor chiare pedate
par che ciascun di lor v'infiammi e svegli,
      perché, sì come è stato questi e quegli
essempio di clemenzia e di pietate,
solo in questa virtù v'allontanate
da que' due chiari ed onorati vegli?
      Perché non sète voi mite e clemente
a me vostra prigion, vostra fattura,
come fûr essi a l'acquistata gente?
      Anzi forse voi sète di natura
mite con tutti, e meco solamente
d'aspra e spietata. Oh mia somma sventura!


XXXVII

      Altero nido, ove 'l mio vivo sole
prese da prima il suo terreno incarco;
onde però va più leggero e scarco
di quel che da tutt'altri andar si suole;
      i' vorrei dir, ma non so far parole
di tanti e tanti pregi, onde sei carco;
perché lo stil a l'alta impresa è parco,
e via più a chi t'onora entro e ti cole.
      Perciò mi taccio, e prego 'l ciel che sempre
ti serbi un questo lieto e vago stato,
in queste care e graziose tempre;
      e renda ognor più chiaro e più lodato
il tuo signor e mio, e ch'i' mi stempre
sempre nel mio bel foco alto e pregiato.


XXXVIII

      Qualunque dal mio petto esce sospiro,
ch'escono ad or ad or ardenti e spessi
dal dì che per mio sole gli occhi elessi,
ch'a prima vista a morte mi ferîro,
      vanno verso il bel colle, ove pur miro,
benché lontana, e vanno anche con essi
i miei pensieri e tutti i sensi stessi;
né val s'io li ritengo o li ritiro,
      perché la propria loro e vera stanza
son que' begli occhi e quella alma beltade,
che prima mi destâr la desianza.
      O pur sieno ivi accolti da pietade!
di che non spero, poi che per usanza
vi suol sempre aver luogo crudeltade.


XXXIX

      Se con tutto il mio studio e tutta l'arte
io non posso accennar pur quanto e quale
è 'l foco mio dal dì che 'l primo strale
m'aventò Amor ne la sinistra parte,
      come volete voi signor, che ex parte
l'altrui voglie amorose e l'altrui male
con questa forza stanca e così frale
i' dica in vive voci, o scriva in carte?
      Datemi o 'l ciel più stile o voi men pena,
ond'abbia o più vigor o men martìre,
sì che la vostra voglia resti piena.
      E, se ciò non si può, vostro desire
adempiete da voi, ch'avete vena,
stile ed ingegno eguale al vostro dire.


XL

      Onde, che questo mar turbate spesso,
come turba anco me la gelosia,
venite a starvi meco in compagnia,
poi che mi sète sì care e sì presso:
      così fiero Austro ed Aquilon con esso
men importuno e men crudo vi sia;
così triegua talor Eolo vi dia,
quel ch'a me da l'amor non m'è concesso.
      Lassa, ch'io ho da pianger tanto e tanto,
che l'umor, che per gli occhi verso fore,
è poco o nulla, se fosse altrettanto.
      Voi mi darete voi del vostro umore
quanto mi basti a disfogar il pianto,
che si conviene a l'alto mio dolore.


XLI

      Ahi, se così vi distrignesse il laccio,
come, misera, me strigne ed affrena,
non cerchereste d'una in altra pena
girmi traendo, e d'uno in altro impaccio;
      ma perch'io son di foco e voi di ghiaccio
voi sete in libertade ed io 'n catena,
i' son di stanca e voi di franca lena,
voi vivete contento ed io mi sfaccio.
      Voi mi ponete leggi, ch'a portarle
non basterian le spalle di Milone,
non ch'io debile e fral possa osservarle.
      Seguite, poi che 'l ciel così dispone:
forse ch'un giorno Amor potria mutarle;
forse ch'un dì farà la mia ragione.


XLII

      Tu pur mi promettesti amica pace,
Amor, il dì che tua serva divenni,
mostrandomi i begli occhi, i guardi e i cenni,
ove tua madre alberga e si compiace.
      Ed or, quasi signor empio e fallace,
poi ch'una volta il tuo giogo sostenni,
ad or ad or nove saette impenni,
ed accendi una ed or un'altra face;
      e mi trafigi e mi consumi il core
col mezzo de l'orgoglio di colui,
che tanto gode, quanto altri si more.
      Così, misera me, tradita fui,
giovane incauta, sotto fé d'Amore;
e doler mi vorrei, né so di cui.


XLIII

      Dura è la stella mia, maggior durezza
è quella del mio conte: egli mi fugge,
i' seguo lui; altri per me si strugge,
i' non posso mirar altra bellezza.
      Odio chi m'ama, ed amo chi mi sprezza:
verso chi m'è umìle il mio cor rugge,
e son umìl con chi mia speme adugge;
a così stranio cibo ho l'alma avezza.
      Egli ognor dà cagione a novo sdegno,
essi mi cercan dar conforto e pace;
i' lasso questi, ed a quell'un m'attegno.
      Così ne la tua scola, Amor, si face
sempre il contrario di quel ch'egli è degno:
l'umìl si sprezza, e l'empio si compiace.


XLIV

      Se tu vedessi, o madre degli Amori,
e teco insieme il tuo figlio diletto,
l'accese e vive fiamme del mio petto,
a quali altre fûr mai pari o maggiori;
      se tu vedessi i pelaghi d'umori,
che, dapoi che 'l mio cor ti fu soggetto,
mercé del vago e grazioso aspetto,
per questi occhi dolenti verso fuori;
      so ch'avresti pietà del mio gran pianto
e de la fiamma mia spietata e ria,
che per sfogar talor descrivo e canto.
      Ma voi ferite, e poi fuggite via
più che folgor veloci, ed io fra tanto
resto col pianto e con la fiamma mia.


XLV

      Io vo pur descrivendo d'ora in ora
la beltà vostra e 'l vostro raro ingegno,
e 'l valor d'altro stil, che del mio, degno,
se non quant'ei più d'altro mai v'onora;
      né, perch'io m'affatichi, giungo ancora
di tanti pregi vostri al minor segno,
conte, d'ogni virtù nido e sostegno,
senza cui la mia vita morte fôra.
      Così, s'io prendo a scriver, il mio foco
è tanto e tal, da ch'egli da voi nasce
che s'io ne dico assai, ne dico poco.
      Questo e quello il mio cor nutrisce e pasce
e questo e quel mi dà martir e gioco:
così fui destinata entro le fasce.


XLVI

      Alto colle, almo fiume, ove soggiorno
fan le virtuti e le Grazie e gli Amori,
dal dì che dimostraste al mondo fòri
chi fa me, chi fa lui chiaro et adorno,
      asserena tu 'l fronte, alza tu 'l corno,
tu con nove acque, e tu con novi fiori,
or che fa, colmo anch'ei di novi onori,
il signor vostro e mio a voi ritorno.
      E, poi che fia con voi, per cortesia
oprate sì ch'a me ritorni tosto;
ché viver senza lui poco porìa.
      Così stia 'l verno a voi sempre discosto,
così Flora e Pomona in compagnia
vi faccian sempre aprile e sempre agosto.


XLVII

      Io son da l'aspettar omai sì stanca,
sì vinta dal dolor e dal disio,
per la sì poca fede e molto oblio
di chi del suo tornar, lassa, mi manca,
      che lei, che 'l mondo impalidisce e 'mbianca
con la sua falce e dà l'ultimo fio,
chiamo talor per refrigerio mio,
sì 'l dolor nel mio petto si rinfranca.
      Ed ella si fa sorda al mio chiamare,
schernendo i miei pensier fallaci e folli,
come sta sordo anch'egli al suo tornare.
      Così col pianto, ond'ho gli occhi miei molli,
fo pietose quest'onde e questo mare;
ed ei si vive lieto ne' suoi colli.


XLVIII

      Come l'augel, ch'a Febo è grato tanto,
sovra Meandro, ove suol far soggiorno,
quando s'accosta il suo ultimo giorno,
move più dolci le querele e 'l canto,
      tal io, lontana dal bel viso santo,
sovra il superbo d'Adria e ricco corno,
morte, téma ed orror avendo intorno,
affino, lassa, le querele e 'l pianto.
      E sono in questo a quell'uccel minore:
che per quella, onde venne, istessa traccia
ritorna a Febo il suo diletto olore;
      ed io, perché morendo mi disfaccia,
non pur non torno a star col mio signore,
ma temo che di me tutto gli spiaccia.


XLIX

      Qual sempre a' miei disir contraria sorte
fra la spiga e la man mi s'è trasmessa,
sì che la gioia, che mi fu promessa,
tarda tanto a venir per darmi morte?
      Le mie due vive, due fidate scorte
il signor mio, anzi l'anima stessa,
l'imagin, che nel cor m'è sempre impressa,
perché non batte omai, lassa, a le porte?
      L'alma allargata a questa nova speme
che ristretta nel duol prendea vigore,
mancherà tosto certo, se non viene.
      E saran de' miracoli d'Amore,
ch'un'ombra breve di sperato bene
tolga altrui vita, e dia vita il dolore.


L

      Poi ch'Amor mi ferì di crude ponte,
vostra mercé, qual sète vivo e vero,
v'ho scolpito nel fronte e nel pensiero,
sì che nessun sembiante più s'affronte.
      Il viso stesso, il proprio stesso fronte,
il proprio ciglio umilemente altero,
gli occhi stessi, i due sol de l'emisfero,
le stesse grazie e le fattezze conte;
      in questo il mio ritratto è dissimìle:
ché, qual mi sète, vi mostra alteretto,
là dove sète a tutti gli altri umìle.
      Ora, per far ch'anch'io v'abbia perfetto,
per far ch'anch'io pur v'abbia a voi simìle,
emendate anche meco un tal difetto.


LI

      Vieni, Amor, a veder la gloria mia,
e poi la tua; ché l'opra de' tuoi strali
ha fatto ambeduo noi chiari, immortali,
ovunque per Amor s'ama e disia.
      Chiara fe' me, perché non fui restia
ad accettar i tuoi colpi mortali,
essendo gli occhi, onde fui presa, quali
natura non fe' mai poscia, né pria;
      chiaro fe' te, perché a lodarti vegno
quanto più posso in rime ed in parole
con quella, che m'hai dato, vena e ingegno.
      Or a te si convien far che quel sole,
che mi desti per guida e per sostegno,
non lasci oscure queste luci e sole.


LII

      Beate luci, or se mi fate guerra
voi, donde può venir sol la mia pace;
se 'l viver mio a voi, luci alme, spiace
e la mia vita in voi solo si serra;
      mi converrà (e chi nol crede s'erra)
o viver sempre in guerra aspra e tenace,
o tosto tosto l'anima fugace,
lasciato il corpo, se n'andrà sotterra.
      E così rimarrete senza poi
soggetto, ove possiate essercitare
la crudeltade vostra, Amor e voi.
      Io ne verrò al fine a guadagnare;
ché, morend'un senza peccati suoi,
felicemente suol al ciel poggiare.


LIII

      Se d'arder e d'amar io non mi stanco,
anzi crescermi ognor questo e quel sento,
e di questo e di quello io non mi pento,
come Amor sa, che mi sta sempre al fianco,
      onde avien che la speme ognor vien manco,
da me sparendo come nebbia al vento,
la speme che 'l mio cor può far contento,
senza cui non si vive, e non vissi anco?
      Nel mezzo del mio cor spesso mi dice
un'incognita téma: - O miserella,
non fia 'l tuo stato gran tempo felice;
      ché fra non molto poria sparir quella
luce degli occhi tuoi vera beatrice,
ed ogni gioia tua sparir con ella.


LIV

      Se non temprasse il foco del mio core
l'umor, che verso per gli occhi sì spesso,
io avrei visto già di morte il messo,
e l'alma ad ubidirla uscita fore;
      perché la speme omai cede al timore,
ed ogni cosa mia soggiace ad esso,
poi che si vede a mille segni espresso
che chi può farlo vuole il mio dolore.
      Dunque, s'io vivo, è mercé del mio pianto;
s'io moro, è colpa de le crude voglie
del mio signor, in vista dolce tanto.
      Ei mi legò sì ch'altri non mi scioglie,
ei vuol aver de la mia morte il vanto.
O poco chiare ed onorate spoglie!


LV

      Voi, che 'n marmi, in colori, in bronzo, in cera
imitate e vincete la natura,
formando questa e quell'altra figura,
che poi somigli a la sua forma vera,
      venite tutti in graziosa schiera
a formar la più bella creatura,
che facesse giamai la prima cura,
poi che con le sue man fe' la primiera.
      Ritraggete il mio conte, e siavi a mente
qual è dentro ritrarlo, e qual è fore;
sì che a tanta opra non manchi niente.
      Fategli solamente doppio il core,
come vedrete ch'egli ha veramente
il suo e 'l mio, che gli ha donato Amore.


LVI

      Ritraggete poi me da l'altra parte,
come vedrete ch'io sono in effetto:
viva senz'alma e senza cor nel petto
per miracol d'Amor raro e nov'arte;
      quasi nave che vada senza sarte,
senza timon, senza vele e trinchetto,
mirando sempre al lume benedetto
de la sua tramontana, ovunque parte.
      Ed avvertite che sia 'l mio sembiante
da la parte sinistra afflitto e mesto;
e da la destra allegro e trionfante:
      il mio stato felice vuol dir questo,
or che mi trovo il mio signor davante;
quello, il timor che sarà d'altra presto.


LVII

      A che, signor affaticar invano
per ritrarvi e scolpirvi in marmi o in carte,
o gli altri c'hanno fama di quest'arte,
o 'l chiaro Buonaroti o Tiziano,
      se scolpito qual sète aperto e piano
v'ho nel petto e nel fronte a parte a parte,
sì che l'imagin d'indi unqua non parte,
perché siate voi presso o pur lontano?
      Ma forse voi volete esser ritratto
in sembiante leale e grazioso,
qual sète a tutti in ogn'opra in ogn'atto;
      dove, lassa, ch'a pena dirvel oso,
vi porto impresso, qual vi provo in fatto,
un pochetto incostante e disdegnoso.


LVIII

      Deh perché non ho io l'ingegno e l'arte
di Lisippo e d'Apelle, onde potessi
il viso, che per sole al mondo elessi,
dipinger e scolpir in qualche parte,
      poi che non posso ben ritrarr'in carte,
com'avrian con lo stile ritratto essi,
le mie due stelle, la cui luce impressi
pria sì nel cor, che d'indi non si parte?
      Perch'io rimarrei sol con un tormento
d'amar e sospirar, e 'l cor saria
d'ogni altra cura poi pago e contento;
      dov'or piango l'acerba pena mia,
e piango ch'atta a pinger non mi sento
al mondo il mio bel sol quanto devria.


LIX

      Quelle lagrime calde e quei sospiri,
che vedete ch'io spargo sì cocenti
da poter arrestar il mar co' venti,
quando avien ch'ei più frema e più s'adiri,
      come potete voi coi vostri giri
rimirar non pur queti, ma contenti ?
O cor di fère tigri e di serpenti,
che vive sol de' duri miei martìri!
      Deh prolungate almen per alcun'ore
questa vostra ostinata dipartita,
fin che m'usi a portar tanto dolore;
      perciò ch'a così sùbita sparita
io potrei de la vita restar fuore,
sol per servir a voi da me gradita.


LX

      Quinci Amor, quindi cruda empia Fortuna
m'affligon sì, che non so com'io possa
riparar questa e quell'altra percossa,
che mi dànno a vicenda or l'altro or l'una.
      Aer, mar, terra, ciel, sol, stelle e luna,
con quant'ha più ciascuna orgoglio e possa
a danno mio, a mia ruina mossa,
lassa, mi si mostrò fin da la cuna.
      E quel ch'è sol il mio fido sostegno,
per accrescermi duol, fra sì brev'ora
partirassi da me senza ritegno.
      Almen venisse acerba morte ancora,
mentr'io dolente mi lamento e sdegno,
da le man di tant'oste a trarmi fòra!


LXI

      Chi mi darà soccorso a l'ora estrema,
che verrà morte a trarmi fuor di vita
tosto, dopo l'acerba dipartita,
onde fin d'ora il cor paventa e trema?
      Madre e sorella no, perché la téma
questa e quella a dolersi meco invita,
e poi per prova omai la lor aita
non giova a questa doglia alta e suprema.
      E le vostre fidate amiche scorte,
che di giovarmi avriano sole il come,
saran lontane in quella altera corte.
      Dunque i' porrò queste terrene some
senza conforto alcun, se non di morte,
sospirando e chiamando il vostro nome.


LXII

      Or che torna la dolce primavera
a tutto il mondo, a me sola si parte;
e va da noi lontana in quella parte,
ov'è del sol più fredda assai la sfera.
      E que' vermigli e bianchi fior, che 'n schiera
Amor nel viso di sua man comparte
del mio signor, del gran figlio di Marte,
daranno agli occhi miei l'ultima sera,
      e fioriranno a gente, ove non fia
chi spiri e viva sol del lor odore,
come fa la penosa vita mia.
      O troppo iniquo, e troppo ingiusto Amore,
a comportar che degli amanti stia
sì lontano l'un l'altro il corpo e 'l core!


LXIII

      Questo poco di tempo che m'è dato,
anzi di vita, avanti il partir vostro,
voi devreste, o del mondo unico mostro,
essermi pur ad or ad or a lato;
      acciò che poi, essendo dilungato
dal felice e natio terreno nostro,
prenda vigor dal vago avorio ed ostro
il mio poi, senza voi, misero stato.
      Perché, se vi partite, ed io non prenda
prima vigor da voi, converrà certo
ch'a morte l'alma subito si renda.
      E, dove al monte faticoso ed erto
d'onor poggiate, temo non offenda
questa macchia il candor del vostro merto.


LXIV

      Voi che novellamente, donne, entrate
in questo pien di tèma e pien d'errore
largo e profondo pelago d'Amore,
ove già tante navi son spezzate,
      siate accorte, e tant'oltra non passate,
che non possiate infine uscirne fore,
né fidare in bonacce o 'n second'ore;
ché come a me vi fian tosto cangiate.
      Sia dal mio essempio il vostro legno scorto,
cui ria fortuna allor diede di piglio,
che più sperai esser vicina al porto.
      Sovra tutto vi do questo consiglio:
prendete amanti nobili; e conforto
questo vi fia in ogni aspro periglio.


LXV

      Deh, se vi fu giamai dolce e soave
la vostra fidelissima Anassilla,
mentre serrata, sì che nullo aprilla,
teneste del suo cor, conte, la chiave;
      leggendo in queste carte il lungo e grave
pianto, a cui Amor per voi, lassa, sortilla,
mostrar almen di pietà una scintilla,
in premio di sua fé, non vi sia grave.
      Accompagnate almen con un sospiro
la schiera immensa de' sospiri suoi,
che mille volte i ciel pietosi udîro.
      Così sia sempre Amor benigno a voi,
quanto a lei fu per voi spietato e diro;
così non sia mai cosa che v'annoi.


LXVI

      Ricevete cortesi i miei lamenti,
e portateli fide al mio signore,
o di Francia beate e felici ore,
che godete or de' begli occhi lucenti.
      E ditegli con tristi e mesti accenti
che, s'ei non move a dar soccorso al core,
o tornando o scrivendo, fra poche ore
resteran gli occhi miei di luce spenti;
      perché le pene mie molte ed estreme
per questa assenzia ormai son giunte in parte,
dove di morte sol si pensa e teme.
      E, s'egli avien che 'ndarno restin sparte
dinanzi a lui le mie voci supreme,
al mio scampo non ho più schermo od arte.


LXVII

      Chi porterà le mie giuste querele
al mio signor, al gran re franco appresso,
d'ogni rara eccellenza essempio espresso
e, fuor ch'a me, a tutti altri fedele?
      Aure de' miei sospir, voi che le vele
de' miei caldi disir gonfiate spesso,
sarete il mio secreto e fido messo,
onde 'l mio stato a lui sol si rivele.
      E, se la lunga e faticosa via
vi sbigottisce, venga con voi anche
la poca e nulla omai speranza mia.
      E, s'egli avien ch'ancor essa si stanche,
quando dinanzi a l'idol nostro fia,
tornate a me, ch'anch'io conven che manche.


LXVIII

      Chiaro e famoso mare,
sovra 'l cui nobil dosso
si posò 'l mio signor, mentre Amor volle;
rive onorate e care
(con sospir dir lo posso),
che 'l petto mio vedeste spesso molle;
soave lido e colle,
che con fiato amoroso
udisti le mie note,
d'ira e di sdegno vòte,
colme d'ogni diletto e di riposo;
udite tutti intenti
il suon or degli acerbi miei lamenti.
I' dico che dal giorno
che fece dipartita
l'idolo, ond'avean pace i miei sospiri,
tolti mi fûr d'attorno
tutti i ben d'esta vita;
e restai preda eterna de' martìri:
e, perch'io pur m'adiri
e chiami Amor ingrato,
che m'involò sì tosto
il ben ch'or sta discosto,
non per questo a pietade è mai tornato;
e tien l'usate tempre,
perch'io mi sfaccia e mi lamenti sempre.
      Deh fosse men lontano
almen chi move il pianto,
e chi move le giuste mie querele!
ché forse non invano
m'affligerei cotanto,
e chiamerei Amor empio e crudele,
ch'amaro assenzio e fele
dopo quel dolce cibo
mi fe', lassa, gustare
in tempre aspre ed amare.
O duro tòsco, che 'n amor delibo,
perché fai sì dogliosa
la vita mia, che fu già sì gioiosa?
      Almen, poi che m'è lunge
il mio terrestre dio,
che sì lontano ancor m'apporta guai,
il duol che sì mi punge
non mandasse in oblio,
e l'udisse ei, per cui piansi e cantai:
men acerbi i miei lai,
men cruda la mia pena,
men fiero il mio tormento,
che giorno e notte sento,
fôra per la sua luce alma e serena;
e sariami 'l dispetto
dolce sovra ogni dolce alto diletto.
      S'egli è pur la mia stella,
e se s'accorda il cielo,
ch'io moia per cagion così gradita,
venga Morte, e con ella
Amor, e questo velo
tolgan, ed esca fuor l'alma smarrita;
che, da suo albergo uscita,
volerà lieta in parte,
dove s'avrà mercede
de la sua viva fede,
fede d'esser cantata in mille carte.
Ma, lassa, a che non torna
chi le tenebre mie con gli occhi adorna?
      Se tu fossi contenta,
canzon, come sei mesta,
n'andresti chiara in quella parte e 'n questa.


LXIX

      Mentre signor, a l'alte cose intento,
v'ornate in Francia l'onorata chioma,
come fecer i figli alti di Roma,
figli sol di valor e d'ardimento,
      io qui sovr'Adria piango e mi lamento,
sì da' martìr, sì da' travagli doma,
gravata sì da l'amorosa soma,
che mi veggo morir, e lo consento.
      E duolmi sol che, sì come s'intende
qui 'l suon da noi de' vostri onor, ch'omai
per tutta Italia sì chiaro si stende,
      non s'oda in Francia il suono de' miei lai,
che così spesso il ciel pietoso rende,
e voi pietoso non ha fatto mai.


LXX

      O ora, o stella dispietata e cruda,
ch'io vidi dipartir la gloria mia,
lasciando di beata ch'era pria
la vita mia d'ogni suo bene ignuda!
      Da indi in qua per me si trema e suda,
si piagne, si dispera e si disia:
e sarà meraviglia, se non fia
che morte tosto queste luci chiuda.
      Che, del lor fatal sol restate senza,
altra luce giamai mirar non ponno,
che lor non sembri notte e dipartenza.
      Dunque o lor tosto, Amor, rendi il lor donno,
o, per non soffrir più sì dura assenza,
tosto le chiudi in sempiterno sonno.


LXXI

      Quando più tardi il sole a noi aggiorna,
e quando avien che poi più tardi annotte,
quand'ei mostra il crin d'òr, quando la notte
mostra la luna l'argentate corna,
      il mio cor lasso a' suoi sospir ritorna,
a le voci, a le lagrime interrotte;
sì l'ha tutte ad un segno ricondotte
l'assenzia di colui che Francia adorna.
      E sì caldo disio di rivederlo
fra tutt'altri martìr mi preme e punge,
che non so come omai più sostenerlo.
      E duolmi più ch'egli è da me sì lunge,
ch'a poter richiamarlo ed a poterlo
mover a pièta il mio gridar non giunge.


LXXII

      La mia vita è un mar: l'acqua è 'l mio pianto,
i venti sono l'aure de' sospiri,
la speranza è la nave, i miei desiri
la vela e i remi, che la caccian tanto.
      La tramontana mia è il lume santo
de' miei duo chiari, due stellanti giri,
a' quai convien ch'ancor lontana i' miri
senza timon, senza nocchier a canto.
      Le perigliose e sùbite tempeste
son le teme e le fredde gelosie,
al dipartirsi tarde, al venir preste.
      Bonacce non vi son, perché dal die
che voi, conte, da me lontan vi feste,
partîr con voi l'ore serene mie.


LXXIII

      Deh foss'io certa almen ch'alcuna volta
voi rivolgeste a me l'alto pensiero,
conte, a cui per mio danno i cieli diêro
sì da' lacci d'Amor l'anima sciolta.
      L'acerba pena mia nel petto accolta,
l'empia mercé del dispietato arciero,
i sospir, che 'n amor sola mi fêro,
avrian triegua talor o poca o molta.
      Ma 'l sentirmi patir carca di fede,
senza muover pietade a chi mi strugge,
a chi contento i miei tormenti vede,
      sì le speranze mie tronca et adugge
che, se Dio di rimedio non provede,
l'alma per dipartirsi freme e rugge.


LXXIV

      La gran sete amorosa che m'afflige,
la memoria del ben onde son priva,
che mi sta dentro al cor tenace e viva,
sì che null'altra più forte s'affige,
      sovra ogni forza mia move et addige
la vena mia per sé muta e restiva,
e fa che 'n queste carte adombri e scriva
quanto aspramente Amor m'arde e trafige.
      Chi fa qual noi parlar la muta pica?
chi 'l nero corvo e gli altri muti uccelli?
La brama sol di quel che li nutrica.
      Però s'avien ch'io scriva e ch'io favelli,
narrando l'amorosa mia fatica,
non son io no, son gli occhi vaghi e belli.


LXXV

      Fa' ch'io rivegga, Amor, anzi ch'io moia,
gli occhi, che di lontan chiamo e sospiro,
fuor de' quai ciò ch'io veggio e ciò ch'io miro
con questi miei mi par tenebre e noia.
      Quante fiamme or vome Etna, arser già Troia
in quell'incendio dispietato e diro,
a petto a le mie fiamme, al mio martiro,
son poco o nulla, anzi son pace e gioia.
      E se 'l sol de le luci mie divine,
chi 'l crederia? tornando non lo smorza,
sento che 'l mio incendio è senza fine.
      Oh mirabil d'Amor e nova forza!
ché dove avien ch'un foco l'altro affine,
qui solo un foco l'altro vince e sforza.


LXXVI

      Quando talor Amor m'assal più forte,
e 'l desir e l'assenzia mi fan guerra,
e questa e quel vorria pormi sotterra,
preda d'oscura e dispietata morte.
      Io mi rivolgo a le mie fide scorte,
onde, benché lontan, virtù si sferra
tal che la nave mia, che dubbiosa erra,
subito par ch'al lido si riporte;
      sì che quanto ho d'Amor onde mi doglia,
tanto ho onde mi lodi, poi ch'io sento
ch'una sol man mi leghi, una mi scioglia.
      O gioia amara, o mio dolce tormento,
io prego il ciel che mai non mi vi toglia,
e sia 'l mio stato or misero, or contento.


LXXVII

      O de le mie fatiche alto ritegno,
mentre ad Amor ed a Fortuna piacque,
conte gentil, a cui giamai non nacque
bellezza egual, valor, sangue ed ingegno;
      se 'l vostro cor di maggior donna degno
una volta in me sola si compiacque,
se fin gli scogli d'Adria, i lidi e l'acque
san che voi sète il mio solo sostegno,
      perché senza mia colpa e mio difetto,
se non d'esser più ch'altra fida stata,
m'avete tratta fuor del vostro petto?
      Questa è la gioia mia da voi sperata?
è questo quel che voi m'avete detto?
questa è la fé che voi m'avete data?


LXXVIII

      Gli occhi onde mi legasti, Amor, affrena,
sì che non veggan mai altra bellezza,
altra creanza ed altra gentilezza
di belle donne onde la Francia è piena;
      acciò che quanto ora è dolce ed amena,
non sia piena di lagrime e d'asprezza
la vita mia, ch'ogn'altra cosa sprezza,
fuor che la luce lor chiara e serena.
      E, s'egli avien che sia lor mostro a sorte,
obietto che sia degno esser amato,
ed accenda quel cor tenace e forte,
      ferisci lui col tuo stral impiombato,
o con quel d'oro dona a me la morte,
perché viver non voglio in tale stato.


LXXIX

      La fé, conte, il più caro e ricco pegno
che possa aver illustre cavaliero,
come cangiaste voi presto e leggiero,
fuor che di lei d'ogni virtù sostegno?
      A pena vide voi 'l gallico regno,
che mutaste con lei voglia e pensiero;
ed Anassilla e 'l suo fedele e vero
amor sparir da voi tutti ad un segno.
      E piaccia pur a lui, che mi governa,
che non sia la ragion di questo oblio
novella fiamma nel cor vostro interna!
      O, se ciò è, acerbo stato mio!
o doglia mia sovra ogni doglia eterna!
o fidanza d'Amor che mi tradìo!


LXXX

      Prendi, Amor, de' tuoi lacci il più possente,
che non abbia né schermo, né difesa,
onde Evadne e Penelope fu presa,
e lega il mio signor novellamente.
      A pena ei fu dagli occhi nostri assente,
per gir a l'alta ed onorata impresa,
che, noi scherniti e sua fé vilipesa,
rivolse altrove la superba mente.
      E, quasi in alto pelago sommerso
d'oblivione, a la sua Anassilla
non ha degnato mai scriver un verso.
      O Nerone, o Mezenzio, o Mario, o Silla,
chi fu di voi sì crudo e sì perverso,
d'amor gustata pur una scintilla?


inizio pagina