Rime, di Gaspara Stampa
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(Rime varie)


CLXI

      Verso il bel nido, ove restai partendo,
ove vive di me la miglior parte,
quando il sol faticoso torna e parte,
mai sempre l'ale del disir io stendo.
      E me ad or ad or biasmo e riprendo,
ch'a star con voi non usai forza ed arte,
sapendo che, da voi stando in disparte,
ben mille volte al dì moro vivendo.
      La speme mosse il mio dubbioso piede,
che deveste venir tosto a vedermi,
per arrestar questa fugace vita.
      Osservate, signor, la data fede:
fate, venendo, questi lidi, or ermi,
cari e gioiosi, e me lieta e gradita.


CLXII

      Se 'l fin degli occhi miei e del pensiero
è 'l vedervi e di voi pensar, mia vita,
poi l'un mi tolse l'empia dipartita
ch'io fei da voi per non dritto sentiero,
      l'imagin del sembiante vostro vero
mi sta sempre nel cor fissa e scolpita,
qual donna in parte, ove sia più gradita
che gemme oriental, oro od impero.
      Ma, perché l'alma disiosa e vaga,
troppo aggravata d'amorosa sete,
di questo sol rimedio mal s'appaga,
      fate le luci mie gioiose e liete,
signor, di vostra vista, e questa piaga
saldate, che voi sol saldar potete.


CLXIII

      Quando mostra a quest'occhi Amor le porte
de l'immensa bellezza ed infinita
de l'unico mio sol, l'alma invaghita
de le sue glorie par che si conforte.
      Quando poi mostra a la memoria a sorte
quelle di crudeltà mai non udita,
tutta a l'incontro afflitta e sbigottita
resta preda ed imagine di morte.
      E così vita e morte, e gioie e pene,
e temenza e fidanza, e guerra e pace
per le tue mani, Amor, d'un luogo viene.
      Né questo vario stato mi dispiace,
sì son dolci i martìri e le catene;
ma temo che sarà breve e fugace.


CLXIV

      Occhi miei lassi, non lasciate il pianto,
come non lascian me téma e spavento
di veder tosto a noi rubato e spento
il lume ch'amo e riverisco tanto.
      Pregate morte, se si può, fra tanto
che mi venga essa a cavar fuor di stento;
perché morir a un tratto è men tormento,
che viver sempre a mille morti a canto.
      Io direi che pregaste prima Amore
che facesse cangiar voglia e pensiero
al nostro crudo e disleal signore;
      ma so che saria invan, perché sì fiero,
così indurato ed ostinato core
non ebbe mai illustre cavaliero.


CLXV

      S'una vera e rarissima umiltate,
una fé più che marmo e scoglio salda,
una fiamma ch'abbrucia, non pur scalda,
un non curar de la sua libertate,
      un, per piacer a le due luci amate,
aver l'alma al morir ardita e balda,
un liquefarsi come neve in falda
mertan per tempo omai trovar pietate.
      io devrei pur sperar d'aprir lo scoglio,
ch'intorno al core ha il mio signor sì sodo,
ch'altrui pregare o strazio anco non franse.
      Ed io ne prego ardente, come soglio,
Amor e lui, che m'hanno stretto il nodo,
e san quanto per me si piange e pianse.


CLXVI

      Io accuso talora Amor e lui
ch'io amo; Amor, che mi legò sì forte;
lui, che mi può dar vita e dammi morte,
cercando tôrsi a me per darsi altrui;
      ma, meglio avista, poi scuso ambedui,
ed accuso me sol de la mia sorte,
e le mie voglie al voler poco accorte,
ch'io de le pene mie ministra fui.
      Perché, vedendo la mia indegnitade,
devea mirar in men gradito loco,
per poterne sperar maggior pietade.
      Fetonte, Icaro ed io, per poter poco
ed osar molto, in questa e quella etade
restiamo estinti da troppo alto foco.


CLXVII

      Poi che disia cangiar pensiero e voglia
l'empio signor, ch'onoro ed amo tanto,
senza curar de' fiumi del mio pianto,
e del mancar de la mia frale spoglia,
      io prego morte, che di qua mi toglia,
perché non abbia questo crudo il vanto;
o prego Amor, che mi rallenti alquanto,
poi che de' doni suoi tutta mi spoglia;
      sì che o morta non vegga tanto danno,
o viva e sciolta non lo stimi molto,
allor che gli occhi altro mirar sapranno.
      Dunque o sia falso il mio temere e stolto,
o resti sciolta al rinovar de l'anno,
o queti il corpo in bel marmo sepolto.


CLXVIII

      Che bella lode, Amor, che ricche spoglie
avrai d'una infiammata giovenetta,
che t'è stata sì fida e sì soggetta,
seguendo più le tue che le sue voglie,
      se per te così tosto si discioglie
da la catena, che l'aveva stretta,
la qual le piace sì, sì le diletta,
ch'a penar dolcemente par l'invoglie?
      Non conviene ad un dio l'esser sì lieve,
massimamente quando il cangiar stato
non è diletto altrui, ma doglia greve.
      Ma tu pur segui il tuo costume usato,
e fai la gioia mia fugace e breve,
ritogliendomi il ben che m'hai donato.


CLXIX

      A che più saettarmi, arcier spietato?
Se tu lo fai per mostrar la tua forza,
io ho già tutto dentro e ne la scorza
questo misero corpo arso e 'mpiagato.
      Se tu lo fai per farmi un dì placato
chi la mia libertà mi lega e smorza,
tu speri invan, perché tua poggia ed orza
nulla rileva il suo legno ostinato.
      Egli si pasce del mio crudo strazio,
quanto è maggior, e de l'aspre mie pene,
non pur che mai ne sia pentito e sazio;
      ed in una gran téma mi mantiene
che, fatto d'altra donna, in breve spazio
mi torrà le sue luci alme e serene.


CLXX

      Fammi pur certa, Amor, che non mi toglia
tempo, fortuna, invidia o crudeltade
la mia viva ed angelica beltade,
quella ch'appaga e queta ogni mia voglia;
      e dammi quanto sai tormento e doglia:
che tutto mi sarà gioia e pietade;
tommi riposo, tommi libertade,
e, se ti par, tommi anco questa spoglia:
      che per certo io morrò lieta e contenta,
morendo sua, pur che non vegga io
ch'ella sia fatta d'altra donna, o senta.
      Questa sol tèma turba il piacer mio,
questa fa ch'a' miei danni non consenta,
e fa la speme ritrosa al desio.


CLXXI

      Voi potete, signor, ben tôrmi voi
con quel cor d'indurato diamante,
e farvi d'altra donna novo amante;
di che cosa non è, che più m'annoi;
      ma non potete già ritormi poi
l'imagin vostra, il vostro almo sembiante,
che giorno e notte mi sta sempre innante,
poi che mi fece Amor de' servi suoi;
      non potete ritôrmi quei desiri,
che m'acceser di voi sì caldamente,
il foco, il pianto, che per gli occhi verso.
      Questi mi fien ne' miei gravi martìri
dolce sostegno, e la memoria ardente
del diletto provato, c'han disperso.


CLXXII

      S'una candida fede, un cor sincero,
una gran riverenza, una infinita
voglia a servir altrui pronta ed ardita,
un servo grato al suo signor mai fêro,
      devrebbe pur, signor, l'affetto vero
e la mia fede esser da voi gradita,
se i vostri onor più cari che la vita
mi fûr mai sempre, e più ch'oro ed impero.
      Ma poi che mia fortuna mi contende
mercé sì giusta, poi che a sì gran torto
a schivo il servir mio da voi si prende,
      ciò ch'a voi piace paziente porto,
sperando pur che Dio, che tutto intende,
vi faccia un dì de la mia fede accorto.


CLXXIII

      Cantate meco, Progne e Filomena,
anzi piangete il mio grave martìre,
or che la primavera e 'l suo fiorire
i miei lamenti e voi, tornando, mena.
      A voi rinova la memoria e pena
de l'onta di Tereo e le giust'ire;
a me l'acerbo e crudo dipartire
del mio signore morte empia rimena.
      Dunque, essendo più fresco il mio dolore,
aitatemi amiche a disfogarlo,
ch'io per me non ho tanto entro vigore.
      E, se piace ad Amor mai di scemarlo,
io piangerò poi 'l vostro a tutte l'ore
con quanto stile ed arte potrò farlo.


CLXXIV

      Una inaudita e nova crudeltate,
un esser al fuggir pronto e leggiero,
un andar troppo di sue doti altero,
un tôrre ad altri la sua libertate,
      un vedermi penar senza pietate,
un aver sempre a' miei danni il pensiero,
un rider di mia morte quando pèro,
un aver voglie ognor fredde e gelate,
      un eterno timor di lontananza,
un verno eterno senza primavera,
un non dar giamai cibo a la speranza
      m'han fatto divenir una Chimera,
uno abisso confuso, un mar, ch'avanza
d'onde e tempeste una marina vera.


CLXXV

      Quasi uom che rimaner de' tosto senza
il cibo, onde nudrir suol la sua vita,
più dell'usato a prenderne s'aita,
fin che gli è presso posto in sua presenza;
      convien ch'innanzi a l'aspra dipartenza
ch'a si crudi digiuni l'alma invita,
ella più de l'usato sia nodrita,
per poter poi soffrir si dura assenza.
      Però, vaghi occhi miei, mirate fiso
più de l'usato, anzi bevete il bene
e 'l bel del vostro amato e caro viso.
      E voi, orecchie, oltra l'usato piene
restate del parlar, ché 'l paradiso
certo armonia più dolce non contiene.


CLXXVI

      Se voi vedete a mille chiari segni
che tanto ho cara, e non più, questa vita,
quant'è con voi, quant'è da voi gradita,
ultimo fin de tutti i miei disegni,
      a che pur con nov'arte e novi ingegni
darmi qualche novella aspra ferita,
tramando or questa, or quella dipartita,
quasi ogni pace mia da voi si sdegni?
      Se volete ch'io mora, un colpo solo
m'uccida, sì ch'omai si ponga fine
ai dispiacervi, al vivere ed al duolo;
      perché così sta sempre sul confine
di morte l'alma, e mai non prende il volo,
pensando pur a voi, luci divine.


CLXXVII

      Poi che tu mandi a far tanta dimora,
empia Fortuna, in sì lontan paese
il chiaro e vivo raggio che m'accese,
empia ed aversa a' miei disiri ognora,
      conveniente e giusto e degno fôra
che tu mi fossi almen tanto cortese,
che quest'ore sì brevi avesse spese
qui meco tutte lui che m'innamora;
      sì che 'l cor e gli orecchi e gli occhi insieme
prendesser cibo a sostenermi in vita
quel lungo tempo poi ch'ei fia lontano,
      Ma tu stai dura, ed io mi doglio invano,
dal ciel, da te e poi d'Amor tradita;
però l'alma di ciò sospira e geme.


CLXXVIII

      Perché mi sii, signor, crudo e selvaggio,
disdegnoso, inumano ed inclemente,
perché abbi vòlto altrove ultimamente
spirto, pensieri, cor, anima e raggio,
      non per questo adivien che 'l foco, ch'aggio
nel petto acceso, si spenga o s'allente;
anzi si fa più vivo e più cocente,
quant'ha da te più strazi e fiero oltraggio.
      Ché, s'io t'amassi come l'altre fanno,
t'amerei solo e seguirei fin tanto
ch'io ne sentissi utile, e non danno;
      ma per ciò ch'amo te, amo quel santo
lume, che gli occhi miei visto prima hanno,
convien ch'io t'ami a l'allegrezza e al pianto.


CLXXIX

      Meraviglia non è, se 'n uno istante
ritraeste da me pensieri e voglie,
ché vi venne cagion di prender moglie,
e divenir marito, ov'eri amante.
      Nodo e fé, che non è stretto e costante,
per picciola cagion si rompe e scioglie:
la mia fede e 'l mio nodo il vanto toglie
al nodo gordiano ed al diamante.
      Però non fia giamai che scioglia questo
e rompa quella, se non cruda morte,
la qual prego, signor, che venga presto;
      sì ch'io non vegga con le luci scorte
quello ch'or col pensier atro e funesto
mi fa veder la mia spietata sorte.


CLXXX

      Certo fate gran torto a la mia fede,
conte, sovra ogni fé candida e pura,
a dir che 'n Francia è più salda e più dura
la fé di quelle donne a chi lor crede.
      Se, come Amor ch'i pensier dentro vede,
e passa ov'occhio uman non s'assicura,
penetraste anco voi per mia ventura
ove l'imagin vostra altera siede,
      voi la vedreste salda come scoglio,
immobilmente appresso del mio core,
e diporreste meco il vostro orgoglio.
      Ma voi vedete sol quel ch'appar fuore;
per questo io resto, misera, uno scoglio,
e voi credete poco al mio dolore.


CLXXXI

      Diversi effetti Amor mi fe' vedere
poco anzi; or mi pascea di gelosia,
dimostrandomi quanto lieve sia
creder suo quel ch'a molte può piacere;
      or mi pascea di speme e di piacere,
mostrandomi la fé mai sempre pria
salda e costante de la gloria mia,
e le promesse sue secure e vere.
      Per questo or fra tempeste, or fra bonaccia
guidai la barca mia dubbia e sicura,
vedendo Amor or fosco, or chiaro in faccia.
      Or la speranza più non m'assicura,
e la temenza vuol ch'io mi disfaccia.
Dir più non oso, e sallo chi n'ha cura.


CLXXXII

      La vita fugge, ed io pur sospirando
trapasso, lassa, il più degli anni miei,
né di passarli ardendo mi dorrei,
a la cagion de' miei sospir mirando;
      se non che non so punto il come o 'l quando
den le mie gioie dar luogo agli omei;
ché forse a poco a poco m'userei
ad andar le mie pene sopportando.
      Anzi, misera, io so che sarà tosto,
ché per partenza o per cangiar volere
il fin de' miei piacer non è discosto.
      E, perch'Amor mel faccia prevedere,
non è per questo il mio petto disposto
a poter tanta doglia sostenere.


CLXXXIII

      Deh consolate il cor co' vostri rai
questo almen poco spazio, che m'avanza
de la vostra vicina lontananza,
ch'io non vedrò con gli occhi asciutti mai.
      Lasciate i vostri amati colli e gai,
a voi sì cara e a me nemica stanza,
colli, c'hanno imparato per usanza
a farmi oltraggio sì sovente omai.
      Già senza voi non fia manco fiorita
la chioma de' bei colli, dov'io forsi
resterò, senza voi, senza la vita.
      Che cosa è, conte, a la pietate opporsi,
se non negare a chi dimanda aita
i suoi pietosi, i suoi dolci soccorsi?


CLXXXIV

      Io non trovo più rime, onde più possa
lodar vostra beltà, vostro valore,
e contare i tormenti del mio core;
sì cresce a quelli e a me manca la possa.
      E, quasi fiamma che sia dentro mossa,
e non possa sfogar l'incendio fore,
questo interno disio cresce 'l dolore,
e mi consuma le midolle e l'ossa;
      sì che fra tutti i beni e tutti i mali,
ch'Amor suol dar, io ho questo vantaggio,
che quanti sien ridir non posso, e quali.
      Dunque, o tu, vivo mio lucente raggio,
dammi vigore, o tu dammi, Amor, l'ali,
ch'io saglia a mostrar fuor quel che 'n cor aggio.


CLXXXV

      Io penso talor meco quanto amaro
fora il mio stato, se per qualche sdegno,
o per stimarsi il mio signor più degno,
mi ritogliesse il suo bel lume e chiaro;
      e mi risolvo che 'l vero riparo,
quando ad essaminar ben tutto vegno,
per finire i miei mal tutti ad un segno,
saria di morte il colpo aspro ed avaro.
      Ché, s'io restassi in vita, gli occhi e 'l core,
la speranza, il disio mi farian guerra,
che prendon sol da lui ésca e vigore;
      dove, s'io fossi morta e posta in terra,
si porria fin ad un tratto al dolore,
ch'è vita morte che più morti atterra.


CLXXXVI

      - Che fia di me - dico ad Amor talora, -
poi che del mio signor gli occhi sereni
lasseran questi miei di pianto pieni,
fatto esso d'altri infin a l'ultim'ora?
      - Che fia di me - mi rispond'egli allora, -
ch'arco e saette e faci e teme e speni
tengo in quegli occhi, e tutti altri miei beni,
né mai ritrarli io ho potuto ancora?
      D'indi soglio infiammar, d'indi ferire;
or, se come tu di', ce li ritoglie,
caduta è la mia gloria e 'l nostro ardire. -
      In queste amare e dispietate voglie
restiam noi due, ed ei segue di gire
carco e superbo de le nostre spoglie.


CLXXXVII

      Se gran temenza non tenesse a freno
la mia lingua bramosa e 'l mio disio,
sì ch'io potessi dire al signor mio
come amando e temendo io vengo meno,
      io spererei che quel di grazie pieno
viso leggiadro, onde tutt'altro oblio,
quant'è 'l mio stato travagliato e rio,
tanto lo fesse un dì chiaro e sereno;
      e quello, onde m'avinse e strinse, nodo
non cercherebbe, lassa, di slegarlo,
allor che più credea che fosse sodo.
      Ma per troppo timor non oso farlo;
così dentro al mio cor mi struggo e rodo,
e sol con meco e con Amor ne parlo.


CLXXXVIII

      Quasi vago e purpureo giacinto,
che 'n verde prato, in piaggia aprica e lieta,
crescendo ai raggi del più bel pianeta,
che lo mantien degli onor suoi dipinto,
      subito torna languidetto e vinto,
sì che mai non si vide tanta pièta,
se di veder gli usati rai gli vieta
nube, che 'l sol abbia coperto e cinto;
      tal la mia speme, ch'ognor s'erge e cresce,
dinanzi a' rai de la beltà infinita,
onde ogni sua virtute e vigor esce.
      Ma la ritorna poi fiacca e smarrita
oscura téma, che con lei si mesce,
che la sua luce tosto fia sparita.


CLXXXIX

      Lassa, in questo fiorito e verde prato
de le delizie mie, fra sì fresca erba,
onde, la tua mercé, vo sì superba,
Amor, poi che 'l mio sol m'hai ritornato,
      per quel ch'a certi segni m'è mostrato,
un empio e venenoso aspe si serba,
per far la vita mia di dolce acerba
e avelenarmi il mio felice stato.
      Il che se de' seguir, prego che priva
mi faccia morte e di vita e di senso,
prima che questa téma giunga a riva;
      perch'a dover provar dolor sì immenso,
assai meglio è morir che restar viva,
se le provate mie doglie compenso.


CXC

      Acconciatevi, spirti stanchi e frali,
a sostener la perigliosa guerra
e 'l colpo, che fortuna empia disserra,
da noi partendo i lumi miei fatali.
      Quanti avete fin qui tormenti e quali
sofferti, poi che crudo Amor n'atterra,
son sogni ed ombre, a lato a quei che serra
questa seconda assenzia strazi e mali.
      Perché contra il dolor mi fece ardita
un poco di virtù, che aveva allora
che fece il mio signor l'altra partita;
      or, essendo mancata quella ancora,
ed essendo cresciuta la ferita,
altro schermo non ho, se non ch'io mora.


CXCI

      Comincia, alma infelice, a poco a poco
a ricever di fiera sorte il colpo,
a cui pensando sol mi snervo e spolpo,
ed in guai si converte ogni mio gioco.
      L'alta cagion del nostro chiaro foco
partirà tosto, di che, lassa, io scolpo
Amore, e 'l crudo mio signor incolpo,
sì veloce a cangiar pensier e loco.
      Sì che, quando si parte e torna il sole,
non vegga l'occhio tuo di pianto asciutto,
poi che, dove si può, così si vuole;
      ch'un cor saldo e costante vince il tutto,
e morte alfine, o 'l tempo, come suole,
ti trarran fuor di vita e fuor di lutto.


CXCII

      Amor, lo stato tuo è proprio quale
è una ruota, che mai sempre gira,
e chi v'è suso or canta ed or sospira,
e senza mai fermarsi or scende or sale.
      Or ti chiama fedele, or disleale;
or fa pace con teco, ed or s'adira;
ora ti si dà in preda, or si ritira;
or nel ben teme, ed or spera nel male;
      or s'alza al cielo, or cade ne l'inferno;
or è lunge dal lido, or giunge in porto;
or trema a mezza state, or suda il verno.
      Io, lassa me, nel mio maggior conforto
sono assalita d'un sospetto interno,
che mi tien sempre il cor fra vivo e morto.


CXCIII

      Se quel grave martìr che il cor m'afflige,
non temprasse talor cortese Amore,
già mi sarei di vita uscita fuore,
e varcato averei Cocito e Stige;
      ma, perché quant'ei più m'ange e trafige,
tanto la gioia poi tempra l'ardore,
tenendo sempre fra due, lassa, il core,
né al sì, né al no l'alma s'affige.
      Così d'ambrosia vivo e di veleno,
né di vita o di morte sta sicura
l'anima, ch'or s'aviva ed or vien meno.
      O strana, o nova, o insolita ventura,
o petto di dolor e noia pieno,
o diletto, o martìr, che poco dura!


CXCIV

      - Chi darà lena a la tua stanca vita -
talor dentro nel cor mi dice Amore, -
or che chi ti suol dar lena e vigore
s'apparecchia di far da te partita?
      Pensando a ciò, sì a lagrimar m'invita
questo vero e giustissimo dolore,
che sarei già di vita uscita fore,
se non che 'l raggio di chi può m'aita.
      E rimango pregando o lui o Morte:
lui, che non parta, o lei, che a me ne vegna,
sì ch'ei vegga presente tanta pièta.
      Ma al mio gridare e al mio pregar sì forte
di risponder né questa né quel degna,
e la sua aita ognun di lor mi vieta.


CXCV

      Voi vi partite, conte, ed io, qual soglio,
mi rimango di duol preda e di morte,
e questa o quello ingiurioso e forte
userà contra me l'usato orgoglio.
      Né potrò farmi a' colpi loro scoglio,
non avendo con me chi mi conforte,
il vostro viso e le due fide scorte,
che ne' perigli per iscudo toglio.
      Deh, foss'io certa almen che di due cose
seguisse l'una: o voi tornaste presto,
o fossero anche in voi fiamme amorose!
      Ché mi sarebbe schermo e quello e questo
in far meno l'assenzie mie penose,
e 'l vostro dipartir meno molesto.


CXCVI

      Ecco, Amor, io morrò, perché la vita
si partirà da me, e senza lei
tu sei certo ch'io viver non potrei,
ché saria cosa nova ed inaudita.
      Quanto a me, ne sarò poco pentita,
perché la lunga istoria degli omei,
de' sospir, de' martìr, de' dolor miei
sarà per questo mezzo almen finita;
      mi dorrà sol per conto tuo, che poi
non avrai cor sì saldo e sì costante,
dove possi aventar gli strali tuoi;
      e le vittorie tue, le tante e tante
tue glorie perderanno i pregi suoi,
al cader di sì fida e salda amante.


CXCVII

      Chi 'l crederia? Felice era il mio stato,
quando a vicenda or doglia ed or diletto,
or téma, or speme m'ingombrava il petto,
e m'era il cielo or chiaro ed or turbato;
      perché questo d'Amor fiorito prato
non è a mio giudicio a pien perfetto,
se non è misto di contrario effetto,
quando la noia fa il piacer più grato.
      Ma or l'ha pieno sì di spine e sterpi
chi lo può fare, e svelti i fiori e l'erba,
che sol v'albergan venenosi serpi.
      O fé cangiata, o mia fortuna acerba!
Tu le speranze mie recidi e sterpi:
la cagion dentro al petto mio si serba.


CXCVIII

      Se soffrir il dolore è l'esser forte,
e l'esser forte è virtù bella e rara,
ne la tua corte, Amor, certo s'impara
questa virtù più ch'in ogn'altra corte,
      perché non è chi teco non sopporte
de' dolori e di téme le migliara
per una luce in apparenza chiara,
che poi scure ombre e tenebre n'apporte.
      La continenzia vi s'impara ancora,
perché da quello, onde s'ha più disio,
per riverenza altrui s'astien talora.
      Queste virtuti ed altre ho imparate io
sotto questo signor, che sì s'onora,
e sotto il dolce ed empio signor mio.


CXCIX

      Signor, ite felice ove 'l disio
ad or ad or più chiaro vi richiama
a far volar al ciel la vostra fama,
secura da la morte e da l'oblio;
      ricordatevi sol come rest'io,
solinga tortorella in secca rama,
che senza lui, che sol sospira e brama,
fugge ogni verde pianta e chiaro rio.
      Al mio cor fate cara compagnia,
il vostro ad altra donna non donate,
poi che a me sì fedel nol deste pria.
      Sopra tutto tornar vi ricordate,
e, s'avien che fia quando estinta io sia,
de la mia rara fé non vi scordate.


CC

      Al partir vostro s'è con voi partita
ogni mia gioia ed ogni mia speranza,
l'ardir, la forza, il core e la baldanza,
e poco men che l'anima e la vita:
      e restò sol, più che mai fosse ardita,
l'importuna ed ardente disianza,
la quale in questa vostra lontananza
mi dà, misera me! doglia infinita.
      E, se da voi non vien qualche conforto
o di lettra o di messo o di venire,
certo, signor, il viver mio fia corto;
      perché in amor non è altro il morire,
per quel ch'a mille e mille prove ho scorto,
che aver poca speranza e gran disire.


CCI

      - È questa quella viva e salda fede,
che promettevi a la tua pastorella,
quando, partendo a la stagion novella,
n'andasti ove gran re gallico siede?
      O di quanto il sol scalda e quanto vede
perfido, ingrato in atto ed in favella;
misera me, che ti divenni ancella
per riportarne sì scarsa mercede!
      Così l'afflitta e misera Anassilla
lungo i bei lidi d'Adria iva chiamando
il suo pastor, da cui 'l ciel dipartilla;
      e l'acque e l'aure, dolce risonando,
allor che 'l sol più arde e più sfavilla,
i suoi sospir al ciel givan portando.


CCII

      Poi che per mio destin volgeste in parte
piedi e voler, onde perdei la spene
di riveder più mai quelle serene
luci, c'ho già lodate in tante carte,
      io mi volsi al gran Sole, e con quell'arte
e quella luce, che da lui sol viene,
trassi fuor da le sirti e da l'arene
il legno mio per via di remi e sarte.
      La ragion fu le sarte, e i remi fûro
la volontà, che a l'ira ed a l'orgoglio
d'Amor si fece poi argine e muro.
      Così, senza temer di dar in scoglio,
mi vivo in porto omai queto e sicuro;
d'un sol mi lodo, e di nessun mi dog1io.


CCIII

      Ardente mio disir, a che, pur vago
de' nostri danni, in parte stendi l'ale,
ov'è cui de' miei strazi poco cale,
e del mio trar fuor di quest'occhi un lago?
      Ben si può del mio stato esser presago
il partir de la speme fiacca e frale,
e la memoria, che sì poco assale
quel de le voglie mie tiranno e mago.
      Egli a novi diletti aperto ha 'l seno,
e di me sì fedele ha quella cura,
che di chi non si vede e' si può meno.
      Dunque tu di tornar a me procura,
ché 'l turbar la mia pace e '1 mio sereno
è troppo intempestiva cosa e dura.


CCIV

      Virtuti eccelse e doti illustri e chiare,
ch'alzate al cielo il mio real signore,
sol co' passi di gloria e d'alto onore
già giunto in parte, ove non ha più pare;
      voi, voi sol voglio volgermi ad amare,
temprando il mio focoso e cieco amore,
guidato sol da tenebre ed errore,
ove ambedue potrà forse annoiare.
      Or, racquistato alquanto del mio lume,
potrò specchiarmi in quel bel raggio ardente,
che da prima m'elessi per mio nume;
      e di cibo miglior pascer la mente,
dove io pasceva i sensi per costume
di cosa, che si fugge via repente.


CCV

      Quel disir, che fu già caldo ed ardente
a bellezza seguir fugace e frale,
l'alta mercé di Dio, prese ha già l'ale,
ed è rivolto a più fido oriente,
      seguendo del mio conte solamente
quella interna bellezza e senza eguale,
che con fortuna non scende e non sale,
e del tempo e d'altrui cura niente.
      Da qui indietro il suo sommo valore,
la cortesia e 'l saggio alto intelletto,
d'alte opre vago e di perpetuo onore,
      saran più degna fiamma del mio petto,
e più degno ricetto del mio core,
e de le rime mie più degno oggetto.


CCVI

      Canta tu, musa mia, non più quel volto,
non più quegli occhi e quell'alme bellezze,
che 'l senso mal accorto par che prezze,
in quest'ombre terrene impresso e involto;
      ma l'alto senno in saggio petto accolto,
mille tesori e mille altre vaghezze
del conte mio, e tante sue grandezze,
ond'oggi il pregio a tutti gli altri ha tolto.
      Or sarà il tuo Castalio e 'l tuo Parnaso
non fumo ed ombra, ma leggiadra schiera
di virtù vere, chiuse in nobil vaso.
      Quest'è via da salir a gloria vera,
questo può farti da l'orto a l'occaso
e di verace onor chiara ed altera.


CCVII

      Poi che m'hai resa, Amor, la libertade,
mantiemmi in questo dolce e lieto stato,
sì che 'l mio cor sia mio, sì come è stato
ne la mia prima giovenil etade;
      o, se pur vuoi che dietro a le tue strade,
amando, segua il mio costume usato,
fa' ch'io arda di foco più temprato,
e che, s'io ardo, altrui n'abbia pietade;
      perché mi par veder, a certi segni,
che ordisci novi lacci e nove faci,
e di ritrarmi al giogo tuo t'ingegni.
      Serbami, Amor, in queste brevi paci,
Amor, che contra me superbo regni,
Amor, che nel mio mal sol ti compiaci.


CCVIII

      Amor m'ha fatto tal ch'io vivo in foco,
qual nova salamandra al mondo, e quale
l'altro di lei non men stranio animale,
che vive e spira nel medesmo loco.
      Le mie delizie son tutte e 'l mio gioco
viver ardendo e non sentire il male,
e non curar ch'ei che m'induce a tale
abbia di me pietà molto né poco.
      A pena era anche estinto il primo ardore,
che accese l'altro Amore, a quel ch'io sento
fin qui per prova, più vivo e maggiore.
      Ed io d'arder amando non mi pento,
pur che chi m'ha di novo tolto il core
resti de l'arder mio pago e contento.


CCIX

      Io non veggio giamai giunger quel giorno,
ove nacque Colui che carne prese,
essendo Dio, per scancellar l'offese
del nostro padre al suo Fattor ritorno,
      che non mi risovenga il modo adorno,
col quale, avendo Amor le reti tese
fra due begli occhi ed un riso, mi prese;
occhi, ch'or fan da me lunge soggiorno;
      e de l'antico amor qualche puntura
io non senta al desire ed al cor darmi,
sì fu la piaga mia profonda e dura.
      E, se non che ragion pur prende l'armi
e vince il senso, questa acerba cura
sarebbe or tal che non potrebbe aitarmi.


CCX

      Veggio Amor tender l'arco, e novo strale
por ne la corda e saettarmi il core,
e, non ben saldo ancor l'altro dolore,
nova piaga rifarmi e novo male;
      e sì il suo foco m'è proprio e fatale,
sì son preda e mancipio ognor d'Amore,
che, perché l'alma vegga il suo migliore,
ripararsi da lui né vuol né vale.
      Ben è ver che la tela, che m'ordisce,
sempre è di ricco stame; e quindi aviene
che ne' suoi danni il cor père e gioisce;
      e 'l ferro è tale, onde a ferirmi or viene,
che si può dir che chi per lui perisce
prova sol una vita e sommo bene.


CCXI

      Qual sagittario, che sia sempre avezzo
trarre ad un segno, e mai colpo non falla,
o da propria vaghezza tratto o dalla
spene c'ha da ritrarne onore e prezzo,
      Amor, che nel mio mal mai non è sezzo,
torna a ferirmi il cor, né mai si stalla,
e la piaga or risalda apre e rifalla;
né mi val s'io 'l temo o s'io lo sprezzo.
      Tanto di me ferir diletto prende,
e tal n'attende e merca onor, ch'omai,
per quel ch'io provo, ad altro non intende.
      Il vivo foco, ond'io arsi e cantai
molti anni, a pena è spento, che raccende
d'un altro il cor, che tregua non ha mai.


CCXII

      Che farai, alma? ove volgerai il piede?
qual sentir prenderai, che più ti vaglia?
Tornerai a seguir Amor, che smaglia
ogni lorica, quando irato fiede?
      o, stanca e sazia de le tante prede
fatte di te ne l'aspra sua battaglia,
t'armerai sì che, perch'ei pur t'assaglia,
non ti vincerà più qual suole e crede?
      Il ritrarsi è sicuro, e 'l contrastare
è glorioso; e l'ésca, che ci mostra,
è tal, che può nocendo anco giovare.
      Non perde e non vince anco uom che non giostra;
in queste imprese perigliose e rare
si potria far maggior la gloria nostra.


CCXIII

      Un veder tôrsi a poco a poco il core,
misera, e non dolersi de l'offesa;
un veder chiaro la sua fiamma accesa
negli altrui lumi e non fuggir l'ardore;
      un cercar volontario d'uscir fore
de la sua libertà poco anzi resa;
un aver sempre a l'altrui voglia intesa
l'alma vaga e ministra al suo dolore;
      un parer tutto grazia e leggiadria
ciò che si vede in un aspetto umano,
se parli o taccia, o se si mova o stia,
      son le cagion ch'io temo non pian piano
cada nel mar del pianto, ov'era pria,
la vita mia; e prego Dio che 'nvano.


CCXIV

      La piaga, ch'io credea che fosse salda
per la omai molta assenzia e poco amore
di quell'alpestro ed indurato core,
freddo più che di neve fredda falda,
      si desta ad or ad ora e si riscalda,
e gitta ad or ad or sangue ed umore;
sì che l'alma si vive anco in timore
ch'esser devrebbe omai sicura e balda.
      Né, perché cerchi agiunger novi lacci
al collo mio, so far che molto o poco
quell'antico mio nodo non m'impacci.
      Si suol pur dir che foco scaccia foco;
ma tu, Amor, che 'l mio martìr procacci,
fai che questo in me, lassa, or non ha loco.


CCXV

      Qual darai fine, Amor, a le mie pene,
se dal cenere estinto d'un ardore
rinasce l'altro, tua mercé, maggiore,
e sì vivace a consumar mi viene?
      Qual ne le più felici e calde arene,
nel nido acceso sol di vario odore,
d'una fenice estinta esce poi fore
un verme, che fenice altra diviene.
      In questo io debbo a' tuoi cortesi strali,
che sempre è degno ed onorato oggetto
quello, onde mi ferisci, onde m'assali.
      Ed ora è tale e tanto e sì perfetto,
ha tante doti a la bellezza eguali,
che arder per lui m'è sommo, alto diletto.


CCXVI

      D'esser sempre ésca al tuo cocente foco
e sempre segno a' tuoi pungenti strali,
d'esser sempre ministra de' miei mali
ed aver sempre i miei tormenti a gioco,
      io non mi doglio, Amor, molto né poco,
poi che dal dì, che 'l desir prese l'ali,
mi son fatti i martìr propri e fatali,
e libertade in me non ha più loco.
      Pur che tu mi conservi in questo stato,
dov'or m'hai posta, e sotto quel signore,
onde il cor novamente m'hai legato,
      o mi fia dolce, o tornerà minore
quanto son per provar, quanto ho provato
la sua rara bellezza e 'l suo valore.


CCXVII

      A che bramar, signor, che venga manco
quel che avete di me disire e speme,
s'Amor, poi che per lui si spera e teme,
i più giusti di lor non vide unquanco?
      Che vuol dir ch'ogni dì divien più franco,
quel che di voi desir m'ingombra e preme?
La speme no, che par ch'ognor si sceme,
vostra mercede, ond'io mi snervo e 'mbianco.
      - Ama chi t'odia, - grida da lontano, -
non pur chi t'ama, - il Signor, che la via
ci aperse in croce da salire al cielo.
      Riverite la sua possente mano,
non cercate, signor, la morte mia,
ché questo è 'l vero et a Dio caro zelo.


CCXVIII

      Dove volete voi ed in qual parte
voltar speme e disio che più convegna,
se volete, signor, far cosa degna
di quell'amor, ch'io vo spiegando in carte?
      Forse a Dio? Già da Dio non si diparte
chi d'Amor segue la felice insegna:
Ei di sua bocca propria pur c'insegna
ad amar lui e 'l prossimo in disparte.
      Or, se devete amar, non è via meglio
amar me, che v'adoro e che ho fatto
del vostro vago viso tempio e speglio?
      Dunque amate, e servate, amando, il patto
c'ha fatto Cristo; ed amando io vi sveglio
che amiate cor, che ad amar voi sia atto.


CCXIX

      Ben si convien, signor, che l'aureo dardo
Amor v'abbia aventato in mezzo il petto,
rotto quel duro e quel gelato affetto,
tanto a le fiamme sue ritroso e tardo,
      avendo a me col vostro dolce sguardo,
onde piove disir, gioia e diletto,
l'alma impiagata e 'l cor legato e stretto
oltra misura, onde mi struggo ed ardo.
      Men dunque acerbo de' parer a vui
esser nel laccio aviluppato e preso,
ov'io sì stretta ancor legata fui.
      Zelo d'ardente caritate acceso
esser conviene eguale omai fra nui
nel nostro dolce ed amoroso peso.


CCXX

      Signor, poi che m'avete il collo avinto
di sì tenace nodo e così forte,
poi che a me piace, ed Amor vuol ch'io porte
nel cor voi solo e nullo altro dipinto,
      a voi convien per quel gentil instinto,
che natura e virtù v'han dato in sorte,
volger pietoso le due fide scorte
verso chi di suo grado avete vinto.
      Carità, pace, fede ed umiltate
sian le nostr'armi, onde si meni vita
rado o non mai menata in altra etate.
      E sia chi dica: - O coppia alma e gradita,
ben avesti le stelle amiche e grate,
sì dolcemente in un voler unita!


CCXXI

      A mezzo il mare, ch'io varcai tre anni
fra dubbi venti, ed era quasi in porto,
m'ha ricondotta Amor, che a sì gran torto
è ne' travagli miei pronto e ne' danni;
      e per doppiare a' miei disiri i vanni
un sì chiaro oriente agli occhi ha pòrto,
che, rimirando lui, prendo conforto,
e par che manco il travagliar m'affanni.
      Un foco eguale al primo foco io sento,
e, se in sì poco spazio questo è tale,
che de l'altro non sia maggior, pavento.
      Ma che poss'io, se m'è l'arder fatale,
se volontariamente andar consento
d'un foco in altro, e d'un in altro male?


CCXXII

      - Dimmi per la tua face,
Amor, e per gli strali,
per questi, che mi dàn colpi mortali,
e quella, che mi sface,
onde avien che non osi
ferir il mio signore,
altero de' tuoi strazi e del mio core,
in sembianti pietosi?
- Ove anniderò poi -
mi risponde ei, - s'io perdo gli occhi suoi?


CCXXIII

      Così m'impresse al core
la beltà vostra Amor co' raggi suoi,
che di me fuor mi trasse e pose in voi;
or che son voi fatt'io,
voi meco una medesma cosa sète,
onde al ben, al mal mio,
come al vostro, pensar sempre devete;
ma pur, se al fin volete
che il vostro orgoglio la mia vita uccida,
pensate che di voi sète omicida.


CCXXIV

      L'empio tuo strale, Amore,
è più crudo e più forte
assai che quel di Morte;
ché per Morte una volta sol si more,
e tu col tuo colpire
uccidi mille, e non si può morire.
Dunque, Amore, è men male
la morte che 'l tuo strale.


CCXXV

      Io veggio spesso Amore
girarsi intorno agli occhi chiari e vaghi,
dolci del mio cor maghi,
de l'amato e gradito mio signore.
Quinci par che saetti,
e sian gli strali suoi gioie e diletti;
queste son armi, che dànno altrui vita
in luogo di ferita.


CCXXVI

      Sapete voi perché ognun non accende,
e non empie d'amore
l'infinita beltà del mio signore?
Però ch'ognun, com'io, non la comprende,
a cui per sorte è dato
vedervi quel, ch'a tant'altri è vietato;
ché, se non fosse ciò, le pietre e l'erbe
spirerebbero ardore,
e girian di tal fiamma alte e superbe.


CCXXVII

      Se tu credi piacere al mio signore,
come si vede chiaro,
Amor empio ed avaro,
poi che non gli hai pur tócco l'alma e 'l core;
e, come è anche degno,
poi che con gli occhi suoi mantieni 'l regno;
perché vuoi pur ch'io moia?
Per dargli biasmo e noia?
biasmo d'esser crudele,
avendo uccisa donna sì fedele;
noia, perché, se vive del mio strazio,
chi lo farà poi sazio?


CCXXVIII

      Il cor verrebbe teco,
nel tuo partir, signore,
s'egli fosse più meco,
poi che con gli occhi tuoi mi prese Amore.
Dunque verranno teco i sospir miei,
che sol mi son restati
fidi compagni e grati,
e le voci e gli omei;
e, se vedi mancarti la lor scorta,
pensa ch'io sarò morta.


CCXXIX

      Qual fosse il mio martìre
nel vostro dipartire,
voi 'l potete di qui, signor, stimare,
che mi fu tolto infin il lagrimare.
E l'umor, che, per gli occhi uscendo fore,
suol sfogarmi 'l dolore,
in quell'amara e cruda dipartita
mi negò la sua aita.
mio misero stato,
d'altra donna non mai visto o provato,
poi che quello, ond'Amor è sì cortese,
nel maggior uopo a me sola contese!


CCXXX

      Signor, per cortesia,
non mi dite che, quand'andaste via,
Amor mi negò 'l pianto
perché, vedendo in me già spento il foco,
l'acqua non v'avea loco
per temperarlo alquanto;
anzi dite più tosto che fu tanto
in quel punto l'ardore,
che diseccò l'umore;
e non potei mostrare
l'acerba pena mia col lagrimare,
per ciò che 'l corpo mio, d'ogni umor casso,
o restò tutto foco, o tutto sasso.


CCXXXI

      Le pene de l'inferno insieme insieme,
appresso il mio gran foco,
tutte son nulla o poco;
perch'ove non è speme
l'anima risoluta al patir sempre
s'avezza al duol, che mai non cangia tempre.
La mia è maggior noia,
perché gusto talor ombra di gioia
mercé de la speranza,
e questa varia usanza
di gioir e patire
fa maggior il martìre.


CCXXXII

      Se 'l cibo, onde i suoi servi nutre Amore,
è 'l dolore e 'l martìre,
come poss'io morire
nodrita dal dolore?
Il semplicetto pesce,
che solo ne l'umor vive e respira,
in un momento spira
tosto che de l'acqua esce;
e l'animal, che vive in fiamma e 'n foco,
muor come cangia loco.
Or, se tu vòi ch'io moia,
Amor, trammi di guai e pommi in gioia;
perché col pianto, mio cibo vitale,
tu non mi puoi far male.


CCXXXIII

      Beato insogno e caro,
che sotto oscuro velo m'hai mostrato
il mio felice stato,
qual potrà ingegno chiaro,
quant'io debbo e vorrei, giamai lodarte
in vive voci o 'n carte?
Io per me farò fede,
dovunque esser potrà mia voce udita,
che, sol la tua mercede,
io son restata in vita.


CCXXXIV

      Deh, farà mai ritorno agli occhi miei
quel vivo e chiaro lume,
ond'io vivo e quei veggon per costume?
Potran mai le mie lagrime e gli omei
far molle chi di lor si pasce e vive,
che sta da me lontano, e non mi scrive?
Aspro e selvaggio core,
quest'è la fé d'Amore?


CCXXXV

      Conte, dov'è andata
la fé sì tosto, che m'avete data?
Che vuol dir che la mia
è più costante, che non era pria?
Che vuol dir che, da poi
che voi partiste, io son sempre con voi?
Sapete voi quel che dirà la gente,
dove forza d'Amor punto si sente?
- O che conte crudele!
o che donna fedele!


CCXXXVI

      Spesso ch'Amor con le sue tempre usate
assal la vostra misera Anassilla,
vi prenderia di lei, conte, pietate
in vederla et udilla;
perché le pene sue, i suoi cordogli
rompono i duri scogli;
ma voi state lontano,
ed ella piange invano.
Veggano Amore e 'l ciel, che 'l tutto vede,
la vostra rotta e la sua salda fede.


CCXXXVII

      S'io credessi por fine al mio martìre,
certo vorrei morire;
perché una morte sola
non occide, consola.
Ma temo, lassa me, che dopo morte
l'amoroso martìr prema più forte;
e questo posso dirlo, perché io
moro più volte, e pur cresce il disio.
Dunque per men tormento
di vivere e penar, lassa, consento.


CCXXXVIII

      Con quai segni, signor, volete ch'io
vi mostri l'amor mio,
se, amando e morendo ad ora ad ora,
non si crede per voi, lassa, ch'io mora?
Aprite lo mio cor, ch'avete in mano,
e, se l'imagin vostra non v'è impressa,
dite ch'io non sia dessa;
e, s'ella v'è, a che pungermi invano
l'alma di sì crudi ami
con dir pur ch'io non v'ami?
Io v'amo ed amerò fin che le ruote
girin del sol, e più, se più si puote;
e, se voi nol credete,
è perché crudo séte.


CCXXXIX

      Dal mio vivace foco
nasce un effetto raro,
che non ha forse in altra donna paro:
che, quando allenta un poco,
egli par che m'incresca,
sì chiaro è chi l'accende e dolce l'ésca.
E, dove per costume
par che 'l foco consume,
me nutre il foco e consuma il pensare
che 'l foco abbia a mancare.


CCXL

      Deh, perché soffri, Amor, che disiando
la mia vivace fede
resti senza mercede,
anzi di vita e di me stessa in bando?
S'io amo ed ardo fuor d'ogni misura,
perché si prende a gioco
l'amor mio e 'l mio foco
chi mi vede morir e non ha cura?
Gli orsi, i leoni e le più crude fère
move talor pietade
di chi con umiltade
nel maggior uopo suo mercé lor chiere;
e quella cruda voglia,
che vive di martìre,
allor suol più gioire,
quand'avien ch'io più sfaccia e più m'addoglia.


CCXLI

      Donne, voi che fin qui libere e sciolte
degli amorosi lacci vi trovate,
onde son io e son tant'altre avolte,
      se di saper che cosa sia bramate
quest'Amor, che signor ha fatto e dio
non pur la nostra, ma l'antica etate,
      è un affetto ardente, un van disio
d'ombre fallaci, un volontario inganno,
un por se stesso e 'l suo bene in oblio,
      un cercar suo malgrado con affanno
quel che o mai non si trova, o, se pur viene,
avuto, arreca penitenzia e danno,
      un nutrir la sua vita sol di spene,
un aver sempre mai pensieri e voglie
di fredda gelosia, di dubbi piene,
      un laccio che s'allaccia e non si scioglie,
quando altrui piace, un gir spargendo seme,
di cui buon frutto mai non si ricoglie,
      una cura mordace, che 'l cor preme,
un la sua libertate e la sua gioia
e la sua pace andar perdendo insieme,
      un morir, né sentir perché si moia,
un arder dentro d'un vivace ardore,
un esser mesta e non sentir la noia,
      un mostrar quel ch'uom chiude dentr'e fore,
un esser sempre pallido e tremante,
un errar sempre e non veder l'errore,
      un avilirsi al viso amato innante,
un esser fuor di lui franca ed ardita,
un non saper tener ferme le piante,
      un aver spesso in odio la sua vita
ed amar più l'altrui, un esser spesso
or mesta e fosca, or lieta e colorita,
      un ogni studio in non cale aver messo,
un fugir il comerzio de le genti,
un esser da sé lunge ed altrui presso,
      un far seco ragioni ed argomenti
e disegni ed imagini, che poi
tutti qual polve via portano i venti,
      un non dormire a pieno i sonni suoi,
un destarsi sdegnosa ed un sognarsi
sempre cosa contraria a quel che vuoi,
      un aver doglia e non voler lagnarsi
di chi n'offende, anzi rivolger l'ira
contra se stesso e sol seco sdegnarsi,
      un veder sol un viso ove si mira,
un in esso affissarsi, benché lunge,
un gioir l'alma, quando si sospira,
      e finalmente un mal che unge e punge.


CCXLII

      Da più lati fra noi, conte, risuona,
che voi sèt'ito, ove disio d'onore
sotto Bologna vi sospinge e sprona,
      per mostrar ivi il vostr'alto valore:
valor degno di tanto cavaliero,
ma non degno però di tant'amore.
      Io, quando a la ragion volgo il pensiero,
godo meco, e gioisco, e vo lodando
che così prode amante i ciel mi diêro.
      Ma quando poi ritorno al senso, quando
penso ai perigli, onde la guerra è piena,
che Marte a' figli suoi va procacciando,
      di timor in timor, di pena in pena
meno questa noiosa e mesta vita
(mentre voi foste qui, dolce e serena),
      me accusando ch'io non fossi ardita
di finir con un colpo i dolor miei,
anzi che voi da me fèste partita.
      Felice è quella donna, a cui li dèi
han dato amante men illustre in sorte,
e men vago di spoglie e di trofei;
      col qual le sue dimore lunghe e corte
trapassa lieta, avendol sempre a lato,
fido, costante, valoroso e forte.
      Felice il tempo antico e fortunato,
quando era il mondo semplice e innocente,
poco a le guerre, a le rapine usato!
      Allor quella beata e queta gente,
sotto una amica e cara povertate,
menava i giorni suoi sicuramente.
      Allor le pastorelle inamorate
avean mai sempre seco i lor pastori,
dai quai non eran mai abbandonate.
      Con lor dai primi matutini albori
scherzavan fin al dipartir del sole,
lietamente cogliendo e frutti e fiori.
      Ed or di vaghe rose e di viole
tessevan vaghe ghirlandette e care,
come chi sacri altari onora e cole.
      Né le quiete lor potea turbare
l'émpito de le guerre amaro ed empio,
che l'umane allegrezze suol cangiare:
      guerre che fan di noi sì crudo scempio,
guerre che turban sì l'umano stato,
guerre suggetto d'ogni crudo essempio.
      Ben fu fiero colui, per cui trovato
fu prima il ferro, causa a tanti mali,
quanti il mondo prova ora ed ha provato.
      Le guerre e le battaglie de' mortali
erano tutte in quella età novella
contra i semplici e poveri animali;
      contra' quali il pastor, la pastorella
con rete in spalla e con lacci e con cani
givan cingendo questa selva e quella.
      Ma poi quegli appetiti ingordi, insani
di posseder l'altrui robe e l'avere
da l'antica pietà si fêr lontani.
      Quindi si cominciâr prima a vedere
le crude guerre e strepiti de l'armi,
che fan, misere noi, tanto temere.
      Allor sonare i bellicosi carmi
s'udiro per citade e per campagne,
contra' quai ogni stil convien che s'armi
      Di lor convien ch'io mi lamenti e lagne:
la lor mercede, il mio signor m'è lunge;
per lor non è chi, lassa, m'accompagne.
      Voi, se zelo d'Amor pur poco punge,
cavalier onorati, se si trova
alcun, cui Marte dal suo ben disgiunge,
      dimostrate in altrui la vostra prova,
perdonate cortesi al signor mio,
in cui morir e viver sol mi giova.
      L'aspetto suo devria sol far restio
l'émpito d'ogni cruda ed empia mano,
senza che lo chiedessi umilment'io;
      la qual con quanto posso affetto umano,
con quanta posso estrema cortesia
(e giunga il prego mio presso e lontano)
      prego ch'ardito alcun di voi non sia
d'offender per un poco un signor tale,
e turbar seco ancor la vita mia.
      E voi, conte, voi, animo reale,
provato e riprovato in ogni impresa,
deh, se di me pur poco ancor vi cale,
      quando sarà l'aspra battaglia accesa,
andate cauto, ed abbiate rispetto
a me, tutta per voi dubbia e sospesa.
      E pensate che sia nel vostro petto
l'anima mia con la vostr'alma unita,
quasi in suo proprio e suo alto ricetto.
      E sì come pensaste a la partita,
pensate, conte, omai anco al ritorno,
se voi cercate di tenermi in vita;
      ch'io vi vo richiamando notte e giorno.


CCXLIII

      Dettata dal dolor cieco ed insano,
vattene al mio signor, lettera amica,
baciando a lui la generosa mano.
      E digli che dal dì, che la nimica
mia stella me lo tolse, il cibo mio
è sol noia, dolor, pianto e fatica.
      Ben fu 'l ciel al mio ben contrario e rio,
ch'a pena mi mostrò l'amato obietto,
che, misera, da me lo dipartìo.
      O brevi gioie, o fral uman diletto!
o nel regno d'Amor tesor fugace,
subito mostro e subito intercetto!
      Il bel paese, che superbo giace
fra 'l Rodano e la Mosa, or mi contende
la suprema cagion d'ogni mia pace.
      Mentre ivi il mio signor gradito intende
a l'onorate giostre, a' pregi, a' ludi,
di cui sì chiara a noi fama s'estende,
      io, misera, che 'n lui tutti i miei studi,
tutte le voglie ho poste, essendo lunge,
conven che disiando agghiacci e sudi.
      E sì fiero il martìr m'assale e punge,
ch'io mi vivo sol d'esso e vivrommi anco
fin che 'l ciel, conte, a me vi ricongiunge.
      Voi, qual guerrier vittorioso e franco,
ferite altrui con l'onorata lancia;
io son ferita qui dal lato manco.
      O per me poco aventurosa Francia!
o bel paese, avverso a' miei disiri,
che 'mpallidir mi fai spesso la guancia!
      Dovunque avien che gli occhi volga e giri,
non vi trovando voi, conte, mi resto
senza speranza, preda de' sospiri.
      Voi prometteste ben di scriver presto,
non possendo tornar, per porger èsca
fra tanto al mio disir atro e funesto:
      non possendo tornar, per porger ésca
da la memoria vostra la mia fede,
e che del mio dolor poco v'incresca.
      È questa de l'amor mio la mercede?
e de la vostra fede è questo il pegno?
Misera donna ch'ad amante crede!
      Credetti amar un cavalier più degno
e 'l più bel che mai fosse, ed or m'aveggio
che la credenza mia non giunge al segno.
      Empia fortuna, or che mi pòi far peggio,
rottemi le promesse di colui,
senza cui, d'ogni mal preda, vaneggio?
      Io non spero giamai che, come fui
vostra, conte, una volta, non sia sempre;
così non foste voi, conte, d'altrui!
      Non so perché la vita non si stempre,
non so com'or con voi ragioni e scriva,
afflitta sì de l'amorose tempre.
      Ma, lassa, che dich'io? perché mi priva
sì 'l duol del vero mio conoscimento,
ch'io tema d'una fé tenace e viva?
      Non sète voi quel pieno d'ardimento,
di senno e di valor, ch'a mille prove
trovato ho fido cento volte e cento?
      Perché debb'io temer ch'essendo altrove,
da me partito a pena, in voi sì tosto
novo amor a' miei danni si rinove?
      Deh, dolce conte mio, per quelle e queste
fra noi ore lietissime passate,
ond'io mi piacqui e voi vi compiaceste,
      più lungamente omai non indugiate
a scrivermi due versi solamente,
se 'l mio diletto e la mia vita amate.
      Ché, non potendo veder voi presente,
il veder vostre carte darà certo
qualche soccorso a l'affannata mente.
      Questo al mio grand'amor è picciol merto,
ma sarà nondimeno ampio ristoro
al faticoso mio poggiar ed erto.
      Ben felice è lo stato di coloro,
che per buona fortuna e destro fato
han sempre presso il lor caro tesoro!
      Misera me, che m'è 'l mio ben vietato,
allor che più bramava e più devea
essergli caramente ognor a lato!
      La mia fortuna instabilmente rea
mi vi diè tosto e tosto mi vi tolse,
che maggior danno far non mi potea.
      Ma voi, se dentro il vostro cor s'accolse
giamai vera pietà di chi v'adora,
di chi più voi, che la sua vita, volse,
      non fate, com'ho detto, più dimora
di scrivermi e poi far tosto ritorno,
se non volete comportar ch'io mora,
      come sto per morir di giorno in giorno.


CCXLIV

      De le ricche, beate e chiare rive
d'Adria, di cortesia nido e d'Amore,
ove sì dolce si soggiorna e vive,
      donna, avendo lontano il suo signore,
quando il sol si diparte, e quando poi
a noi rimena il matutino albore,
      per isfogar gli ardenti disir suoi,
con queste voci lo sospira e chiama;
voi, rive, che l'udite, ditel voi.
      Tu, che volando vai di rama in rama,
consorte amata e fida tortorella,
e sai quanto si tema e quanto s'ama,
      quando, volando in questa parte e 'n quella,
sei vicina al mio ben, mostragli aperto
in note, ch'abbian voce di favella:
      digli quant'è 'l mio stato aspro ed incerto,
or che, lassa, da lui mi trovo lunge
per ria fortuna mia e non per merto.
      E tu, che 'n cave e solitarie grotte,
Eco, soggiorni, il suon de' miei lamenti
rendi a l'orecchie sue con voci rotte.
      E voi, dolci aure ed amorosi venti,
i miei sospir accolti in lunga schiera
deh fate al signor mio tutti presenti.
      E voi, che lunga e dolce primavera
serbate, ombrose selve, e sète spesso
fido soggiorno a questa e a quella fèra,
      mostrate tutte al mio signore espresso
che non pur i diletti mi son noia,
ma la vita m'è morte anco senz'esso.
      Ei si portò, partendo, ogni mia gioia,
e, se, tornando omai, non la rimena,
per forza converrà tosto ch'io moia.
      La speme sola al viver mio dà lena,
la qual, non tornand'ei, non può durare,
da soverchio disio vinta e da pena.
      Quell'ore, ch'io solea tutte passare
liete e tranquille, mentre er'ei presente,
or ch'egli è lunge son tornate amare.
      Ma, lassa, a torto del suo mal si pente,
a torto chiama il suo destin crudele,
chi volontario al suo morir consente.
      Lassa, io devea con mie giuste querele
far che non andasse, o far ch'andando
non desse al vento senza me le vele;
      ch'or non m'andrei dolente lamentando,
né temenza d'oblio, né gelosia
non m'avrebber di me mandata in bando.
      Emendate, signor, la colpa mia
voi, ritornando ove 'l vostro ritorno
più che la propria vita si disia.
      E, se rimena il sole un dì quel giorno,
non pensate mai più da me partire,
ch'io non vi sia da presso notte e giorno,
      poi ch'io mi veggo senza voi morire.


CCXLV

      Musa mia, che sì pronta e sì cortese
a pianger fosti meco ed a cantare
le mie gioie d'amor tutte, e l'offese,
      in tempre oltra l'usato aspre ed amare
movi meco dolente e sbigottita
con le sorelle a pianger e a gridare
      in questa aspra ed amara dipartita,
che per far me da me stessa partire
hanno Fortuna e 'l mio signor ordita.
      E, perché forse non potrem supplire
noi soli a tanta doglia, in parte al pianto
queste rive e quest'onde fa' venire:
      onde, che meco si compiacquer tanto
de la cara presenza di colui,
ch'or lunge sospirando io chiamo e canto.
      Questi, Amor, son gli usati frutti tui,
brevissimi diletti e lunghe doglie,
ch'io provo, che tua serva sono e fui.
      Ché, come toglie agli arbori le foglie
tosto l'autunno, così di tua mano,
se si dona alcun ben, tosto si toglie.
      Tu mi donasti, ed or mi tien lontano
quanto ben tu puoi darmi, e quanto vede
di caro il sol, tornando a l'oceàno.
      E, bench'io sia sicura di sua fede,
bench'io riposi in quanto m'ha promesso,
ne le dolci parole che mi diede,
      quando 'l disio m'assale, ch'è sì spesso,
non essendo qui meco chi l'appaga,
la vita mia è un morir espresso.
      Donne, cui punge l'amorosa piaga,
di lassar dipartir l'amato bene
non sia alcuna di voi che sia vaga;
      perché son poi maggior assai le pene
di quel ch'altri si crede o che s'aspetta,
qualor l'amara disianza viene.
      Niuna cosa a noi piace o diletta,
se non v'è quel che ne la fa piacere,
quel ch'ogni nostra gioia fa perfetta.
      Io quel che voglio non posso volere,
se quel ch'amo non ho presso o dintorno,
quel che le noie mie torna in piacere.
      Tu, che fai ora a Lendenara giorno,
almo mio sole, ed a me notte oscura,
sole, a cui sempre col pensier ritorno,
      de l'alta fede mia sincera e pura
tien'almen la memoria che si deve,
che durerà fin che mia vita dura.
      E, se degna pietà ti move, in breve
scrivi o vieni o manda, sì ch'io sia
scema di cura dispietata e greve.
      Ché tanto durerà la vita mia,
quant'io sarò sicura d'esser cara
e d'esser presso a chi 'l mio cor desia,
      il mio cor, ch'ora alberga in Lendenara.


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