Homerus Odysseia [trad. P. Maspero] Questo e-book è stato realizzato anche grazie al sostegno di: E-text Web design, Editoria, Multimedia http://www.e-text.it/ QUESTO E-BOOK: TITOLO: Odysseia [in it.] AUTORE: Homerus TRADUTTORE: Màspero, Paolo CURATORE: NOTE: Tra parentesi quadre e in rosso è indicato l’inizio della pagina sull’originale. Al termine alcune normalizzazioni ortografiche adottate. È stata aggiunta la numerazione dei versi. DIRITTI D'AUTORE: no. LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/ TRATTO DA: Odissea / Omero ; traduzione di Paolo Maspero. - 6. ed. - Firenze : Successori le Monnier, 1906. - 405 p. ; 18 cm CODICE ISBN: non presente. 1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 14 giugno 2010 INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa 1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO: Vittorio Volpi; vitto.volpi@alice.it REVISIONE: Mario Lanzino; mlanzino@inwind.it PUBBLICAZIONE: Catia Righi, catia_righi@tin.it Informazioni sul "progetto Manuzio" Il "progetto Manuzio" è una iniziativa dell'associazione culturale Liber Liber. Aperto a chiunque voglia collaborare, si pone come scopo la pubblicazione e la diffusione gratuita di opere letterarie in formato elettronico. 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Qui le istruzioni: http://www.liberliber.it/sostieni/ OMERO -- ODISSEA -- TRADUZIONE DI PAOLO MASPERO -- Sesta impressione FIRENZE SUCCESSORI LE MONNIER -- 1906 DI OMERO E DELLA PRESENTE TRADUZIONE Unico forse tra i poeti, lasciava Omero al mondo due epopee, nel loro genere sì perfette, da bastare ognuna a farlo immortale; unico tra i poeti ritrasse intera la vita di un popolo in una data età, e quella che si agita all’aperta luce del Sole, sotto le tende o sul campo di battaglia, fra gli strepiti della piazza e della pubblica via; e quella che più modesta, ma più feconda di utili ammaestramenti, si passa nel santuario della famiglia: la vita pubblica vogliamo dire nell’Iliade, nell’Odissea la privata; in quella l’eroe, in questa l’uomo, il cittadino. Nell’Iliade pertanto vedi quasi sempre ancora la forza feroce che trionfa, giusta il concetto che della umana grandezza aver dovea un popolo testé uscito dalla barbarie; le passioni vi seguono spontanee il loro corso naturale, con una schietta baldanza e una foga, quali non può comprendere una società come la nostra, dove anche il vizio procede sì guardingo e sì velato. Gli odii e le inimicizie mortali trasportano irresistibilmente gli eroi combattenti sotto le mura di Troia; coprir l’ira, il disprezzo, per altro fine che di compiere una vendetta o d’ingannare un nemico, è arte ignota a quei rozzi figli della natura; a nessuno prende vergogna di sue passioni, quali che sieno, ma nessuno pure fuggendo [IV] vorrebbe confessarsi vile. Selvaggia è l’esultanza della vittoria, ancor più selvaggia la vendetta. Non fare che la propria volontà in ogni cosa, sovrastare altrui per agilità e gagliardia di corpo, è primo loro vanto. Se obbediscono ai cenni altrui, sì lo fanno perché così loro talenta. Sorga una lite, e ogni soggezione sarà tolta, ripiglierà ognuno la innata libertà: il capitano che pugnava poc’anzi al tuo fianco, ti leverà l’aiuto della sua spada, si farà parte da sé; lo scudiero che pur dianzi sarebbe morto per te, ora offeso ti volterà le spalle. L’amicizia è per essi il vincolo più solenne, sacro quanto i vincoli del sangue, e infame chi lo infrange, maledetto dagli uomini e dagli Dei. Nell’Odissea l’uomo ha fatto un passo più in là: alla forza materiale va innanzi la ragione; e l’uomo è chiamato a più difficili prove. Non usato che agli aperti pericoli del campo, deve ora combattere le insidie del mal talento, che gli tende agguati d’ogni parte, e però gli è bisogno, più che di braccio e di spada, aiutarsi di senno e di accorgimento; l’ira, il furore danno il passo alla prudenza, all’equanimità, a quell’indomita pazienza, che supera gli ostacoli lasciando tempo al tempo. Nell’Iliade vedi l’umanità nello stato di guerra, quando siede arbitro d’ogni cosa il diritto del più forte. Nell’Odissea, la società che tra il conflitto di passioni meno brutali si viene educando a quel vivere civile che si governa dall’intelligenza. L’uomo più non s’abbandona all’impeto del fato; ma, fidente nelle proprie forze, lotta animosamente cogli uomini, colla natura, col cielo stesso, perché crede nella sua libertà, nella potenza del suo volere. Lo spirito ieratico trapassato in Grecia colle colonie pelasgiche ed egiziane, quello spirito severo, inflessibile, che dominava le moltitudini coi sacri terrori, trovasi alle prese collo spirito [V] irrequieto dell’operoso Occidente, la cieca autorità tradizionale che inceppava l’azione e il pensiero cede all’impulso della libertà, alla ragione. Il perché ben sa Ulisse di essere perseguitato da Nettuno, sente che gli pesa sul capo l’ira di quel terribile Dio, né tuttavia si dà vinto; un interprete degli Dei, levatosi a consigliare ai Proci la temperanza nella fortuna, appoggia le sue parole di pace ai segni del cielo, e i Proci si ridono del profeta. La leggenda del fato pareva opprimere pensiero e volontà coll’idea di una potenza ineluttabile, che gli uomini trascina ai misfatti inevitabili di Edipo, di Egisto, di Oreste; ma di rimbalzo, come per istinto, il genio greco, ribellandosi al fato, li ridestava poderoso nel sentimento di quell’arbitrio umano, a cui la natura non pose che un limite, il possibile, una norma, il giusto. A questo certamente non pensava il buon Omero: eco inconsapevole di una tendenza universale, rappresentando una tal lotta, sentiva, non ragionava. Così se nell’Odissea l’uomo combatte, quando colla natura, quando co’ suoi simili, quando con se stesso, per levarsi più sublime dai superati conflitti, se ci è mostrata la sventura come la prova della virtù, la causa d’ogni umano incremento; Omero non crea un sistema, ma dipinge un periodo della umanità greca che si svolge; periodo di cui ne porge in se stesso la sintesi più compiuta, e come a dire la imagine parlante. La quale imagine, se guardisi al concetto morale, ti esce più grande dalle lunghe prove di Ulisse, che non si faccia dall’ira di Achille e dall’eterno battagliare degli assediatori di Troia. Per esserne al tutto chiari, basta paragonare i due eroi tra loro: tutta la grandezza di Achille sta nella inflessibile sua natura, in certo che di terribile, di prepotente, di smisurato nelle sue passioni; la grandezza di Ulisse, per contrario, è tutta nella [VI] sua pazienza e costanza nel resistere alla sventura, nel patire e sperare, in quella prudenza sempre desta, in que’ pronti, felici accorgimenti, che mai non falliscono al bisogno. E di tanti suoi patimenti, di sì lunga tenzone colla fortuna perversa che lo stringe d’ogni parte, alta e santissima è la meta, la patria e la famiglia. In qual altro poeta dell’antichità si trovano la famiglia e la patria così pareggiate? Se tu guardi alle leggi, alle istituzioni, agli usi, all’opinione pubblica, che tutte queste cose convalida col suo consenso onnipotente, vedi l’individuo sparire nell’astratto complesso di una gente, di un popolo, di una città; disperdersi la famiglia in quel grande ideale della patria, a cui tutto per gli antichi si riduceva il bello, il buono, il grande, di che la umana natura è capace. Itaca e Penelope occupano ugualmente il cuore di Ulisse: Itaca, povero scoglio in mezzo al mare, che non avrebbe pure un nome fra i mortali, s’ei non l’avesse fatta illustre colle sue sventure; ma a lui caramente diletta sopra ogni altra terra, perché quivi ebbe la culla, quivi cominciò, soffrendo e pazientando, ad apprendere la scienza e l’arte della vita; Penelope, la castissima consorte, che devota al marito, al figlio, animosa e prudente ad un tempo, è come specchio della virtù casalinga. Si direbbe che Omero divinasse ciò che, maturi i tempi, doveva passare in dettato di popolare sapienza, che cioè dalla famiglia deriva quanto ha di bene negli ordinamenti del consorzio umano, e nella famiglia fanno capo i più sacri legami delle genti. Per gli ombrosi boschetti, nelle tranquille grotte, abbellite da un’arte divina, fra le delizie dell’incantevole Ogigia, a fianco di bellezze immortali, come ai banchetti, fra le danze e gli applausi degli esultanti Feaci, che lui ammiravano quasi un Dio: col pensiero e col cuore egli è pur sempre fra i [VII] dirupi e fra i greppi della selvosa sua Itaca, sempre in compagnia della pudica sua sposa. Come non vi ha Sole più splendido per lui di quello che indora i suoi poveri monti, così non ha la terra, quanto è vasta, beltà di donna che per lui si agguagli alla sua Penelope. E per riabbracciare l’amatissima consorte, e per toccare ancora le patrie sponde, che non patirà l’eroe? Certo quando vede scatenarsi in un gruppo i venti contro la fragile sua zatta, sente disciorsi le ginocchia e il cuore, perché appunto uomo, non fantasma ideale di bugiarda e teatrale grandezza: ma Ulisse, che molto ha già imparato alla scuola del dolore, soffre crudelmente e teme, ma non si sgomenta; e però se le parole accennano debolezza, le sue azioni attestano un’anima forte, che regge imperterrita, indomabile, ad ogni assalto dell’iniqua fortuna; non è la morte ch’ei paventa, ma gli odii di un Dio ch’ei venera, ma l’oscurità di una morte, che non sarà onorata né di memoria né di tomba. Questo Ulisse, che non giunge mai a nessuna cosa desiderata che per lagrime e stenti senza fine, adombra mirabilmente la umanità che, combattendo, dolorando, sacrificandosi, si sprigiona dalla barbarie, sorge a più alti concetti, e mai non posa, perché è sua legge fatale, eterna, il moto e l’azione. Quando Ulisse ha tocca la sua terra natale, quando stringe al seno la sua Penelope per cui tanto ha sofferto, le sue prove non sono finite ancora. Ancor gli resta a compiere una grand’opera, un’opera immensa; e la compirà egli solo. Tale è il volere degli Dei, tale il suo fato, che trepidando l’eroe fa manifesto alla moglie proprio in mezzo all’esultanza del suo riconoscimento. L’ombra di Tiresia, a cui tutte erano presenti le cose che furono, sono e saranno, così ha predetto; egli andrà vagando per molte città ancora, né fermerà il piede innanzi che sia [VIII] pervenuto ad una nuova gente, che non conosce il mare, né gusta vivande cosperse di sale. Di queste vicende nulla più dice il poeta che, deludendo ogni nostra aspettazione, involge la fine dell’eroe nei veli del mistero, come appunto i destini della umanità si sprofondano negli spazi del tempo indefiniti arcanamente. Cresce in noi sempre più la maraviglia di sì alti intenti, se consideriamo quanto poco si accordino col concetto che della divinità erasi formato di que’ tempi; ma così è, gli uomini in Omero avanzavano gli Dei. Ulisse crede pure nel fato, ed opera con ardire, con fidanza di sé, come si sentisse pienamente libero; venera, adora l’adultero Giove, pel quale non è sacro alcun talamo sulla terra, ed in mezzo a tante lusinghe, serba fedele il suo cuore alla lontana consorte. Gli Dei d’Omero sono bisbetici, beffardi, accattabrighe, spesso nell’ira brutali, spesso vigliacchi nella paura; gli eroi d’Omero, per contrario, più costanti, più uguali a sé stessi, sanno meglio rispettarsi, sentono la propria dignità, resistono agli assalti nemici con magnanimo ardire, pur nella fuga si difendono, non cedendo che alla necessità. Vedi Ulisse con che dignità si mostra dinanzi ai Feaci, dopo il naufragio; e vedi Venere ritirarsi dalla battaglia, divincolandosi e piagnucolando. Penelope assediata da giovani e potenti Proci, ne ributta sdegnosa le lusinghiere profferte per serbarsi fedele al marito, profugo, errante sulla faccia della terra, rotto dagli anni e dalle fatiche, e forse (così pensar doveva dopo sì lunga assenza, non udendone più novella) o travolto dalla tempesta nelle onde, o spento dai pirati o da barbare genti in qualche selvaggia terra; Venere, all’incontro, nel talamo stesso del marito si abbandona svergognata al suo drudo, e diventa la favola dell’Olimpo. Freme indignato Ulisse alla vista delle oscenità delle [IX] ancelle che si mescono in turpi amori coi Proci, e ne fa terribile vendetta; i beati Immortali, alla vista di Venere e di Marte còlti nella rete di Vulcano, scherzano e motteggiano a gara, poiché appunto di sì fatti scandali si pasce l’inestinguibile riso degli Dei. La donna di Omero, la donna che si propone a modello, è più gelosa dell’onor suo, è più casta, più affezionata alla propria prole, che non sieno le auguste figliuole di Giove, ridenti di una bellezza immortale. Non pertanto Omero è tutto fede ne’ suoi Numi: i suoi prodi nulla fanno senza l’intervento della divinità; nei frangenti più gravi, nelle imprese più solenni si consultano gli Dei per mezzo degli oracoli e degli indovini; scampati d’un pericolo, dopo la vittoria agli Dei si rendono grazie, si fanno sacrifici; e questi Dei, cosa strana, hanno spesso ottimi consigli per gli uomini, essi nelle cose proprie talvolta sì poco assennati. Come si spiega così evidente contraddizione? Omero non inventava una religione a suo modo, come sognarono alcuni; ma quella in cui era nato, rappresentava tal quale si era venuta foggiando fin dai primissimi tempi nelle grosse menti degli uomini. Originata e formata quella religione fra i popoli dell’Oriente, ne serbava tuttavia il carattere fra popoli ben altrimenti disposti, e professanti in pratica massime al tutto contrarie; quindi la contraddizione continua fra le idee religiose e i principii a che s’informava la pubblica e la privata vita dei Greci. Nel resto gli Dei, secondo la teologia orientale, volevano essere giudicati con principii affatto diversi da quelli che sogliono determinare i nostri giudizi nelle cose di questo povero mondo. La divinità, creatrice ch’ella è della legge, soprastando alla legge come padre al figlio, comanda a questa, non obbedisce; trapassare i limiti del giusto non può, perché in lei, di tutto arbitra e signora, [X] tutto è giusto; di che viene la impossibilità di peccare negl’Immortali. Oggidì ancora noi vediamo il Fachiro delle Indie con astinenze, con macerazioni spietate e diuturni martorii, quali appena si possono credere, tutto adoperare a spogliarsi ancor vivo della umana natura; e quando al fine si avvisa di essersi per tal modo immedesimato colla divinità che non può peccare, secondare qual è più basso appetito senza più rimorsi! Il buon senso dei Greci non permise che traviassero sì stranamente: il perché preferirono vivere in perpetua contraddizione colle credenze che professavano, anziché imbestialirsi di tal guisa per farsi uguali agli Dei. Ad ogni modo, per tornare al vero e principale subbietto del nostro ragionamento, certo egli è che nella Iliade non ci è dato che un solo aspetto di quella età eroica che preparava i futuri destini della Grecia, né forse, chi ben consideri, il più importante. La grande società greca nella sua mirabile varietà non è nella Iliade, ma nell’Odissea. Qui tu vedi l’eroe accanto al servo, al mandriano, al mendicante; di qui le ancelle e gli schiavi, di là le regine e i re coronati; amori, banchetti, danze e giuochi s’intrecciano nella vasta tela coi parlamenti dei solenni consessi, con le oblique trame e le aperte battaglie dei faziosi, colle care scene della famiglia e della vita campestre naturalmente come nel mondo reale. I caratteri formano tra loro un maraviglioso contrasto, pieno di verità e di vita. La bella e lusinghiera Calipso, tipo di femminili scaltrimenti, onde poi nacquero le Alcine e le Armide; i Proci insolenti, scialacquatori, improvvidi, come gli uomini troppo fortunati; il Ciclope brutale che, vero selvaggio scappato al bosco, identifica in sé gli antichissimi Pelasgi; Penelope, la tenera madre, l’affettuosa moglie, la donna onestamente accorta e scaltrita; [XI] Eumeo, il servo fedele, prudente, devoto a tutta prova; Nausica, la giovinetta ingenua, spensierata, e nella inconscia sua virtù modestamente ardita; Alcinoo, il re patriarca, vago del novellare, del banchettare, sempre allegro, sempre ospitale, un Dagoberto di più antica stampa: non ti danno essi come il quadro vivente di quella società, di que’ tempi? Noi così entriamo con Omero nelle case di quegli eroi, e penetrandone i più intimi recessi, spogli affatto del pallio troppo grave onde piacque di coprirli alla sublime tragedia, noi li veggiamo quali furono in quell’amabile semplicità del mondo nascente. Mirate: noi siamo a Sparta nelle case di Menelao; la bella Elena, scesa in quella dalle sue stanze, veggendo due novelli ospiti stretti a colloquio col marito, stupisce della somiglianza che l’uno di essi le rende di Ulisse, e pensando a quel prode, forse allora errante pei mari, maledice se stessa, cagione ai Greci di tante sciagure e di tante morti; e voi compatite alla colpevole donna, né più vi dà l’animo di acconsentire in quella maledizione ch’ella scagliò sul suo capo. Quando poi, riconosciuto il figlio del compianto eroe, pietosa vi mesce una bevanda ristoratrice che ne assopisca le pene; quando a Telemaco e al compagno di lui, Pisistrato, sotto i portici allestisce i letti con tanta cura, e al figlio di Ulisse dona con sì bel garbo un ricco peplo, che le bianche sue mani hanno tessuto; ai Greci, ai Troiani perdonate, se per sì fatta donna dieci anni tra loro battagliarono. Qui avete l’ospitalità antica in tutta la sua schiettezza, qui l’amicizia franca, disinteressata di quei rozzi, ma generosi cuori. Torniamo ad Itaca, seguiamo Ulisse che si conduce alla casa del vecchio Laerte, accompagnato da Telemaco, dal fedele Eumeo e dal bifolco; qual aura, per così dire, del mondo primitivo ne circonda! Il vecchio [XII] Laerte, il padre di un re, di un eroe sì famoso, qual era Ulisse, la discorre alla domestica co’ suoi servi, coltiva l’orto, si prepara il cibo colle sue mani, a tutto attende, a tutto provvede da sé; vero capo di tribù, dagli anni molti, dal troppo patire oggimai reso inetto a forti imprese, vive oscuro, doloroso, nella quiete dei campi. Ma quando all’udire dal suo Ulisse, ch’ei non raffigura, la trista fine del figlio, con ambedue le mani afferra la polvere e ne sparge il venerando capo e geme profondamente; quando il figlio, più non si potendo contenere, gettasi al collo del padre, e lo stringe al petto e lo bacia e lo ribacia, e il moribondo vecchio sente mancarsi le ginocchia, troppo debole a tanta gioia, e cade fra le braccia del figlio: come in quello squallore, colpa degli scellerati Proci, quest’uomo, misero, cadente, quasi istupidito dalla sventura, di subito ridiventa moralmente bello, anzi sublime! Sono alcuni che accusano Omero di avere con troppo larga mano sparsi nell’Odissea maravigliosi racconti, talvolta puerili, che movono a riso noi superbi figli di un’età ragionatrice, che niente suole accettare a credenza. Quell’Eolo che consegna i venti ad Ulisse chiusi in un otre, quell’immane Ciclope a cui serve di bastone un pino, quei compagni di Ulisse tramutati in porci dalla incantatrice Circe, quell’Ulisse stesso che campa dalle terribili mani di Polifemo aggrappandosi ai velli di un enorme ariete, sembrano ad alcuni scipite fole, buone a conciliare il sonno ai fanciulli; e certo, se Omero avesse preteso di scrivere, se mai scrisse, per noi teste forti, la sgarrava di grosso. Ma quel Grande, cantasse di mente o scrivesse, ch’io nol so bene, ad ogni modo poetava per la gente de’ suoi tempi; e questa era, come sempre avviene de’ popoli ancor fanciulli, [XIII] semplice, corriva, vaga del maraviglioso. In gente così fatta, ogni potenza d’uomo che si levi sopra il volgo tiene del divino, ogni fatto che devia dal solito corso e ricorso delle cose si fa miracolo, e portento diventa ogni fenomeno che non si comprende; e mentre il senso robusto e prepotente trascina seco la ragione ancor bambina, la fantasia signoreggia non contrastata il mondo per ogni causa che sfugge al corto vedere dell’uomo, creando un nuovo Dio che vi supplisca. Qui gli Dei tutto spiegano: forze, rivolgimenti, trasformazioni della natura, tutto infine si risolve nella divinità, tutto è piano; dove l’intervento degli Dei diretto, continuato, universale è una fede, tutto è possibile, tutto può esser vero, il maraviglioso diventa naturale. L’otre dei venti, Circe, Calipso, le Sirene, Polifemo, i Ciclopi, ad uomini così disposti, sono credibili né più né meno che a noi le imprese di Cesare e di Napoleone. E noi accuseremo Omero per essere stato il poeta del suo secolo, per avere parlato l’unico linguaggio che potesse rapir quelle menti, toccar quei cuori? Omero che pondera sulle bilance della critica ogni fatto, che, freddo, paziente, risale ai principii, alle loro cause, e niente accetta che non regga a prova di ragione, più non sarebbe il poeta di quei tempi. Chi adunque desidera gustare le schiette bellezze di quel sommo, si deve dimenticare del mondo in cui vive, dell’uomo moderno, sopra tutto dello scettico spogliare affatto; deve colla imaginativa farsi contemporaneo di Achille, di Ulisse; raffigurarsi quei re che aggiogano di propria mano le mule al cocchio, quelle regine che lungo la riva del mare giocano a palla colle ancelle, quegli eroi che infiggono nello spiedo le carni palpitanti; deve adagiarsi con loro sotto i portici, sulle morbide pelli, sedere a quei banchetti, dove ogni ospite [XIV] è il benvenuto, e mescolarsi alla gioia chiassosa, tumultuante degli accesi convitati. Questa gente gagliarda, tutta sensi, che dopo il moto, il trambusto di una giornata operosa, stanca alfine di caccie o di battaglie, seppellisce nel vino le cure, ama, dopo i buoni pasti, i canti e le storie interminabili, disposta a tutto credere perché di tutto fra le tazze si sente capace. A chiarire il concetto, l’intento del poeta non è bisogno di farne, come piacque a molti, né l’uomo dei simboli o dei miti arcani, continuatore in Grecia delle gigantesche fantasie dell’Oriente, né il veggente del futuro, iniziatore della nuova sapienza; basta lasciarlo ne’ suoi tempi, co’ suoi tempi spiegarlo tutto intero. Vero è che talvolta, pur di mezzo a quella semplicità primitiva, scoppiano improvvisi dall’omerica calma, quasi lampi a ciel sereno, alti e nuovi concetti, che parrebbero accennare a tempi più maturi; ma fagli mente, vedrai non essere in lui proposito di filosofo, sì bene istantanea intuizione e fantasia divinatrice di poeta. Così avviene al viandante talvolta d’imbattersi in gemma o tesoro a piè della quercia a cui non cercava che rezzo e frescura; così avviene al fanciullo talvolta di precorrere ne’ suoi giochi e trastulli i trovati della scienza più stupendi. Omero vive, sente, pensa co’ suoi tempi; ma standosi egli ne’ più alti gradi, non pur li domina, ma di là, quasi da vedetta, scopre in nube alcun che di più lontano, che agli altri che stanno al basso non apparisce. Se Omero, come primo pittore delle memorie antiche, non ha chi l’agguagli nel far ritratto dei tempi, non è meno grande nel dipingere la natura, tanto ei ne possiede i più cari, i più riposti secreti. Diresti ch’egli n’è l’amico, il confidente più favorito, sì al vivo la ritrae, sì franco e sicuro la fa muovere ed operare, sempre che gli bisogni, a suo talento. Leggi cosmiche, rivolgimenti, produzioni, spettacoli [XV] della natura, fenomeni rari e paurosi che scuotono il mondo, o d’ogni giorno e quieti che passano inosservati, istinti più singolari degli animali, qualità, proprietà meno appariscenti dei corpi, tutto ei vede, tutto ei nota, tutto ei sente, e di tutto si giova a variare, abbellire, animare i suoi quadri. I suoi poemi, come ben disse un valente critico moderno, recano, a somiglianza dello scudo d’Achille, in eterne sculture tutte le bellezze che coronano il cielo, la terra e i mari.1 E ne sieno prova le innumerevoli similitudini e comparazioni ch’egli prende dal triplice regno della natura, dai più umili, non altrimenti che dai più sublimi oggetti, senza cader mai nel triviale; invidiabile privilegio di quei poeti primitivi, quando tutto era nobile, perché tutto era bello nel vero. Il perché i due grandi poemi di Omero si hanno a riguardare come il più ricco tesoro, non solo delle notizie storiche, ma eziandio delle cognizioni naturali di que’ tempi remoti: il qual vanto si vuol dare principalmente all’Odissea, in quanto che le condizioni della vita civile sono a gran pezza più varie, più complicate, più importanti, che non sieno quelle della vita guerresca, massime quando nelle battaglie avevano il senno e l’ingegno sì scarsa parte. Omero segna il primo passo dalle confuse e saltanti leggende degli Aedi alle seguite e concatenate narrazioni degli Storici; con una mano, a così dire, chiude l’evo poetico ch’ei suggella col suo canto immortale, accenna coll’altra ad Erodoto padre della storia, quasi rassegnandogli il carico di continuare un’opera, alla quale né un uomo né un secolo potevano bastare. E veramente Erodoto si direbbe nato dal cantore di Achille e di Ulisse, tanto gli somiglia nella spontanea copia dello stile, nel [XVI] modo semplice e imaginoso ad un tempo di porgere i fatti, nella speditezza e libertà delle mosse, nella varietà degli episodi, con mirabil arte rannodati ai principali avvenimenti. Sì nell’uno, sì nell’altro trovi la stessa maniera di rappresentar le cose ai sensi e metterle in azione, come in perpetuo dramma; sì nell’uno e sì nell’altro vedi l’uomo più intento ad operare che a riflettere. Semplici ambedue, non cavillano, non perfidiano sulle intenzioni, non frugano nelle latebre del cuore, come fa Tacito per iscoprirvi misteri d’iniquità; l’uomo è per essi studiato in grande nelle sue generalità che più danno all’occhio, e giudicato sempre dalle azioni, ottimo e quasi sicuro mezzo le più volte per non essere ingiusti. Vero è che talvolta il poeta ti sembra, massimamente nell’Odissea, discostarsi dal solito suo modo di vedere, di rappresentare le cose; vero che a tratti, ancora nell’Odissea principalmente, vedi l’anima raccogliersi a riflettere sopra se stessa, e già vi discerni come in ombra ciò che i moderni sogliono chiamare la vita intima del pensiero; ma dove pure a prima giunta apparisce maggiore la somiglianza tra i nostri e quell’antico, è pur sempre, chi ben consideri, grandissimo il divario che vi corre nella sostanza. Che amari lamenti, che riflessioni irose, desolanti non avrebbe un poeta moderno fatto fare a Penelope in sì lungo desiderio del marito? Con che compiacenza, paziente notomista, non avrebbe ricercata ogni fibra di quel cuore piagato, e contatine, fui per dire, i battiti dolorosi in quello strazio decenne? Come rilevato il contrasto fra le promesse lusinghiere che le strappava il timor de’ Proci, e l’odio, il disdegno che a stento comprimeva nel cuore; fra la spensierata esultanza di que’ giovani sperditori del patrimonio di un uomo che tanto valeva più di loro, e il forzato sorriso di quella donna che invocava nel suo secreto il ritorno di quell’unico che potea [XVII] vendicarla? Di queste ed altre tali finezze e sottilità di un’analisi che dissolve le passioni, come il prisma alla luce, non è da cercare poco né punto al buon Omero, uso a coglier sempre e in tutte cose l’abito, il moto, l’atto esterno, ciò che ha vita nei sensi. Qui viene naturale un’osservazione a spiegare l’indole della poesia omerica e la potenza di quella mente. Che altri possa, scrivendo, variare in infinito i caratteri, in tanto progresso delle scienze morali, in così prodigioso viluppo di ufici, di attinenze, di commerci della civil società d’oggigiorno, si comprende senza troppa fatica; ma che considerando l’uomo quasi sempre dal lato delle azioni, poco o nulla toccando direttamente dei più riposti secreti del suo cuore, si presentino tante nature e sì diverse tra loro, anche in quei punti che più si somigliano, questo è il miracolo della inventiva, poiché ci dimostra nel poeta uno spirito di osservazione maraviglioso, al quale nessun modo estrinseco della passione può tenersi celato. Guardate, per esempio, la differenza che passa fra il senno d’Ulisse, che è più ne’ pronti accorgimenti e ne’ subiti trovati che nelle parole, moltiforme, volpino a tratti, ma non disgiunto mai dal coraggio; e il senno, più franco forse e più leale, ma querulo sempre e cinguettiero e inetto le più volte al bisogno, di quel buon Nestore, sì vano dell’esperienza acquistata in quattro generazioni d’uomini; fra la incantatrice Circe e la Ninfa Calipso, lusinghiere ambedue, potentissime, ma questa per amore, quella per crudel vaghezza d’insultare all’umana ragione; tra la nobile e generosa fierezza di Ajace, e la rozza e quasi brutale del Tidide. Ma per tacere degli eroi dell’Iliade, tutti valorosi e intrepidi, e pur sì diversi fra loro, e tornare all’Odissea, nostro principale assunto, eccovi i Proci, tristi tutti ad un modo e sconsigliati, e che il poeta ha saputo non pertanto differenziare [XVIII] per guisa, che ognuno ci appalesa un’impronta sua propria. Così quale di essi ti appare insolente e spavaldo, quale modesto in vista e considerato, quale bizzarro e sollazzevole, un capo ameno all’antica, e quale arcigno sempre e intrattabile: se in quello ti offende il truce animo, schernitore impudente di ogni diritto, di ogni legge; questi, per contrario, mite, gentile, valoroso, sì ti commove che impietosisci al duro fato che gli sovrasta. Rapito a tante bellezze, sia detto con pace della grande anima del nostro Vico, non so comprendere come altri potesse, fatto di Omero un simbolo, attribuire sì maravigliosi poemi ad una serie di rapsodi senza nome. Codesto Omero disperso per la Grecia, come il chiamava in quel suo stile altamente poetico l’ardito Napolitano, tuttoché la dotta Germania oggidì, non però senza di molti contraddittori, capitanata da Volfio, abbia voluto farne quasi un dogma letterario, non mi sa entrare. Che molti rapsodi lavorando, a così dire, ciascuno per conto proprio, senza che l’uno si curasse dell’altro, potessero accordarsi nel trattare un medesimo soggetto, s’intende di leggieri, quando si consideri che l’assedio di Troia e le vicende degli eroi reduci in patria da quell’impresa erano per la Grecia quanto di più grande ricordassero le tradizioni nazionali innanzi alle guerre coi Persiani; né mancano esempi di sì fatte rapsodie anche in tempi ai nostri senza paragone più vicini, quali sono il poema del Cid per la Spagna, per la Germania i Nibelunghi. Ma che tutti si potessero accordare in un disegno sì regolare, sì ben pensato, quale apparisce nelle due epopee che si dicono di Omero, tutti accordare nella stessa potenza d’ingegno, di fantasia; questo è ciò che io non comprendo, perché non credo che si possano in buona fede, da chi abbia il sentimento dell’arte, paragonare i poemi del Cid e dei Nibelunghi all’Iliade e all’Odissea. So io bene [XIX] che in certi tempi, massime nei primordi del vivere civile, tutto piglia in volto un colore uniforme, tutto ha un’aria di famiglia, imagini, concetti, giudizii ti sembrano uscire di una stampa; ma se ciò vale per le opere che non trapassano la comune capacità, non può valere, a parer mio, per quelle che colla eccellenza loro fanno testimonianza di qualità tanto eminenti in chi le compose, che sarebbe assurdo volerle supporre comuni, quali che sieno i tempi, e sempre nello stesso grado per più generazioni continuatamente. Non è da far le maraviglie che certe insulse leggende dei tempi di mezzo, certe cronache verseggiate, nelle quali, dal ritmo in fuori, violato pur esso non rade volte, non è cosa che accenni a poesia, si potessero continuare per una lunga serie di autori anonimi, senza che nel complesso si avesse a sentire alcuna grave dissonanza; ma chi si può imaginare una lunga serie di autori, tutti sì valorosi, che continuandosi l’un l’altro sempre di bene in meglio, riescono a darti alla fine, senza avervi pensato, le due più perfette epopee che la classica antichità ci ha lasciato? Con questo io non vo’ dire che quanto si legge ora nell’Iliade e nell’Odissea tutto sia opera d’Omero; che anzi sono anch’io d’avviso coi migliori critici che, dove per celebrare alcuna famiglia potente, dove per lusingare l’orgoglio di questo o quel popolo, e per vaghezza d’innestarvi frammenti insigni, attrattivi di men famosi poemi, o per altre cagioni che a noi poco importa indagare, vi furono fatte molte interpolazioni, e di queste alcune assai lunghe. Tali sarebbero, per toccare delle più notevoli, il Catalogo delle navi nel secondo, la Dolonofonia nel decimo libro dell’Iliade, e nell’Odissea la Nechia o evocazione dei morti nell’undecimo, e più fondatamente la Discesa dei Proci all’inferno nel ventesimoquarto. Vo più innanzi ancora e dico, che, per mio credere, di nessun verso preso separatamente [XX] dopo tanto lavorìo di recisione, assettature, acconciamenti, ci potremmo assicurare oggimai ch’ei sia per appunto di Omero, e manco poi tal quale sonava nel suo canto; ma ciò non toglie che dal complesso di questi versi sorga mirabile l’unità del concetto, e più mirabile ancora l’identità dell’arte che lo governa, onde ci è forza scorgervi ad ogni modo una sola e medesima mente che nella sostanza li ha prodotti. Né fanno ostacolo le contraddizioni che vi s’incontrano talvolta, come d’uomini già dati morti in questo e quel combattimento e che tornano bravamente a battagliare, di circostanze dei fatti medesimi scambiate da luogo a luogo, di capitani qua detti signori di una città o regione, là di un’altra ben diversa; avvegnaché di esse parte si vuole attribuire appunto alle interpolazioni di cui sopra si diceva, parte a scambio o difetto di memoria nell’autore, più che scusabili in opere di sì lunga lena, e in tempi nei quali, per quanto pare, non si era per anco trovata la scrittura che la fuggevole parola fermasse invariabilmente; tanto più che neppure la scrittura valse di poi a salvarne al tutto anche i migliori, testimonio l’Ariosto, sulla cui esistenza non si è mai dubitato. Ma poiché né questo è luogo di sì fatte dispute, né io mi sento abbastanza forte per reggere a fronte dei numerosi seguaci del Volfio, veri catafratti dell’erudizione moderna, cederò senz’altro il campo, contento di ripetere quello che già rispose a costoro un valoroso poeta: Se quanti ha filosofi e filologi il mondo tutti stessero per voi, protesteranno sempre contro il vostro giudizio i veri poeti. Chi mi sa dire non forse i dottissimi sarebbero venuti a ben altra conclusione, se avessero voluto tener conto delle ragioni estetiche e morali che, trattandosi di poesia, non dovevano essere agli occhi loro le meno importanti? Del resto non è punto da stupire, se in tempi che videro, nel concetto di certi filosofi, [XXI] non pur Teseo e Licurgo e i sette re di Roma, ma Mosè, ma Cristo stesso, fatti simboli, mutarsi in non so che momenti, come li chiamano, della umanità; anche il buon Omero, di cui non si conoscono né i parenti, né la stirpe, né la patria, Omero, vissuto or fa quasi tremila anni, abbia dovuto tramutarsi in un simbolo, in un’idea! Altri nel dubitare più modesti ci vogliono pure acconsentire che v’ebbe un Omero, non ente ideale, ma uomo in carne ed ossa e poeta grandissimo, che fioriva giusto nei tempi che pone Erodoto, cioè a dire quattrocento anni innanzi al padre della storia; ma non sanno persuadersi che potesse un uomo solo bastare ad opere di tanta mole e di un genere sì diverso. Ma per non parlare che delle due epopee, che noi faremmo composte da un uomo solo, mancano esempi di simile e maggiore fecondità nella storia delle lettere? Lasciamo stare gli Arabi, tra i quali si trovano poeti che composero da dieci a dodici e più poemi per ciascuno: per tenerci alle cose di casa nostra, è noto che dell’autore dell’Orlando furioso venne disseppellito, non ha molto, dalla polvere di non so quale biblioteca, un altro poema di certa mole, del quale non era rimasta ricordanza; abbiamo di Torquato Tasso ben quattro poemi, il Rinaldo, la Gerusalemme liberata e la conquistata, che non è, come potrebbe credere taluno, una semplice variante della prima, ma per buona parte un’opera al tutto rifatta e nuova, e il poema sacro delle Sette giornate; due poemi ci lasciò l’Alamanni, il Giron cortese e l’Avarchide; tre, non contando i poemetti, il Chiabrera, il Ruggero, la Guerra dei Goti in Italia, la Firenze distrutta; due Angelo Maria Ricci, il San Benedetto e l’Italiade; ai quali, e non abbiam nominato che i più famosi, si potrebbe aggiungere, se non sembrasse un’ironia, più di un poeta vivente, che nel volgere di pochi anni regalò l’Italia di parecchi poemi. Egli è il [XXII] vero che parlandosi di que’ tempi remoti, nei quali forse non si era per anco trovata la scrittura, le difficoltà crescono a dismisura agli occhi nostri, non ci sapendo imaginare come potessero farsi da un uomo solo opere di sì lunga lena senza l’aiuto di quei mezzi che a noi pel continuo uso divennero quasi una seconda natura. «Ma chi può determinare, diremo col celebre Ottofredo Müller, quante migliaia di versi un uomo, tutto compreso del suo subbietto e immerso nella sua contemplazione, possa creare nello spazio di un anno e affidare alla fedele memoria di allievi dediti interamente al loro maestro e all’arte di lui?... Così può anche essere che l’antico poeta fosse seguitato da un numero di cantori più giovani, diletto ed opera della vita dei quali fosse raccogliere il mèle che stillava dalle sue labbra per poi comunicarlo agli altri.»2 Più speciosa in vero è l’altra prova che attingono dal diverso carattere delle due grandi epopee; dico speciosa, stante che se appena tu la guardi in faccia si risolve in fumo. E nel fatto, se la diversità fra le due epopee è grande, il che nessuno vorrà negare, essa è precisamente quale dovea essere tra due subbietti sì diversi. Avea forse Omero a colorire, a congegnare ad un modo il racconto delle grandi battaglie fra i Greci e i Troiani sulle rive dello Scamandro, e quello delle beffe scurrili, de’ soprusi, delle tresche oscene dei Proci, sbaccaneggianti nella reggia d’Ulisse? E non è questa per l’appunto la lode principalissima che suolsi dare ai grandi ingegni, di sapersi, vogliam dire, piegare, accomodare mirabilmente alle cose tra loro più disparate? Che se alcuno ci volesse opporre, che per quanto sieno diversi i subbietti che altri prende a trattare, vi si deve pur sempre [XXIII] scorgere una cotal’aria di famiglia che riveli il comun padre, non farebbe che confermare il giudizio degli antichi che ambedue le attribuirono ad Omero, tanta è la somiglianza che, per certi rispetti, di mezzo alle differenze più gravi, ci corre tra l’una e l’altra epopea. Noi ci troviamo in effetto la stessa serenità di mente, la stessa maniera di ritrarre uomini e cose, l’arte stessa di tener sempre desta la curiosità con casi non prevedibili, deludendo l’aspettazione e indugiando con ingegnose invenzioni lo scioglimento, sempre drammatica la forma; salvo che nell’Iliade il dramma si accosta alla tragedia, nell’Odissea diresti che a tratti discende fino alla commedia, ma non senza decoro, per nulla dire di tanti modi ed epiteti identici ne’ due poemi, e forse più che dell’autore indizio del tempo. Che se nell’uso della lingua, nella struttura del verso ravvisano i conoscitori qualche notabile divario tra l’un poema e l’altro, la cosa è, per mio credere, assai facile a spiegarsi, senza che ci sia bisogno di ricorrere allo spediente dei due autori: basta considerare quanto affrettata, per le ragioni che furono già messe in chiaro dal Guizot sì acutamente,3 camminasse la civiltà greca, e quanto per conseguenza anche la lingua dovesse a mano a mano atteggiarsi diversamente ad ogni poco e uscir di passo per tener dietro al pensiero, e colla lingua modificarsi anche la melopea del verso, che di quella è l’espressione musicale più compiuta. Quanto al mostrare che fa l’Iliade, generalmente parlando, più impeto, più calore, e l’Odissea, per contrario, nella sua calma più vario, più ingegnoso sviluppo di casi e di peripezie; qual meraviglia, sia che si guardi alla diversa natura del subbietto, sia che all’età ben diversa, in che bisogna credere componesse l’autore i due poemi? Imperocché [XXIV] se l’Iliade, il canto delle battaglie eroiche, l’apoteosi della giovane Grecia in Achille, si vuole assegnare all’animosa gioventù del poeta, il Ritorno di Ulisse, epopea della famiglia, si deve attribuire alla sua vecchiaia, quando il canuto autore, mirando oggimai le cose e per propria esperienza e pel progresso dei tempi da ben altro aspetto, doveva in quell’ultimo suo canto correggere e ritemprare il giovinetto Omero, già troppo antico. A questo, cred’io, non al pregio rispettivo loro, come l’intesero molti, accennava Longino, o qual che si fosse l’autore del Trattato del sublime, quando l’Iliade paragonava al Sole che si leva, e al Sole che tramonta l’Odissea. Per me il Sole è sempre quel medesimo, benefico e magnifico sempre; né saprei se più bello il chiami quando ascende divampando la gran curva del cielo, ovvero quando, presso ad inchinare ad altre genti, ci manda dall’ultimo orizzonte il suo saluto, lasciandoci, compenso alle fatiche ed ai rumori del giorno, i cari silenzi e la quiete della sera. Ma basti di Omero, ché non ci paia far l’aggiunta maggiore che la derrata; e veniamo a dire alcuna cosa di ciò che tocca più dappresso la presente versione, segno alla fine a che si appunta il nostro discorso. È ben naturale che i poemi omerici, che furono la prima e più copiosa fonte cui attingesse la greca letteratura (e per questa quante ne germogliarono di poi dal ceppo greco-latino!), fossero non pur tradotti nelle lingue di quanti popoli si vantano di coltura, ma spesso in una lingua medesima da più autori come a gara. Basti dire, per tenerci alle cose nostre, che dei due grandi poemi omerici, a cominciare dal cinquecento ai dì nostri, si contano in Italia, tra compiute e parziali, in prosa, in versi sciolti, in ottave, circa sessanta versioni alle stampe. Ma, per dirne [XXV] il vero, di tanta ricchezza non è troppo da gloriarsi, non essendo le più che dilavate parafrasi senza fior di grazia e leggiadria, o copie sciagurate, per gretta e paurosa fedeltà infedelissime, come avvenne al Salvini, o raccorciamenti arbitrari, come la famosa del Cesarotti dell’Iliade, che cominciando le sue riforme dal titolo e dalla protasi, in cui scopriva l’acuto Padovano non so quanti peccati capitali, stimò bene di ammodernare Omero e farne quasi un abate filosofo in parrucca. L’Italia pertanto attenderebbe ancora chi le faccia gustare le bellezze di quel Signor dell’altissimo canto nella lingua di Dante, se non fossero sorti in questi ultimi tempi alcuni valorosi a compensarla del troppo lungo difetto. E qui tosto corre alla mente di ognuno il nome di Vincenzo Monti, il quale, sebbene non ci renda tutto il natìo candore e l’aurea semplicità del Greco, sì l’avvicina che, mentre giacciono quasi dimenticate le versioni della Dacier, del Bitaubé, del Pope, già sì lodate, accenna di voler tenere il campo quanto la fama stessa di Omero; e solo i Tedeschi colle stupende del Vossio, ritraenti sì schietto il colore antico, potrebbero per avventura disputar la palma all’italiana. Anche il Foscolo si era messo al tempo medesimo che il Monti all’ardua prova di tradurre l’Iliade; se non che, mentre il giovane Zantiotto indugia sdegnoso, incontentabile in cerca dell’ottimo, il provetto poeta gli furava le mosse sì lesto che in poco più di due anni ebbe compiuto il lavoro. Né per questo il giovane pensava levarsi dall’impresa; ma, con tenacità di propositi, maravigliosa in uomo sì appassionato, continuava in quello sforzo meditando il poema immortale mentre gli bastò la vita venti lunghi anni ancora. E si moriva doloroso, in quel grande asilo che è l’Inghilterra ai percossi dalla fortuna e dalle umane vendette d’ogni gente, vagheggiando la divina Iliade, la cui versione lasciava incompiuta; ma pur quel [XXVI] tanto è sufficiente a dimostrarlo non indegno rivale al Monti. Se questo, uguale sempre a se stesso, mirabilmente accompagna l’onda continua e maestosa dell’omerico fiume, quegli rotto e balzante, ma poderoso, ti trascina a volte sotto la corrente stessa a rilevarne all’imo fondo riposti tesori; ma mentre il primo ti porta sì dolcemente che più là non brami, e del lungo cammino non t’accorgi, l’altro, per contrario, convulso, sì ti riscuote talvolta violento, che senti il bisogno di riposo. Posti a fronte l’uno dell’altro, tu li vedi, per mio credere, contrariamente l’uno all’altro peccare ambedue; ché mentre l’uno, troppo attento al tutto, trascorre le parti più minute, troppo intento l’altro a rilevar le parti, il tutto perde di vista. Ogni cosa però considerata, oserei dire, che il genio del meonio poeta meglio campeggia nel largo e placido verso del Monti, fantasia serena come quell’antico, che non si faccia nel troppo denso e faticante del cantor dei Sepolcri, che parea volesse partecipare al greco non so che del suo sentire fiero e disdegnoso. Meno fortunata d’assai che l’Iliade, non poteva fino ai dì nostri vantar l’Odissea, fra i tanti traduttori, pur uno che al Monti tanto quanto si accostasse. Bella lode invero si acquistarono dalle versioni loro Niccolò Delviniotti Corcirese, e Ippolito Pindemonte da Verona; ma né l’uno né l’altro toccava il segno. Forti nella lingua di Omero ambedue, e più ancora il Delviniotti sangue greco, e delle cose patrie studiosissimo, molto si addentrarono nel concetto del poeta, ma ritrarne al naturale le sembianze non seppero. Qual dei due si attenga più stretto all’originale, non saprei dire, sì mi riesce or questi or quegli più felice nel cogliere quasi con egual vicenda; né quale dei due passi l’altro di efficacia, di eleganza, di numero, se pure a conti fatti non torna il [XXVII] vantaggio al Corcirese. Ma tant’è: della versione del Delviniotti, già lodata dal Tommaséo,4 quanti più ricordano oggidì? Delle lodi di quella del Veronese suonarono gran tempo le scuole: questa ristampavasi ad ogni poco, questa si raccomandava a quanti amano di gustare le bellezze di Omero. Contro sì fatto giudizio dei chiarissimi, che pareva dover passare in dettato irrevocabile, come suole in questa repubblica delle lettere che trova sì dolce il riposare sul senno altrui, non lasciarono, fin dal suo primo comparire, di protestare i pochi che, non giurando nelle parole del maestro, si permettono di appellare dai loro giudizi al gusto, alla ragione; ma sì lo fecero a porte chiuse, tanto li sgomentava l’autorità dei dotti areopaghi. Lodavano gli ammiratori sopra tutto la fedeltà, nella versione del Pindemonte, e ne cantavano maraviglie; senza ricordarsi, a quanto pare, che, quand’anche questa fosse maggiore d’assai che non è in effetto, per chi vi guardi sottilmente, in opere sì fatte la fedeltà senza gli altri pregi, che sono necessaria condizione del bello, è ben povera cosa; se pure fedeltà vera può essere in poesia dove il bello dell’originale più non apparisce. Fatto è che, non osando il Veronese di scostarsi pur di un dito da Omero, mentre troppo bada a non perdere un atto, un cenno, una movenza qualunque, mai non arriva a raffigurarlo nel suo tutto, e in quella fatica del contraffarne l’abito e il portamento, spesso inciampa o si rallenta, e non se ne avvede. E doveva pure metterlo sull’avviso l’esempio del Foscolo, gigante di ben altra pasta, e non pertanto azzoppato anch’esso dal grave giogo che si era imposto. Chi prende a voltare nella propria favella un’opera di poesia, deve, non lucidare, [XXVIII] per dir così, l’originale, ma quasi creare una seconda volta quel medesimo che il poeta originale concepiva; perocché certe cose non per lessici o commenti si vogliono interpretare, ma divinare con quell’ingegno altamente ispirato dalle Muse, che Socrate chiamava il miglior interprete di Omero. In poesia, che ti diventa il concetto, qual ch’ei possa essere, se nel farlo volgare lo spogli di quelle forme per cui era bello? Qui ti è bisogno aver cura di rendere, non le parti tutte dell’originale ad una ad una distintamente, il che molte volte per l’indole diversa della lingua non si può fare senza offendere le ragioni del bello, sì bene la somma di esse; in una parola tu non mi hai a pagare il tuo debito moneta per moneta, ma valore per valore. Se pertanto qui non ti vien fatto di restituirmi appunto appunto quanto ti fu dato dall’autore, se ti è forza ritenerti nel cambio alcun che per mancanza di spiccioli equivalenti, fa di darmi colà qualche cosa più che il tuo debito perché ci torni il conto, e tienti bene a mente che il valore di questa o quella cosa non si vuole, generalmente parlando, prendere alla spicciolata, ma determinare dal complesso del concetto e dal sentimento dell’autore. Di questa, ch’io direi l’ermeneutica del senso estetico per uso dei traduttori, poeti, intendiamoci bene, senza la quale l’ermeneutica dei filologi non è di grande aiuto, non si pare che il Pindemonte fosse molto compreso, a giudicare dal fatto ch’egli, prosatore elegante, poeta originale gentilissimo, in questa sua versione non è più quel medesimo, tanto si è rimpicciolito. Chi non sapesse che la poesia è cosa leggiera e delicatissima, quasi ala di farfalla, che tocca da ruvida mano perde d’un tratto ogni vivezza e splendore, al leggere la versione del Pindemonte dovrebbe quasi maravigliare della predilezione che dimostravano per questa Odissea Orazio fra gli antichi, [XXIX] Fénélon, Bitaubé, Wood, e tanti altri fra i moderni. Restava dunque, a giudizio dei veri conoscitori, un vuoto tuttavia nelle lettere italiane: che cioè sorgesse alcuno il quale, dandoci poesia per poesia, ci mostrasse in suo volgare così stupenda l’Odissea, come stupenda era apparsa l’Iliade nei versi del Monti. Ed ecco un giovane animoso, di mezzo ai severi studi d’Ippocrate e di Galeno, accostatosi, come a sollievo della mente stanca, a quel Greco, nato veramente a tranquillar le cure colla dolcezza del canto, ne rimane così rapito, che proprio colla fidanza di un innamorato che trova facile ogni cosa, senz’altro pensare, si accinge all’impresa di riparare a quel difetto. Tra le care illusioni e le ardite speranze, che fanno sì bella la primavera della vita, fra un trattato di clinica e di materia medica, il giovane alunno di Esculapio, tutto assorto nella grande epopea degli errori di Ulisse, quasi dimenticando le battaglie, allora fierissime, dei seguaci di Buffalini e di Rasori, degli allopatici e degli omeopatici, e i clamorosi compagni, trasvola col pensiero a quei tempi nei quali tutto era poesia, perché tutto era vergine ancora, tutto nuovo nel campo dell’arte. Allora, confrontando tra loro le versioni più lodate dei poemi omerici, chiama fortunata la Iliade che nel Monti sortiva un interprete sì degno. Legge, rilegge quella stupenda versione, nella quale imagini e concetti vestono forme sì bene adatte, sì naturali sempre, che in quelle senz’altro si direbbero nati, quella versione in cui stile, lingua, verseggiatura si legano tanto perfettamente coll’idea, che paiono usciti di un getto; e pieno quindi di quell’armonia ineffabile, prende fra le mani l’Odissea, quale ci è data dal Pindemonte, e quasi direbbe di non aver più fra le mani Omero. Sarà fedele, dovette pensare [XXX] fra sé, ne stanno mallevadori gli Ellenisti, e tanto basta; piacevole al certo non è. Sarà fedele, ma come copia di bellissimo dipinto, nella quale tu abbia dell’originale appunto appunto le linee, i contorni, le ombre, non i vivi colori, non le accorte sfumature, non i felici ardimenti, che rivelano la mano maestra, che ideò, eseguì, animò quella tela. Gli parve si potesse far meglio; e, molto confidando in quell’ammirazione smisurata che lo empiva di Omero, osò sperare di far meglio egli stesso. E chi mai, se non l’incuora questa speranza, può metter mano a rifare faticosamente ciò che altri già fece? Però, salvo che non si vogliano credere fuor di senno, bisognerà dire ipocrita la modestia di certi tali che, presentandosi al pubblico con sì fatti lavori, si sbracciano a persuadervi che sentono anch’essi di non poter vincere al paragone la prova. Si mise all’opera pertanto di lena e quasi con alacrità spensierata sulle prime, ma poi a mano a mano ch’ei procedeva nel lavoro, vedeasi crescere e grandeggiare innanzi le difficoltà, come sempre si avvera nei migliori; e ondeggiando fra il timore e la speranza, trovò a muta a muta le subite paure, lo sconforto profondo, sotto cui pare l’ingegno esinanito istupidire, e la superba ebbrezza di chi sente d’aver vinto un palio già tante volte corso invano, tutta la lunga, travagliosa gestazione, a così dire, della mente produttrice, che è un mistero ai profani. Così, non ostante le sospensioni, le interruzioni, quando comandate da studii più severi, quando cagionate da stanchezza, da malcontento di sé, dal sentimento di un bello forse inarrivabile, e pur cercato sempre, trovossi alla fine un bel dì con sua maraviglia compiuta l’opera fra le mani. Mostrolla titubando ad uomini di antica fama, e n’ebbe, dove sincere lodi, dove adulatorie e quasi di scherno, dove franchi consigli, [XXXI] dove scipite censure, come di gente, a cui non parrebbe di poter sembrare i sopracciò del buon gusto trovando il bello ove da tutti si trova; in complesso più conforti e incuoramenti, che critiche amare e più amara indifferenza. Di che assicurato il giovine poeta a cimentare il giudizio del pubblico, andava finalmente alle stampe l’Odissea di Omero tradotta dal dottor Paolo Màspero. Un’opera, qualunque ella sia, incontra sempre giudici più severi stampata che manoscritta; e però la versione del Màspero non si poteva sottrarre al comune destino dei parti dell’ingegno. A molti parve pazzo ardimento affrontarsi colla vecchia fama di quel Pindemonte, che divise un tempo col cantor di Basville la cima del Parnaso italiano; e condannarono la nuova versione senza leggerla, tanto più animosi, come suole, quanto più ignoranti. Del qual torto tuttavia non avrebbe avuto il traduttore gran fatto a dolersi; ché, alla fine, ben possono costoro gridare addosso a chi vogliono, non aver voce in capitolo alla lunga dove si tratti di opere classiche, alle quali la moda co’ suoi capricci non arriva, quando non avessero dato loro rincalzo in sulle prime alcuni pochi, anche dei più dotti e meglio disposti a sentire il bello, se invidiosi o preoccupati non oso dire. Ma non mancarono nel tempo stesso letterati già di antica fama, poeti e traduttori acclamatissimi, che, spassionati quanto valorosi, fecero plauso al nuovo lavoro, quali, per non toccar che i sommi, un Gherardini, un Bellotti, un Maffei. E qui mi piace di quest’ultimo ricordare un tratto che onora il Màspero meglio d’assai che non farebbe il più magnifico elogio dato avvertitamente. Imbattendosi adunque il Maffei, che stava allora pubblicando le sue traduzioni di Schiller, a vedere nella stamperia le bozze della nuova versione non aventi ancora [XXXI] titolo, come si usa in queste prime prove, e lettone per curiosità non so che brano, si avvisò senz’altro che quella fosse una ristampa dell’Iliade tradotta dal Monti; né fu poca la sua maraviglia quando si fu chiarito dello scambio preso. Fatto è però che generalmente parlando le lodi più ampie, più schiette non gli vennero da’ suoi lombardi, ma piuttosto dalle altre parti d’Italia; tanto è vero che nessuno è profeta in patria. Ma il tempo che disperde e cancella inesorabile le rinomanze boriose, create dai falsi criterii, dai capricci della moda, dalle arti ciarlatanesche, e le modeste nate dal merito conferma e fa maggiori ogni giorno, ha reso infine sì piena giustizia al Màspero, che oggimai la sua versione dell’Odissea è risguardata universalmente come il secondo anello, dappoiché Monti ci dava il primo, che la moderna letteratura congiunge in Italia coll’antica. Del favore ch’essa viene sempre più acquistando è chiara testimonianza questa nuova edizione, la terza che può vantare nello spazio di non molti anni; cosa rara ai dì nostri, trattandosi di opera classica, in sì deplorabile traviamento dell’arte. E veramente quanto più sottilmente si badi, tanto più mirabile apparisce il magistero che la governa. Quel far largo e sicuro, quella scorrevolezza di numero che mai non s’intoppa, quel pensiero che sempre si adagia nella forma più conveniente, quella sì difficile disinvoltura nei trapassi che mai non vien meno, quella spontanea vena che bellamente vi diffonde in ogni parte le più care e squisite grazie della viva e pieghevole nostra favella, quel non so che di unito, di uguale che mai non dà segno di stanchezza; dimostrano nel traduttore tale una padronanza del subbietto ch’egli ha per le mani, che non par vero possa un uomo tanto immedesimarsi nel concetto altrui, da farne a quel modo suo proprio [XXXIII] sangue, a così dire, sua sostanza. Vero egli è che, se tu prendi il greco e lo interpreti alla lettera, lo trovi più semplice, più famigliare dell’italiano; vero che nella narrazione omerica havvi non so che di primitivo, di patriarcale, che un animo dilicato sente, ma non può definire, e questo in parte va perduto nella versione. Ma chi mai vorrà pretendere che una lingua vivente, specchio e strumento di una civiltà sì raffinata, ci dia per l’appunto tutta l’ingenuità natìa di una lingua parlata tremila anni sono da un popolo che usciva allora di fanciullo? Chi legge una traduzione non pensa all’originale, sibbene a quel che legge. E però dove s’incontri in cosa alcuna che mal gli garbi, non iscusa il traduttore con dire: così poneva l’autore, così parlavasi a’ suoi tempi; ma con esso lui se la piglia perché non abbia saputo trovar modo di fargli gustare l’antico. Porta la lingua greca, come non può ignorare chiunque ne abbia pure una tintura, porta, dico, con sé una certa gravità naturale, onde anche le cose più vili nella pienezza di quei suoni acquistano dignità, e risalto anche le idee più semplici, più dimesse; ma risalto e dignità sono sì annessi a que’ suoni, che non è possibile farli passare in altra lingua senza qualche mutamento. Il Màspero ci ha voluto dare un’Odissea italiana, che si potesse leggere volentieri da Italiani anche ignari del greco: ora non so quanti l’avrebbero gustata, se avesse servilmente ritenuto quello, che forse da pochissimi sarebbesi chiamato sapor greco, dai più scempiezza o languore. Vedete il Pindemonte, tanto decantato per la sua fedeltà, volendoci dare dell’originale, troppo più per avventura che non porta il genio diverso delle due lingue, mentre traduce il più piano, il più semplice fra i poeti dell’antichità, appare egli stesso assai volte stentato e contorto, e il bello, fluido verso del greco muta nel duro e spesso [XXXIV] informe del suo volgare.5 Se per darci nella nostra favella poesia greca, come solea dire il Chiabrera per indicare cose eccellenti, si deve tradurre a questo modo, per me fo voto che nessun classico poeta dell’antica Grecia venga mai più quindi innanzi fatto volgare in Italia; dico poeta, ché in quanto ai prosatori la faccenda è diversa. Anche il sistema ritmico diverso nelle due lingue rende impossibile a chi traduce una stretta e servile fedeltà. Il greco, per natura poderoso e fortemente accentuato, può nel verso seguire l’andamento della prosa, e non pertanto sostenersi; non così l’italiano, di suoni temperatissimi, il cui verso, scarso d’accenti, se non si aiuta di voci elette e artificiosamente collocate, ti diventa floscio e sfiancato, come provano i noiosissimi delle commedie del cinquecento. Aggiungi che, avendo il greco ricchezza stragrande di voci composte, può, per esempio, accennare d’un tratto più qualità d’un sostantivo, e tuttavia, verificandosi questo nell’epiteto complesso, serbarsi semplice e piano ancora; per contrario nell’italiano, poco adatto alle composizioni, dovendo il poeta [XXXV] risolvere le più di cotali voci composte, quando si voglia tenere troppo stretto all’originale dà facilmente nell’ozioso o nel gonfio. Aggiungi ancora, che certe parole, le quali nel greco hanno significato solenne, che ti riesce tanto più profondo, quanto più penetri addentro nelle viscere di quella lingua, voltate letteralmente in italiano ti diventano triviali e insulse. Della qual cosa può chiarirsi ognuno, anche senza saper di greco, solo che abbia famigliari i classici latini che più si lodano per greco sapore, e principalmente Orazio, che per tal rispetto passa innanzi ad ogni altro scrittore del secolo d’Augusto. Quanti epiteti s’incontrano nelle odi del Venosino che, bellissimi nell’originale, tradotti alla lettera, non hanno più né garbo né valore! Quanto più sarà facile cadere in sì fatto sconcio se tu mi vorrai dare traducendo ogni apice, a così dire, di un poeta antichissimo, qual è Omero, che visse in un’età nella quale le parole, non logore ancora per soverchio uso, valevano appunto quel che significavano. Così, a cagion d’esempio, pei Greci il Sole Iperione che, secondo spiegano alcuni interpreti, viene a dire vagante nell’alto de’ cieli, avrà avuto pur altro senso che per noi, ai quali, usi che siamo a scorgere con Galileo Sotto l’etereo padiglion più mondi Rotarsi, e il Sole irradïarli immoto, non ricorda sì facilmente il sublime corso ne’ cieli che gli antichi assegnavano al Sole. Il medesimo si dica del caro, del dolcissimo cuore (????? ????), che trovi sì frequente in Omero, con che pare indicasse l’amore onde l’uomo si attiene alla vita; ma di che saprebbe in italiano il dire, come sta nell’originale, a me tremò nel petto l’amato cuore? Spesso ancora egli avviene che dove noi ad indicare una certa azione, comunque modificata, [XXXVI] non abbiamo che un verbo solo, i Greci ne abbiano parecchi, i quali con maravigliosa finezza ne distinguono i modi e gradi diversi, che possono, più sottilmente che a noi non è dato di fare, esprimere le distinzioni e varietà di che un dato concetto fondamentale è suscettivo. Così, per esempio, come mirabilmente distingue il greco ciascuno col suo verbo speciale gli affetti di più diversa natura onde è capace il cuore umano! come finamente nota le diverse forme e qualità di bellezza ciascuna col suo nome appropriato! Pretendere che un traduttore non abbia a perdere mai niente di queste distinzioni, gradazioni, mezze tinte, sarebbe un pretendere troppo più che non gli consenta lo strumento ch’egli ha per le mani. Né qui ancora finiscono le difficoltà per un traduttore di opere sì fatte. La poesia primitiva parlando ad uomini semplicissimi, e non resi ancora dall’abuso dell’arte schizzinosi, guarda più al complesso che alle minute parti; ti dà in certo modo, per dirla alla francese, l’effetto delle grandi masse, e pinge a gran tratti, non minia. Però raro egli è, che in esso s’incontri quel non so che di arguto, di concettoso, che tanto piace ai moderni; ma in quella vece non rifugge dalla ripetizione, sposa volentieri certe formole popolari, tradizionali, ritocca senza scrupolo la stessa corda ogni qual volta ricorrono gli stessi affetti; come proprio di chi parla a sfogo del cuore, non a pompa d’ingegno. Ma la nostra raffinata civiltà mal s’accomoda con queste negligenze; leziosa, difficile, come i vecchi ai quali tutto fa nausea, ha bisogno di essere solleticata con un po’ d’arte; e l’arte, che occupò il campo della natura, vuol tutto misurare colle seste e colla squadra: spesso inetta a comprendere la maestosa bellezza del tutto, ha gli occhi di lince per iscorgere nelle parti il più piccolo neo. [XXXVII] Come potrebbe adunque un traduttore far gustare a’ suoi contemporanei quest’aurea semplicità del mondo antico, senza un tal poco piegarla così alla leggiera e pian piano, che non appaia al genio diverso dei tempi? Con questo non crediamo invogliar nessuno a travestire l’originale, come piacque fare al Cesarotti; sì veramente ad usare l’accorgimento dei pittori, che, avendo a ritrarre alcuno e volendo far opera d’arte vera onde si lodi il maestro, non s’obbligano a rilevare di quel volto ogni pelo, ogni neo, sì bene l’aria e i lineamenti, e sì l’atteggiano che si mostri nel miglior aspetto possibile, ma sempre lui ad ogni modo. Se il concetto, diranno alcuni, s’incarna nella forma, come niuno vorrà negare, dove la forma si muti sarà forza venga pure il concetto a mutarsi. Ora che altro si fa con queste larghezze, se non se incoraggiare i traduttori a sformare l’originale? Se intendiamo a dovere, non credo. Perocché bisogna distinguere in ciò che dicesi forma quello che è proprio e particolare all’autore da quello che a tutti o molti è comune, quello che dà la lettera da quello che porta l’intenzione altrimenti nota dell’autore. Quello che è comune a tutti, ovvero a molti, non avrà di solito, nel determinare il carattere di un autore, la stessa importanza che vuolsi dare a ciò che è proprio di lui solo; e però se quest’ultimo si vuol tutto conservare religiosamente, stante che se tu lo togli, l’autore non è più quel desso [ch]’egli ora in effetto, l’altro potrà concedere una certa larghezza al traduttore assennato. Che uno adoperi parole fattesi ora sconce o plebee per buone e nobili quando da tutti erano avute tali, sta bene, né questo al certo il differenzia dagli altri; in tal caso non dovrò io traduttore per entrare, come dicono i Francesi, nello spirito dell’autore stesso, voltarle con voci tali che corrispondano piuttosto all’intenzione che alla lettera materiale? [XXXVIII] Questo per le parole: rispetto ai costrutti giova avvertire, che altri di essi emanano dal genio della lingua, e questi conservare traducendo molte volte non si può, né ciò nuoce molto all’autore, poiché non è per essi ch’egli ha un’impronta sua propria; dipendono altri dalle attitudini morali e intellettive dell’autore, dal suo modo di concepire, di ordinare le idee, di sentire, e questi chi li può conservare traducendo fa ottima cosa, e più spesso il potrà fare e più agevolmente che altri non crede, quando conosca per lungo studio le riprese, i ripieghi e le capestrerie della sua lingua materna, e sappia entrare nell’animo dell’autore ch’ei traduce, per quinci mirare tutte cose dai medesimi aspetti. Ma quello che ci porge più al vivo l’abito morale di un autore qualunque, massime se poeta, sono le figure, quali che sieno; e queste deve il traduttore quanto più può studiosamente mantenere. La qual cosa quanto a quelle che si dicono di parole non sempre si può fare per la natura diversa nelle diverse lingue, e per altre ragioni toccate di sopra parlando della lingua in genere, e tale sarebbe il caso di chi avesse, poniamo, a tradurre dalle lingue orientali; rispetto alle figure che si dicono di concetto, nelle quali all’infine sta l’importanza, dappoiché quasi che sempre, oserei dire, può farsi senza troppa difficoltà, niente è da perdere, niente da mutare. Il perché conchiuderò recando le molte parole in una: se dall’una parte non posso lodare che l’espressione, per mo’ d’esempio, non più che semplice nell’originale mi diventi triviale, indecente nel traduttore, il costrutto piano nell’originale si faccia stentato o faticoso nel traduttore, e viceversa; d’altra parte non approverò che il discorso diretto nell’originale si risolva nel traduttore per infinitivi, il parlar proprio si muti nel figurato, il figurato nel proprio; non approverò che ciò che è solenne [XXXIX] nell’originale diventi nella versione giocoso, che dove l’autore procede dimesso, il traduttore si alzi al volo, che alle imagini, ai sentimenti, ai concetti dell’autore niente levi, niente aggiunga, salvo il potersi allargare qualche rara volta e con discrezione, qua per l’indole della lingua che sì richiede, là per dar chiarezza ad un concetto, che senza ciò pei mutati tempi sarebbe troppo oscuro. Prese di tal maniera le agevolezze o licenze che noi vogliamo concedere ai traduttori, pur con esse, pare a me possano nel complesso riuscir fedeli all’originale. A queste avvertenze avea l’animo certamente il nuovo volgarizzatore dell’Odissea, a giudicare dal fatto ch’io sento nella sua versione tutta la facile facondia di quel poeta che Aristotele chiamò primo maestro d’ogni eloquenza; sento la grandezza di quella fantasia, che fu sì ben paragonata ad un mare interminato che nell’azzurro delle sue aque riflette senza punto alterarsi le maraviglie del cielo e della terra circostante; sento Omero, in una parola, qual fu, qual dovea essere, salvo che al garbo del dire, all’accento nostrale, lo direi nato in antico sotto il nostro cielo. Ma non occorre ch’io più mi stenda nelle lodi di questa nuova versione, oggimai che i voti dei migliori l’hanno giudicata; e tempo egli è che lasciando parlare il buon Omero per bocca del suo degno interprete, io mi ritiri dietro le scene, come il Prologo nell’antico teatro, per far luogo ai grandi attori del maraviglioso dramma che il pubblico attende impaziente. Pavia, gennaio 1871 ANTONIO ZONCADA. OMERO, ODISSEA [1] LIBRO PRIMO SOMMARIO Concilio degli Dei. - Minerva ottiene da Giove che Ulisse ritorni ad Itaca sua patria. - La Dea scende in Itaca sotto le sembianze di Mentore, e consiglia Telemaco di recarsi a Pilo e a Sparta per avere novelle del padre. - Banchetto de’ Proci. - Femio vi canta le sciagure che colpirono i Greci al lor ritorno da Troia. - Penelope, moglie di Ulisse, rattristata a quel canto, esce dalle sue stanze per esortarlo a prendere altro tèma. - Franche parole di Telemaco alla madre. - Suoi rimproveri ai Proci, che invita a pubblica adunanza. Canta, o Musa, l’eroe di vario ingegno, Che gran tempo vagò, poiché distrutto Ebbe il sacro Ilïon; che d’infinite Genti i costumi e le città conobbe; E gravi in mar sostenne e lunghi affanni 5 Mentre, al suo scampo intento, alle paterne Soglie i compagni ricondur cercava. Vano pensier; ché tutti un’empia voglia A perir li traea. Stolti! del Sole Iperïone divorar fûr osi 10 I candidi giovenchi, e il Nume irato Ad essi del ritorno il dì rapìa. Or tu, figlia di Giove, in parte almeno, Sì memorandi casi a noi rivela. Già gli achivi guerrier, ch’erano all’armi 15 Sfuggiti e al mare, avean riposo e pace [2] Nelle avite dimore. Il solo Ulisse, Dalla patria lontano e dalla sposa, Nelle amene sue grotte la superba Ninfa e Diva Calipso trattenea, 20 Bramosa di sue nozze. E benché fosse Col volgere degli anni il dì venuto Che avean prefisso al suo ritorno i Numi, In mezzo a’ suoi, nelle sue stesse case, Molto il misero ancor soffrir dovea. 25 Tutti d’Ulisse avean pietà gli Eterni, Salvo Nettuno, che durò nell’ira Contro l’itaco eroe, sin che non ebbe Alfin raggiunto il suol natìo. Ma sceso Era il forte Nettuno in Etïopia, 30 Dalle genti divisa ultima terra, Di cui guarda una parte il Sol che nasce, L’altra il Sol che tramonta. Un’ecatombe Gli avean di tauri offerta e di montoni I felici Etiòpi, e ai lor conviti 35 Egli seder godea. Gli altri Celesti Erano intanto ne’ dorati alberghi Dell’Olimpo raccolti; e il gran Saturnio, Egisto rimembrando, a cui togliea La vita Oreste, il figlio dell’Atride, 40 A parlar cominciò: Sempre il mortale Delle sventure ch’egli a sé procaccia Incolpa gl’Immortali, e fato appella La sua follia. Così sposava Egisto D’Agamennón la moglie, e lui medesmo 45 Indi uccidea, contro il voler del fato, E il vaticinio che per me gli fece Il vegliante Argicida: Astienti, Egisto, Dal sangue dell’Atride e dal suo letto; Ché, cresciuto negli anni, e in cor la brama 50 Sorgendogli del regno, aspra vendetta Farà del padre, Oreste. A quel consiglio Ei non prestava orecchio; ed or pagato Ha di sue colpe, con la morte, il fio. [5] Giove, re de’ Celesti e de’ mortali, 55 Gli rispose la Dea dagli occhi azzurri, Ben quella fine ha meritata Egisto, E possa al par di lui perir qualunque A lui somiglia. Ma l’infausta sorte Mi cruccia dell’eroe che, da’ suoi cari 60 Diviso, passa dolorando i giorni In isola remota, ove l’arresta Calipso, prole di quel saggio Atlante, Che del pelago tutti i più nascosi Antri conosce, e che del ciel la vòlta 65 Con gli omeri sostiene. Ivi l’arresta, Afflitto, inconsolato, entro a’ suoi spechi La Ninfa ingannatrice, e con melate Parole sempre lo blandisce e molce, Onde trargli dal core Itaca sua. 70 Ma dal paterno tetto anco una volta Ei veder brama sollevarsi il fumo, Pria che il colga la Parca. E non ti move Pietà di quel meschino? Un giorno pure Fra le argoliche tende innanzi a Troia 75 Ne gradivi l’offerte; e perché dunque Ora contro di lui così t’adiri? Quai detti, o figlia, ti sfuggir di bocca? Il Tonante riprese. Io corrucciarmi Col magnanimo Ulisse, che di senno 80 Tutti vince i mortali, e gl’Immortali Sempre con doni e sacrifizi onora? Solo il grande Nettuno odio gli pose, Perché dell’unic’occhio orbò l’immane Polifemo, fortissimo Ciclope, 85 Che la Ninfa Toosa, illustre figlia Di Forco, re degl’infecondi flutti, Gli partorìa ne’ suoi segreti alberghi. Non l’uccise il divino Enosigeo; Ma per le tempestose onde il costringe 90 Senza posa a vagar, dalla natìa Terra lontano. Orsù, facciam noi tutti [6] Ch’egli tosto v’approdi; e l’ira sua Nettun deponga, perocché nessuno Contro tutti gli Dei cozzar potrìa. 95 E a lui così Minerva: O Giove, o sommo Re dell’Olimpo, se i Celesti han fermo Che giunga il saggio Ulisse al patrio lido, Perché non mandi all’isola d’Ogigia Il tuo prudente messaggier, che il nostro 100 Comando porti alla scaltrita Ninfa Dal biondo crine? Al figlio dell’eroe Io scenderò fra tanto; e tale in petto Senno e vigor gl’infonderò, ch’ei chiami Gl’Itacesi a consiglio, ed osi i proci 105 Affrontar, che de’ greggi e degli armenti Gli consumano il fiore. A Pilo e a Sparta Andranne ei quindi a ricercar novelle Del caro padre, e a far di gloria acquisto. Ciò detto appena, gl’immortali annoda 110 Aurei talari al piè, che lei su l’onde, Lei su la terra portano veloce Al par de’ venti; e la fulminea lancia, Salda, grave, possente, in man si reca, Con cui le schiere degli eroi disperde, 115 L’ira spirando che nel cor trasfusa Il gran Padre le avea. Poi dall’eccelse Vette d’Olimpo in Itaca discesa, Nell’albergo d’Ulisse entrò la Diva, E al limitar della gran sala il volto 120 Prendea di Mente, condottier de’ Tafi. Ivi trovò, corcati in su le spoglie Degli uccisi giovenchi, i baldi Proci, Che a gittar dadi si prendean diletto. Intorno ad essi, araldi e servi, intenti 125 A vari ufici, altri mescean nell’urne l’acqua e il purpureo vino, altri le mense Tergean con molli spugne, e sui taglieri Partìan le carni. Sedea mesto e solo Telemaco; e pensando al genitore, 130 [7] Gli parea di vederlo entro l’albergo Irromper d’improvviso, e i tristi Proci Scombuiar d’ogni parte, e insiem col regno Nova gloria acquistar. Tutto era in questo Pensiero assorto, quando su la soglia 135 Scòrse Minerva; né soffrir potendo Ch’ivi stésse a disagio, alzossi, e ratto Le mosse incontro. Dolcemente ei strinse Con l’una man la mano della Diva, l’asta pigliò con l’altra, e, Salve, disse, 140 Salve, o stranier: gradito a me tu giungi. Vieni, t’assidi al nostro desco, e quanto Brami tu dopo mi farai palese. In questo favellar la glauca Diva Precedea nella sala, e la tremenda 145 Lancia depose in ben costrutta astiera, Presso un’alta colonna, ove pur molte Giacean del prode Ulisse acute lancie. Indi su bella scranna, ricoperta Di morbido tappeto, e a cui dinanzi 150 Era un liscio sgabello, il buon garzone A seder la invitava; e si sedea Sovra un’altra egli stesso, a lei di fronte, E lungi dalle mense, onde il confuso Schiamazzar de’ rivali il forestiero 155 Non molestasse, e dell’assente padre Così dato gli fosse interrogarlo A suo talento. Accorse una leggiadra Fante a versar la fresca onda alle mani Da brocca d’oro, ed un pulito desco 160 Loro in fretta allestì, su cui l’accorta Dispensiera ponea candidi pani E larga copia di serbate dapi; Fumanti carni di sapor diverso Recava sui taglieri il fido scalco, 165 E di grato lïeo colmava i nappi Il banditore. Su le scranne e i troni Sedeano i Proci, e ricevean la pura [8] Linfa dai servi; i pani dai canestri Scompartìan le donzelle, empìan di dolci 170 Vini i coppieri le dorate tazze; E ciascheduno all’apprestata mensa Stendea la destra. Ma de’ cibi estinto E de’ vini il desio, tosto agli usati Sollazzi, al ballo, ai musici concenti 175 Volgeansi i Proci; e il banditor la bella Eburnea cetra presentava a Femio, Che cantar, suo malgrado, ivi solea. Mentre le corde ne venia temprando, Telemaco la testa lievemente 180 Chinò verso Minerva, e così disse: Ospite mio, se non ti rechi offesa Il mio parlar, sai tu perché costoro Non d’altro han cura che di cetre e canti? Perché al facile desco impunemente 185 Seggono d’un eroe, di cui le bianche Ossa bagna la pioggia in terra ignota, O le travolve ne’ suoi gorghi il mare. Oh s’ei tornasse! non aurati fregi, Non tuniche leggiadre alla persona, 190 Ben vorrebbero al piede ali veloci! Ma il misero perì, né più vederlo Io spero omai, benché talun ne creda Il ritorno vicino. Or dimmi il vero: Chi se’ tu? di che sangue, e di che gente? 195 Con quai nocchieri e su qual nave e donde In Itaca scendesti? A noi qui giungi Or per la prima volta, o sei del padre Ospite antico? ché ben molti e chiari Accorrean per vederlo ospiti un giorno. 200 E così Palla rispondea: Ciò tutto Che mi chiedi saprai. Mente son io, D’Anchïalo figliuolo e re de’ Tafi, Che di correre il mar sempre fûr vaghi. Or su celere nave m’incammino 205 Con miei nocchieri a Témesa, fra gente [10] Di strania lingua, a cui di fulvo rame Io porto in cambio lavorato ferro; E l’àncora gittai sotto il boscoso Fianco del Neo, dalla città lontano, 210 Nella baia di Retro. Amici un tempo, Ospitali accoglienze Ulisse ed io Nei nostri alberghi scambiavam, sì come Dir ti potrìa Laerte che, se il vero Narra la fama, alla città da lunga 215 Stagion non viene, e vive acerba vita Ne’ suoi poderi, con annosa fante, Che il desco gli apparecchia, allor che stanco Ed egro dai vigneti si strascina Al rusticano albergo. A queste sponde 220 Drizzai la prora, per saper se giunto Vi fosse il padre tuo, come la voce n’era corsa fra noi; ché il divo Ulisse Morto ancora non è, ma, suo malgrado, Per voler degli Dei forse l’arresta 225 Gente selvaggia in isola remota. Odi or quello che un Nume al cor m’inspira Lieto presagio, benché l’arte ignori De’ vaticini, e di profeta il nome Io non m’arroghi. A lungo ancora in bando 230 Restar non può l’eroe, con nodi fosse Di ferro avvinto; ché pur ferrei nodi Ei con l’astuzia sua franger saprebbe. Ma via, parla, o garzon: sei tu d’Ulisse Veramente figliuolo? Agli atti, al viso, 235 Ai fulgid’occhi, tutto a lui somigli; E ben dir lo poss’io, che un dì sovente Al suo fianco sedea, come ora al tuo, Prima che verso Troia il mar solcasse Co’ duci achivi. Ma d’allor non vidi 240 Ulisse io più, né me più vide Ulisse. E il giovinetto soggiungea: Straniero, Figlio di lui Penelope mi dice; Altro io non so, perché a nessuno è dato [10] Che per se stesso il genitor conosca. 245 Ah! perché figlio non son io d’un uomo Meno inviso ai Celesti, a cui concesso Fosse invecchiar tra’ suoi. Ma, ohimè! che nato Dal più misero io sono de’ viventi. Sangue non vile dunque hai tu sortito, 250 Sclamò la Diva, se dal grembo uscisti Della casta Penelope. Ma dimmi: A che tante vivande, e questa turba Di convitati? A nozze forse, a festa L’hai qui raccolta? Genïal convegno 255 Non parmi, dove paghi ognun suo scotto. Con tal baldanza vanno in questo albergo Tripudiando costoro e schiamazzando, Che dispetto n’avrebbe un uom gentile. Se questo ancora di saper ti cale, 260 Ospite mio, Telemaco rispose, Tempo già fu che la magion d’Ulisse Per ricchezze e innocenza al par fiorìa. Ma tutto sparve con Ulisse. I Numi La gravâr d’ogni male, e il nome pure 265 Più non v’ascolti dell’eroe. Men duro A me certo sarebbe il suo destino, S’ei cadea combattendo innanzi a Troia, O in Itaca perìa, tornato appena Dalla guerra fatal. Gli avrìano i Greci 270 Un gran tumolo eretto, e di sua chiara Fama diffusa tra le genti anch’io Partecipe sarei. Ma dalle immonde Arpìe rapito, Ulisse, non veduto, Non soccorso, morì di morte oscura, 275 Ed io nel pianto e nel dolor rimasi. Né sol di lui m’attristo: altre sciagure Ed altri affanni m’invïâr gli Dei. Quanti sono in Dulichio e nell’alpestre Samo e in Zacinto e in Itaca serena, 280 Giovani illustri, tutti di mia madre Sospirano la mano. Ella non compie [11] E non ricusa le abborrite nozze; Ed essi fra le danze e fra i conviti Tutti intanto mi struggono gli averi, 285 E me pur anco struggeran fra poco. A quel parlar Minerva impietosita, Bene hai d’uopo, dicea, che rieda Ulisse A frenar questi Proci. Oh! s’ei con elmo E scudo e lancia al limitar di questa 290 Sala apparisse, come io stesso il vidi Quando d’Efira giunto in nostra casa Si ricreava a lauta mensa assiso (E s’era Ulisse in Efira su presta Nave condotto ad Ilo Mermeride, 295 Per chiedergli veleno, onde le frecce Intriderne, veleno che il prudente Ilo non diede per timor de’ Numi, E ch’ei poscia impetrò dal padre mio Che soverchio l’amava); oh! se in tal guisa 300 Egli qui comparisse, acerbe, il credi, Sarìan le nozze ai tristi e il viver breve. Ma se ritorni, e ritornando ei voglia Vendicar le durate onte sui Proci, Solo è noto agli Dei. Tu pensa, o figlio, 305 A scacciar que’ malvagi; ed ecco il modo Che mi sembra il miglior. Doman raduna A parlamento gl’Itacesi, e tutti I Celesti chiamando in testimonio, Di lasciar la tua casa ai prepotenti 310 Rivali intima. Se desìo di nozze Punge la madre tua, faccia all’albergo Del suo divino genitor ritorno: Ei gli sponsali appresterà solenni, Ei l’ornerà di vaghi e ricchi doni, 315 Quali di tanto padre a cara figlia Si converranno. Poi sovr’agil prora Con venti eletti remiganti al negro Mar ti confida, e cerca aver del padre Novelle, o dalle genti, o dalla voce 320 [12] Infallibil di Giove. All’alma Pilo Vanne tu prima, e quivi con l’antico Nestore ti consiglia; indi all’eccelsa Sparta, e col biondo Menelao favella, Che fra gli Achivi dai lucenti usberghi 325 Ultimo giunse. Ove saper tu possa Che Ulisse vive e in Itaca ritorna, Un anno ancor l’aspetta. Ove poi fosse Già fra l’ombre disceso, al gran guerriero Resi i funebri onori, un monumento 330 Gl’innalza su la spiaggia, ed al migliore De’ prenci achivi la tua madre impalma. Volgi poscia fra te maturamente Se con l’armi convenga o con l’inganno Spegner gl’iniqui Proci. Omai fanciullo 335 Tu più non sei, né in fanciulleschi giochi L’ore passar ti lice. Oh! non è forse A te palese come chiaro splende D’Oreste il nome, poiché mise a morte Egisto, che gli avea l’amato padre 340 A tradimento ucciso? E tu, garzone, Come sei bello e grande, al par ti mostra Di man gagliardo e intrepido di core, Sì che ne’ dì futuri anche il tuo nome Qualcun ricordi. Ma calar m’è d’uopo 345 Ai compagni, ché forse il lungo indugio Loro increscer potrìa. Tu chiudi in petto I miei consigli, e per tuo pro gli adempi. Quai d’amico ad amico, egli rispose, E di padre a figliuol, sono i consigli 350 Che tu mi porgi, né sarà ch’io mai Possa oblïarli; ma, benché l’indugio Ti gravi, tanto sosta almen, che un bagno Le membra ti conforti, e che alla spiaggia Io poi ti segua con un dono eletto, 355 Qual si conviene ad ospite sì degno. Non trattenermi, ripigliò la Diva, Che tardar non mi lice un solo istante. [13] Il tuo bel dono teco lo conserva Fin che ad Itaca io torni, e che con altro 360 Non men pregiato ricambiar lo possa. Mentre così dicea, del caro padre Una fervida brama in cor gli accese, E la lena gli crebbe e l’ardimento. Quindi rapido al ciel drizzando il volo, 365 Com’aquila, disparve. A quella vista Il giovinetto, di stupor compreso, Riconobbe il portento, e in mezzo ai Proci Somigliante ad un Dio si ricondusse. Sedeano questi nella sala in cerchio, 370 Taciti, attenti, ad ascoltar l’illustre Vate che allor cantava il faticoso Ritorno dal combusto Ilio, cui Palla Avea gli Achivi condannato. Il tristo Metro n’udì Penelope, la saggia 375 Prole d’Icario, e subito dall’alte Stanze discese con due fide ancelle. Giunta innanzi ai rivali, il pie’ ritenne Su la marmorea soglia, un sottil velo Calò su gli occhi, e al vate lagrimando 380 Così dicea: Femio, buon Femio, ah! narra Altre storie, altri eventi, onde sì ricca Hai la memoria; degli eroi l’eccelse Imprese narra e de’ Celesti, e tutti A te dintorno le ricolme tazze 385 Vuotino i figli degli Achei. Ma questa Nova canzon, che tanto m’addolora, Sospendi, o Femio! L’ebbi appena udita Che correr mi sentii per l’ossa un gelo: Mi rammenta un eroe che tutta ha piena 390 Del suo nome la Grecia, un caro sposo Che da gran tempo vo chiedendo invano Agl’Immortali - E a lei d’Ulisse il figlio: Madre, perché non vuoi che il gentil vate Col pietoso suo carme altrui diletti, 395 Come l’estro lo inspira? Agita, infiamma [14] Giove talor la fantasia de’ vati, E a cantar li costringe. A torto dunque Del caro a’ Numi valoroso Femio Ti lagni tu, se i lunghi affanni ei narra 400 Degli achivi guerrier. Quanto è più nova, Tanto rïesce al nostro cor più grata La sua canzone. E tu l’ascolta in pace, O madre mia; ché non fu solo Ulisse, Ma infiniti gli eroi, che sotto Troia 405 Vider l’ultima sera. E se in udirla Pur così ti contristi, alle tue stanze Riedi, e al pennecchio attendi ed alla spola, E veglia su le fanti; e le più gravi Cure agli uomini lascia, e, più che ad altri, 410 A me cui spetta governar la casa. A quel prudente ragionar la casta Donna, commossa, al talamo salìa Con le donzelle; e quivi al suo diletto Sposo pensando, pianse amaramente 415 Finché Pallade i rai le chiuse al sonno. Intanto, accesi di novello ardore E dell’amplesso marital bramosi, Strepitavano i Proci per la sala. Ma que’ superbi mal soffrendo il prode 420 Figliuol d’Ulisse: O di mia madre, esclama, Stolti vagheggiatori, orsù cessate Dalle grida una volta e dai motteggi, E badi ognuno al desco e ai colmi nappi, Né disturbi il cantor, che nella voce 425 Somiglia ai Numi. Allo spuntar dell’Alba Io v’attendo nel fòro a parlamento, Ove al cospetto degli Achei m’udrete Altamente gridar, che ormai v’è d’uopo Sgombrar da queste mura, ed altre mense 430 Andar cercando, o convitarvi a gara Ne’ vostri alberghi, e consumar ciascuno I suoi tesori. Che se ciò vi spiace, E fermi siete a sperdere d’un solo [15] Impunemente le sostanze, il fate; 435 Ma tanto io pregherò, finché il Saturnio, D’ogni misfatto punitor, vi stenda Morti qui tutti e invendicati al suolo. All’audace parlar del giovinetto Stupìano i Proci, e si mordean le labbra. 440 Ma gli disse Antinòo: Gli alti concetti, L’insolita baldanza, un Dio per certo, Un Dio t’inspira. Ah Giove non consenta Ch’io mai ti vegga sul paterno trono! E Telemaco a lui: Figlio d’Eupite, 445 Forse t’incresce il mio parlar; ma teco Io m’aprirò sincero. Anch’io lo scettro D’Itaca accetterei, se a me volesse Il gran Giove donarlo. Una sciagura Esser re non cred’io; ché venerati 450 Sono i re dalle genti, e in ricchi alberghi Hanno soggiorno. Ma non pochi sono, E giovani e canuti, i prenci achei Che aspireranno a questo regno; e in pace Il godan essi, poiché Ulisse è morto. 455 Ma di questa magione, e de’ famigli, Che Ulisse mi lasciava, il re son io. Alzossi allor di Polibo la prole, Eurimaco, dicendo: In grembo al fato Ancor si cela cui sarà concesso 460 In Itaca regnar. Ma tu governa La casa tua, tu serba i tuoi tesori; Ché invano a te ritorli altri s’attenta Finché un uom la petrosa Itaca alberga. Io ben saper, Telemaco, vorrei 465 Chi sia l’ospite tuo, donde qui giunse, E di qual sangue egli esca e di qual terra. Forse è d’Ulisse un messaggier, che annunzia Il suo ritorno? o qualche censo antico Forse a riscuoter venne ? Oh come ratto 470 Da questa sala dileguossi, e come Nascondersi cercava ai nostri sguardi! [16] Egli d’uom vile non avea sembianza. E l’accorto garzone: Omai la speme Che faccia Ulisse a noi ritorno è spenta. 475 Più non curo messaggi e più non credo Degl’indovini alla bugiarda voce, Che sovente la mia povera madre A sé chiama e consulta. Il forestiero Di cui domandi è un ospite paterno, 480 D’Anchïalo figliuol, Mente nomato, Che ai Tafi esperti naviganti impera. Così parlava infinto; e in cor pur sempre Avea l’imago della Dea scolpita. I baldi Proci con la danza e il dolce 485 Suon della cetra, fino a tarda sera Si venìan sollazzando; e, il Sol caduto, Trasse ciascuno al proprio albergo, e al sonno Cedea le membra. Da pensier diversi Agitata la mente, ei pur s’avvia 490 Il divino Ulisside alla sua stanza, Che nella reggia splendida s’innalza Su l’altre tutte, e guarda lunge intorno I verdi gioghi e il lido. Accesa face In man tenendo, il precedea la figlia 495 D’Opi di Pisenòr, casta Euriclea, Che giovinetta ancora avea col prezzo Di dieci e dieci tauri comperata L’Arcesiade Laerte. Ei molto un tempo Amor le pose; né giammai per questo 500 Osò fruirne i desïati amplessi, Perché troppo temea l’ire gelose Della consorte. Con la face in mano Iva innanzi al garzon la buona vecchia, Che l’amava qual madre, ed allevato 505 Da bambino l’avea. Giunti alla stanza, La porta ella ne schiuse, e sovra il letto Telemaco s’assise, ove spogliando La sottil veste, ad Euriclea la porse, Che piegata l’appese alla caviglia 510 [17] Presso il tornito letto. Indi la vecchia Ad uscir s’affrettava, e l’abetina Porta a sé tratta per l’anel d’argento, Scorrer ne fece col sogatto il peschio. Ma, di morbide pelli ricoperto, 515 Tutta notte il garzon pensa al vïaggio Dalla Dea suggerito, e mai non dorme. [18] LIBRO SECONDO SOMMARIO Il Consesso è raccolto. - Telemaco si lagna col popolo che i Proci lo insultino, e gli consumino gli averi. - Antinoo, uno dei Proci più famosi, gli risponde che i suoi mali non avranno termine, se prima Penelope non ne scelga alcuno per suo sposo. - Protesta di Telemaco, il quale comanda loro di lasciar la sua casa. - Compaiono due aquile, inviate da Giove, e con segni infausti annunziano grave sciagura ai Proci. - Profezia di Aliterse. - Mentore si studia di sollevare il popolo contro i Proci. - Minacce che gli fa Leocrito, uno di essi. - Il parlamento è disciolto. - Telemaco s’incammina tutto solo alla riva del mare, e volgendo una preghiera a Minerva, questa gli si presenta sotto le sembianze di Mentore, per affrettarlo al suo viaggio. - Dolore della nutrice Euriclea all’udire la partenza di Telemaco. - Minerva gli procaccia una nave, sulla quale, trasportate nella notte le vettovaglie, sciolgono ambedue dal porto, seguiti da molti giovani itacesi. Come la bella Aurora il ciel dipinse Di purpureo color, balzò dal letto Il buon figlio d’Ulisse; alla persona Si ravvolse le vesti, il ferro acuto All’omero sospese, e il pie’ costrinse 5 Ne’ leggiadri calzari. Indi raggiante Al par d’un Nume, della stanza uscendo, Ai banditori di chiamar fe’ cenno A consesso gli Achei, che desiosi Accorrean d’ogni parte. E poiché tutti 10 Convocati li seppe, una robusta [19] Lancia impugnando, mosse anch’ei veloce, E due fidi il seguìan bianchi mastini. Di grazia e di beltà l’avea la figlia Di Giove circondato, onde in mirarlo 15 Ne stupìan gl’Itacesi, e riverenti I vecchi gli cedean del re suo padre L’antica scranna, ove a seder si mise. Curvo per gli anni, e per saper famoso, Egizio il primo favellò. Costui 20 Mandato avea col grande Ulisse a Troia Il miglior de’ suoi figli, il prode Antifo. Ma nell’oscura grotta a lui die’ morte Il Ciclope crudele, e s’imbandìa Delle sue carni miseranda cena. 25 Ad Egizio rimasti eran tre figli: L’uno, Eurinomo detto, ai tristi Proci S’era congiunto; convivean col padre Gli altri, e del padre custodìan gli averi. Ma in quel che più non ha sempre ei s’affisa. 30 E sempre il chiama e s’ange e si martira, E piange or pure che agli Achei favella. Itacesi, m’udite, egli proruppe: Poiché Ulisse partì, mai non si tenne In Itaca consesso. Or, chi potea, 35 Giovane o vecchio, convocar gli Achei? E a quale intento? Forse alcun da lunge Nemiche vele discoperse, e viene A recarne l’avviso ai cittadini? Od altri d’altro favellar disegna 40 Che la patria riguardi? Umano e saggio, Qualunque ei sia, l’estimo. Ah l’alto Giove Tutto ch’ei volge in suo pensier secondi! Rasserenò la fronte a questi detti D’Ulisse il figlio e, d’arringar bramoso, 45 Levossi ardito in mezzo all’assemblea. L’accorto araldo Pisenòr gli offerse Prontamente lo scettro; ed ei rivolto Ad Egizio parlò: Di qui lontano [20] Non è, buon veglio, chi gli Achei raccolse 50 A parlamento: a te dinanzi il vedi, Da lunga e fiera doglia il cor trafitto. Non di nemico che su noi veleggi, Non di pubblici casi, o cittadini, Ma di grave domestica sciagura 55 Ragionarvi m’è forza. Un caro, illustre Padre io perdei, che pure a voi fu sempre Padre assai più che re, mentre lo scettro Tenea su questa terra. Io l’ho perduto; E per colmo di mali una caterva 60 Di tristi inonda la mia casa, e tutta Miseramente la diserta. I figli De’ più nobili Achei, che sono in questo Fòro adunati, aspirano alle nozze Della mia genitrice, e presentarsi 65 Ad Icario suo padre alcun non osa, Che la dote le porga, e cui gli piaccia Ne consenta la mano. I giorni interi Passano invece nel mio tetto assisi Ad allegri conviti, de’ migliori 70 Vini l’urne vuotando, e divorando Pingui agnelli e giovenchi, e d’ogni cosa Strazio facendo; perché il divo Ulisse, Che frenar li saprìa, qui non si trova, E a me, che tanto il bramerei, la forza 75 Ancor non basta e il senno. Oh! se la destra Avessi io ferma, come fermo ho il core, Ben vi giuro che avrìan dall’opre inique Già costoro cessato. Ma dal fondo Ecco tutta rovina la mia casa 80 Indegnamente. Deh vi prenda, Achivi, De’ miei mali pietà! Rossor vi prenda De’ popoli vicini, e il giusto sdegno Temete degli Dei, che a voi ragione Chieder forse potrìan di que’ misfatti! 85 Ah sì, per Giove e per la sacra Temi, Che gli umani concili aduna e scioglie, [21] Datemi aiuto! Che se il padre mio Di voi qualcuno involontario offese, Pigli de’ greggi suoi, de’ suoi tesori, 90 Quanto gli piace; perocché confido Che se un giorno, incontrandolo per via, Domandar li volessi a lui di novo, Egli cortese a me li renderebbe. Sì, questo io spero; ma crudele intanto 95 Insoffribile angoscia il cor mi strazia. In ciò dire il garzon gittò sdegnoso Lo scettro a terra, dalle ciglia un fiume Di lagrime versando; e il popol tutto Si commosse a pietà. Taciti, immoti, 100 Con aspri accenti non ardìano i Proci Fargli risposta. Ma rizzossi in piedi, E alfin così parlò d’Eupite il figlio: O tu, di lingua audace e d’opre imbelle, Quali hai tu proferite a nostro scorno 105 Stolte parole? Delle tue sciagure I Proci no, ma quella madre tua, D’ogni astuzia maestra e d’ogni frode, Tu dêi solo incolpar. Tre volte ha l’anno Già compiuto il suo giro, ed ella sempre 110 Con bugiardi messaggi, e con promesse Lusinga i Proci, mentre in suo pensiero Altro si cela. Udite, Achivi, inganno, Che costei macchinò. Nel solitario Suo talamo una fina ed ampia tela 115 Ordito avendo, a sé ne chiama e dice: Giovani, amanti miei, poiché il divino Ulisse è spento, tanto almen le nozze Mi sia dato indugiar, che a fine io rechi (E la trama sottil non si scomponga) 120 Questo funereo manto, in cui la salma Avvolger di Laerte, allor che il fato Apportator d’eterno sonno il colga. Così nessuna delle achive donne Accusar mi potrà, che manchi un drappo 125 [22] In morte ad uom ch’era sì ricco in vita. Con simil fola agevolmente i nostri Animi persuase. Intanto il giorno Tessea la tela, e la stessea la notte Al chiaror delle faci. Ella tre lunghi 130 Anni così la sua frode nascose, E gli amanti ingannò. Ma come il quarto Fu dall’Ore volubili condotto, A noi scoperse la sottil malizia Una conscia donzella, e la cogliemmo 135 Mentre sciogliea la tela; onde costretta Fu di compirla. Odi or tu dunque, o figlio D’Ulisse, e gl’Itacensi odano tutti La risposta che fanno per mia bocca A te concordi i Proci. Al saggio Icario 140 Penelope rimanda, e fa’ che tosto Quello ch’ei le proponga, e più degli altri Grato le sia, fra noi si scelga a sposo. Che se ancor lungamente a lei piacesse Tenerci a bada, i fini accorgimenti 145 E l’arti usando da Minerva apprese, In che tutte avanzò le più famose Femmine achee, Micene, Alcmena e Tiro; Odi ciò che avverrà. Per la tua casa S’aggireranno a struggerti gli averi 150 I Proci sempre, finché in lei consiglio Non muta il cielo. Forse immortal gloria N’avrà così la madre, ma secura E memoranda la rovina il figlio. No, lo rammenta: di tua casa i Proci 155 Non usciranno prima che la destra Ella non abbia ad alcun d’essi offerta. E il prudente garzone: Io dal mio fianco Scacciar colei che mi donò la vita, Che del suo latte mi nudrì? Né lieve 160 Pur mi sarìa restituir la ricca Dote ad Icario; e sdegno un dì n’avrebbe Il padre mio, che forse ancora è vivo; [23] E in odio ai Numi e al popolo verrei Ed alla madre, che le ultrici Erinni 165 Invocherebbe contro me partendo. No, tal comando non sarà che ascolti Ella mai da suo figlio. E dove questo Non vi talenti, ritornar potrete Ai vostri alberghi, e banchettar l’un l’altro 170 Coi vostri averi. Che se più v’arride Nell’altrui casa logorar d’un solo Impunemente le ricchezze, il fate: Ma tanto io pregherò, finché il gran Giove, D’ogni misfatto punitor, vi stenda 175 Morti là tutti e invendicati al suolo. Sì disse; ed ecco dal vicino monte Il Saturnio spiccar due grandi e fiere Aquile che, battendo unite l’ali, Fendean la vana regïon de’ venti 180 Con infausto fragor. Su l’adunato Popol discese, e lentamente in giro Movendosi, scuotevano le piume, E miravano in volto or l’uno or l’altro, Di sventure o di morte annunziatrici. 185 Indi insieme azzuffandosi, con l’ugne Il capo e il collo insanguinârsi: a destra Alfin piegâro il volo, e su pei tetti Delle case disparvero stridendo. A quel portento attoniti gli Achivi, 190 Ne spïavano indarno la cagione. Ma levossi Aliterse, il saggio figlio Di Mastore, che vecchio era e famoso Augure, scopritor d’arcani eventi, E così profetando il labbro aperse: 195 Odano il mio parlar, qualunque ei sia, I magnanimi Achivi, e i Proci in prima, A cui sovrasta per voler del fato Grave periglio. Il Laerziade Ulisse Non è da noi lontano: egli de’ Proci 200 Va meditando lo sterminio, e a molti [24] De’ primi Achivi doglie appresta e lutto. Deh! pensiam, vi scongiuro, o cittadini, Quegli stolti a frenar, che pur frenarsi Già da lunga stagione avrìan dovuto 205 A lor pro per se stessi. Ad uom credete Per molte prove assai nell’arte esperto De’ vaticini. Quando il bellicoso Di Laerte figliuol drizzò le vele Alle dardanie sponde, io sì dicea: 210 Multo soffrir, tutti i compagni Ulisse Perder dovrà; ma nel vigesim’anno Farà ritorno sconosciuto e solo. Ora il mio vaticinio ecco s’avvera. E di Polibo il figlio: I tristi augurii 215 Spaccia, o vecchio, in tua casa, e da infortunio Preserva i figli tuoi. Ma qui son io, Credilo, assai di te miglior profeta. Stendono i vanni per gli aerei campi Mille augelli ogni dì, né tutti sono 220 Di sciagure e di morte annunziatori. Certo Ulisse perì. Così perito Con lui tu fossi, che le infauste voci Or non udremmo, con che vai più sempre Lo sdegno di Telemaco infiammando, 225 Da cui forse non lieve in tuo segreto Mercede attendi. Ma se ancor ti colgo A sedur con tue perfide parole Il credulo garzone, odi presagio Più verace del tuo. Né a lui tu giovi, 230 Né i tuoi disegni tu vedrai compiuti; Perocché in breve ti daranno i Proci Un tal ricordo, che n’andrai, qual merti, Pentito e gramo. Al figlio poi d’Ulisse Io dirò, che Penelope rimandi 235 Al magnanimo Icario: egli solenni Appresterà le nozze, egli di pingue Dote la fornirà, qual di sì cara Prole ad illustre genitor conviene. [25] Ma non sarà che pria lascino i Proci 240 La sua bella magion; perché nessuno, Nessun temiamo, non l’insano vecchio Che odïosi presagi al vento sparge, Non l’altero garzon che di sonore Ciancie le orecchie degli Achivi assorda. 245 A divorare, a consumar gli averi Seguirem di costui, finché le ambite Nozze compir Penelope ricusi. Altrove non andrem di sposa in traccia, Eternamente aspetterem, s’è d’uopo: 250 Domar vogliam di questa donna il core. Eurimaco, e voi tutti di mia madre Giovani amanti, disse allor d’Ulisse Il prudente figliuol, d’oblìo per ora Queste cose copriamo, agl’Immortali 255 Manifeste e agli Achei. Ma un agil legno Con dieci e dieci remator vi chieggo, Che su l’ondose vie mi rechi a Sparta E all’arenosa Pilo. Ivi d’Ulisse Qualcuno, io spero, mi darà novelle, 260 O Giove, che talvolta i suoi segreti Gode ai mortali rivelar. Se scopro Che vive il padre, e in Itaca ritorna, Benché l’indugio mi sia grave, un anno l’attenderò. Ma se la morte il colse, 265 Tosto il mar risolcando, eccelsa tomba Sul nostro lido gli ergerò, che il nome Ne serbi glorïoso, ed al migliore De’ prenci achivi sposerò la madre. Così detto, s’assise. Alzossi allora 270 Del grande Ulisse un caro e saggio amico, Mentore, a cui fidato avea partendo Della reggia la cura e la custodia L’eroe medesmo, e d’eseguir commesso Di Laerte i comandi. Alzossi, e disse: 275 Non sien pietosi, non sien giusti e prodi, Itacesi, i re nostri, ma superbi, [26] Ma dispietati e scellerati e vili, Poiché ormai più nessuno il generoso Laerziade ricorda, un dì re nostro, 280 Anzi padre benigno. Io non accuso I petulanti Proci, che al ritorno Dell’eroe non pensando, il focolare Ne invasero, sciupandone gli averi A rischio della vita. Io ben m’adiro, 285 Cittadini, con voi, che il figlio suo Non osate aiutar d’una parola, Con voi che molti siete incontro a pochi. Ma Leocrito, il figlio d’Evenorre, Così a lui replicò: Malnato vecchio, 290 A che vai tu lo sdegno degli Achivi Contra noi provocando? Audace impresa Anche a molti sarìa turbar le nostre Allegre mense. Se lo stesso Ulisse, Qui comparendo, i banchettanti Proci 295 Cacciar volesse dal suo tetto, al certo Breve fôra il gioir della sua sposa, Che pur tanto il desìa: da cento colpi Ei trafitto cadrebbe. I tuoi lamenti Cessino adunque e le tue grida, o vecchio, 300 E ai vostri alberghi voi tornate, Achivi. Aliterse e costui, gli antichi amici Di suo padre, a Telemaco la nave Allestiranno; tuttavolta io credo Che presto gli sarà di mente uscito 305 Un tal vïaggio, e qui vorrà d’Ulisse Aspettar le novelle. - Egli si tacque, E fu sciolto il consesso: ai propri alberghi S’avvïâr susurrando i cittadini, E all’albergo d’Ulisse i tristi Proci. 310 Al lido allor solingo incamminossi Telemaco, e lavate nelle azzurre Onde le mani, a Pallade Minerva Questo prego mandò: Possente Diva, Jeri, scendendo dalle olimpie vette, 315 [27] Tu di partir mi comandasti, in traccia Del glorïoso genitor; ma tutti Al tuo voler contrastano gli Achivi, E più degli altri i baldanzosi Proci. Sì Telemaco disse; e tosto, assunte 320 Di Mentore le forme e la favella, Al suo fianco si mise, e questi accenti Fe’ dal labbro volar la glauca Diva: Telemaco, fa’ core. Il tuo vïaggio, Io te n’accerto, non andrà fallito, 325 Se tu dal sangue veramente uscisti Del Laerziade Ulisse, uso le grandi Opre a compir che gli poneano in mente I giusti Numi. Vero è ben che il figlio Di raro avanza la virtù del padre, 330 Di raro la pareggia, e n’è gran tratto Spesso lontano. Ma d’Ulisse il core E la saggezza tu sortisti, e a fine Agevolmente condurrai l’impresa. Lascia dunque che i Proci scellerati 335 Ordiscano congiure a lor talento: Non san gli stolti che s’appressa il giorno In cui dênno varcar l’atra palude, Né d’un istante ritardar potranno La tua partenza. Io, già d’Ulisse amico, 340 Guida fedele ti sarò sul negro Legno, ch’io stesso ad apprestar m’accingo. Tu rientra in tua casa, agli orgogliosi Proci ti mesci, e di nascosto aduna Quanto al vïaggio è di mestieri: il vino 345 In anfore capaci, e le farine, Nutrimento dell’uomo, in salde pelli. Giovani eletti io cercherò fra tanto Che ti scortino in mar; sul lido in secco Giacciono molti legni, e vecchi e novi, 350 Onde il più bello io prenderò, che in breve Apparecchiato lancerem su l’onde. Sì disse; ed egli drizzò mesto i passi [28] Al regio ostello, e vi trovò gli amanti Nell’atrio e nella corte affaccendati 355 A scuoiar capre e ad arrostir maiali. Gli move incontro sorridendo Antinoo, E la mano gli stringe, e così parla: O tu, valente ai detti e fiacco all’opre. Vieni tra noi, garzone, e come suoli 360 Fa’ le tue prove di valor col dente, E affoga nelle tazze il tuo rancore. Nave e scelti nocchieri a te fra poco Appronteran gli Achivi, e tu su l’orme Andrai del caro padre all’alma Pilo. 365 E Telemaco a lui: Sedermi al desco E con voi trastullarmi, o svergognati, A me non lice. E non vi basta adunque Avermi le sostanze divorate Nella mia fanciullezza? Or che negli anni 370 Sono cresciuto, or che giovar mi posso Dell’altrui senno, e il cor mi bolle in petto, Giuro ben io che a dolorosa fine Vi trarrò, sia che in Itaca rimanga, O vada a Pilo. Io sì v’andrò, né indarno 375 Benché su nave altrui; perché una nave E un remigante che sul mar la guidi A voi piacque negar d’Ulisse al figlio. Così dicendo, dalla man d’Antinoo Sdegnosamente la sua man ritrasse. 380 La mensa in questa s’allestìano i Proci; E il regal giovinetto motteggiando, Certo, dicea taluno in suon beffardo, Allo sterminio di noi tutti anela Telemaco. Da Sparta o dalla sacra 385 Pilo, a sbramar la sete che lo strugge Della vendetta, ei condurrà fra poco Un forte aiuto; o ad Efira ben anco, Fertile terra, veleggiar potrebbe, E un tossico recarne, che di furto 390 Mesca nell’urne al vino, e tutti quanti [29] Ad un punto n’uccida. - Ed altri invece Così dicea: Chi sa che, mentre il mare Ei va solcando, l’onda non l’inghiotta Al par d’Ulisse? Il duro incarco allora 395 Avremo di partir fra noi l’intero Suo retaggio, lasciando il ricco albergo Alla figlia d’Icario e a chi la impalma. Così tra lor favellano i rivali; E Telemaco intanto era disceso 400 Nella stanza segreta, ove d’Ulisse Era il bronzo adunato e il rame e l’oro E molto olio odoroso e in ben costrutte Arche le vesti. Numerosi dogli Schierati al muro si vedean, ripieni 405 Di vermiglio licor, pretto, squisito, Già da lunga stagion riposto in serbo Per l’eroe, che pur sempre nel suo tetto Riveder si sperava. Avea la stanza Belle e massiccie porte, a doppia imposta, 410 E notte e dì sollecita la figlia d’Opi di Pisenòr la custodìa. Telemaco la chiama, e sì le parla: Prendi, o nudrice, e in salde anfore versa Il miglior vino, dopo quel che tieni 415 In serbo per Ulisse, ove alla morte Scampi e torni fra noi. Dodici n’empi, E acconciamente le suggella, e dieci Misure e dieci di farine in otri Ben cuciti rinchiudi; e da te sola 420 Tutto prepara, e bada che nessuno Di ciò s’accorga. Come poi la madre, Sopraggiunta la notte, alle sue stanze Sarà salita ad allestirsi il letto, A pigliarle io verrò co’ miei compagni; 425 Perocché a Sparta e all’arenosa Pilo Andar m’è d’uopo di mio padre in cerca. A questo annunzio leva un grido acuto La vecchiarella, e lagrimando esclama: [30] Ah! come, figliuol mio, ti cadde in mente 430 Un tal pensiero? e dove andrai soletto Peregrinando in cerca di tuo padre, Se da gran tempo su deserta spiaggia L’infelice perì? Lasciato avrai Itaca appena, e per condurti a morte 435 E partirsi l’un l’altro i tuoi tesori, Già qualche insidia t’avran tesa i Proci. Dunque fra noi t’arresta, ed ai perigli Del negro mare non fidarti invano. Deh ti calma, o nudrice! il buon garzone 440 Le rispondea; senza il voler d’un Nume Non lascio questa casa. Or via, mi giura Che se di me non chiede, o da qualcuno Non sa la madre che partito io sono, Anzi che sorga il dodicesmo giorno 445 Nulla tu le dirai, perché col pianto Al leggiadro suo viso onta non rechi. Così disse; e la vecchia, in testimonio Chiamati i Numi, il promettea giurando. Poi nell’anfore il vino e in ben cucite 450 Pelli versò le candide farine; E alla sala tornando, il giovinetto Co’ banchettanti Proci si confuse. Mentre questo seguìa, Palla Minerva Di Telemaco prese le sembianze, 455 E per le vie della città correndo, A molti si mostrò, parlò con molti, E a tutti ingiunse che al cader del Sole S’accogliessero al lido; e prima al saggio Figliuol di Fronio, Noemon, chiedea 460 Una veloce nave, e di buon grado Noemon la promise. Il Sol caduto, Sorsero l’ombre della notte, e in mare Ella sospinse il negro legno, e tosto Di sarte e vele ed albero munito, 465 In bocca al porto l’arrestò. Fra tanto D’ogni parte accorrean volonterosi [31] Gl’itacesi nocchier, che avea Minerva Invitati. La Diva indi facea Altro disegno. Ritornò d’Ulisse 470 Alla magione, e sui beventi Proci Tale infuse un sopor, che ciascheduno Cader lasciava dalla destra il nappo; Sì che le scranne abbandonate, e gravi Di sonno il ciglio, traean barcollando 475 Per l’ombre della notte ai loro alberghi. Ma si vestìa di Mentore le forme Novamente Minerva, e su la soglia A se chiamò Telemaco, dicendo: Già su la spiaggia assisi i tuoi compagni 480 Impazienti aspettano te solo: Su via, dunque, n’andiam senz’altro indugio. La Dea, ciò detto, s’incammina, e l’orme Telemaco ne calca. Al mar discesi, E incontrati sul lido i remiganti, 485 Il garzon favellò: Venite, amici, Rechiam sul legno i vini, e le farine In mia casa raccolte. Alle fantesche Ed alla madre il mio partir nascosi, E solo il feci ad Euriclea palese. 490 Così detto, avvïossi; e taciturni I compagni il seguìan, che dalla reggia Com’egli imposto avea, su la veloce Nave il carco portâr. V’ascese in fretta L’occhi-cerulea Diva, e su la poppa 495 Al fianco suo Telemaco si pose. Poi la gomona sciolta dai ritegni, Tutti anch’essi v’ascesero i nocchieri; E Minerva sul grosso e negro flutto Suscitò dall’occaso un vento amico 500 Ingiunse allor Telemaco ai compagni D’armar la nave; ed essi, al mastio infitto, l’albero alzâr, l’assicurâr con funi, E con torte coregge sollevâro Le bianche vele. Ne gonfiava il grembo 505 [32] L’aura seconda, e intorno alla carena Fremean gli azzurri flutti, che venìa L’agile prora in suo cammin rompendo. Legati i remi, di licor vermiglio Empîr le tazze i naviganti, e ai Numi 510 Libâr devoti, ed alla figlia in prima Del Saturnio signor. Così volava L’intera notte il legno, e sul mattino Alla mèta giugnea del suo viaggio. [33] LIBRO TERZO SOMMARIO Telemaco scende a Pilo mentre Nestore, circondato dal suo popolo da’ suoi figli, stava facendo sul lido un solenne sacrifizio a Nettuno. - Cortese accoglienza che il figlio d’Ulisse riceve dai cittadini di Pilo e dal re. - Questi gli racconta le avventure occorse a molti eroi della Grecia nel lor ritorno da Troia, e la misera fine di Agamennone. - Solo d’Ulisse non sa dargli novelle; ed offre di farlo accompagnare a Sparta, perché ne chiegga a Menelao, ch’era appena tornato da un lungo viaggio. - Sparizione di Minerva. - Nestore la riconosce, e le sacrifica una giovenca. - Descrizione del sacrifizio. - Telemaco, scortato da Pisistrato, s’incammina alla volta di Sparta. Spuntava il Sol dal limpido oceàno, Ai mortali e agli Dei su l’alto Olimpo E su la terra apportator di luce, Allor che a Pilo, da Neleo costrutta, Il naviglio arrivò. Di negri tauri 5 Facean quel giorno su la spiaggia al forte Scuotitor della terra un sacrifizio Gli abitanti di Pilo. In nove squadre Era il popol diviso, e ciascheduna, Di cinquecento cittadin composta 10 Su l’erba assisi, nove tauri offrìa, Di cui, le pingui viscere gustate, Ardean le cosce al Nume. Entrava il legno Degl’Itacesi drittamente in porto, [34] E i naviganti ammainâr le vele 15 E sul lido balzâr. Balzovvi ei pure Telemaco, e Minerva il precedea, Che così gli parlò: Figlio d’Ulisse, Qui t’è mestieri di cacciar dal petto La pueril vergogna. Il mar varcasti 20 Per saper dove si nasconde il padre E qual destino il colse. Al buon Nestorre Or tu dunque t’avvia: quanto gli chiedi Tutto il buon vecchio ti dirà sincero, Ché troppo è saggio per mentir Nestorre. 25 Ah! come, amico mio, con qual saluto Presentarmi all’eroe? l’altro rispose Privo di tutta esperïenza io sono, E ad uom per senno e per età famoso Volger primo gli accenti io non ardisco. 30 Ciò non t’affanni, ripigliò Minerva: Agevolmente ciò che dir conviene Leggerai nel tuo core, o suggerito Ti verrà dagli Dei; ché lor malgrado Non ti figliò la madre e non ti crebbe. 35 In ciò dir la Glaucopide divina In via si pose, dal garzon seguita, E giunse dove al sacrifizio accolti Stavano i cittadini. Ivi tra i figli Sedea l’antico re, mentre i compagni 40 Preparavano il desco, e su gli spiedi Altri infiggean le carni, ed altri al foco Le venìan rosolando. Avean da lunge Scorti gli ospiti appena, ed un drappello Si spiccò de’ migliori ad incontrarli, 45 E li prendean per mano, ed a sedersi Gl’invitavano a gara. Innanzi agli altri Del buon Nestorre il generoso figlio Pisistrato gli abbraccia, ed alla mensa D’adagiarsi gli esorta accanto al padre 50 E al fratel Trasimede, e lor presenta L’arrostite vivande, e il dolce vino [35] Versa nell’auree tazze. Indi alla prole Dell’olimpico Giove propinando, Straniero, disse, poiché fausto il vento 55 Fra noi t’addusse in questo dì solenne, Leva i tuoi voti al grande Enosigeo, E fatti al Nume i libamenti, porgi Al compagno la tazza. Ei pure, io credo, Godrà gli Eterni supplicar; ché solo 60 Col favor degli Eterni è dato all’uomo Esser felice. Ma d’etade ei parmi Non maggior della mia: ricevi adunque Tu prima il nappo. - E il nappo in man le pose. Piacque a Minerva ch’uom prudente e giusto 65 La tazza d’oro prima a lei porgesse, E così supplicava al Dio Nettuno: M’odi, o Nettuno, correttor dell’onde, E la mia prece adempi. Al re Nelide Gloria novella e a’ figli suoi concedi, 70 E rendi ai prodi abitator di Pilo Larga mercé dell’ecatombe. Al caro Mio compagno ed a me consenti inoltre Che al fin dell’opra che n’ha qui condotti Salvi torniamo alle paterne rive. 75 Così Minerva; ed esaudirne i voti Ella stessa intendea. Quindi la tazza A Telemaco diè, che fece anch’egli Al Saturnio Nettun la sua preghiera. S’arrostîr, si spiccâr dagli schidoni, 80 Si diviser le carni, e celebrossi Un allegro banchetto. Ma de’ vini E delle dapi il desiderio estinto, Volse agli ospiti il re queste parole: Amici, è mio costume i forestieri 85 Interrogar, poiché di vini e cibo Sazi già sono. Dunque orsù, chi siete? Donde col vostro legno a noi veniste? Siete voi mercatanti, o per l’ondoso Golfo vagate a guisa di predoni 90 [36] Che altrui spogliando arrischiano la vita? E il giovinetto, a cui Minerva infuso Avea coraggio, perché al re novelle Chieder potesse del lontano padre, E procacciarsi fra le genti un nome, 95 Con franca voce a Nestore dicea: O splendor degli Achivi, amor di Pilo, Chi siam noi tu domandi? Itaca alpestre I natali ne diè, ragion privata A te ne guida. Io l’orme glorïose 100 Seguo del grande Laerziade Ulisse, Che a me fu padre, e per valor famoso E per costanza, al fianco tuo pugnando Ha rovesciato d’Ilïon le mura. Di tutti i greci condottier, che al danno 105 Veleggiâr de’ Troiani, omai palesi Son le vicende: solo di mio padre Non piacque a Giove rivelar la morte, E non sappiam, se trucidato in terra L’abbia gente nemica, o il mar sommerso 110 Ne’ profondi suoi gorghi. È per mio padre Ch’io ti stringo i ginocchi, e ti scongiuro Di svelarmi la sua misera fine, Onde tu stesso testimon già fosti, O l’hai da labbro forestiero udita; 115 Ché certo l’infelice or più non vive. Né t’arresti pietà del mio cordoglio, Ma schiettamente ciò che sai mi narra. Deh! se ne’ teucri campi, ove infinite Fûro all’Orco travolte alme d’eroi, 120 T’ha con opre giovato o con parole Il mio buon genitore, a me ne rendi Or la mercede, e mi racconta il vero. Amico, acerba, dolorosa istoria, Gli rispose di Pilo il vecchio sire, 125 Mi richiami al pensier: quanto soffrimmo O sui torbidi flutti navigando Verso la preda, che il divino Achille [37] A noi mostrava, o combattendo intorno Alla sacra città, dove sepolto 130 È della Grecia il fiore. Ivi la salma Riposa del figliuol di Telamone E d’Achille e di Patroclo, nell’arte Della guerra maestri; ivi riposa Dell’innocente Antiloco la salma, 135 d’Antiloco mio figlio, che non meno Avea rapido il piè, che forte il braccio Nelle battaglie. Ma se ad una ad una Io narrar ti volessi le sciagure In terra e in mare dagli Achei sofferte, 140 Non basterebbe un lustro intero, e stanco Tu partiresti pria d’udirne il fine. La forza e l’arte usando, invan per nove Anni sudammo intorno a Troia: e a stento Giove alfin d’espugnarla a noi permise. 145 Ivi nessuno gareggiar d’ingegno Con tuo padre potea, tanto l’eroe I più saggi avanzava in ogni guisa Di scaltrimenti; e che di lui nascesti Io ben m’accorgo al portamento, al viso, 150 Ed al sagace favellar, che il senno Degli anni eccede. Se a condur l’impresa Dell’armi nostre s’accoglievano i primi Duci in privata o pubblica consulta, Sempre l’avviso vi s’udìa d’Ulisse 155 Al mio conforme. Ma poiché fu Troia Arsa e distrutta, il folgorante Giove, Dall’ira stimolato di Minerva, Un funesto ritorno apparecchiava Ai loricati Achei, perché non tutti 160 Eran giusti e prudenti, e ai due supremi Atridi in petto la discordia accese. Contro il costume, al tramontar del Sole Essi chiamâr le schiere a parlamento, Che d’ardenti licori inebrïate 165 d’ogni parte accorrean. Volea che tosto [38] Volgessero gli Achivi al mar le prore Il biondo Menelao; ma il re de’ regi Agamennón gli s’opponea, bramando Che fosse pria con voti ed ecatombi 170 L’acerbo sdegno della Dea placato. Stolto! che per mortal voto non cangia In un giorno la mente un Nume offeso. Fra loro intanto contendean gli Atridi Con superbe parole, e in due diviso 175 Delle greche falangi era il consiglio: Onde un sordo nascea fiero tumulto Intorno ai duci. Ma calò la notte, E Giove su le stanche ciglia un duro Sonno invïava, e sogni annunziatori 180 Di vicino disastro. Era con l’Alba Già sorto il campo; ed io, sui legni in fretta Le spoglie caricando e le succinte Dardanie schiave, con metà dell’oste Il sommo duce ad Ilio abbandonai, 185 Su le pescose vie seguendo il prode Suo fratello. Da poppa una gagliarda Brezza levossi; e noi, preghiere a tutti Gli Dei volgendo, ed anelando al caro Paterno lido, a Tènedo arrivammo. 190 Ma il gran Giove, de’ nembi adunatore Che fra gli Atridi del ritorno avea La tenzon suscitata, i nostri legni In mar disperse. Ulisse ed altri Achivi, Compiacendo al divino Agamennóne, 195 Drizzâr di novo le veloci antenne Alle troiane spiagge. Io, che l’avversa Mente conobbi del fulmineo Giove, Le mie navi adunate, immantinente Via su l’onde fuggii. Meco fuggìa, 200 Co’ suoi guerrieri senza indugio il forte Dïomede; e più tardi ne raggiunse In Lesbo Menelao. Quivi a consulta Noi ci stavam, se Psiria alla sinistra [39] Lasciando, sopra la selvosa Chio 205 Navigar convenisse, o sotto questa Lungo il Minante. Si pregò d’un segno Nettuno; ed egli, per sottrarci all’ira Del gran Tonante, comandò che il mare Ver l’Eubea si fendesse. Un vento amico 210 Poi suscitava, che su l’onde i nostri Legni incalzando, nell’oscura notte Ci condusse a Geresto: ed ivi al Nume Che per sì lunga via n’avea securi In mar guidati, un’ecatombe offrimmo. 215 Felicemente al quarto dì raccolse Con tutti i prodi suoi le vele in Argo Il marzïal Tidide. Anch’io col vento, Che fausto ognor l’Enosigeo mantenne, In queste amate sponde alfin discesi; 220 E non conobbi allor qual degli achivi Duci fu salvo, e qual perì. Sincero Or, come chiedi, ciò che in Pilo appresi A te racconterò. Fama è che Pirro Co’ Mirmidoni suoi, sperti di lancia 225 Vibratori, approdasse alla sua terra. A Filottete, generoso figlio Di Peante, concessero gli Eterni Fausto ritorno; e alle battaglie e al mare Scampato, Idomeneo le sue falangi 230 Guidava in Creta. Ignoto a voi, quantunque Così lontani, non sarà, cred’io, Come in Argo sia giunto Agamennóne, E l’abbia Egisto a tradimento ucciso. Ma la pena ei scontò del suo misfatto; 235 Poiché piacque agli Dei che dell’Atride Sorvivesse il figliuolo, ed ei col sangue Del traditor ne vendicò la morte. E tu, garzone, che sei grande e bello, Tu pur sii forte e prode, onde qualcuno 240 Anche il tuo nome in avvenir ricordi. Magnanimo Nelide, inclita luce [40] Degli Achivi, Telemaco proruppe, Giusta vendetta fe’ del padre Oreste, E la Grecia gli plause, e la sua gloria 245 Immortal durerà. Così l’audacia, Così la lena nel mio petto infuse Avessero gli Dei, che anch’io potessi L’onte e le trame vendicar de’ Proci. Ma tal contento a me finora e al prode 250 Mio genitor fu dagli Dei negato, E lagrimare e tollerar m’è forza. E noi pur anco udito abbiam, riprese Di Pilo il saggio re, che un’insolente Turba di Proci t’ha l’albergo invaso 255 A cagion di tua madre, e scellerate Opre a tuo danno vi commette. Or dimmi Non hai tu resistito? o tutti avversi Ti sono gl’Itacesi, dalla voce Concitati d’un Dio? Chi sa che un giorno, 260 Alle sue case ritornando, o solo O con l’aiuto de’ suoi prodi, Ulisse Non punisca i malvagi! Oh se a Minerva Fossi tu caro, come già tuo padre Sotto l’iliache mura a lei fu caro 265 (Né d’altro Dio fu mai per altro eroe Sì palese l’amor), certo costoro Più non udresti favellar di nozze! E al re così di novo il giovinetto: Troppo dicesti, o buon Nelide, e tanto 270 Non lice a me sperar; no, se la mente Questa pur fosse degli eterni Dei. Oh qual parola ti sfuggì dal labbro! L’interruppe Minerva. Anche dai lidi Più remoti potrìa, se gli piacesse, 275 A te guidarlo un Nume; e tuttavolta Meglio sarà per lui soffrir lontano, Che perir giunto alla sua terra appena, Come per man d’Egisto e dell’infida Moglie il divino Agamennón perìa. 280 [41] La morte solo, che a null’uom perdona, Da un capo amato allontanar lo stesso Gran Saturnio non può, quando la Parca D’eterno sonno apportatrice il coglie. Mentore, più di lui non si favelli, 285 Disse allora il garzone, ancor che tanto Io pur lo brami. L’odio de’ Celesti A morte lo condusse, e la sua terra Egli più non vedrà. D’altro io vorrei Nestore interrogar, che tutti vince 290 Di saper, di prudenza, e che, se il grido Non mente, ha già tre lunghe età regnato, E somiglia ad un Nume. Orsù, mi narra, O figliuol di Neleo, come fu spento Il re de’ re, l’Atride Agamennóne, 295 E quando a morte il fraudolento Egisto Trasse l’eroe, tanto di lui più prode. Forse non era in Argo Menelao? Forse ei vagava fra straniere genti, E imbaldanzito il traditor l’uccise? 300 Gli rispose il Nelide: Attendi, o figlio, Ché tutto in breve io ti dirò. Non sono Molto dal ver lontani i tuoi sospetti. Se Menelao, tornando alle paterne Rive, cogliea nella sua casa Egisto, 305 Non un pugno di terra avrìa coperto La salma di costui; ma dalle mura L’avrìan gittato nudo e sanguinoso Ai corvi e ai cani; sì nefanda e bieca Fu la sua colpa! Ne’ troiani campi 310 Noi sudar sotto l’armi; ed egli in Argo Blandir tranquillo con melati accenti D’Agamennón la sposa! Onesta e piena Di sdegnoso pudor, per lungo tempo Le rie proposte d’Egisto respinse 315 La saggia Clitennestra, in sin che al fianco Le fu l’almo cantore, a cui l’Atride Affidata l’avea. Ma giunta l’ora [42] Che al suo morir lo sdegno degli Eterni Avea fissata, lo guidava Egisto 320 In isola deserta, e quivi in preda Alle belve il lasciò; poscia bramoso Lei bramosa condusse al proprio tetto. Molti ei bruciò su l’are de’ Celesti Opimi lombi, ed aurei drappi e novi 325 Simulacri v’appese, giubilando Che avesse così bella opra compiuto! L’Atride ed io, fedeli amici, intanto Navigavam da Troia ai nostri lidi. Ma d’Atene arrivati al promontorio, 330 Che detto è Sunio, il re dell’arco Apollo Con mite strale Fronte il buon pilota All’Atride uccidea, mentre il timone Teneasi in pugno del volante abete: Fronte figliuol d’Onétore, che tutte 335 Vincea le genti in governar la nave Quando ruggìa più forte la tempesta. Benché pressato di seguir la via, Il biondo Atride s’arrestò, d’esequie Onorando l’estinto e di sepolcro. 340 Sciolte al vento di novo indi le vele, Ratto pervenne al capo di Malea, Quando l’Olimpio un turbine improvviso Gli suscitò, che dai profondi gorghi Sconvolse il mare, e ne fe’ valli e monti; 345 E, dagli amici separato, i legni A quella parte ei rivolgea di Creta, Ove lungo le rive del Giardano Dimorano i Cidoni. Un erto e nudo Scoglio s’incontra sul cammin di Festo, 350 Alla punta di Gòrtina vicino: Ivi l’Austro venìa cacciando i flutti Dal fianco dello scoglio in due divisi, Ed ivi molti del divino Atride Saldi legni perîr dal sasso infranti, 355 Salvi a stento i nocchieri; ond’ei con sole [43] Cinque carene veleggiar potea Verso l’Egitto. Or mentre co’ suoi fidi Iva fra genti di straniera lingua Vagando e merci radunando ed oro, 360 I tenebrosi suoi disegni in Argo Compiva Egisto: Agamennón trafisse, Il popolo sommise, e per sett’anni Della bella Micene ebbe l’impero. Ma finalmente, a vendicar l’amato 365 Padre, d’Atene fe’ ritorno Oreste, Che il traditore di sua mano uccise; E a celebrar del drudo e dell’iniqua Genitrice la morte, ai cittadini Apparecchiava un funeral banchetto. 370 Comparve quel dì stesso Menelao Con le sue navi, che gemean dal carco Di peregrine e ricche merci oppresse. Ma tu non imitarlo, amato figlio, Né troppo a lungo errar, lasciando in preda 375 Le tue sostanze e la tua casa ai Proci. Tuttavia ti consiglio, e ti comando Di presentarti a quel famoso eroe. Ei testé giunse da remoti lidi, Ove se il tragge boreal tempesta, 380 Uom di ritorno non ha speme: orrendo Sterminato oceàn, che in dieci lune Ala d’augel non varca. A lui tu dunque N’andrai con la tua nave e i tuoi nocchieri; Ché se andarvi per terra più t’aggrada, 385 Cocchio e cavalli avrai, qualcuno avrai Pur de’ miei figli, che compagno e guida Ti sarà fino a Sparta, ove dimora Il biondo Menelao. Se tu lo preghi, Tutto che brami ei ti farà palese, 390 Ché di quel saggio mai non mente il labbro. Tacque; e al tramonto già chinava il Sole, E si coprìa di tenebre la terra. Tu ben parlasti, o figlio di Neleo [44] Sclamò la Diva dalle luci azzurre. 395 Ma via, colmate i nappi, e recidete Ai giovenchi le lingue, onde a Nettuno Fatti e agli altri Celesti i libamenti, A corcarci n’andiam, che l’ora è tarda. Già Febo in mar s’ascose, ed alla sacra 400 Mensa fra l’ombre di seder non lice. A que’ detti, versar l’aqua alle mani I banditori, e di spumanti vini Coronando le tazze, a tutti in giro Con lieti augurii le porgeano i servi. 405 Sorsero i convitati, e le recise Lingue gittando su le brage, e fatte Le libagioni, ognuno a ber si diede. Alla spiaggia ritrarsi allor volendo Telemaco e Minerva, il buon Nestorre 410 Con questi gli arrestò cortesi accenti: Ah tolga Giove ch’io calar vi lasci In quest’ora alla spiaggia! Un poveretto Non son io, di mantelli e di vellose Cóltrici sprovveduto, in cui ravvolti 415 Esso e gli ospiti suoi giaccian la notte. Molte io ne tengo e belle; e fin ch’io vivo, Finché vivranno i figli miei, non fia Che la mia casa a un ospite si chiuda. E che dorma sul palco d’una nave 420 Il caro figlio del prudente Ulisse. Sempre benigno e generoso, o veglio, Suona il tuo dir, gli rispondea Minerva. Qui resti adunque l’Ulisside, e dorma Nel tuo splendido albergo. Al nostro legno 425 d’uopo è ch’io scenda a confortar gli amici E su tutto a vegliar, ch’io sol fra loro Ho grigio il crine: son d’età conformi A Telemaco gli altri, e l’han seguito Per amicizia. Quivi avrò riposo; 430 Ma sul mattino ai nobili Cauconi Io me n’andrò, d’un mio non lieve, antico [45] Censo al riscatto; e tu farai che voglia Qualcun de’ figli tuoi d’Ulisse il figlio Scortar sovr’agil cocchio all’alma Sparta. 435 Così dicendo, Pallade repente Al cielo, come fosca aquila, alzossi, E sparve fra le nubi. A quel portento Attonite le turbe e stupefatte, Seguon la Diva con gli sguardi, e anch’egli 440 Maravigliando Nestore la mano A Telemaco stringe, e sì favella: Amico, né timor, né codardìa Mai non sarà che nel tuo cor s’annidi. Se giovane qual sei gli eterni Numi 445 T’accompagnan così. L’armipotente Augusta figlia del Saturnio Giove Al certo è dessa, che onorò tuo padre Più che tutti gli Achei. Deh! tu propizia Alla mia casa pur ti mostra, o Diva, 450 E di gloria i miei figli e la mia sposa E me circonda; ed io d’aurate corna E d’ampia fronte indomita giovenca Ti svenerò, che un anno ancor non compia. Disse; e Minerva la sua prece accolse. 455 Con Telemaco allora e coi figliuoli E coi generi al suo splendido albergo Nestore s’avviò. Quivi sui troni E su le scranne s’adagiâro; e il vecchio Sire le tazze ad essi empìa d’un grato 460 Undicenne licor, che dalla piena Urna, il coperchio sollevato, avea La dispensiera attinto; e dello stesso Licore ei poscia si colmava il nappo, A Pallade Minerva propinando. 465 Poiché ciascun bevuto ebbe e ai Celesti Fatti i suoi preghi, a riposar si trasse Al proprio ostello. Ma Nestorre il saggio Figliuol d’Ulisse in sua magion trattenne A dormir sotto il portico sonante 470 [46] In ben tornito letto; ed al suo fianco Il marzïal Pisistrato corcossi, Che giovinetto e celibe col vecchio Padre ancora abitava. In solitaria Stanza Nestorre si corcò, sul letto 475 Che allestito gli avea la casta moglie. Cinta il capo di rose in ciel comparsa Era l’Aurora appena, allor che alzossi Il gerenio Nestorre; e dall’albergo Uscendo, si sedea presso all’eccelsa 480 Porta su bianchi levigati marmi, Ove usato sedersi era l’antico Re Neleo, di gentili arti maestro, Già sceso a Dite per voler di Giove. Erasi quivi assiso il buon Nestorre 485 Tutela degli Achei: le maritali Stanze lasciate, gli facean corona I cari figli, Strazio, Perseo, Areto, Echefron, Trasimede, e il generoso Pisistrato, che avea l’ospite seco, 490 Bello come un Celeste, e a lato il mise Del padre, che fra lor così dicea: O figliuoli, m’udite. Offrir desìo Un sacrifizio a Pallade Minerva, Che nel sacro banchetto di Nettuno 495 Jeri a noi si mostrò. Qualcuno adunque Vada ai pascoli, e scelta una giovenca, Qui la conduca il mandrïano. Un altro Scenda alla spiaggia ad invitar gli amici Dell’ospite, due soli alla custodia 500 Lasciandovi del legno. Un terzo chiami Laerce, il dotto fabbro, che le corna Indori alla giovenca; e nell’albergo Restino gli altri, e ai servi e alle fantesche Apparecchiar comandino la mensa, 505 Seggi e legne recando ed aqua viva. Disse, e tutti obbedir. Venne dal pasco L’indomita giovenca, i fidi amici [47] Di Telemaco vennero dal mare, E dopo questi l’orafo Laerce, 510 I fabbrili strumenti in man tenendo, Martello, incude e forbice affilata, Con cui l’oro ei trattava; e anch’essa alfine Al santo rito Pallade venia. Diede il vecchio Nelide al fabbro l’oro; 515 Ed ei foggiollo, e ne vestì le corna Della giovenca, onde in suo cor la Diva, Mirandola godesse. Conducea Per le corna la vittima Echefrone E Strazio; e, dalla sala uscendo, Areto 520 Con una mano l’aqua in un bacino, E con l’altra portava in un canestro Il salso farro. Una pesante scure, Con cui l’ostia ferir, stringea nel pugno Il forte Trasimede; e Perseo avea, 525 Per accoglierne il sangue, in mano un vaso. Prese Nestore in quella il farro e l’aqua, E a Minerva pregando, i peli svelse Dalla fronte dell’ostia, e su l’acceso Fuoco gittolli. Trasimede allora 530 Si fece innanzi, e col tagliente acciaro La vittima colpìa che, tronco il nervo Della cervice, a terra stramazzò. Tosto intorno di fervide preghiere Facean l’aria echeggiar suore e cognate 535 E la casta Euridice, veneranda Di Nestore consorte e di Climene Primogenita figlia. Alla giovenca, Che stesa al suol giacea, levâr la testa; E la scannò Pisistrato, e ne trasse 540 Il nero sangue, e l’anima dal corpo Si sferrò. Discuoiate indi e recise Prestamente le cosce, e ricoperti Di doppio zirbo i crudi brani, il vecchio Gli arrostìa su le brage e li spruzzava 545 Di pretto vino, mentre con le mani [48] Su gli acuti schidoni a cinque punte Li giravano i figli. E poiché il tergo Ebber combusto ed assaggiati i pingui Visceri, fêro tutto il resto in brani, 550 E acconciamente negli spiedi infisso L’abbrustolâr, girandolo sul fuoco. La minor figlia del Nelide intanto, La gentil Policasta, il giovinetto Telemaco lavò, gli unse le membra 555 D’olio odoroso, gl’indossò leggiadra Tunica e manto; ed egli, dal lavacro Simile in volto ai Sempiterni uscito, Al fianco si sedea del vecchio sire. Arrostite le carni e dagli spiedi 560 Dispiccate, le posero sul desco, E a banchettar si diêro; e di vermiglio Dolce licor solleciti le tazze Empìano i servi. Ma poiché di cibo Ognun fu sazio, Nestore dicea: 565 Figli, aggiogate i corridori al cocchio Per Telemaco, e tosto in via si ponga. Non indarno ei parlò. Subitamente Furono i corridori al cocchio aggiunti, Ove la saggia dispensiera e pani 570 Depose e vini e scelte dapi, solo Ai re serbati del gran Giove alunni. Balza allor senza indugio sul lucente Cocchio il figlio d’Ulisse; alla sua destra Pisistrato vi balza, dell’achiva 575 Gioventù condottiero, e in man raccolte Le redini, sferzava i corridori, Che desïosi dall’eccelsa Pilo Uscìan volando per gli aperti campi. L’intero dì sotto il medesmo giogo 580 Senza posa volâr; ma quando cadde Il Sole, e tutte s’abbuiâr le vie, Arrestaronsi in Fera i duo garzoni, Ed entrâr nella casa di Dïocle [49] D’Orsiloco figliuol, d’Alfeo nipote. 585 Ivi dormîr la notte, ed ei cortese Gli ospitali presenti ad essi offrìa. Come la bella Aurora il cielo aperse Con le dita di rosa, i prenci in fretta Aggiogâro i corsieri, e su la pinta 590 Biga entrambi salîr, che rumorosa Fuor dell’atrio e del portico si spinse. Flagellava Pisistrato le groppe Ai corsier, che veloci attraversando I frugiferi campi, alla divina 595 Sparta giugnean col tramontar del Sole. [50] LIBRO QUARTO SOMMARIO Telemaco e Pisistrato arrivano a Sparta il dì che Menelao celebra le doppie nozze del figlio Megapente e della figlia Ermione. - Telemaco vien di leggieri raffigurato da Elena e da Menelao per figlio d’Ulisse. - Lodi che fanno entrambi del valore e della saggezza dell’eroe. - Commozione di Telemaco. - Sdegno di Menelao all’udire le pretensioni e le insolenze de’ Proci. - Egli racconta il suo viaggio in Egitto, e le notizie che ivi Proteo gli diede del fratello Agamennone, di Aiace d’Oileo e di Ulisse. - I Proci, conosciuta la partenza di Telemaco, si risolvono di tendergli un agguato per ucciderlo al suo ritorno. - L’araldo Medonte, udita la trama, corre ad avvisarne Penelope. - Estrema afflizione di questa madre infelice. - Conforti ch’ella riceve in sogno da Minerva. Alla vasta di balze incoronata Sparta venuti i due garzoni, al tetto S’avviâr dell’Atride Menelao, Che del figlio in quel giorno e della figlia Celebrava le nozze. Innanzi al sacro 5 Ilio promessa avea la figlia a Pirro, Germe d’Achille, rompitor di schiere; Ed or con pompa di cavalli e cocchi Alla città de’ forti Mirmidóni La mandava, in cui Pirro avea soggiorno, 10 E pronubi alle nozze eran gli Dei. E alla figlia d’Alettore spartano Il bellicoso Megapente unìa, [51] Che d’una schiava in tarda età gli nacque, Non avendo gli Eterni a lui concesso 15 Prole d’Elena più, dopo la sola Diva Ermïone, a cui dell’aurea Venere Fiorìan le grazie e la beltà sul viso. Così gli amici e i convicini a mensa Festeggiando sedean nel ricco albergo 20 Del magnanimo Atride, e un dolce canto Su la cetra sciogliea l’illustre vate, Mentre due snelli danzator nel mezzo Intrecciavano al canto allegri balli. Giunti nell’atrio, i corridor sostenne 25 Pisistrato. Li scòrse Eteoneo, Il fedel banditore, e difilato Con l’annunzio correndo al biondo Atride, Duce di genti, Menelao, gli disse, Due garzoni arrivâr, che al vago aspetto 30 Sembran Celesti. Dobbiam noi staccarne Dalla biga i corsieri, od invïarli Ad un vicino che per noi gli accolga? D’ira infiammossi a quel parlar l’Atride, E, figliuol di Boete, gli rispose, 35 Già non eri tu scemo; e che vai dunque Ora qui vaneggiando? Altri a noi pure Fu di mense ospitali e prezïosi Doni cortese nelle dure angosce Del nostro esilio; ed oh piacesse a Giove 40 Che fossero l’estreme! Orsù, distacca I corsieri dal cocchio, e in questa sala I due garzoni a banchettar conduci. Disse; ed ei ratto fuor dell’aula uscìa, I conservi chiamando ed accennando 45 Di seguitarlo. Sciolsero dal giogo I sudanti corsieri, ed al presepe Li legâro e cibâr d’avena e d’orzo. Alla tersa parete indi la biga Avvicinata, per l’eccelso albergo 50 Dell’alunno di Giove Menelao [52] Gli stranieri guidâr, che stupefatti Venìan mirando le superbe sale, Altre splendenti come Luna, ed altre Come Sole raggianti. E poiché fûro 55 E l’uno e l’altro di mirar già sazi, Discesero nel bagno, e dalle fanti Lavati, e d’odoroso olio cospersi, Le tuniche indossâro, e su le scranne Sedeansi al fianco del figliuol d’Atreo. 60 Una fulgida brocca in man tenendo, Vaga donzella su bacil d’argento Versò loro la pura onda alle mani, E la mensa spiegò, che la pudica Dispensiera sollecita coperse 65 Di serbate vivande; e il saggio scalco, Tolte dal fuoco le arrostite carni, Sul desco le depose, e l’auree tazze Empì di vino. Strinse allor l’Atride Agli ospiti la mano, e, Meco, disse, 70 Ristoratevi al desco, e a parte entrate Della nostra letizia. Il nome vostro Io poscia udrò; ché di progenie oscura Non uscite voi certo, e prole siete, L’aspetto il mostra, di scettrati regi, 75 Cari alunni di Giove. - In questo dire Lor presentava d’arrostito bue Il pingue tergo, ch’era a lui per segno D’onoranza imbandito, e i due garzoni Steser le mani all’apprestate dapi. 80 Del cibarsi e del ber pago il desio, Al figliuol di Nestorre s’avvicina Telemaco, e sommesso a lui favella: Vedi quanta di bronzo e d’auro splende E d’ebano e d’elettro in questo albergo 85 Peregrina ricchezza! Ah tal per fermo È di Giove la reggia! Io nel mirarla Tutto mi sento di stupor rapito. L’udì l’Atride, e vòlto al giovinetto, [53] Chi mai, disse, quaggiù, chi mai potrìa 90 Contendere con Giove? Eterne sono Le sue dovizie, eterni i suoi palagi. Ma ch’altri, o figlio, di splendor mi vinca E di ricchezze, a me non cale. Io molto Su l’onde errai, molto soffersi errando, 95 E solo nell’ottavo anno il paterno Tetto raggiunsi. Prima Cipro io vidi, La Fenicia e l’Egitto; indi gli Erembi Visitati e i Sidoni e gli Etïópi, Tutta cercai la Libia, ove le agnelle 100 Figlian tre volte nel girar d’un anno, E in brevi giorni spuntano le corna Agli agnelletti. Né colà padrone O guardïan di greggi ha mai di carni Né di cacio penuria o fresco latte, 105 Perché ognor delle pecore ne sono Gonfie le poppe. Ma mentr’io, vagando In que’ paesi, raccogliea tesori, Altri per colpa dell’iniqua moglie Il fratello m’uccise; ond’è che lieto 110 Fra i tesori io non sono. E voi per certo Da’ vostri padri queste cose udiste, La storia udiste de’ miei mali, e come Fu rovinata la mia casa, un tempo Sempre agli ospiti aperta, e di famigli 115 Piena, e d’arredi prezïosi adorna. Ma non io mi dorrei, se il terzo ancora Perduto avessi delle mie sostanze, Purché fossero salvi i prodi Achivi Che lungi d’Argo di cavalli altrice 120 Caddero innanzi a Troia. Io sconsolato E deserto m’aggiro in questo albergo, Ed ora al pianto tutto m’abbandono, Ed or m’accheto, perché presto il core Del troppo lagrimar si stanca e sazia. 125 Tutti li piango; ma di tutti insieme Non mi cruccio così, come d’un solo, [54] La cui memoria più gustar né sonno Né vivanda mi lascia; ché nessuno Nell’oprar, nel patir, nessuno agguaglia 130 Il magnanimo Ulisse. Era destino Ch’egli errasse penando, e ch’io la lunga Assenza ne piangessi, incerto sempre S’egli sia vivo, o già sia morto; e morto La sposa il piange e il buon Laerte e il figlio, 135 Che in propria casa abbandonò bambino. Così dicea l’Atride; e vivo in petto Del genitor Telemaco sentendo Il desiderio, a lagrimar si diede, E con ambe le mani il roseo manto 140 Si traea su le ciglia. Il riconobbe A quell’atto l’Atride; e in suo segreto Venìa librando, se aspettar che il padre L’ospite nominasse, o se dovesse Interrogarlo ei primo, e il suo pensiero 145 Fargli palese. Mentre pende incerto Così fra due l’eroe, dal profumato Suo talamo la bella Elena uscìa, All’arciera Dïana somigliante, E un seggio Adrasta avvicinolle. Alcippe 150 Un bel tappeto le recava, e Filo Un argenteo panier, dono d’Alcandra, Del generoso Polibo consorte, Che avea suo seggio nell’egizia Tebe. Diede Polibo quivi a Menelao 155 Due crateri e due tripodi d’argento E dieci d’oro fulgidi talenti, Quando la moglie sua dava ad Elèna Un’aurata conocchia, ed un foggiato Panier d’argento ch’avea d’oro il labbro. 160 Questo le mise innanzi la vezzosa Ancella, colmo di ritorto filo, E la conocchia sopra vi giacea Col suo pennecchio di purpuree lane. S’assise Elena intanto, e posti i piedi 165 [55] Su lo sgabello, interrogò lo sposo Con questi accenti: Atride Menelao, Conosci tu questi garzoni, or giunti Alla nostra magion? S’io ben discerno, Uomo ad uomo giammai, né donna a donna 170 Non somigliò, come un di lor somiglia Al divo Ulisse; e forse ei n’è la prole, Che in sua casa lasciò quando alle rive Mosse di Troia, dove un tanto incendio Sol per me svergognata arse di guerra. 175 Al tuo conforme è il mio pensier, rispose Il prode Menelao. Tutto ei somiglia Al Laerziàde Ulisse: Ulisse ai gesti, Al vibrar dello sguardo, Ulisse al capo, Alle chiome, alle mani. E come il figlio 180 Non sarebbe di lui? Mentre gli affanni Io venia ricordando che l’eroe Ha per noi tollerati, un largo pianto Gli scendea su le guance, e del mantello Si facea velo con le palme agli occhi. 185 E Pisistrato allor: Duce di genti, Marzïal Menelao, tu non errasti, Eccoti innanzi di quel Grande il figlio. Ma verecondo per natura, e solo Qui da poco arrivato, ei non osava 190 La tua voce arrestar, che molce il core Come quella d’un Dio. Nestore, il vecchio Mio genitore, comandò che a Sparta Io lo guidassi, perché ardente brama Il pungea di vederti, acciò con l’opra 195 Tu giovar lo potessi e col consiglio. Come del morto padre s’addolora Un giovinetto nel deserto ostello, Non altrimenti del lontano Ulisse S’addolora Telemaco, nessuno 200 Ancor trovando che gli porga aiuto. Possenti Dei! proruppe Menelao, Dunque il figliuol del mio più fido amico [56] In mia casa arrivò? Di lui che a tanti Rischi per amor mio la vita espose? 205 Se co’ suoi legni su l’achiva sponda Gli avesse Giove d’approdar concesso, Io l’avrei più che tutti in queste mura Con gioia accolto; io sgombra di sue genti, O fabbricata una città gli avrei 210 Nelle mie terre, dove co’ suoi beni E con suo figlio e tutti gl’Itacesi Egli sarebbe ad abitar venuto; E in dolci nodi d’amistà congiunti E in frequenti colloqui, avremmo insieme 215 Tranquilli e lieti il nostro fato atteso. Ma di tanta fortuna invido forse L’Olimpio re, quell’infelice solo Tenea lontano dal paterno lido. Al parlar dell’eroe tutti li colse 220 Di lagrimare irresistibil voglia: Piangea la figlia del Saturnio, Elèna, Telemaco piangea, piangea l’Atride, E di lagrime anch’esso avea le guance Pisistrato rigate, a cui del caro 225 Incolpabile Antiloco sovvenne, Dal figlio ucciso della bella Aurora. Ma sazio omai di pianto, a Menelao Volse il garzon queste parole: Atride, Quando talvolta in Pilo per diletto 230 Si favellava degli achivi eroi, Te di prudenza singolar fornito Il padre mio dicea. Benigno or dunque Odi il mio ragionar. Fra i nappi, al desco, Troppo il pianger mi pesa. In cielo appena 235 Vedrò l’Alba spuntar, di pianto anch’io Darò tributo a chi di vita è spento; Poiché l’onor, che solo dai mortali Render si possa ai lor defunti, è questo: Radersi il crin dal capo, e dalle ciglia 240 Calde stille versar. Tolse a me pure [57] Nel furor delle pugne innanzi a Troia L’empia Parca un fratello. Io nol conobbi; Ma tu, divino Atride, il conoscesti, E tu ben sai che tutta Grecia il disse 245 Veloce al corso, acerrimo guerriero. Saggio favelli, amato figlio, il biondo Menelao rispondea. Già la prudenza Vinci de’ più maturi, e appien si scorge Di qual padre nascesti. Agevolmente 250 Si riconosce d’un eroe la prole, Cui dalle fasce e dalle nozze il sommo Adunator de’ nembi avventurosa Vita concesse; come al gran Nelide, Che felice invecchiò nel proprio tetto, 255 E figli in sorte di valor famosi Ebbe e di senno. Tregua al pianto or dunque, E si pensi alla cena, ed alle mani L’aqua si versi: qui seduti il nostro Sermon domani ripigliar potremo. 260 Disse; e pronto il buon servo Asfalïone Diede l’aqua alle mani, e ciascheduno A piacer vivandò. Ma nella mente Alla figlia di Giove, argiva Elèna, Sorse un novo pensiero. Avverso al pianto, 265 Avverso all’ira, apportator d’oblìo, La bella donna nelle tazze infuse Un farmaco, che detto era nepente. Chi misto al vin lo beve, il giorno intero D’una sola di pianto amara stilla 270 Le palpebre non bagna: anco se spenta La stessa madre o il genitor gli fosse, O cader si vedesse innanzi agli occhi Il fratel trucidato o il caro figlio. Questo la prole custodìa di Giove 275 Suco fatal, che in dono dalla sposa Di Tone, Polidamna, ebbe in Egitto, Ove possenti la feconda gleba Erbe produce, di salute alcune, [58] Altre di morte arrecatrici, ed ove 280 Dotte e maestre nella medic’arte Sono le genti, da Peon discese. Poi ch’ebbe nelle tazze il suco infuso La vaga donna, di versarvi ingiunse Il dolce vino, e così tolse a dire: 285 Atride Menelao, di Giove alunno, E voi, figli di prodi, onnipossente Il re de’ Numi, come più gli torna, Ora il bene, ora il male all’uom dispensa. Dunque al desco sedendo, insiem de’ cibi 290 E dell’alterno conversar godiamo; E voi date cortesi attento orecchio Al mio parlar. Non io del grande Ulisse Tutte narrar, né ricordar pur solo Le fatiche potrei; ma come ad Ilio 295 L’astuto eroe la imprese e la sostenne, Una pur ne dirò. Di finte piaghe Insozzate le membra, e intorno ai larghi Omeri avvolto un lurido mantello, Nelle dardanie mura insinuossi; 300 E un mendico parea, mentre d’un Nume Avea nel campo degli Achei l’aspetto. Così rimase a tutti ignoto. Io sola Il riconobbi, e presi a fargli inchieste; Ed egli sempre con l’usato ingegno 305 Schermendo si venìa. Ma poiché l’ebbi Lavato ed unto d’odoroso ulivo, E gl’indossai le vesti, e gli promisi Con giuramento, che a nessun de’ Teucri Palesato l’avrei, prima che uscito 310 Fosse di Troia e giunto al lido in salvo; Ei finalmente degli achivi duci Mi scoperse i disegni. Indi trafitti Molti nemici con la spada, al lido Fuggì, lasciando stupefatti i Teucri 315 Di sua scaltrezza. Allor l’iliache donne Tutta empìan la città d’urli e lamenti. [59] Ma in segreto io godea, perché il rimorso Già sentìa del mio fallo, e la sciagura Piangendo, in che m’avea Ciprigna avvolta, 320 Riveder desïava il patrio nido, E la figlia diletta, ed il consorte Di senno e di beltade a niun secondo. Tu parli il vero, o donna, il generoso Menelao ripigliò. Per molte errando 325 Straniere terre, d’infiniti eroi Io l’indole conobbi ed il consiglio; Ma giammai non m’avvenni in chi potesse La sagacia emular del divo Ulisse E la costanza. Al mio pensier presente 330 Ognor sarà quanto sostenne e quanto Egli oprò nel cavallo, ove rinchiuso Era il fiore de’ Greci, al danno estremo Parati de’ nemici. Ivi un Celeste Della gloria sollecito de’ Teucri 335 T’avea, donna, sospinto, e l’orme tue Deifobo seguìa. Ben tre fïate Tu t’aggirasti al gran cavallo intorno, Percuotendone i fianchi, e a nome i primi Chiamando degli Achei, ne simulavi 340 Delle consorti le diverse voci. Nel cieco ventre assisi, io, Dïomede Ed Ulisse chiamar spesso n’udimmo; E Dïomede ed io fuor del cavallo Già sboccar volevamo, o far risposta 345 Dalle latebre sue; ma nol permise E, benché ardenti, ne contenne Ulisse Tutti immobili allora e taciturni Stavan gli altri guerrieri. Il solo Anticlo A gridar s’accingea; ma pronto Ulisse 350 La bocca gli serrò con la man forte, E più non la ritrasse, finché Palla Te non ebbe dal legno allontanata. Per lui così tutti gli Achei fûr salvi. E d’Ulisse il figliuolo: Oh ben mi cruccia 355 [60] Ch’opre sì glorïose e un cor sì fermo Ad involarlo da crudel destino Non sien bastati! Ma condurci al nostro Letto ormai non vi spiaccia, ove possiamo Le stanche membra ristorar col sonno. 360 Egli disse; e nel portico due letti L’argiva Elèna d’allestir commise Alle donzelle, e stendervi di sopra Manti vellosi e bei tappeti e molli Purpuree coltri; ed esse uscìan tenendo 365 Le faci in mano, ed allestìan due letti. Ivi poscia condusse il banditore I due garzoni, e l’un dell’altro a canto Prendean riposo. Nella sua dorata Stanza il re coricossi, e la più bella 370 Delle donne al suo fianco Elena giacque. Già sui colli splendea la nova luce, Quando l’Atride Menelao dal letto Sorse, e indossò le vesti, e il brando acuto All’omero sospese, e i bei coturni 375 Ai piedi s’annodò. Quindi lasciando Il suo talamo, pari ad un Celeste, A sedersi n’andò vicino al saggio Telemaco, e gli disse: E qual cagione Ti trasse, o figlio, alla divina Sparta 380 Del mar su l’ampio dorso? Un tuo privato O pubblico bisogno? A me lo narra. Telemaco rispose: Inclito Atride, Di Giove alunno, per aver novelle Del padre io venni. Una superba gente 385 Inonda la mia casa, e di mia madre Aspirando alle nozze, il fior mi strugge De’ pingui agnelli e de’ giovenchi, e tutti Mi diserta gli averi. Ed è per questo Che a’ tuoi piedi io mi prostro, e ti scongiuro 390 A svelarmi d’Ulisse il fine amaro, Sia che tu lo vedessi o da straniero Labbro l’udissi; ché infelice troppo [61] La madre il partorì. Né del mio duolo Pietà ti tenga, né voler ch’io nutra 395 Di vana speme il core. Ah! se mai d’opre O di consiglio ne’ troiani campi, Tutti di sangue argolico bagnati, Il mio buon genitor ti fu cortese, Or lo rimembra, e non celarmi il vero. 400 Mise a queste parole un gran sospiro, E sclamò Menelao: Dunque il codardo Seme de’ Proci non paventa il letto Salir d’Ulisse? Come imbelle cerva Che nella tana d’un leon deposti 405 I teneri portati, erbose valli Va cercando e colline; arriva intanto La terribile belva, e de’ cerbiatti Fa scempio insieme e dell’incauta madre; Tal fia che rieda a sterminar gli amanti 410 L’itacense guerriero. Ed oh! piacesse Al gran Giove e a Minerva e al biondo Apollo, Che, come un giorno in Lesbo a dura lotta Sorse ardito e prostrò Filomelide, E tutto degli Achei gli plause il campo; 415 Tal sui Proci or piombasse! Amare, il credi, Lor sarìan quelle nozze e il viver breve. Ciò che saper tu brami, io senza inganno E senza velo ti farò palese, Come io stesso l’appresi dal canuto 420 Proteo marino, che giammai non mente. Me desïoso di veder le care Paterne soglie a forza nell’Egitto Arrestavan gli Dei, perché le sacre Vittime io non avea sui loro altari 425 Immolate; né mai gli onori ai Numi Dovuti l’uomo impunemente oblìa. Giace incontro all’Egitto un’isoletta Che nominata è Faro, e n’è discosta Quanto corre in un dì veloce nave 430 Cui stridulo da poppa il vento spiri. [63] Quivi un porto si schiude, onde la prora Il vigile nocchiero al mar commette, Poiché la fresca attinse insipid’onda; E quivi irati dieci giorni e dieci 435 Mi trattenean gli Dei. Né mai leggiera Brezza soffiava ad increspar del mare L’immobil seno; e col mancar del cibo Sarebbe a’ miei compagni il cor mancato, Se ad aiutarci non venìa pietosa 440 Idotea, del marin Proteo figliuola. Mentre cacciati da molesta fame Pescavan con gli adunchi ami i compagni Lungo il sassoso lido, a me, che mesto Traea le piante per cammin solingo, 445 Fêssi innanzi la Ninfa, e così disse: Straniero, il senno hai tu perduto, o vai Solo di stenti e di dolori in traccia, Che mentre per l’inedia e per la fame, Languono i tuoi compagni, ancor non pensi 450 A lasciar queste spiagge? - O tu, qualunque Delle Dive ti sia, tosto io risposi, Non è per mio voler se qui m’arresto, Ma per voler de’ Numi, onde lo sdegno Io forse provocai. Tu che se’ Diva, 455 Tu cui nulla s’asconde, a me rivela Qual degli Eterni al mio desir contrasta E i neri flutti di solcar mi vieta. Io le tue brame appagherò, soggiunse La bellissima Diva. Ha qui dimora 460 Il verace, immortal Proteo, che padre A me si dice, e che a Nettun ministro Tutti dell’oceano i più riposti Antri conosce. Se da teso agguato Tu pigliar lo potessi, ei del ritorno 465 Sul mar pescoso ti farebbe i modi E le vie manifeste; e ancor, se il brami, I casi che nel tuo paterno tetto Tristi o lieti seguîr, mentre lontano [63] Vagavi per sì lungo arduo cammino. 470 Dunque a tender l’agguato or tu m’insegna, Io replicai, perché l’astuto veglio Non mi discopra e dalle man mi fugga: Forza mortal difficilmente doma Un Immortale. - E a me così la Diva: 475 Questo pur ti dirò. Quando nel mezzo Del cielo è giunto col suo cocchio il Sole, Allo spirar d’un zeffiro soave, Di brune alghe coperto, esce dall’onde Il fatidico veglio, e s’addormenta 480 In ombrosa caverna. A lui da presso Adagiansi le Foche, informe prole Della vaga Alosidne, e lunge intorno Spargon del salso limo il grave odore. Se all’apparir dell’Alba a me tu vieni 485 Con tre compagni de’ migliori, in loco Atto all’insidie vi porrò. Del vate Or conosci l’usanza. Ei pria s’accosta Alle Foche e le visita e le conta Tutte con cura a cinque a cinque, e poscia 490 Nel mezzo del marin gregge si corca Qual pastor fra le agnelle. Appena chiuse Avrà le ciglia al sonno, a voi di tutta La vostra gagliardìa sarà mestieri Per costringerlo al suol, mentre, bramoso 495 Di fuggir, si dibatte e si contorce. In quante il seno della terra alberga Serpi e belve crudeli, in altrettante Proteo trasformerassi, e in aqua ancora E in fiamma portentosa; e voi più sempre 500 Saldo il tenete, e lo premete al suolo. Ma quando stanco di lottar riprenda Le sue sembianze, e favellarti accenni, Cessa allor dal forzarlo, e sciogli e lascia Libero il veglio: ei ti dirà sincero 505 Qual ti persegue degli Eterni, e come Il vasto golfo attraversar tu possa. [64] Sì dicendo, ne’ flutti ella s’immerse; Ed io pensoso e mesto il piè rivolsi Alle navi, schierate in su l’arena. 510 Ivi cenammo; e intanto la notturna Ombra discese, e su la spiaggia ognuno A dormir si corcò. Ma come il primo Raggio dell’Alba in orïente apparve, Io volsi ai Numi un prego, e lungo il lido 515 Con tre compagni m’avvïai, che scelsi Fedeli e pronti ad ogni audace impresa. Già per ordir la trama era Idotea Dall’onde uscita con le fresche pelli Di quattro Foche; e quattro larghe fosse 520 Scavate nell’arena, ivi seduta Ad aspettar ne stava. Al nostro arrivo Ella subito intorno alla persona Ne ravvolse le pelli, e nelle fosse Poi calar ne facea l’un dopo l’altro. 525 Molestissimo agguato! perché il puzzo Delle adipose Foche in mar nudrite Acerbamente ne ferìa le nari. E chi potrebbe d’un marino mostro Giacersi a canto? Ma ne porse aita 530 Tosto la Ninfa, che inspirar ne fece Un grato aroma, e quel fetor disperse. Così tutto il mattino accovacciati Attendevamo impazïenti; ed ecco Dal mare in frotta uscir le Foche, e l’una 535 Vicino all’altra stendersi sul lido. Proteo dall’onde sul meriggio emerse: Girò su tutti attento il guardo, e come Ebbe noi primamente, indi con molta Cura le Foche annoverate, e nullo 540 Sospetto il colse dell’ordita insidia, Si stese anch’egli a terra, e addormentossi. Allor gridando gli corremmo addosso, E l’afferrammo. Né dell’arti usate Ei scordossi: in leon di folta giubba 545 [65] Pria si converse, ed in pantera e in truce Smisurato cinghiale, e in drago poscia, E in liquid’onda e in arbore frondosa; Ma noi lì fermo sempre il tenevamo Senza paura. Alfin lo scaltro vecchio, 550 Vinto dal lungo faticar, si volse A me sdegnoso con tai detti: Atride, E quale degli Dei t’ha consigliato Di tradirmi così? da me che brami? Io gli risposi: A che t’infingi, o Proteo? 555 Ciò ch’io bramo tu il sai: tu sai ch’io sono Qui da lungo arrestato, e che non veggo Fine all’indugio, e quanto ciò m’affanni. Tu che se’ Nume, tu che nulla ignori, Svelami quale degli Dei mi vieta 560 Di toccar la mia terra, e dimmi il giorno Ch’io fidi le mie navi al mar pescoso. E il veglio a me: S’era tua brama, Atride, D’approdar senza indugio al suol natìo, Dall’Egitto salpar tu non dovevi 565 Anzi che avessi a Giove e agli altri Numi Pingui vittime offerte. Ora del fato È voler che i tuoi lidi e le tue belle Case e gli amici riveder non possa, Se non risali di quel sacro fiume 570 Generato da Giove alla corrente, E di vittime elette un sacrifizio Ivi prima non faccia a tutti i Numi Dell’alto Olimpo. Allor la via che cerchi Ti sarà tosto dagli Dei dischiusa. 575 A questi detti un brivido mi colse; Ché per lungo, difficile cammino Su l’ondoso oceano alle correnti Ricondurmi io dovea del fiume Egitto. E nondimeno replicai: Ciò tutto 580 Che m’ingiungi farò. Ma dimmi: i Greci Che Nestore partendo ed io lasciammo Sui teucri campi, sono tutti in salvo [66] Tornati ai loro alberghi, o ne perìa Qualcuno in mare o nel paterno ostello? 585 Perché vuoi tu di questo interrogarmi, O figliuolo d’Atreo? soggiunse il vecchio. Di largo pianto ti sarà cagione Il mio parlar; ma, se lo brami, il vero Schiettamente dirò. Molti fûr salvi, 590 Molti perîr de’ loricati Achivi Su le dardanie sponde, ove tu pure Hai combattuto, e solo a due la Parca Fu crudele al ritorno: in solitaria Isola un terzo è trattenuto. Aiace 595 In mar perì. Dai tempestosi flutti Su gli scogli girei tratto l’avea In securo Nettuno; ed ei schivato Certo avrebbe la morte, a cui Minerva Sospingendo il venìa, se un empio detto 600 Non gli uscìa dalle labbra. Osò vantarsi Ch’anco a dispetto degli Dei sfuggito Sarebbe alla procella. Udì la voce Di quell’insano il crollator Nettuno, E con la man gagliarda il gran tridente 605 Afferrato, il gireo scoglio percosse E in due spaccollo. Parte vi rimase Immota, e parte nell’oscuro golfo Precipitò, seco il guerrier traendo Che, pesto e sanguinoso, il salso flutto 610 Trangugiando, spirò. Già tuo fratello Col favor di Giunone erasi a morte Navigando involato, allorché giunto All’arduo capo di Malea, fu còlto Da turbine improvviso, e per l’ondoso 615 Pelago strascinato al lembo estremo Della contrada, ove Tïeste un giorno, E il figlio allora di Tïeste, Egisto Avea sua stanza. E quinci alfin securo Il ritorno parea; ché il gran Nettuno 620 Mutò de’ venti il corso, e alla divina [67] Argo in breve il guidò. Colmo di gioia Balzò l’Atride Agamennón sul caro Patrio lido, il baciò, sparse di dolci Lagrime un fiume: tanto a quella vista 625 Ei si commosse! Ma una spia lo vide Dal vertice d’un colle, ove condotta E appostata l’avea con la promessa Di due talenti d’or l’iniquo Egisto. Ivi in guardia da un anno ella si stava, 630 Perché l’Atride non giungesse occulto A schiacciar col suo braccio poderoso La prole di Tïeste. Il vide appena, E veloce spiccossi a darne avviso Al suo re, che all’inganno e al tradimento 635 Volse tosto il pensiero. Ei venti elesse Della plebe, i più forti, e li ponea Nella reggia in agguato; indi una mensa Apparecchiar vi fece, e reo disegno In suo segreto meditando, ei stesso 640 Andò l’Atride ad invitar con pompa Di cocchi e di cavalli. Entro l’insidia Così caduto, qual tauro al presepe, Fu scannato alla mensa Agamennóne; Né di lui, né d’Egisto un sol compagno 645 Da quella mischia si salvò: di tutti Corse confuso nella reggia il sangue. Sentii scoppiarmi a quell’annunzio il core; A terra mi distesi, e prorompendo In alti lai, più non potea la vita 650 Né l’aurea luce tollerar del Sole. Ma come alfin di piangere fui sazio E rotolarmi su l’arena, il vecchio Proteo in tal guisa a favellar riprese: Cessa, o figlio d’Atreo, cessa dal pianto, 655 Che a nulla ormai non giova, e ad Argo affretta Il tuo ritorno, dove ancor potresti Coglier vivo colui; ché se l’avesse Già trucidato Oreste, almeno il core [68] Ti gioirebbe nel vederlo estinto. 660 Porse questo parlar qualche conforto Al mio tormento, sì che a lui converso Io di novo dicea: Quanto è mestieri Di que’ duo ragionasti. Or mi palesa Il terzo eroe, che in mezzo all’oceano 665 Ancor vivrebbe; e se già morto ei fosse, Quantunque afflitto, udir ne bramo il nome. E Proteo: È questi il Laerziade Ulisse, Nell’aspra Itaca nato. Io stesso il vidi Rigar di pianto doloroso il volto 670 Nell’isola solinga, ove l’arresta Calipso, inclita Diva; ed ei la cara Natìa contrada riveder non puote, Perché nave non ha, non ha nocchieri, Che sul dorso il trasportino del mare. 675 Né a te, germe d’Atreo, diletto a Giove, In Argo, altrice di cavalli, il fato Morir consente; e i sempiterni Dei T’invïeranno negli elisii campi Al confin della terra, ove soggiorna 680 Il biondo Radamanto, ed ove scorre Senza affanno o molestia all’uom la vita. Colà mai neve, mai colà non cade Pioggia, né lungo è mai né freddo il verno, E sempre il mare fresca dall’occaso 685 Manda una brezza a ricrear le genti. E così lieta sorte a te s’appresta Perché, marito della bella Elèna, Sei genero di Giove. - In mar, ciò detto, Spicca un salto, e su lui l’onda si chiude. 690 Molti pensieri allor fra me volgendo Mossi alle navi con gli amici; e come Giunti vi fummo, s’allestì la mensa, E, discesa la notte, ci corcammo Su la spiaggia a dormir. Ma quando apparve 695 Al balzo d’orïente il dì novello, Tutte in mar si sospinsero le prore, [69] Gli alberi si rizzâr, le vele al vento Si spiegâr su le antenne, e in ordinate Schiere sui palchi i naviganti assisi, 700 Percotean le spumose onde co’ remi. Un’altra volta noi così giungemmo Al fiume Egitto, che il gran Giove ingrossa Con le sue piogge; ed ivi un’ecatombe Offerta ai Numi, ne placai lo sdegno. 705 Poscia al tradito Agamennón composi Un tumolo, che il nome ne serbasse; E rivolte di novo al mar le prore, Con fausto vento dagli Dei mandato Le care patrie sponde alfin rividi. 710 Ma tu meco rimanti, ospite mio, Finché in cielo l’undecimo risplenda O il duodecimo Sole. Allor commiato Io ti darò con preziosi doni: Tre superbi corsieri, un gentil cocchio, 715 E un’aurea tazza, onde agli Dei libando, Ogni giorno di me ti risovvenga. Deh, non voler ch’io più qui resti, Atride! Rispose il figlio del divino Ulisse. Io di buon grado un anno intero a Sparta 720 Indugiarmi vorrei, le patrie mura E i parenti oblïando, così dolce Al cor mi scende il tuo parlar; ma troppo Già fra voi mi trattenni, e, fastiditi Del mio ritardo, nell’eccelsa Pilo 725 M’attendono i compagni. A me fia grato Sempre un dono qualsìa, che tu mi porga; Ma i bei corsieri ad Itaca petrosa Non condurrò. Li serba a tuo diletto Tu ch’hai vaste pianure, ove il frondoso 730 Cipero e il loto e il candid’orzo abbonda E il frumento e la spelda. Ampie carriere E verdi prati in Itaca non sono Per corridori, ma colline e balze Alla pastura delle capre adatte. 735 [70] Terra nessuna il nostro mar circonda, E men dell’altre Itaca mia, che ricca Sia di fertili piani, e dove al corso Liberamente un buon destrier si slanci. Allor sorrise il bellicoso Atride, 740 E la mano stringendogli, e per nome Chiamandolo, dicea: Le tue parole Provano, o figlio, di che sangue uscisti, E, poiché il posso, io cangerò que’ doni. Fra quante mai di fabbro esperta mano 745 Insigni opre compose, la più bella Io ti darò: tutta d’argento un’urna Effigïata io ti darò, che il labbro Ha d’oro, esimia di Vulcan fatica. A me la diede Fèdimo, il potente 750 Re de’ Sidoni, quando al mio ritorno Nel suo tetto m’accolse; e tu l’avrai. Mentre così l’Atride Menelao Col garzon ragionava, al regio albergo Accorrean d’ogni parte i convitati, 755 Altri i vini recando, altri le agnelle, E pani vi recavano le spose Il capo adorno di leggiadre bende; Indi si diêro ad allestir la cena. I Proci in questa a lanciar dardi e dischi 760 Si venìan trastullando in su la porta Dell’albergo d’Ulisse, usato campo Della lor tracotanza. Erano soli In disparte seduti Antinoo e il divo Eurimaco, de’ Proci i più famosi 765 Per sangue e per valor. D’Eupite al figlio S’accostò Noemon, figlio di Fronio, E questi accenti a lui rivolse: Antinoo, Sai tu quando Telemaco da Pilo Farà ritorno? Dalla nostra spiaggia 770 Ei partì col mio legno, ed or n’ho d’uopo Per tragittarmi alla feconda Elide, Ove ho dieci cavalle, e muli adulti, [71] Ancor non domi, che aggiogar vorrei. Stupîro i prenci a questo dir, credendo 775 Che al guardïan de’ porci o delle agnelle Ito fosse il garzone, e non a Pilo; E sorto in piedi chiese Antinoo: E quando Telemaco partì? chi lo seguìa? Liberi cittadini, o suoi famigli 780 E mercenari? E tanto ha dunque osato? Ma dimmi ancora, che saperlo io bramo: Si tolse a forza la tua bella nave Telemaco, o l’hai tu volonteroso A lui ceduta? - E Noemon soggiunse: 785 Io di buon grado gli prestai la nave. E chi l’avrebbe in tanto suo travaglio A tal garzone ricusata? Il fiore Dell’itacense gioventù lo segue; E su la nave, pari ad un Celeste, 790 Innanzi a gli altri Mentore salìa E pur m’udite: Jeri al primo albore Io stesso vidi il saggio vecchio; or come A Pilo ei dunque navigar potea? Così dicendo, Noemon redìa 795 Alle sue case, e costernati e muti Que’ due Proci lasciò. Cessâr dai giochi Subito gli altri a tal novella, e intorno Ad essi in fretta s’accogliean. Profonda Caligine ad Antinoo il lume offusca 800 Della ragione, come bragia rossi Volge gli occhi dintorno, e sì favella: Grave per certo, audace impresa è questo Vïaggio di Telemaco, che fola Noi credevamo! Un giovinetto imberbe 805 Avrà dunque a dispetto di noi tutti Impunemente in mar lanciato un legno, E co’ migliori degli Achei spiegate Le vele al vento? Chi sarà che il freni S’ei più s’avanza? Ma il vigor gli tolga 810 Un Nume pria che i suoi disegni ei compia! [72] Via, s’appresti una nave a venti remi, Onde sul mar, che dall’alpestre Samo Itaca parte, l’ora del ritorno Spïarne io possa, e trarlo in un agguato . 815 Apprenderà così quanto gli giovi Andar del padre navigando in traccia. Tacque, ciò detto; e plausero i compagni Ad una voce, ed ordinâr la nave; Quindi sorgendo entrâr nel regio ostello. 820 Ma gran tempo a Penelope segreta La trama non restò. L’avea dall’atrio Il buon Medonte udita, e frettoloso A lei correa, che non appena il vide Apparir su la soglia, A che, gli disse, 825 A che, Medonte, t’hanno qui spedito I Proci? Forse ad avvisar le ancelle Che smettano i lavori, e che la cena Vengano ad allestir? Perché, cessando D’ambir la mano mia, non vanno altrove 830 A banchettar? Vili! che a torme in questa Casa accorrete a divorar gli averi Di Telemaco, dunque a voi nessuno Mai palesò qual era il mio consorte Co’ padri vostri, e ch’egli mai non fece 835 Ad uom con opre o con parole offesa, Mentre de’ re più saggi è pur costume Che ad altri amore e portin odio ad altri? Ma in voi l’animo tristo si rivela Dai fatti abbominosi, e la memoria 840 De’ ricevuti benefizi è spenta. E a lei l’araldo sospirando: Oh fosse Questo il maggior de’ mali, o mia regina! Altro, ben altro orribile misfatto, Se un Dio nol vieta, compiranno i Proci. 845 Voglion costoro trucidarti il figlio Al suo ritorno; poiché all’alma Pilo E a Sparta andò del caro padre in cerca. A tal novella il core e le ginocchia [73] Sentì mancarsi la infelice, a lungo 850 Irrigidita le restò la lingua, Gli occhi s’empïr di pianto, e non potea Formar parola. Alfin così proruppe: Perché dunque ei partì? Qual mai sciagura L’ha costretto a salir su le veloci 855 Navi, che sono dell’immenso mare Gli sbrigliati cavalli? Perché pèra, Come quello del padre, anche il suo nome? Se giovanil talento, o un qualche Nume, Rispose il banditor, lo trasse a Pilo 860 Per conoscer del padre i fati occulti, Io, regina, non so. - Così dicendo Da lei si tolse, e fe’ ritorno ai Proci. Ma d’acuto dolor trafitto il core, Più riposo non ha, né più seduta 865 Può restar la regina, e su la soglia S’abbandona del talamo, levando Gemiti e grida. Accorsero le ancelle Tutte, giovani e vecchie, e con alti urli Faceansi intorno alla dolente; ed essa 870 Con le guance di lagrime inondate, Uditemi, dicea: Troppo il gran Giove, Troppo soffrir mi fa! Prima un diletto Sposo io perdea, d’ogni virtude adorno, Come leon magnanimo, e per l’Argo 875 E per l’Ellade tutta illustre e chiaro. Ed or di novo un figlio giovinetto, Che solo in casa mi restava, il negro Pelago mi rapisce; ed io meschina Ne ignorava il partir! Ma voi, crudeli, 880 Che salir lo vedeste il curvo legno, Perché non siete alla mia stanza accorse A scuotermi dal sonno? Ove saputo Avessi in tempo ch’ei fuggir volea, O l’avrei trattenuto, o qui m’avrebbe 885 Cadavere lasciata. Orsù, l’antico Dolio si chiami, l’amoroso servo [74] Che diemmi il padre il giorno di mie nozze, Ed or le piante del verzier coltiva. Vo’ che a Laerte ei vada, e gli domandi 890 Se agli Itacesi palesar convenga Che la morte si trama al buon garzone Di sua stirpe divina unico avanzo. Disse allor la nudrice: O tu m’uccida, O la vita mi lasci, omai, regina, 895 Tacer non posso. Tutto io seppi: io stessa E vini e pani e quanto mi richiese, Io gli provvidi. Ma giurar mi fece Che nulla a te direi prima che sorta Non fosse in ciel la dodicesma Aurora. 900 O tu di lui cercassi, o conosciuta n’avessi la partenza, onde col pianto Al tuo bel viso non recassi oltraggio. Or via, fa’ cor, Penelope: le vaghe Membra ti lava, e in bianche vesti avvolta, 905 Con le donzelle alle superne stanze Ascendi, e prega a Pallade Minerva, Figlia di Giove, che da morte il campi, Ella che il puote; né voler con questo Annunzio il veglio funestar, già troppo 910 Per sé dolente. In ira al gran Saturnio Tanto d’Arcesio ancor non è la stirpe, Che in Itaca non resti alcun rampollo Delle sue case e de’ suoi campi erede. Il parlar d’Euriclea tempra l’angoscia 915 Della misera donna, e su le ciglia Ne frena il pianto. Si lavò, si cinse Di vesti immacolate, alle sue stanze Ascese con le ancelle, e, sparso il farro, Alla Diva pregò: M’odi, o Minerva, 920 Invitta figlia dell’Egioco Giove. Se nel paterno tetto unqua il mio sposo T’arse d’agna o di bue le pingui cosce, Or lo ricorda, e salvami il diletto Figliuolo, e sperdi gl’insolenti Proci. 925 [75] Sì dicendo, ella mise un grido acuto, E la cerula Diva il prego accolse. Sotto l’oscure vòlte i Proci intanto Facean tumulto, e questa voce udissi: Le nozze da noi tanto desïate 930 Prepara la regina, e non sospetta Che di suo figlio noi cerchiam la morte. Così diceano i Proci, non sapendo Che a lei già manifesta era la trama. Ma sorse Antinoo, e favellò: Cessate, 935 O folli, dal gridar, ché non v’ascolti Alcun di dentro, e quanto abbiam concordi Omai deciso ad eseguir n’andiamo. Ciò detto, venti de’ migliori elesse, E al lido s’affrettò. Spinsero il curvo 940 Pino su l’onde, l’albero levâro, V’appesero, spiegâr le vele ai venti, E i remi ai banchi assicurâr con torte Coregge; l’armi deponean sul legno Quindi i famigli, e incontanente i Proci 945 Lo guidavano in alto, e quivi a cena Sedean, l’ombre aspettando della notte. Ma la saggia Penelope, rinchiusa Nelle sue stanze, cibo più non gusta, Più non gusta bevanda. E come batte 950 In petto il core ad un leon, che cade Entro l’insidia, e schiamazzando un denso Stuol di villani gli si stringe intorno; Così nel dubbio, se potrà da morte Fuggir l’amato figlio, o sotto il ferro 955 Perirà de’ nemici, il cor battea Alla meschina, quando alfin dal crudo Affanno vinta, si gittò sul letto, E un dolce sonno le sciogliea le membra. Ma qui novo pensier pensò Minerva. 960 Uno spettro formò, tutto in vederlo Somigliante ad Iftima, altra figliuola Del generoso Icario, che consorte [76] Era d’Eumelo, ed avea stanza in Fere. Alla regina invia costei la Diva, 965 Perché ne freni il duolo, e su le ciglia Le lagrime ne terga. Per la toppa S’insinuò nel talamo lo spettro, Si librò sul suo capo, e così disse: Nel tuo dolor, Penelope, tu dormi? 970 Di contristarti e lagrimar ti vieta Il gran re degli Dei, perché tuo figlio, Che mai nessuno de’ Celesti offese, Farà da Pilo in breve a te ritorno. Su le porte de’ sogni dolcemente 975 Addormentata, A che ne vieni, o suora, Penelope rispose? È già gran tempo Ch’io non ti veggo, così lunge alberghi Da queste rive! E come vuoi ch’io freni Il dolor che mi rode e mi consuma, 980 Se uno sposo ho perduto per saggezza E per valore tra gli Achei famoso; E se l’unico figlio, ancor fanciullo, Non uso alle fatiche, e delle genti E de’ costumi ignaro, all’onde infide 985 S’abbandonò? Né tanto per Ulisse, Quanto per lui m’attristo e cruccio, e temo Che alcun disastro in terra o in mar lo colga; Poiché molti giurâr la sua rovina, E lo vogliono estinto anzi che torni. 990 Ma replicò l’oscuro simulacro: Sgombra dal seno i tuoi sospetti, e spera. Una compagna gli sta sempre al fianco Che ciascun bramerebbe, la possente Figlia di Giove, Pallade Minerva, 995 Che a’ lunghi tuoi lamenti impietosita Me tua germana a consolarti invia. E Penelope a lei: Tu che se’ Diva, O d’una Diva le parole udisti, Di quell’altro infelice or mi ragiona: 1000 Dimmi s’ei vive e gode i rai del Sole, [77] O già sia morto e sceso al nero Pluto. S’ei viva o già sia morto io dir non posso, Rispose l’ombra, e indarno a me lo chiedi. Tacque, e ratto scomparve per la toppa, 1005 Come soffio di vento. Allor dal sonno Penelope si scuote, e sente il core Della gioia balzar, che in lei su l’Alba Avea la grata visïon trasfusa. Per dar morte crudele al giovinetto 1010 I Proci intanto su la bruna prora Fendean l’umide vie. Fra la petrosa Itaca e Samo giace un’isoletta, Asteride nomata, che alle insidie Avea per doppia uscita un porto acconcio. 1015 Quivi appostati l’attendean gli Achei. [78] LIBRO QUINTO SOMMARIO. Nuovo concilio degli Dei. - Minerva si lamenta che Ulisse venga ancor trattenuto da Calipso nell’isola Ogigia, e si tendano insidie alla vita di Telemaco. - Giove spedisce Mercurio, che imponga a Calipso di dar commiato all’eroe. - Questi entra in mare sopra una zattera da lui stesso fabbricata. - Nettuno, ritornando dall’Etiopia, lo vede navigar tranquillo, e gli suscita contro una tempesta, che gli scompone la zattera, e lo sbalza nei flutti. - Una Dea marina, mossa a compassione di lui, corre a dargli un cinto, per virtù del quale egli si salva nuotando all’isola dei Feaci. Nunzia al cielo di luce ed alla terra Sorgea dal letto di Titon l’Aurora, E già con gl’Immortali a parlamento Sedea su l’alto Olimpo il glorïoso Di Saturno figliuol. Palla Minerva, 5 Dolente che la Ninfa trattenesse Nelle sue grotte il Laerziade eroe, Ne ricordava agli altri Dei gli affanni, Giove, esclamando, e voi, celesti Numi, Né prudente, né giusto e mansueto 10 Alcun re più non sia, ma crudo, iniquo E scellerato, se il divino Ulisse Oblïato è così dal popol suo, Ch’ei mite come padre un dì reggea. Misero! giace abbandonato e tristo 15 In isola solinga, ove Calipso [79] L’arresta a forza, e riveder gli vieta La contrada natìa. Navi e nocchieri Egli non ha, che il guidino sul vasto Dorso dell’onde; e il caro unico figlio, 20 Che a Pilo il va cercando e all’alma Sparta, Trucidargli si tenta al suo ritorno. Quai detti, o figlia, ti sfuggir dal labbro? L’adunator de’ nembi le rispose. Forse non hai tu stessa risoluto 25 Che torni Ulisse, e che punisca i Proci? E Telemaco pur, tu che lo puoi, Scorgi ad Itaca in salvo, e i suoi nemici Rifacciano scornati il lor cammino. Indi a Mercurio, sua diletta prole, 30 Rivolto, disse: O tu, che i miei messaggi Recar costumi, vanne alla ricciuta Ninfa, e le annunzia come sia di Giove Immutabil voler, che al generoso Di Laerte figliuol partir consenta. 35 Non l’accompagni degli Eterni alcuno O de’ mortali; ma su ferma zatta, Da lui stesso allestita, il nero golfo Ei solchi, e dopo venti dì pervenga Alla fertile Scheria, ove soggiorno 40 Hanno i Feaci dagli Dei discesi. Essi festa ed onore a lui faranno Come ad un Nume, e in ben costrutta nave Salvo alla patria il condurran, di bronzo Ricco e d’oro e di tuniche e di manti, 45 Più che d’Ilio recati ei non avrìa Se con l’intera preda a lui sortita Ritornato ne fosse. Egli è destino Che così la sua terra e la sua casa E i suoi congiunti alfin rivegga Ulisse. 50 Sì parla; e ratto l’Argicida ai piedi I leggiadri, immortali, aurei talari Annodossi, che lui su l’ampia terra E lui su l’onde portano veloci [80] Al par de’ venti. Indi la verga impugna, 55 Con cui su gli occhi de’ mortali il sonno, Come più gli talenta, or chiama, or fuga; E via con questa rapido volando E valicando le pierie vette, Sul pelago si cala. E come il laro, 60 Che del mar procelloso i vasti seni Rade in cerca di pesci, e l’ali brune Ad or ad or v’intinge; in simil guisa Correa su l’onde il messaggier celeste. Ma, giunto alla remota isola Ogigia, 65 Sul lido ascende, e all’antro s’incammina Ove la Ninfa dalle crespe chiome Avea dimora. Ivi un gran foco ardea, E il tiglio crepitando ed il frondoso Cedro spargean lontano un grato olezzo, 70 E la sua bella voce vi facea La Ninfa udir con lieta cantilena, Mentre con l’aurea spola industre tela Iva tessendo. Rigogliose piante Sorgean vicino all’antro, il pioppo e l’alno 75 E il cipresso odoroso, ove rapaci Sparvieri e gufi e garrule cornacchie, Delle sponde marine abitatrici, Avean lor nidi edificati; e tutte Ne vestìa le pareti intorno intorno 80 Una giovane vite, onde le dolci Uve pendean. Per quattro opposti rivi Una limpida fonte le sue fresche Aque invïava ai prati, di vïole E d’apio ricoperti; e sì gioconda 85 Quella scena apparìa, che nel vederla Dilettar si dovean gli stessi Numi; E il divino Argicida il piè rattenne Per contemplarla. Ma, poi ch’ebbe il vago Spettacolo goduto, ei nell’amena 90 Grotta inoltrossi, e tosto il riconobbe La bellissima Dea; perché a vicenda [81] Si conoscono i Numi, ancor che lunge L’un dall’altro soggiorni. Ivi non era Di Laerte il figliuol, che su la riva 95 Del mar sonante, in gemiti e sospiri E d’aspra doglia macerato il core, Immobile sedea, guardando i flutti E lagrimando. Su lucente scranna Collocò l’Argicida, e a lui si volse 100 Con tai detti la Ninfa: A che ne vieni, O sempre caro e venerando Nume, Dell’aurea verga portator? Tu questo Povero ostello frequentar non usi. Parla, o divino messaggiero, esponi 105 Liberamente il tuo pensier; ché pronta A compirlo m’avrai, se farlo io possa, E il farlo mi s’addica. - E qui si tacque; E gli spiegò la mensa, e dolce ambrosia Sollecita gli appose e rubicondo 110 Nettare. Di bevanda il saggio Ermete Confortato e di cibo, a lei rispose: Perché, Dea qual tu sei, me Dio ricerchi? Pure m’ascolta. Qui di Giove un cenno M’invïò mio malgrado. E chi vorrebbe, 115 Se non costretto, valicar sì vasto Pelago, dove una città non sorge, Né fuma un’ara, né si svena un’ostia Agl’Immortali? Ma nessun de’ Numi Può cozzar col Saturnio, e farsi gioco 120 De’ suoi comandi. Ei mi dicea che teco Il più misero alberga degli eroi, Che il grand’Ilio espugnò. Ma nel ritorno Fecero oltraggio al re dell’arco, Apollo, I suoi compagni; e Giove suscitando 125 Una tempesta, li travolse in mare, E qui dall’onde fu sospinto ei solo. Or lo stesso gran Giove a te comanda Di congedarlo, e presto; ché lontano Dalla patria perir non deve Ulisse. 130 [82] A quell’annunzio abbrividì Calipso, E con amari accenti, Ohimè, proruppe, Ingiustissimi Numi! Ad un diletto Mortale unirsi in maritali nodi Dunque una Diva non potrà, che tosto 135 Voi l’impedite? Il suo fido Orïone Così la bella Aurora aveasi appena Disposato, che voi, Numi crudeli, Nol soffriste, e la Dea dall’aureo seggio, Cinzia, con invisibile saetta 140 In Ortigia il colpì. Così la bionda Cerere il vago Giasïon, l’amico Del suo cor si godea là nel maggese Che il vomere tre volte avea solcato; Ma Giove se n’accôrse, e con rovente 145 Fulmine lo trafisse. E a me del pari, Invidi Numi, contrastar volete L’uom che, dai venti combattuto, io trassi Su questo lido, al frusto avviticchiato Della carena che lo stral di Giove 150 Gli avea franta e dispersa. Io lo raccolsi Nelle mie grotte e il confortai di cibi, Vita immortale io gli promisi, e giorni Sempre sereni e da vecchiezza immuni. Tuttavolta se altrui cozzar non lice 155 Col gran Giove dell’egida signore, Né i suoi comandi trasgredir, s’ei vuole Che l’eroe novamente al mar s’affidi, Non io per certo nave e naviganti Gli darò, che lo scortino su l’onde; 160 Ma ben la via gli mostrerò, che salvo Il riconduca alla natal sua terra. Sì, pur ch’ei parta, replicò Mercurio, E teco non s’ adiri il gran Tonante. Disse il Nume, e sparì. Poiché la Ninfa 165 Ebbe il messaggio del Saturnio udito Ad Ulisse n’andò, che tristamente Lagrimando sedea su la deserta [83] Spiaggia e, bramoso del ritorno al patrio Nido, struggea de’ suoi verd’anni il fiore; 170 Ché la vezzosa Ninfa ei non amava, E con lei si giacea le lunghe notti Freddo marito a calda amante in braccio. Vagava per l’alpestre isola il giorno, E su gli scogli assiso, il duol, che tutto 175 Lo consumava, in lagrime e sospiri E lamenti esalando, immoto il guardo Tenea su l’onde. D’improvviso al fianco Gli comparve la Ninfa, e così disse: Cessa, infelice, cessa omai dal pianto, 180 Né struggerti così, ch’io ti congedo Da queste sponde. Orsù, dunque, recidi Grosse piante nel bosco, e un’ampia zatta Ne forma, e sopra vi configgi un palco: Che ti trasporti sui cerulei flutti. 185 Io d’aqua e bianchi pani, io di vermiglio Vino la fornirò, sì che la fame Cacciar tu possa, e n’abbia il cor ristoro; Ti vestirò, ti leverò da tergo Un vento amico, che al paterno tetto 190 Salvo t’adduca; pur che piaccia ai Numi Abitatori dell’eccelso Olimpo, Che son di me più forti e più veggenti. Raccapricciò lo sconsolato Ulisse A tal novella, e in rapide parole, 195 Ah ben altro, rispose, or tu disegni Di me misero, o Dea! Sopra una zatta Vuoi tu dunque ch’io varchi i tempestosi Orrendi flutti, che le salde navi, A cui da poppa il vento un Nume invia, 200 Varcano appena? Ah! non fia mai ch’io salga Il fragil legno, se tu pria non giuri Che qui non si nasconde un qualche inganno. Rise la vaga Ninfa, e con la destra Carezzandogli il mento, O tristo, disse, 205 O cor di volpe, che così favelli! [84] Sappia la Terra, sappia lo stellato Immenso Cielo e l’infernal Palude (Giuro grave, tremendo, a cui nessuno Può mancar degli Dei), che in me non cova 210 Pensier d’inganni; e solo ti consiglio Quanto a me stessa consigliar potrei Se in te foss’io; ché mente equa, e pietosa Anima, non di ferro, in petto io chiudo. Così dicendo, s’avviò Calipso, 215 E il divo Ulisse la seguìa. Venuti Alla grotta, ei s’assise in su la scranna Che lasciata poc’anzi avea Mercurio, E cibi e vini gli apprestò la Ninfa, Quali imbandir costumano i mortali; 220 Ed ella stessa poi sedea di fronte All’Itacense, e nettare ed ambrosia Le ammanìan le donzelle. Allor la destra Stesero entrambi al desco; e come in essi Del cibarsi e del ber tacque la voglia, 225 A parlar cominciò la bella Ninfa: Di Laerte figliuol, sagace Ulisse, È dunque vero che al paterno ostello Tornar disegni? E ben, parti, se questo È il tuo fermo voler. Ma se gli affanni 230 Tu conoscessi, che il crudel destino T’apparecchia per via, certo più caro A te sarebbe rimaner custode Del mio tranquillo albergo, e viver meco Vita immortale, ancor che tanto agogni 235 Di veder la tua sposa. A lei di forme, Né di statura inferïor mi credo, Ove sia pure che mortal beltade Con divina beltà contender possa. Deh non volerti adirar meco, o Diva! 240 L’accorto Ulisse replicò. Non veggo Io forse quanto al volto, alla persona, La prudente Penelope tu vinca; Ch’ella è mortale, ed immortal tu sei [85] Né vecchiezza ti doma? E nondimeno 245 Arde incessante nel mio cor la brama Della terra natìa. Che se un nemico Dio mi volesse travagliar su l’onde, Sopportarlo io saprei; perché nel petto Chiudo un’alma costante, ai mali avvezza, 250 E dopo quanto in terra e in mar soffersi, Di ciò che avvenga poco ormai mi curo. Mentre ei così dicea, verso l’occaso Calava il Sole e l’uno e l’altra in fondo Allo speco, in soavi abbracciamenti, 255 Si giacquero la notte. Al primo raggio Del novo giorno s’indossava Ulisse Le vesti usate; e un fino e grazïoso Ampio candido peplo alla persona Si ravvolgea Calipso, e intorno ai lombi 260 Un bel cinto dorato, e al crespo crine Un sottil velo. Indi così la Ninfa Alla partenza dell’eroe provvede: Una grande gli porge, a doppio taglio, Ferrea scure, di facile maneggio, 265 In lavorato manico d’ulivo Saldamente confitta, ed una liscia Pialla aggiunge alla scure. Al lembo estremo Poi dell’isola il guida, ove una selva Sorgea di grosse piante, i pioppi e gli alni 270 E gli abeti che al cielo ergean la cima, Già da lunga stagion morti e risecchi, E quindi acconci a galleggiar su l’onde. Ma come il loco gli mostrò, Calipso Alle sue case fe’ ritorno; e tosto 275 La selva Ulisse ad atterrar si diede, Con sì gran lena, che in brev’ora al suolo Ben venti annose piante avea distese. I lunghi rami ne recise, i tronchi Ne piallò, gli agguagliò; poscia col succhio, 280 Che dalla grotta gli recò la Ninfa, Ad uno ad un forandoli, con chiovi [86] E con incastri tutti acconciamente Insiem li strinse. In men ch’esperto fabbro Chiglia di nave mercantil non compie, 285 Avea finita la sua zatta Ulisse. D’assi e di travi un palco vi compose, Un albero v’eresse con l’antenna, Vi mise il temo a governarla, i fianchi N’armò di salci attorcigliati, e in copia 290 Vi gittò la zavorra. I bianchi lini, Che gli porse la Diva, ei destramente Va disegnando e convertendo in vele; I ritegni e le sarte appende e lega, E alfin con leve e curri in mar la spinge. 295 Era l’opra compiuta al quarto giorno, E al quinto, uscito dal lavacro, e in nova Tunica avvolto, il congedò Calipso. Ma pria di negro vino in su la zatta Gli pose un otre, e un otre più capace 300 Di limpid’aqua, e chiuse in un canestro Pani e grate vivande. Indi gl’invia Una gioconda brezza; e a quell’amica Aura lieto l’eroe spiegò le vele E, seduto al timon, reggea vegliando 305 Il corso del suo legno, con lo sguardo Alle Pleiadi or volto ed a Boote, A tramontar sì lento, ed ora all’Orsa, Carro pur detta, ch’ivi, senza posa Girando, mira ad Orïon, la sola 310 Che in grembo al mare di tuffarsi è schiva: L’Orsa, che per consiglio della Ninfa Egli a manca lasciar sempre dovea. Omai da dieci e sette dì gli azzurri Flutti solcava l’Itacense; ed ecco 315 Coi primi raggi mattutini i foschi Monti apparir della feacia terra, Quasi uno scudo in mezzo all’oceàno. Ma ritornando dall’etiope genti, Fin dai gioghi di Solima lo scorge 320 [87] Sui salsi flutti veleggiar tranquillo Il possente Nettuno; ed in suo core, D’ira fremendo e la testa crollando, Così ragiona: Dunque a mio dispetto Su le sorti d’Ulisse altro consiglio 325 Hanno preso gli Dei, mentre io facea Fra gli Etiopi dimora? Egli alla Scheria S’appressa, dove per voler del fato Avran fine i suoi mali; e tuttavolta Ancor non poco a tollerar gli resta. 330 Il tridente, in ciò dir, strinse a due mani, E le nubi adunò, sconvolse il mare, Scatenò le tempeste, e terra ed aqua D’una tetra caligine coperse. Dal cielo allor precipitò la notte, 335 Ed Euro ed Ostro e il torbido Libecchio, E il gelato Aquilon, tutti ad un tempo Sul nero golfo si scagliâr, levando Dal mar profondo un vasto, orrendo flutto. A quella vista il figlio di Laerte 340 Sentì mancarsi le ginocchia e il core, E gemendo proruppe: Ahi sventurato! Che mai sarà di me? Tutto si compie Quanto la saggia Ninfa a me predisse, Che molto avrei sofferto, anzi che giunto 345 Fossi al lido natìo. Da folte nubi È chiuso il cielo; d’ogni parte i venti Mugghiano e le procelle, ah certo io corro Incontro a morte! O voi tre volte e quattro Avventurosi, che pei duci Atridi 350 Combattendo cadeste innanzi a Troia! Ah perché non son io caduto il giorno Che i bellicosi Teucri a questo petto Tante sul morto Achille acute lancie E saette vibrâr? M’avrìan d’esequie 355 Onorato gli Achivi, e ne’ lor canti d’Ulisse il nome suonerìa famoso. Or morte oscura m’apparecchia il fato! [88] Mentre così si duole, il flutto immane Giù rovinando fa girar la zatta, 360 Sì che, svelto dal temo, ei cade in mare Capovolto; e il furor della tempesta L’albero in due gli spezza, e via l’antenna Gli strascina e le vele. A lungo ei giace Sotto il peso de’ flutti, e indarno tenta 365 Alzarsi a galla; perocché gli fanno Le vesti impaccio, che gli avea la bella Ninfa indossate. Fuor dell’onde alfine La testa egli solleva, e dalle chiome Gli gronda in copia e sgorga dalla bocca 370 Il salso umore. Ma la fida zatta Non dimentica Ulisse in quell’istante, E con estremo sforzo il minaccioso Flutto rompendo, la raggiunge, e sopra Vi balza, e siede. E come suol talvolta 375 Nel freddo autunno aquilonar bufera Lanciar di qua, di là pe’ campi un fascio D’aggraticciati spini; in egual modo Per l’ampio mare i procellosi venti Sbalestravano il legno, ed or sul dorso 380 Noto a Borea lo gitta, ed or lo cede Euro a Ponente, che l’incalzi e sperda. Leucotea dal bianco piè lo vide, Ino Leucotea, figlia di Cadmo Che, già mortale e di mortal favella, 385 L’Oceàn fra’ suoi Numi oggi saluta; E del dolor d’Ulisse impietosita, Simile a smergo, d’improvviso un volo Spiccò dall’onde, e su le avvinte travi Posando, questi detti a lui volgea: 390 Infelice, e perché di tanto sdegno Il re Nettuno contro te s’accese? Ma invano la tua morte egli desìa, Se tu prudente, qual mi sembri, orecchio Al mio dir porgerai. Lèvati questi 395 Panni, abbandona il fragil legno in preda [89] Ai venti, e cerca d’afferrar nuotando Il vicin lido, dove il ciel prefisse Ch’abbian fine i tuoi mali. Questa zona Ricevi intanto, e il fianco ne circonda, 400 E salva ne’ perigli avrai la vita. Ma non appena sarai sceso al lido, La zona sciogli, e lunge in mar la gitta, E torci altrove nel gittarla il viso. Sì dicendo, la zona gli porgea; 405 E quindi, a smergo somigliante, in mare Tuffossi, e il mare sovra lei si chiuse. A quel consiglio ripensando Ulisse, Così dolente nel suo cor ragiona: Ohimè! che nova insidia un qualche Nume 410 Forse m’ordisce, se lasciar m’ingiunge La fida zatta. Ma non io per ora L’obbedirò; ché troppo ancor lontana Veggo la terra, ove trovar dovrei La mia salvezza. Ciò si faccia or dunque: 415 Finché sono tra loro insiem congiunte Io mi terrò su queste travi, in pace Sopportando ogni strazio, ogni fatica; Sol quando sciolta mi sarà la zatta, Io nuoterò, poi ch’altro allor non resta 420 Miglior partito. Mentre in tal pensiero Era assorto l’eroe, di novo il Nume Scuotitor della terra un furïoso Immenso flutto contro gli solleva. Come talvolta quinci e quindi un mucchio 425 D’aride stoppie aggira e sperde il vento, Le lunghe travi così sferra e sperde L’orribil flutto. Il pazïente Ulisse Una però n’abbranca, e su vi monta Come a sbrigliato corridor sul dorso; 430 Indi le vesti che gli diè Calipso Ratto si spoglia, al fianco si ravvolge La fatal zona, e con aperte braccia, [90] Curvato il capo, s’abbandona all’onde. Con torvo ciglio il mira, e così dice 435 Il gran Nettuno: Vanne, o sciagurato, Sul negro mar vagando e dolorando, Finché t’accolga la diletta a Giove Feacia terra; e pur non tutti, io credo, Ivi ancor cesseranno i tuoi dolori. 440 Ciò detto, allenta ai corridor le briglie, E ad Ege arriva, dove in fondo al mare Sorgono eccelsi i suoi lucenti alberghi. Ma ben altro volgea fra sé Minerva, Figlia di Giove. Ella sbarrò le strade 445 A tutti i venti, gli acquetò, nel sonno Ad uno ad uno li sommerse, e il solo Veloce Borea suscitando, i flutti Abbatte e spiana sul cammin d’Ulisse, Fin ch’egli attinga la feacia riva. 450 Per due giorni e due notti in simil guisa Ei va sui flutti errando, e ad ogni istante Il terror della morte il cor gli stringe. Ma come al terzo dì spuntò l’Aurora, E tacque il vento, e serenossi il cielo, 455 Rizzandosi su l’onde e le pupille Aguzzando, scoprì vicino il lido. Qual s’allegra un figliuol, se il caro padre, che un demone maligno avea con lungo Morbo consunto, per favor de’ Numi 460 Salute e forza di repente acquista; Tale al mirar quel verde lido il saggio Laerziade s’allegra, e con le mani A tutta lena e co’ piedi nuotando Raggiungerlo sperò. Ma come presso 465 Ne fu quanto d’un uom si stende il grido Un gran fragore udì lungo la riva; Ed era il flutto che dagl’irti scogli Ripercosso muggìa terribilmente, Spargendo intorno le canute spume. 470 Ivi porto non era o seno adatto [91] A ricettar le navi, ma sporgenti Scogliere e pietre; sì che il cor di novo Sentì smarrirsi il divo Ulisse, e questi Amari detti proferìa gemendo: 475 Misero! poiché Giove mi concesse Contro ogni speme di veder la spiaggia, E che nuotando ad essa m’avvicino, Ora non so come toccarla io possa; Ché mi stanno dinanzi acuti scogli 480 Dall’onde flagellati, ed una riva Sassosa ed erta, e sì profondo il mare Che invano tenterei per afferrarla Di reggermi sui piedi; e se il tentassi, Contro ai macigni il vïolento flutto 485 Mi lancerebbe. Che se a nuoto in traccia Io vo d’un porto o di più basso lido, Temo che la rapace onda m’investa, E mi trascini un’altra volta in mezzo Al mar pescoso. O forse ancor Nettuno 490 Potrìa movermi contro alcun de’ mostri Che la bella Anfitrite alberga e pasce: Tanto sempre quel Dio mi fu nemico! Mentre così ragiona Ulisse, un’onda Impetuosa gli fu sopra, e al lido 495 Sospingendo il venìa, dove le carni Lacerate s’avrebbe e l’ossa infrante, Se non gli avesse Pallade Minerva Un tal consiglio nella mente infuso: Con ambedue le mani ad una pietra 500 Egli aggrappossi, e fermo vi si tenne Finché sul capo gli trascorse il flutto; Ma dalla costa il flutto rimbalzando Lo colpì novamente, e per l’oscuro Golfo seco il portò. Come alle branche 505 D’un polipo divelto alla sua nicchia Resta infissa la sabbia; all’aspra selce Attaccata così restava a brani La viva pelle delle man d’Ulisse [92] Tutto l’onda il coperse; e vi perìa 510 Anche in onta al destin, se non l’avesse Inspirato la Dea. Dall’onde uscito, A nuotar cominciò per altra via, Guardando intorno se apparisse un porto O men ripida spiaggia. Alfin d’un fiume 515 Che limpido scorrea giunse alla foce. Gli piacque il loco, perocché lo vide Dai venti riparato e senza scogli; Ma s’accorse che grossa era del fiume La corrente, e così l’eroe pregava: 520 M’odi, qual che tu sia, re di quest’aque. L’ira del forte Enosigeo fuggendo, A te che tanto sospirai mi volgo: Anche ai Celesti è sacro un uom che, afflitto Ed errante, com’io, giunge al tuo fiume 525 E a’ tuoi ginocchi. Deh, signor, ti prenda Pietà di me, che il tuo soccorso imploro! Disse; ed egli frenò le sue correnti, Fece l’onda tranquilla, e su la riva Presso alla foce in salvo lo depose. 530 Ma l’infelice era dal mar sì rotto E sì stremato, che mancar sentissi E le ginocchia e le robuste braccia. Tutto avea gonfio il corpo, e dalle nari Largo il mar gli sgorgava e dalla bocca, 535 E dal travaglio oppresso, al suol giacea Senza voce e respiro e senza forze. Ma come gli tornâr la lena e i sensi, Dai lombi il cinto della Dea si tolse, E dove il fiume si confonde al mare 540 Il gittò. La veloce onda il rapìa, E d’Ino Leucotea la bianca mano Tosto il raccolse. Allora in mezzo ai giunchi Ei chinossi, e baciò l’alma Tellure; Poi sospirando nel suo cor dicea: 545 Ahi! che sarà di me! che più mi resta Ora a soffrir? Se tutta in riva al fiume [93] Giaccio la notte, io temo che la brezza E la rugiada alle affralite membra Non mi rechino offesa; ché di notte 550 Rigido spira lungo i fiumi il vento. E se a quel bosco io salgo, e fra le dense Macchie, al cessar del freddo e del disagio, Mi coglie il sonno, temo che sboccando Una belva m’assalga e mi divori. 555 Dopo molto dubbiar risolve alfine, Ed al bosco s’avvia, che non lontano Dall’aqua sovra un colle si stendea. E qui nel vano entrò di due frondosi Ulivi, di cui l’uno era selvaggio 560 E domestico l’altro, insiem cresciuti, E sì fra loro avviticchiati e folti, Che raggio mai non vi poté di Sole, Né pioggia, né di vento umido soffio; E un letto s’apprestò d’aride foglie, 565 Ond’era in tanta copia il suol coperto, Che da gelido verno avrìan potuto Più d’un uomo schermir. Mirò con gioia A quel suo letto il pazïente Ulisse, Vi si corcò nel mezzo, e intorno al corpo 570 L’aride foglie si raccolse. E come Il solitario abitator de’ campi, Per serbar vivo il seme della fiamma Che raccender non puote al fuoco altrui, Sotto le fosche ceneri nasconde 575 Gelosamente un tizzo; in simil modo Tra le foglie s’ascose il divo Ulisse: E la figlia di Giove, a ristorarne Le membra affaticate, in dolce sonno Le care ciglia di sua man gli chiuse. 580 [94] LIBRO SESTO SOMMARIO Minerva appare in sogno a Nausica, figlia del re de’ Feaci, e le suggerisce di recarsi alla corrente per lavare i lini, non essendo lontano il giorno delle sue nozze. - Nausica, ottenuto il carro dal padre, va con le fantesche al fiume, presso il quale stava Ulisse dormendo. - Lavati i lini, mentre il Sole li asciuga sul lido, esse vanno sollazzandosi al giuoco della palla. - Questa, mal diretta, cade nell’aqua, e le fanciulle mandano un grido acuto, che risveglia Ulisse. - Eloquente discorso di lui a Nausica, che lo conforta con benigne parole, lo soccorre di cibo e di vesti, e lo guida alla città de’ Feaci. Mentre l’eroe, dalla stanchezza oppresso, Giacea così sepolto in grembo al sonno Al popolo feace e alla superba Sua città dirizzò Pallade il volo. Nella vasta pianura d’Iperea 5 Abitavano un tempo i Feacesi, Presso i Ciclopi, stirpe baldanzosa, Perché più forte, sempre ad essi infesta. Ma il lor re Nausitòo di là li trasse, E li guidò nella feconda Scheria 10 Dal commercio divisa delle genti. La città disegnò, tutta la cinse D’eccelse mura, i templi agl’Immortali, Ai cittadini edificò gli alberghi, E le terre spartì. Ma questi all’Orco, 15 [95] Dalla Parca già domo, era calato. E sui Feaci allor regnava Alcinòo, Che la prudenza avea dai Numi appreso Ed il consiglio. Pallade Minerva, Del ritorno d’Ulisse ognor pensosa, 20 Volse rapida i passi al regio ostello, Ed ivi giunta, al talamo dorato Appropinquossi ove dormìa Nausica, La vergin figlia d’Alcinoo, che il core E le sembianze d’un Celeste avea. 25 Eran chiuse del talamo le salde Lucenti imposte, e ne sedean custodi, L’una a fronte dell’altra in su la soglia, Due fide ancelle. La varcò Minerva, Come soffio di vento; e d’una cara 30 Giovinetta (che figlia era del prode Nocchier Dimante, e d’anni a lei conforme E di pensieri) la persona assunse E la voce, e chinandosi sul capo Alla dormente, udir fe’ queste voci: 35 O Nausica, perché sì neghittosa Ti partorì la madre, che le belle Vestimenta non curi, or che vicino È il giorno di tue nozze, e che indossarle Dovrai tu stessa, e farne a chi ti guida 40 Al ricco albergo dello sposo un dono; Sì che il popol ti lodi, e in cor n’esulti La veneranda genitrice e il padre? Su via, ti leva anzi che spunti il Sole, E a lavarle t’affretta: alla corrente 45 Anch’io teco verrò, perché più presto Il lavoro si cómpia. A gara tutta La feacese gioventù d’illustre Prosapia aspira alla tua mano, e a lungo, Il credi, tu non resterai fanciulla. 50 Vanne dunque su l’Alba al genitore, E lo prega che un carro con due muli Apparecchiar ti faccia, che le bende [96] E i manti e i pepli e te conduca al fiume: Troppo è questo lontano, e non s’addice 55 Alla figlia d’un re l’andarvi a piedi. Sì dicendo, Minerva alle pendici Risalìa dell’Olimpo, ove han tranquilla Sede i Celesti; ché furor di vento Mai non lo scuote, né la pioggia il bagna, 60 Né l’imbianca la neve. Ivi sereno È l’aer sempre, né mai nube il turba, E una candida luce lo rischiara Che i santi Numi eternamente allegra. Al balcon d’orïente apparve intanto 65 La bella Aurora, e risvegliò Nausica, Che il sogno ricordando, a raccontarlo Corse ai diletti suoi parenti, e in casa Ambedue li trovò. Trovò la madre Che, al focolar seduta, con le ancelle 70 Stava filando le purpuree lane, E incontrò su la soglia il genitore Mentre uscìa per andar de’ feacesi Prenci al consesso. Gli si stringe intorno Appena il vede la fanciulla, e dice: 75 Non è ver, padre mio, che mi prepari Un agil carro, per condur le vesti Omai sudicie ai limpidi lavacri? Sì, ché tu pure d’indossar ti piaci Nitidi panni, quando a parlamento 80 Siedi co’ prenci; e cinque figli inoltre Ti sono in casa, due zitelli ancora, Due con le mogli, desïosi tutti Di comparir con vesti monde ai balli; E a me la cura ne fidò la madre. 85 Così diss’ella; e tacque delle nozze, Da pudor trattenuta. Ma l’occulta Mente ne indovinò l’accorto padre, E sorridendo le rispose: I muli, E quanto più t’aggrada, o figlia, avrai. 90 Va’, che tosto un bel carro col suo palco [97] Apprestar ti farò dai nostri servi. I servi chiama, sì dicendo; ed essi Pronti un carro allestîr d’agili ruote, E i muli v’aggiogâr. Dalle sue stanze 95 Fuor le vesti recava, e le ponea Sul carro la fanciulla; e in un canestro La genitrice vi ponea serbate Dapi, e in un otre il dolce umor del tralcio. Indi alla figlia, già sul carro ascesa, 100 Porse in ampolla d’oro il liquid’olio, Ond’essa dopo il bagno con le ancelle Se n’ungesse le membra. Allor Nausica In una man le redini si tolse, E nell’altra la sferza, e su le groppe 105 Sonar la fece de’ gagliardi muli, Che, scalpitando, presero le mosse, E la via divoravano, le vesti E le ancelle e la vergine traendo. Come fûr giunte al vorticoso fiume, 110 Ov’erano di marmo ampi lavacri, E sì limpida l’onda e sì copiosa Che levar le sozzure avrìa potuto Ai più sordidi panni, ambo dal giogo Sciolsero i muli, e li cacciâr lunghesso 115 Il fiume a pascolar le molli erbette. Poi dal carro pigliandosi le vesti, Le gittavan nell’onda cristallina, Entro le vasche, dove ognuna a gara Le premea con le piante; e quando fûro 120 Lavate e monde, le stendeano in fila Del mar vicino su le terse arene. Anch’esse allora si lavâr nel fiume, E irrorate di pingue olio le membra, Sedeansi in cerchio su la riva a mensa, 125 Aspettando che il Sole co’ suoi raggi Rasciugasse le vesti. Ma finito Ch’ebbero il pasto, toltisi dal capo I bianchi veli, davansi festose [98] Al gioco della palla, ed era a tutte 130 Guida e maestra la gentil Nausica. Come Dïana, quando in Erimanto, O sui gioghi selvosi del Taigeto, Di fulgide quadrella armata il tergo, Va di cinghiali o snelli cervi in traccia 135 E le Ninfe, di Giove inclite figlie, Scherzano a lei dintorno; essa la fronte Leva su tutte maestosa, e tutte Di leggiadrìa le vince, onde a Latona Brilla di gioia nel mirarla il core: 140 Non altrimenti in mezzo alle sue vaghe Donne apparìa la vergine feace. Ma sendo l’ora del partir vicina, E di piegar le vesti e i forti muli Alla biga aggiogar, Palla Minerva 145 Fece pensiero di svegliar l’eroe, Perché il vedesse la fanciulla, e scorta Gli fosse alla città. Verso una fante Gittò Nausica la ritonda palla Che, dalla meta devïando, cadde 150 In mezzo al fiume, e fu dai gorghi assorta. Miser tutte ad un punto un grido acuto, Che Ulisse risvegliò. Su l’anca allora Ei si rizza, e così fra sé ragiona: In qual mai terra, ahi lasso! e fra qual gente 155 Son io venuto? Scellerata e cruda, O degli ospiti amica, e ai Numi cara? Femminee grida mi ferîr l’orecchio. Forse di Ninfe, che su l’ardue cime Albergano de’ monti o nelle verdi 160 Maremme o in riva ai fiumi, o di vicine Donne sono le grida? Io stesso il vero A scoprir me n’andrò. - Fuor della macchia Uscì, ciò detto, Ulisse, ed un frondoso Ramo divelto con la man robusta, 165 Il fianco se ne cinse, e incamminossi. Come nel verno, quando fischia il vento [99] E scroscian l’aque, cala dall’alpestre Tana un leone, in suo vigor securo; Gli fiammeggiano gli occhi, e ai tori e all’agne Stende l’artiglio, o i presti cervi insegue; 171 E se talor lo stimola il digiuno, Urta la sbarra e un pieno ovile assalta: In tal modo l’eroe, di melma intriso E scarmigliato e nudo, appresentossi 175 Alle fanciulle. Tutte, a quella vista, Di qua di là per lo sporgente lido Atterrite fuggîr; ma non la bella Figlia d’Alcinoo, perché in cor Minerva Le avea posto fidanza, e dalle vene 180 Emunto il gel della paura; e sola Gli stette a fronte. Se prostrato a terra Alla vergine stringa le ginocchia, O se invece la preghi da lontano Che diagli un manto, e la città gli additi, 185 Il misero non sa. Poi si decide A volgerle da lunge una preghiera, Perché temea che seco la fanciulla Non s’adirasse a stringerle i ginocchi; E questi proferì pietosi insieme 190 E scaltri accenti: Ascoltami, regina, O donna o Diva ch’io chiamar ti deggia. Se una Diva tu sei, del vasto Olimpo Abitatrice, al portamento, al volto, Alla persona, io Cinzia in te ravviso 195 Prole di Giove. E se mortal tu sei, Oh! tre volte felici i tuoi parenti, I tuoi fratelli, che gioir dovranno D’averti a figlia, a suora, allor che movi All’onor delle danze; e sovra tutti 200 Colui beato, che potrà condurti Carca di gemme al marital suo tetto. Umana creatura io mai non vidi Che ti somigli, sì che in contemplarti Tutto io mi sento di stupor compreso. 205 [100] Presso all’ara d’Apollo un tempo in Delo (Ché quivi ancor, da numerosa schiera Di mia gente seguito, mi traea Nemica sorte) il giovane rampollo Io crescer vidi d’una palma; e come 210 Le ciglia allor maravigliando io tenni A lungo immote su la sacra pianta, Bella fra quante in terra ebber radice; Or similmente attonito m’arresto Innanzi a te, regina, e non ardisco 215 Abbracciarti i ginocchi, ancor che dura Necessità mi prema. Al negro mare Jeri appena scampai, dopo che venti Giorni rimasi ai flutti e alle veloci Bufere in preda, la remota Ogigia 220 Abbandonando. E forse a questi lidi Fui spinto per soffrir novelle angosce; Ché ancor riposo aver non credo, e molto Dai Numi irati a sopportar m’avanza. Ah! miserere del mio tanto affanno 225 Tu che la prima salutai di questa Gente a me sconosciuta; e tu m’addita La tua cittade, tu mi porgi un manto, Una lacera veste, se l’hai teco, Che mi ricopra. E tutte il sommo Giove 230 Faccia contente del tuo cor le brame; E caro sposo ti conceda e figli E casa, dove la concordia alberghi; Poiché non v’ha più bella e santa cosa Di due consorti, che la lor famiglia 235 Reggono in pace: ai buoni di letizia Ed ai malvagi di dolor cagione. A lui così la vergine rispose: Straniero, poi che folle non mi sembri, Né povero d’ingegno, a te fia noto 240 Che Giove a suo talento il bene e il male All’uom dispensa, e il male onde ti lagni Da lui deriva; dunque il soffri, e taci. [101] Ma poi che un qualche Nume a queste nostre Rive t’addusse, io vesti, ed ogni cosa 245 Che ad ospite infelice si convenga, Ti darò volentieri, e la vicina Città ti mostrerò. Fra tanto apprendi Che Feaci noi siamo, e che mio padre Si chiama Alcinoo, ed ai Feaci impera. 250 Disse; e alle fanti dalle crespe chiome, Fermatevi, gridò: perché fuggite All’apparir d’un uomo? Un inimico Lo credete voi forse? Ancor non nacque, E certo mai non nascerà, chi porti 255 Guerra ai Feaci; perché sono ai Numi Cari, e vivono in questa ultima terra Cinta da tanto mar, che mai nessuno De’ naviganti a trafficar v’approda. Uno straniero, un poverello è questi 260 Che, su l’onde smarrito, a noi pervenne Di nostre cure bisognoso; e tutti Vengono i poverelli e gli stranieri Dal gran Padre de’ Numi, e non v’ha dono Picciolo sì, che lor non torni accetto. 265 Su via, dunque, gli date e vino e cibi; Ma prima al fiume il conducete, in loco Dalla brezza difeso, e vi si lavi. S’appressano a tai detti, e fanno a gara Il piacer di Nausica le donzelle: 270 Ad un seno del fiume il divo Ulisse Guidano, e su la riva deponendo Una tunica e un manto, di fresc’olio Gli porgono un’ampolla, e gli fan cenno Che discenda nell’aqua, e vi si lavi. 275 Ma si rivolge alle fantesche Ulisse, Scostatevi, dicendo, o mie fanciulle, Finché levata dalle spalle io m’abbia Questa sozza belletta, e confortate D’olio le membra, che da lunghi giorni 280 Ne van digiune. Fin che voi restate [102] Non io mi laverò, perché non lice Che un uom si spogli dove son fanciulle. A quel dir cinguettando le fantesche S’allontanâro. I larghi omeri intanto 285 E il petto si lavò nella corrente Il travagliato Ulisse, e dalla testa L’acre limo si tolse: e poscia il corpo S’unse con l’olio, e s’indossò le vesti Che la vergine figlia d’Alcinòo 290 Gli avea donate. Gli occhi più vivaci Gli fe’ la glauca Diva, e più rotonde Le membra ed alta la persona, e come Il fiore del giacinto, in su le spalle Inanellato gli diffuse il crine. 295 E in quella guisa che sagace fabbro, A cui Pallade appresa e il buon Vulcano Abbian l’arte de’ bronzi animatrice, A render più leggiadro un suo lavoro Il liquid’oro versa su l’argento; 300 Così sul capo e gli omeri d’Ulisse La grazia sparse e la beltà Minerva: Ed egli, la corrente abbandonata, A sedersi n’andò sul vicin lido. Attonita lo guarda allor Nausica, 305 E a sé chiamando le fantesche, Udite, Udite, esclama. Non è ver che in ira Agl’Immortali sia costui venuto Alle rive beate della Scheria. Egli, che a me poc’anzi un uom da nulla, 310 Un mendico parea, ve’ come ai Numi Abitatori dell’eccelso Olimpo Ora somiglia! Oh se pigliarmi a sposa Egli volesse e qui restar per sempre! Ma via, donzelle, gli recate il cibo 315 E il dolce vino. - Il dolce vino e il cibo Gli recâr le donzelle, a quel comando; Ed egli, che, stremato era dal lungo Digiuno, a bere e a manicar si diede [103] Avidamente. Intanto la fanciulla 320 Dalle candide braccia le piegate Vesti depone su la tersa biga, I robusti cornipedi v’attacca, E su vi balza. Quindi la parola Ad Ulisse volgendo, Ospite, dice, 325 Sorgi, se alla città vuoi ch’io ti guidi E all’albergo del padre, ove adunato Tutto il fiore vedrai di nostre genti. Ma poiché ti conosco un uom discreto, Odi un consiglio. Fin che tra le macchie 330 E tra i campi n’andremo, a presti passi Tu seguirai con le donzelle il carro. Ma giunti in vista alla città, fia d’uopo Di separarci. La circonda un’alta Muraglia, e bello e di securo ingresso 335 Vi s’apre un porto all’uno e all’altro lato, Ove stanche riparano per doppio Cammin le navi, ed ogni nave ha stallo. Fra i due porti si stende un ampio fòro, Lastricato di pietre, che vicina 340 Cava fornisce, e sorge al fòro in mezzo Un gran tempio a Nettuno. Ivi gli attrezzi De’ negri legni, gli alberi, le vele, Le sartie, i remi preparar son usi I Feacesi, a cui né di faretre 345 Cale, né d’archi, ma di salde navi, Onde solcano allegri il mare ondoso. Or io la lingua temo di costoro; Ché morder mi potrìa qualcun da tergo, O più villano farmisi dinanzi 350 Gridando: Chi sarà quel grande e bello Stranier, che segue il carro di Nausica? Ove mai lo trovò? Certo costui Suo marito sarà. Forse è un ramingo, Un forestiero, che smarrì la nave, 355 E ch’ella a casa si conduce; o forse Un qualche Dio, che vinto da’ suoi preghi [104] Dal ciel discese, e ch’ella mai dal fianco Staccarsi non vorrà. Ben si conviene Che vada in traccia di mariti altrove 360 Costei, che tiensi a vile i più prestanti De’ Feacesi che l’han chiesta al padre! Così talun direbbe, ed io vergogna N’avrei; ché degna credo anch’io di biasmo Ogni fanciulla, che d’un uom l’amplesso 365 Non tema sostener prima che spunti Il giorno delle nozze. Ascolta or dunque Questi detti, o stranier, se vuoi che il padre Ti rimandi a’ tuoi lidi. Un picciol bosco Noi troverem di pioppi in sul cammino, 370 Sacro a Minerva, e presso al bosco un prato Che bagna co’ suoi rivi argentea fonte. Ivi sono i poderi, ivi i fioriti Orti del padre mio, così vicini Alla città, che udir ne puoi le grida. 375 Tu là t’arresta; e quando noi varcate N’avrem le mura, e crederai che giunte Saremo a casa, entra in città tu pure, E dell’albergo d’Alcinòo domanda, Vasto e bello su tutti, e che un fanciullo 380 Indicar ti potrebbe. E poi ch’entrato Sarai per l’atrio nella corte, in traccia Va’ di mia madre. Al focolar seduta, E col tergo appoggiato ad un marmoreo Stipite, la vedrai con le donzelle 385 A torcer lane intenta; e su dorata Scranna seduto a lei di fronte il padre Vedrai, pari ad un Dio, col nappo in mano. Tu non volgerti a lui; ma passa innanzi Celeremente, e stendi alla diletta 390 Madre le braccia, se tornar ti preme Al tuo lido natìo, benché lontano. Ove tu sappia con le preci il core Intenerirle, presto le tue belle Case e gli amici riveder potrai. 395 [105] Sì dicendo, sferzò le groppe ai muli, Che veloci, spiccandosi dal fiume, Traean con lunghi alterni passi il carro; Ma per l’aria scoppiar facendo ad arte Il flagello Nausica, ora col freno, 400 Or con la voce ne governa il corso, Sì che a piedi seguir possano il carro Ulisse e le donzelle. Era al tramonto Omai vicino il Sole, allor che al bosco Giunsero di Minerva. Ivi ei ristette, 405 E alla vergine Diva orando disse: Invitta figlia dell’Egioco Giove, Se la mia voce indarno a te levai Quando in mar con avverse onde Nettuno Mi venia balestrando, odimi adesso: 410 Fa’ che a questi Feaci io grato arrivi, E li mova a pietà. - La sua preghiera Udì Minerva; ma si tenne ascosa Per timor di Nettuno, che nell’ira Durò contro l’eroe sin ch’ei non ebbe 415 Alfin raggiunta la natal sua terra. [106] LIBRO SETTIMO SOMMARIO Ulisse, istrutto da Minerva, entra nella città de’ Feaci. - Descrizione della reggia e dei famosi orti di Alcinoo. - Ulisse compare d’improvviso innanzi al re e ai principi della Scheria, e si prostra supplicando alle ginocchia della regina Arete. - Tutti l’accolgono umanamente, e promettono d’inviarlo senza indugio alla sua terra nativa. - Arete riconosce le vesti che Ulisse aveva indosso. - Egli narra in qual modo capitasse all’isola de’ Feaci. Mentre così pregava il saggio Ulisse, Verso l’alta città seguìa Nausica Il suo cammino con le fanti. Al tetto Giunta del padre, si fermò nell’atrio; E con festa le furono dintorno 5 I suoi fratelli, e chi le stacca i muli E chi dentro sollecito le reca I bianchi lini. Alla sua stanza intanto La vergine salìa, dove un bel fuoco Le raccendea la vecchia Eurimedusa, 10 Sua fida ancella, che i Feaci un tempo Avean condotta dall’Epiro, e in dono Offerta ad Alcinòo, re della Scheria, Dalle genti onorato al par d’un Nume Fu nudrice la vecchia di Nausica; 15 Ed or, mentre la cena altri allestisce, Essa raccende alla donzella il fuoco. In questa il piede alla città rivolge [107] Il Laerziade Ulisse; e d’una densa Nube il circonda Pallade Minerva, 20 Perché, se alcun l’incontri de’ Feaci, Non lo molesti con domande, e chiegga Donde venga, e chi sia. Poi su l’entrata Della città comparve a lui dinanzi La stessa Diva, in forma di fanciulla 25 Che porta un’urna su la testa; ed egli, O figliuola, dicea, vuoi tu condurmi Al palagio del re? Sono straniero E, giunto appena da lontan paese Dopo lungo soffrir, nessuno ancora 30 Io qui conosco. - Rispondea la Diva Dalle azzurre pupille: Ospite amico, Agevolmente la magion che chiedi Insegnar ti potrò, perché vicino Al nostro re dimora il mio buon padre. 35 Ma tu segui in silenzio i passi miei, E non guardar, né interrogar nessuno; Ché gli ospiti non tiene in molto onore Il popolo feace, né la destra Amica stende a chi da lunge arriva. 40 Le nostre genti, care al gran Nettuno, I neri flutti valicar son use Su prore come l’aquila veloci, Come il pensiero. - In questo dir, Minerva S’incammina, e la segue il divo Ulisse. 45 Ma nessun de’ Feaci lo ravvisa Mentre le vie, di popolo affollate, Egli attraversa; perocché la Diva, Che sempre veglia su l’eroe, diffusa Aveagli intorno una cerulea nube. 50 Il porto intanto e le schierate navi Contempla Ulisse, e il fòro e le sublimi Vaste muraglie, di profonde fosse Circondate, mirabili a vedersi. Poiché giunsero innanzi al regio ostello, 55 Ospite padre, tolse a dir Minerva, [108] Ecco la casa che tu cerchi. A mensa Ivi seduti i principi vedrai Di Giove alunni; tu però t’inoltra Senza timore, perché in tutte cose 60 Sempre agli audaci è la fortuna amica. Vi troverai co’ prenci la regina, Che Arete ha nome, e che comune il sangue Vanta col divo Alcinoo. Il gran Nettuno Scuotitor della terra primamente 65 Nausitoo generò da Peribea, Bellissima fanciulla, e minor figlia D’Eurimedonte, che tenea lo scettro Su gli alteri giganti, iniqua razza, Che tutta alfin s’estinse in empie guerre 70 Con lo stesso suo re. Di lei Nettuno Innamorato, ebbe Nausitoo, il primo Reggitor della Scheria; e da Nausitoo Rassènore poi nacque e il grande Alcinoo. Ma, celebrate le sue nozze appena, 75 Il saettante figlio di Latona Rassènore colpì, che nel suo letto Unico germe e del suo trono erede Lasciava Arete. Fatta adulta, in moglie Alcinoo la tolse, e d’un amore 80 Sì fervido l’amò, che non v’ha donna Più d’Arete felice. Al par d’Alcinoo L’hanno in pregio ed onore i figli suoi; E se talor si mostra per le vie Della città, la gente se le inchina 85 Come a Diva, e l’applaude e la festeggia. Né certo a lei bontà manca né senno, E larga è di soccorso e di consiglio A chi del suo favor più degno estimi. Se meritarti ne saprai la grazia, 90 I congiunti, gli amici, e la tua bella Casa fra poco riveder confida. In ciò dir, la Glaucopide divina Lasciò di Scheria le ridenti spiaggie, [109] E il pelago varcando e sorvolando 95 Di Maratona le pianure, all’alma Atene giunse dalle vaste piazze; Ed ivi d’Eretteo la ròcca ascese. Ma l’albergo a mirar del grande Alcinoo S’arresta Ulisse, perché al par del Sole 100 O di candida Luna esso risplende. Eran tutte di bronzo a destra e a manca Le pareti dell’atrio, e una cornice Le coronava di color cilestro; E l’albergo chiudea dorata porta, 105 Che d’argento gli stipiti, confitti Nella soglia di bronzo, e l’epistilio Pure d’argento, e d’oro avea l’anello. Stavano quinci e quindi in su la porta Quattro grossi mastini, altri d’argento 110 Ed altri d’oro, che Vulcano, il sommo Fabbro, avea con miranda arte condotti Della magione a custodir l’ingresso, A morte non soggetti, né a vecchiezza. Avea l’albergo un’ampia e maestosa 115 Sala con alti troni in doppia fila Alle muraglie affissi; e prezïose Porpore li coprìan, ch’eran lavoro Di femmine feaci. In su que’ troni Ogni dì fra le tazze inghirlandate 120 Sedeano i prenci, che il possente Alcinoo Invitava a banchetto; e tutte d’oro, Su piedestalli di gentil fattura, Stavano belle forme di garzoni, Che con fiaccole ardenti nella destra 125 Un novo giorno vi schiudean di notte Ai convitati. Ben cinquanta ancelle Son nella reggia ad opre varie intente: Altre sotto le mole il biondo seme Frangono delle spiche, altro dai lini 130 Spremono il liquid’olio, altre le tele Tessono, ed altre con la man veloce [110] Girano il fuso, tremolo qual fronda D’aereo pioppo. Come i Feacesi Esperti sono in governar le navi, 135 Così le donne della Scheria esperte Son ne’ lavori delle tele, avendo L’arte da Palla e la destrezza apprese. Un bell’orto s’aprìa dietro la sala, Quattro jugeri largo, e circondato 140 Da folta siepe. Quivi rigogliosi Crescon gli alberi e grandi: il melograno, Il pero, il fico, il verdeggiante ulivo, E di vermiglie poma carco il melo; Ed abbondano i frutti in ogni pianta, 145 Né mai l’estate mancano né il verno, Perché vi spira un zeffiro perenne Che spuntar l’uno e maturar fa l’altro. E alle pera le pera, ed alle mela Succedono le mela, e l’uva all’uva 150 E il fico al fico. Sorge una feconda E spazïosa vigna in loco aperto E soleggiato; e mentre si vendemmia E si pigia qui l’uva, è tuttavia Altrove acerba, od a fiorir comincia 155 La vite appena. Presso a questa vigna Ben disegnate stendonsi le aiuole Di sempre freschi e varïati erbaggi. Avea quell’orto ancor duo chiare fonti: Nel mezzo l’una che il terren v’inaffia, 160 L’altra che sgorga accanto al regio albergo, E v’attingono l’aque i cittadini. Era questo lo splendido soggiorno Che ad Alcinoo concesso avean gli Dei. Ulisse, poi che d’ammirar fu sazio, 165 Varcò ratto la soglia, e nella sala Penetrò, dove i prenci e i consiglieri Della Scheria facean le libagioni All’Argicida, come avean costume, Pria di corcarsi. Per la vasta sala 170 [111] S’inoltrò l’itacense, entro la nube Ove nascosto Pallade l’avea, Finché al grande Alcinoo giunse e ad Arete. Ei si chinò, stringendo alla regina Con le palme i ginocchi; e in un baleno 175 Si dileguò la nube, e Ulisse apparve. Tutti al vederlo ammutolîr gli astanti Maravigliati, ed ei così pregava: O del divin Rassènore figliuola, O saggia Arete, vedi un infelice 180 Che a te si prostra supplicando e al prode Tuo sposo e a questi della Scheria egregi Principi e condottieri. Ah vi consenta Esser felici il sommo Giove! ah possa Ai cari figli tramandar ciascuno 185 Le ricchezze domestiche e gli onori Dal popolo concessi! e me pietosi Invïate a’ miei lidi, onde lontano Io traggo da gran tempo i giorni in pianto. Così dicendo, al focolar s’asside 190 Su la cenere Ulisse, e i Feacesi Lo guardano in silenzio. Alfin le labbra Schiude il vecchio Echeneo, che nelle antiche Memorie istrutto, di facondia avanza Gli altri e di senno, e così parla: Alcinoo, 195 Né cosa onesta, né gentil mi sembra Lo straniero lasciar sovra l’immonda Cenere assiso; e qui ciascuno aspetta Per levarlo di là che tu l’accenni. Ma via, tu stesso all’ospite la destra 200 Porgi, e a seder lo invita in una scranna D’argentee borchie adorna. I dolci vini Mescano intanto i banditori; e a Giove, Che i venerandi supplici protegge, Noi beveremo, mentre di serbate 205 Scelte vivande a lui la cena appresta La dispensiera. - Sorse a questi detti Alcinoo, e, preso per la mano Ulisse, [112] Dalla cenere il trasse, ed al suo fianco Seder lo fece su lucente scranna, 210 Che prima ad un suo cenno avea lasciata Il più diletto de’ suoi figli, il forte Polidamante. Tosto una donzella Da brocca d’oro su bacil d’argento Versò l’aqua ad Ulisse, e poscia un terso 215 Desco innanzi gli mise, che di pani E di vivande caricò l’accorta Dispensiera. Si volse allor l’illustre Re della Scheria al fido araldo, e disse: Empi l’urna, o Protonoo, e a quanti sono 220 In questa sala colma in giro i nappi, Perché si beva al fulminante Giove, Propizio sempre a chi devoto il prega. Sì disse; e l’urna empì Protonoo, e a tutti Versava propinando il vino in giro. 225 Ma poi ch’ebbe ciascuno a suo talento E libato e bevuto, il divo Alcinoo Così tra loro a favellar riprese: Principi e capi della Scheria, udite. Poiché tarda è la notte, ai vostri alberghi 230 Ite a corcarvi. Ma domani all’Alba Voi quanti siete più d’età maturi Qui ritornate; perché, offerto ai Numi Un sacrifizio, e gli ospitali onori Resi al degno stranier, gli sia la scorta 235 Apparecchiata, che veloce al caro Paterno lido, senza rischio o noia, Il riconduca: s’abbia ivi la sorte Che dall’alvo materno a lui filata Avrà la Parca. E questo ov’ei non fosse 240 Dell’Olimpo un felice abitatore, Fra noi sceso a compir qualche disegno Nel pensier degli Eterni maturato. Raro non è che scendano ai solenni Nostri conviti e ai sacrifici i Numi; 245 Né si tengano ascosi al pellegrino [113] Che gl’incontra per via, perché non meno Che quella de’ Giganti e de’ Ciclopi La stirpe nostra dagli Dei deriva. Ma lo scaltro Itacense a lui dicea: 250 No, t’inganni, Alcinòo: né di favella, Né d’aspetto io somiglio ai glorïosi Cittadini del cielo. Un uom son io infelice tra quanti su la terra Abbian vissuto; ed anzi assai sciagure 255 Io narrar ti potrei, che tollerate Ho per espressa volontà de’ Numi. Ma concedete che all’apposta cena, Benché afflitto così, la mano io stenda, Ché non v’ha cosa più molesta e dura 260 D’un ventre vuoto, ch’anco negli affanni A sentir ne costringe i suoi latrati; Ed or me pure, in tanto mio travaglio, A bere e manicar costringe, e tutte Oblïar le mie pene e dargli pasto. 265 Voi doman, come appaia il primo albore, Fate un legno apprestar, che mi conduca, Sebbene ancor mal fermo, al mio paese: Io contento morrò quando i miei lidi, La mia casa, i miei cari avrò veduto. 270 Tutti al sagace favellar d’Ulisse Fean plauso i prenci, e prometteano a gara D’appagarne le brame; indi, compiuti I libamenti, a riposar ciascuno Al suo tetto n’andò. Ma vi rimase 275 Il saggio Ulisse, e gli sedea vicino Con la sposa Alcinoo. Mentre le fanti Sparecchiavano il desco, a lui guardando, S’accôrse Arete che un mantel portava Ed una veste, ch’ella stessa avea 280 Con le ancelle da poco lavorati, E così disse: Forestier, chi sei? Donde venisti? e chi ti diede i panni Che porti indosso? e non se’ tu qui giunto [114] Naufrago, errante? - Ed egli: Arduo, regina, 285 Mi fia narrar la storia degli affanni Che per volere degli Dei soffersi. Pure a ciò che mi chiedi io di buon grado Risponderò. Giace solinga in mare L’isola Ogigia, ove Calipso alberga, 290 Figlia d’Atlante, la leggiadra, altera, Ingannatrice Diva, a cui nessuno De’ mortali s’accosta e degli Eterni. Me solo sventurato avverso nembo A’ suoi lidi spingea, poi che il Saturnio 295 M’ebbe la nave fulminata, e tutti Sepolti nelle oscure onde i compagni. Ad un frusto del legno avviticchiato, Io vagai nove giorni; e nel seguente, A notte buia, la remota sponda 300 Dell’Ogigia afferrai. Quivi m’accolse Calipso umanamente, e quivi seco A lungo mi trattenne, e mi promise Vita immortale, da vecchiezza immune; Ma non per questo mi sedusse il core. 305 Io ben sett’anni con la Dea rimasi, Senza posa di lagrime rigando Le belle vesti ch’ella mi fornìa; Ma nell’ottavo, o fosse del supremo Giove un comando, o varïar d’affetti, 310 Subitamente di partir m’ingiunse. Poiché d’un manto mi coprì, che avea Di sua mano tessuto, ella una zatta Salir mi fece, dove pani in copia Depose e vini; e quindi una gioconda 315 Brezza levando, e dandomi dal lido Mesto un saluto, all’onde mi commise. Io dieci e sette giorni il mar fendea Prosperamente, quando alfin da lunge M’apparvero di questa amena terra 320 I colli ombrosi. Un fremito di gioia Mi colse a quella vista; ma non era [115] Colma ancor la misura delle angosce, Che preparando mi venìa Nettuno Scuotitor della terra. Un’improvvisa 325 Bufera suscitò, sconvolse il mare, Né all’onde consentì che più sul dorso Portassero la zatta, ov’io frequenti Gemiti alzava; ed indi a poco un fiero Turbine la disciolse. Allor nuotando 330 Mi tenni a galla, fin che al vostro lido Mi sospinsero i venti e i neri flutti; Ed ivi contro le sporgenti pietre M’avrìan essi gittato e l’ossa infrante; Ma, resistendo, io volsi altrove il nuoto, 335 E d’un fiume così giunsi alla foce Riparata dai venti e senza scogli, Ove, le forze raccogliendo, entrai. Era già notte; ed io, dall’aque uscito, Mi corcai fra gli arbusti, in mezzo a dense 340 Aride foglie; ed un profondo sonno M’infuse un Nume, sì che in quelle foglie, Benché afflitto, dormii tutta la notte, Tutto il mattin, fino al meriggio. Ed anzi All’occidente già chinava il Sole, 345 Quando dal sonno mi riscossi, e vidi Su la riva del fiume trastullarsi Le ancelle di tua figlia, e lei con esse Che una Diva parea. Tosto mi feci A supplicarla; e con parlar soave, 350 E sì gentili modi ella m’accolse, Che, in quella etade a folleggiar sol usa, Credea vano sperar: con cibi e vino Ristorò le mie forze, alla corrente Lavar mi fece, e questo manto e questa 355 Tunica mi donò. Tale, o regina, È de’ miei casi la verace istoria. E il divo Alcinoo: Teco in ver cortese La mia figlia non fu, che al nostro albergo Non ti condusse con le sue donzelle, 360 [116] Mentre a lei per la prima supplicando Chiedevi ospizio. - Non volerne, o sire, La fanciulla incolpar, ché di seguirla Ella ben m’invitò (pronto rispose L’accorto eroe); ma ricusai per tema 365 Che al fianco suo vedendomi, tu seco Non ti sdegnassi; perocché ben sai Come al sospetto l’uom sovente inchini. E il re di novo: Usanza mia fu sempre L’opre oneste apprezzar, né per sì lieve 370 Cagion m’adiro. Al sommo Egioco Giove E a Minerva piacesse e al santo Apollo Che, quale io pur li scorgo, un mio pensiero Assecondando, prenderti volessi Mia figlia a sposa, e suocero chiamarmi, 375 E restar nella Scheria, ove poderi E casa io ti darei. Ma qui nessuno Potrebbe a forza trattenerti, il giuro; Anzi, se tale è la tua brama, io stesso La tua partenza affretterò. Tranquillo 380 Dormi tu dunque; ché i nocchier feaci Non pure a’ lidi tuoi, ma, se t’aggrada, Oltre l’Eubea ti scorteran, che sorge Lontanissima in mar; come si narra Dalle mie genti, che la vider quando 385 Vi condussero il biondo Radamanto A Tizio figlio della Terra. E quivi Condurlo, a noi tornarlo, e tanto spazio Varcar di mare in un sol dì, fu lieve Ai Feacesi. Vedi or tu se lesti 390 Sono i miei legni e i miei nocchieri esperti. Esultò di letizia a questi accenti Il magnanimo Ulisse; e, al ciel converso, Giove Padre, proruppe, ah fa’ che voglia Mantenermi Alcinoo la sua promessa! 395 A lui gran lode ne verrebbe, e il caro Paterno tetto io riveder potrei. Mentre così venìa col grande Alcinoo [117] Favellando l’eroe, la saggia Arete Alle fantesche d’approntar commise 400 Sotto il portico un letto, e dense pelli Stendervi sopra e morbidi tappeti E porporine coltri; ed esse uscîro Con una face in mano, e poi che l’opra Ebber compiuta, al figlio di Laerte 405 Si presentâr dicendo: Ospite, vieni, Se vuoi corcarti, che il tuo letto è pronto. E il pazïente Ulisse, a cui premea Le ciglia il sonno, sul tornito letto S’adagiava nel portico sonante. 410 Nella sua stanza anch’egli il divo Alcinoo A dormir ritirossi; e a lui da canto La cara sposa si corcò, sul letto Ch’ella apprestato di sua man gli avea. [118] LIBRO OTTAVO SOMMARIO Feaci, adunati a consiglio, risolvono d’inviare Ulisse alla sua patria. - Solenne convito, nel quale il cantore Demodoco narra una contesa avvenuta fra Achille ed Ulisse; e questi nell’udirlo non può frenare le lagrime. - Giuochi pubblici, ove Ulisse dà prova del suo valore al disco, e Demodoco canta Venere e Marte, presi alla rete da Vulcano. - Doni fatti ad Ulisse. - In un secondo convito, lo stesso cantore ricorda il cavallo di legno e la caduta di Troia, e di nuovo all’eroe scorrono le lagrime dagli occhi. - Alcinoo allora lo eccita a manifestarsi, e raccontare le proprie avventure. Come la figlia del mattin comparve Il cielo aprendo con le rosee dita, Dal letto si levò la sacra possa Del grande Alcinoo, e si levò l’illustre Espugnatore di cittadi Ulisse. 5 Il signor della Scheria innanzi a tutti S’incamminò co’ principi feaci Al parlamento, dove ognun su bianchi Tersi marmi sedea. Pallade intanto Ad affrettar d’Ulisse la partenza, 10 Presa la forma di regale araldo, Correa le vie della città, gridando: Orsù, principi e capi de’ Feaci, Al fòro, al fòro, se ascoltar bramate L’ospite or giunto da lontani mari 15 Alla casa d’Alcinoo, e che nel volto [119] Rassomiglia ai Celesti. - In ogni petto Così la voglia di vederlo accese. Né molto andò che delle accorse genti Eran pieni i sedili e pieno il fòro, 20 Non pochi avendo il generoso figlio Di Laerte veduto, a cui Minerva Avea gli omeri e il capo circonfuso D’una grazia novella, e più robuste Rese le membra, ed alta la persona; 25 Sì che bello apparisse e maestoso, E uscir potesse vincitor dai ludi A cui l’avrebbe il popolo chiamato. Ma poiché vide l’assemblea raccolta, In piè levossi Alcinoo, e così disse: 30 Principi e duci feacesi, udite. Quest’ospite, che ancora io non conosco, Né so s’ei venga donde nasce il Sole O donde muore, da noi chiede un legno Che altrove il porti. Come è nostra usanza, 35 Noi farem pago in breve il suo desìo. Mai non giunse al mio tetto uno straniero, Che vi restasse a lungo, sospirando L’ora del suo partir. Su via, scegliete Fra il popolo cinquanta e due nocchieri, 40 Giovani esperti che, varato un legno Ed approntati i remi, al nostro albergo Andran la mensa ad allestir, ch’io voglio Oggi ad essi imbandita. E voi di Scheria Incliti prenci, il novo ospite meco 45 Ad onorar venite; e il banditore Demodoco mi chiami, il gentil vate Che dolce canta quando un Dio l’inspira. Così dicendo, volse Alcinoo i passi Alle sue case, e schiera lo seguìa 50 Di re scettrati. All’immortal poeta Corse l’araldo; e i giovani nocchieri, La nave in mar sospinta, albero e vele Vi rizzarono in fretta, e i remi ai banchi [120] Acconciamente assicurâr con funi; 55 Indi le vele sciolsero, e su l’onde Fermâr la nave. Del possente Alcinoo N’andâr poscia all’albergo, ove cortili, Sale, portici, ingombri eran di gente D’ogni età, d’ogni grado. Otto maiali 60 Dalle candide zanne avea per essi Già sgozzati Alcinoò, con due giovenchi E dodici montoni; e li scuoiâro, Li sventrâro i nocchieri, ed arrostiti Ne rallegrâr le mense. Il banditore 65 Comparve in quella, a man guidando il vate, Cui sovra tutti amato avea la Musa, Che, al male il ben mescendo, gli togliea Degli occhi il lume, e gli donava il canto. Nel mezzo della sala, innanzi a lunga 70 Colonna, gli ponea l’araldo un seggio D’argentee borchie adorno, e alla caviglia Gli sospendea da tergo il plettro arguto, E gl’insegnava a stendervi la mano. Un terso desco poi gli mise a canto, 75 E sul desco un paniere e un colmo nappo, Perché bever potesse a suo talento. Allestite le mense, i convitati A banchettar si diêro. E come sazio Fu ciascuno di cibo e di bevande, 80 Suscitava la Musa il buon poeta A celebrar la gloria degli eroi Con un carme divino, onde la fama Ratto agli astri salìa. Cantò d’Ulisse E del figliuolo di Peleo la lite, 85 Quando l’un l’altro si ferîr con aspri Detti al convito degli Dei. Gioìa Il re de’ prodi Agamennón, vedendo A contesa venuti i più gagliardi Dell’oste achiva: perché Apollo, il giorno 90 Ch’egli varcò la soglia del suo tempio Per consultarlo in Delfo, avea predetto, [121] Vaticinando, che una tal contesa Segnerebbe di Troia la rovina. Egli così cantava; e raccogliendo 95 Il roseo manto con la destra, Ulisse Sul capo se lo trasse, e si coperse La bella fronte, onde ai Feaci il largo Pianto occultar, che gli scendea dagli occhi. Ma quando il vate al suo cantar diè tregua, 100 Asciugate le lagrime, si tolse Dal capo il manto il figlio di Laerte E ai Celesti libò. Poi come il vate, Al pregar degli astanti, la divina Canzon riprese, su la testa Ulisse 105 Di novo il manto si traea piangendo. In tal guisa celar poté l’eroe Il suo pianto ai Feaci. Alcinoo solo, Sedendogli vicino, se n’accorse, Ché gravemente sospirar l’udìa; 110 Onde ai prenci rivolto e ai condottieri, Così lor disse: Già conforto al core Abbiam dato col cibo, e con la cetra Allegratrice de’ banchetti. Al fòro N’andiamo or dunque a far l’usate prove 115 Della palestra, perché, a’ suoi tornato, Narri l’ospite quanto i Feacesi Tutti avanzino al disco, al salto, al corso Ed alla lotta. - Ei tacque; e, precedendo I convitati, al fòro incamminossi. 120 Allor sospende la sonora cetra Alla caviglia il banditore, e preso Demodoco per mano, il conducea Fuor della reggia, su la via che i capi De’ Feacesi avean battuto, andando 125 Alla palestra. Così questi al fòro Affrettavano i passi, e di festante Popolo v’accorrea turba infinita. Molta e gagliarda gioventù levossi Per cimentarsi in quelle gare: Ponto, 130 [122] Nauto, Anabesineo, con Elatreo, Con Ocialo e Primneo ed Acroneo Ed Eritmeo. Levossi Anchialo e Prono E Toone ed Anfïalo, che prole Era del Tectonide Polineo, 135 Ed Eurialo sembiante al Dio dell’armi, E il forte Naubolide, il più pregiato Di forme e di beltà, dopo l’egregio Laodamante. Alla palestra alfine Si presentâr d’Alcinoo tre figli, 140 Alio, Polidamante e Clitoneo. Davan principio con la corsa ai giochi I tre garzoni. Abbandonâr le mosse Tutti ad un tempo, e si lanciâr nel campo, Un vortice di polve sollevando. 145 Ma di gran tratto i due fratelli in breve Avanzò Clitoneo; ché quanto addietro Lascian due preste mule i lenti buoi, Se lo stesso noval fendono insieme, Ei tanto addietro li lasciò giungendo 150 Fra gli applausi alla mèta. Altri alla prova Scesero della lotta, e vincitore Eurïalo n’uscì. Tutti Elatreo Passava al disco; Anfïalo la palma Ottenne al salto; e al cesto il valoroso 155 Laodamante, che al finir de’ giochi Ai compagni drizzò queste parole: Or via, si chiegga all’ospite de’ nostri Giochi se alcuno in gioventù n’apprese. Egli è di buona taglia: ha cosce e gambe 160 Ed un paio di mani assai massicce, E quadrate le spalle, e vigoroso Il crederebbe nel mirarlo ognuno; Ma l’hanno i patimenti affievolito, Perché cosa non v’ha del negro mare 165 Più possente a fiaccar nell’uom la lena. Allor soggiunse Eurïalo: Ben dici, Laodamante; allo stranier t’accosta, [123] E tu stesso a giostrar con noi lo invita. A questi accenti il buon figliuol d’Alcinoo 170 Si presenta all’eroe, così dicendo: Ospite padre, orsù, tu pure in questi Giochi ti prova, se qualcun ne sai, Come il dovresti; ché il maggior de’ vanti È il trïonfar co’ piedi e con le mani. 175 Qua vieni, adunque, e bando alla tristezza: Già i nocchieri son pronti e pronto il legno, E già del tuo partir vicina è l’ora. E perché mai, rispose il cauto Ulisse, Laodamante, un sì noioso incarco 180 Addossar mi volete! I miei travagli Ben più che i vostri giochi in cor mi stanno; Ché molto affaticai, molto soffersi, Ed or seggo fra voi come un mendico, Il re pregando che a partir m’aiuti. 185 Ei tacque; e così tosto Eurialo il punse: Ospite, affè che tu non rassomigli Ad uom di rischi vago e di cimenti. A condottier di mercantesca nave Tu rassomigli, solo al carco intento, 190 Intento a far di vettovaglie acquisto, E a spartir con la ciurma il mal guadagno; Ma certo d’un Alcide il cor non hai. Tu superbo parlasti e discortese, Torvo le luci in lui fissando il figlio 195 Di Laerte sclamò. Non tutto a tutti Giove concede, l’eloquenza, il senno E la beltade. Ma talor col dono Dell’eloquenza l’uom d’informe aspetto Ingentilisce; sì che quando ei parla 200 Con modesto linguaggio, si guadagna Il favor de’ consessi, e ciascheduno Si compiace guardarlo; e se passeggia Per la città, l’onorano le genti Come un Celeste. Un altro è di miranda 205 Beltà fornito, ma di grazia è priva [124] La sua favella. A te così fu dato Esser leggiadro, come se t’avesse Formato un Nume; ma ti manca il senno, E con le sconce tue parole il core 210 M’hai lacerato. Novo, io no, non sono, Come tu cianci, a questi ludi; ed anzi, Io non l’ascondo, fui de’ primi sempre Finché il vigore giovanil mi resse. Or m’opprimono il duolo e la tristezza, 215 Perché solcando i mari, e combattendo Al fianco degli eroi, molto soffersi. E nondimeno anche spossato e gramo Vo’ ne’ giuochi provarmi: il tuo procace Parlar mi punse, né frenarmi io posso. 220 Disse; e, com’era, nel mantello avvolto, Fuor con impeto uscendo in mezzo al circo, Prende un disco, il più grosso e più pesante Di tutti i dischi dai Feaci usati: Con la nervosa mano indi rotollo, 225 E l’avventò. Fischia per l’aria il sasso, E gli stessi nocchieri ai nembi avvezzi, Impauriti, abbassano la testa; E quel volando tutti agevolmente Trapassa i dischi già lanciati. Il segno 230 Vi pon Minerva, in uom mutata, e grida: Ospite padre, un cieco ancor potrìa Discerner brancolando la tua pietra, Sì dall’altre è disgiunta, e sì le avanza. Su via, t’allegra, ché de’ tuoi rivali 235 Non sarà chi ti passi o chi t’arrivi. Rasserenossi il figlio di Laerte A cotal voce, di trovar contento In quel circo un amico; e ai Feacesi Con più baldanza si volgea, dicendo: 240 Voi questo disco raggiungete, amici; Fra poco un altro, e forse più lontano, Io scagliar ne saprò. Se il cor vi basta. Su via, meco venite a misurarvi [125] Al cesto ed alla lotta; e, se vi piace, 245 Anche alla corsa. Voi m’avete i primi, O Feacesi, provocato, e tutti, Sì tutti qui v’attendo, eccetto il solo Laodamante; ché pugnar non lice Con chi n’accoglie in propria casa. Un folle, 250 E del suo meglio non curante, è quegli Che in paese stranier l’ospite suo Sfidar non teme, Ma degli altri alcuno Io non escludo: non perché li sprezzi, Sì perché a tutti di provar mi cale 255 Quanto valga pur io. Non ha certame, Gioco non ha, che a me sia sconosciuto. Io maneggiar so l’arco a meraviglia; E primo un uomo colpirei nel mezzo D’una schiera nemica, anco se molti 260 Avessi intorno valorosi arcieri A saettarla intenti. Io non cedea Che a Filottete, quando contro ad Ilio Vuotavansi dai Greci le faretre; Ma qualunque mortal, ch’or su la terra 265 Di pan si nutre, superar mi vanto. Non però cimentarmi avrei voluto Co’ prischi eroi, con l’eucaliese Eurito O con Alcide, che solean nell’arte Di lanciar dardi gareggiar co’ Numi; 270 Onde in sua casa a tarda età non venne Lo smisurato Eurito, e lo trafisse Apollo, irato ch’ei sfidarlo osasse Al paragon dell’arco. Ed anche un’asta Io vibro meglio, che vibrar non sappia 275 Altri uno strale. Solo nella corsa Temo che alcun mi vinca, perché troppo Dall’onde io sono e dal digiuno affranto, Sì che mancar mi sento le ginocchia. Disse; e tutti restâr pensosi e muti 280 I Feacesi. In piedi alfin levossi L’accorto Alcinoo, e gli rispose: Amico, [126] Nessun del franco tuo parlar s’offende. Dalle ingiuste rampogne di costui Corrucciato a ragion, mostrar ti piacque 285 Nella palestra il tuo valore; ond’altri, Che folle, o vano cianciator non sia, Più non t’insulti. Or porgi a ciò ch’io dico Attento orecchio; perché un giorno a mensa In tua casa sedendo, e ricordando 290 I Feacesi, ai figli, al genitore, Alla sposa, agl’illustri convitati Narrar tu possa le gentili usanze Che noi, progenie degli Dei, da lunga Età serbiamo. Al cesto ed alla lotta 295 Prodi non siam; ma il piede abbiam veloce Come l’ala del falco, e più che tutti Destri noi siamo a governar le navi; E i conviti, la musica, le danze Son le nostre delizie, ed il frequente 300 Mutar di vesti, e i tepidi lavacri E le morbide coltri. Orsù, valenti Danzatori feaci, aprite il ballo; E dalla reggia tosto alcun qui rechi Al facondo cantor la cetra arguta. 305 Così, tornato alla sua terra, un giorno L’ospite narrerà, che noi non siamo Solo nell’arte di guidar le navi, Ma nel canto maestri e nella danza. Sorse pronto a quel cenno il banditore, 310 E alla reggia n’andò. Sorsero i nove Giudici eletti ad ordinar le gare; E sgombrato il terreno, un ampio e tondo Spazio vi disegnâr. Giunse l’araldo E, porgendo a Demodoco la cetra, 315 A seder lo condusse in mezzo al circo. Schiera allor di leggiadri giovinetti A lui dintorno conducean diverse Agili danze, e il folgorar de’ piedi Stava Ulisse a guardar maraviglioso. 320 [127] Ma toccando la cetra, il vate intanto Dolcemente a cantar prese gli amori Di Marte con la vaga Citerea: Come la prima volta nella casa Del buon Vulcano si mischiâr furtivi, 325 E come poi, la tresca seguitando, Avessero del Dio contaminato La stanza e il letto. Ma li vide il Sole, Che tutto vede, e la crudel novella Ne riportava al mastro ignipotente, 330 Che senza indugio corse alla fucina, In suo cor meditando aspra vendetta. Ivi sul ceppo collocò l’incude, Ed una rete a fabbricar si mise, Che né spezzar, né scioglier si potea. 335 Compiuta la stupenda opra, ei rivolse Al suo talamo il piede, e intorno al letto Spiegò le tenui maglie; e, come tela Finisssima d’aragna, anco alle travi Le sospese, invisibili allo sguardo 340 Pur de’ Celesti; con sì fina astuzia Eran costrutte! Poiché tesa il Nume Ebbe così la rete, in via si pose, Andar fingendo a Lenno, amena terra, Più ch’altra a lui diletta, ove un superbo 345 Castello avea. Ma ne spïava i passi Marte dall’aureo freno; e come vide L’artefice divino allontanarsi, Alla sua casa rapido calossi, Desideroso di goder la bella 350 Venere il crin di rose incoronata. Era dal suo gran Padre in quell’istante Ritornata la Diva; e su dorato Seggio il fianco posava, allor che Marte, Comparendole innanzi, per la mano 355 La prese, e a nome la chiamò, dicendo: Corchiamci, o cara, sul tuo letto insieme, Ché a Lenno andò Vulcano, ove soggiorno [128] Hanno i Sinzi di barbara favella. Tacque; e piacendo a Citerea l’invito, 360 Entrâr nel letto, e s’abbracciâr. Ma tosto La rete ordita da Vulcan gli avvolse; Sì che più né levarsi, né dar crollo Potean gli amanti, e s’accorgeano in breve Come chiusa al fuggir fosse ogni via. 365 Dal Dio del giorno intanto udito il caso, Gonfio il cor di dolore, a concitati Passi Vulcano ritornò; ma, giunto Alla soglia del talamo, fermossi, E còlto da selvaggia ira un orrendo 370 Grido mandò; poscia, chiamando i Numi Così dicea: Saturnio Padre, e tutti Voi beati del cielo abitatori, Su, venite a mirar questa di scherno Nefanda scena. Perché zoppo io sono, 375 La figliuola di Giove Citerea Mi svergogna, di Marte innamorata, Che bello è di persona, e saldo ha il piede. Se infermo io sono, non è mia la colpa, Ma de’ parenti miei, che tal mi fêro. 380 Deh guardateli, come nel mio letto Giacciono insiem confusi! Ahi cruda vista, Ma de’ lascivi amplessi, in breve, io spero, Trarrò loro il desìo, quantunque amanti, E chiederanno che qualcun li sciolga. 385 Tuttavia non sarà ch’io mai que’ nodi Mi risolva a spezzar, se il genitore Tutti pria non mi rende i nuzïali Doni ch’io feci alla sleal fanciulla, Che bella è, sì, ma svergognata e trista. 390 Disse; e tutti alla sua magion di bronzo Accorsero gli Dei. V’accorse il forte Enosigeo dell’onde correttore, Il dator di ricchezze Ermete accorse, E anch’egli accorse il re dell’arco Apollo; 395 Ma non le Dive, nelle proprie stanze [129] Da pudor trattenute. Su la soglia Del talamo arrivati, in un sonoro Riso scoppiâr, veduto dello scaltro Vulcan la trama, i sempiterni Dei; 400 E al suo vicino alcun dicea: La colpa Tronca l’ali al valore, e il tardo coglie Il veloce talor. Così Vulcano, Benché zoppo, con l’arte il più veloce Colse de’ Numi, che dovrà la multa 405 Pagar dell’adulterio. - Ma volgea Questi accenti a Mercurio il biondo Apollo: Mercurio, figlio, ambasciador di Giove, E di ricchezze dispensier cortese, Ti piacerebbe stretto fra que’ nodi 410 Giacerti all’aurea Venere da canto? E tu lo chiedi, o saettante Apollo? Gli rispose Mercurio. Oh! fosser pure Tre volte tanti e più tenaci i nodi, E venissero tutti e Divi e Dive 415 A contemplarmi, grato ognor mi fôra Giacermi all’aurea Venere da canto. Riser di novo a questo dir gli Eterni; Ma non rise Nettuno, e al divin fabbro Supplicava che Marte liberasse, 420 Deh! lo sciogli, dicendo, io ti prometto Innanzi ai Numi, che una giusta ammenda Ei ti darà. - Ma rispondea Vulcano, L’astuto fabbro: O grande Enosigeo, Io questo non farò. Tali promesse 425 Poco fruttano ai deboli: se sciolto Dai nodi, Marte di pagar ricusa, Come potrei chiederne a te ragione? E a lui di novo il domator dell’onde: Da me, se Marte lo ricusa, avrai 430 Il dovuto compenso. - Omai, Nettuno, Allor riprese lo scaltrito fabbro, Contrastar più non posso al tuo desìo. E, così detto, i saldi lacci infranse. [130] Liberi dalla rete, i due prigioni 435 Fuor balzano dal letto; e spiega Marte Verso la Tracia il volo, e verso Cipro La bella Citerea del riso amica, Che scende a Pafo, dove a lei verdeggia Un bosco, e fuma un odoroso altare. 440 Ivi la Dea lavâr le Grazie, e tutta L’unsero d’un’essenza incorruttibile, Dai Numi usata a rinfrescar le membra, E vesti le indossâr lucenti e vaghe. Sì canta il vate; e nell’udirlo Ulisse 445 E gl’illustri nocchieri feacesi Sentiansi tocco di dolcezza il core. Volle in questa Alcinòo ch’Alio e il divino Laodamante dessero da soli Alla danza principio, in questo gioco 450 Nessun con essi a gareggiar sorgendo. Ma prima Alio si tolse una vermiglia Palla, dal chiaro Polibo costrutta, Ed incurvando il tergo, al ciel la sbalza Verso il compagno; e questi ratto un salto 455 Spicca, e la coglie a volo agevolmente, E la rimanda, in aria ancor sospeso. Finito il gioco della palla, entrambi Aprìan la danza in mezzo al circo, e il suolo Venìan battendo con alterni passi, 460 E salti e tresche e rapide carole Destramente intrecciando. Alzâr di plauso Liete grida gli astanti, e l’ampio fòro Tutto di plausi rimbombar s’udìa. Ma qui proruppe il Laerziade Ulisse: 465 O magnanimo re, tu mi vantasti I tuoi Feaci nella danza esperti; Ed a ragione, ché, in mirarli all’opra, Io ne rimasi stupefatto. - A queste Lodi altamente si commosse il saggio 470 Re della Scheria, e disse ai Feacesi: Uom di gran senno lo stranier mi sembra. [131] Dunque s’onori d’ospitali doni; E poi ch’oltre di me dodici prenci Ha la nostra città, gli rechi ognuno 475 Una veste leggiadra ed un leggiadro Manto e un talento di purissim’oro. E senza indugio; ché vederli ei possa, E venga a cena con allegro viso. Eurialo intanto, che gli fu scortese, 480 Con doni insieme e acconci detti il plachi. Alla proposta d’Alcinòo concordi Assentendo i Feaci, un banditore Mandò ciascuno de’ suoi doni in cerca; Ed Eurialo così gli rispondea: 485 Glorïoso Alcinòo, re della Scheria, L’ospite placherò, come ti piace. Gli darò questo mio pugnal d’acciaro, Che inargentata ha l’elsa, e che d’avorio Intarsïata e nova ha la vagina: 490 Spero che a lui non fia discaro il dono. Tacque; e il pugnal, d’argentei chiovi adorno, Ad Ulisse porgea con questi detti: Sii tu felice sempre, ospite padre, E sperda il vento ogni parola amara 495 Che inavvertita mi sfuggì dal labbro; E facciano gli Dei che la natìa Terra e la sposa riveder tu possa, Da cui diviso tanto t’addolori. E l’Itacense: Vivi tu del pari 500 Appien felice, o figlio, e d’ogni bene Ti sien larghi gli Dei; né mai di questo Pugnal, che in pegno d’amistà mi doni, Desìo ti punga. - Detto ciò, l’eroe Il bel pugnale al fianco si sospese. 505 Verso il tramonto giunsero gli araldi Coi presenti alla reggia, e i figli stessi Del grande Alcinoo li prendeano, e all’alma Lor genitrice li ponean dinanzi. Anch’ei co’ prenci fe’ ritorno Alcinoo, 510 [132] E, poiché ognuno fu sui troni assiso, Ad Arete dicea: Donna, mi reca Un’arca, la più bella e la più salda, E un mantello e una veste entro vi chiudi; Indi comanda che si ponga al fuoco 515 Un gran lebete, e l’aqua vi si scaldi Per lo straniero che, dal bagno uscendo E già pronti vedendo i molti doni De’ Feacesi, lieto segga al desco E lieto il suono della cetra ascolti. 520 Ed io poi gli darò questa dorata Tazza, perché, libando agl’Immortali, Non passi giorno ch’egli a me non pensi. Disse; ed Arete alle fantesche ingiunse Di porre al fuoco un ampio vaso; ed esse 525 Un lebete a tre piè posero al fuoco, E v’infusero l’aqua, e legne in copia Vi miser sotto, e v’appiccar la fiamma, Che il ventre del lebete circondando L’aqua scaldava. Uscì con l’arca intanto 530 Dal suo talamo Arete, e vi depose Le vesti e l’oro de’ Feaci, e un vago Manto e una vaga tunica v’aggiunse; Indi ad Ulisse favellò: Con fune Or tu stesso il coperchio n’assecura; 535 Ché se mai navigando t’addormenti, Nessuno tocchi questi doni. - Ulisse Il coperchio rassetta, e con diversi Nodi lo stringe, di cui Circe, astuta Diva, il segreto in sua magion gli apprese. 540 Poscia all’invito d’un’accorta ancella Entrò nel bagno; e a quel tepor gli spirti Rinfrancar si sentìa, perché gustato Un tal conforto non avea dal giorno Che le grotte lasciò della ricciuta 545 Prole d’Atlante, che di lui pensiero Prendea come d’un Dio. Ma dalle ancelle Lavato e d’odoroso olio perfuso, [133] E le vesti indossate, uscì dal bagno E alla sala n’andò. Presso la soglia 550 Stava Nausica a contemplar l’eroe Piena di meraviglia, e questi accenti Al suo passar gli volse: Ospite, salve. Quando al lido natìo sarai tornato, Ti sovvenga di me, che fui la prima 555 A darti aita. - E pronto il saggio Ulisse: Nausica, figlia dell’illustre Alcinoo, Oh piacesse agli Dei, che del mio lungo Esilio fosse il termine venuto, E veder la mia terra alfin potessi! 560 Ivi ogni dì, bellissima fanciulla, Farei voti per te, che m’hai salvato. Ei s’inoltra, ciò detto, e in aureo trono S’asside accanto al re. Già le vivande Portate avean gli scalchi, e di vermigli 565 Vini le tazze coronate; ed ecco Venir l’araldo, che per man tenea Il cantor dalle genti venerato, E il collocò nel mezzo della sala Presso ad alta colonna. Il grande Ulisse 570 Spiccò dal tergo d’un cinghial sannuto Un pingue brano, e al fido banditore, Piglia, disse, e a Demodoco lo reca, Onde, sebbene afflitto, anch’io gli renda Alcun segno d’onor. Sempre con festa 575 Sono i poeti dalle genti accolti, Perché la Musa gli ammaestra ed ama. Recò le carni al buon cantor l’araldo, Ed ei le prese giubilando; e porse Ognun le mani all’apprestate dapi. 580 Sul finir del convito, in piè rizzossi L’Itacense, e a Demodoco dicea: Fra quanti sono in terra incliti vati Io li saluto il primo, o che la Musa Figlia di Giove, o t’allevasse Apollo; 585 Poiché le sorti degli Achei tu canti [134] A meraviglia, e quanto oprato e quanto Hanno sofferto, come se veduto Tutto avessi tu stesso, o dalle labbra D’alcun di loro udito. Or segui, e canta 590 Il gran cavallo, che di travi Epeo Col favor di Minerva avea costrutto, E il figliuol di Laerte nella ròcca Condusse ad arte, grave degli eroi Che la sacra città rasero al suolo. 595 Se questo fedelmente mi racconti, Dovunque vada anch’io dirò, che inspira Un Dio benigno l’immortal tuo carme. Ei disse; e pieno del suo Nume il vate A cantar cominciò, come gli Achivi, 600 Arse le tende, sui veloci abeti Già solcavano il mar, mentre nascosti Nel gran cavallo col divino Ulisse Stavano i più valenti in mezzo ai Teucri, Che l’avean trascinato entro la ròcca. 605 Vi sedevano intorno i cittadini Con incerto consiglio: e chi volea Che si squarciasse al cavo legno il fianco; Altri che fosse tratto in su le mura, E giù travolto; ed altri alfin chiedea 610 Che il grande simulacro ivi restasse A placar l’ira degli avversi Numi. Dei tre partiti l’ultimo prevalse: Ai Troiani fatal, perché nel vasto Grembo di quel cavallo erano chiusi 615 I migliori de’ Greci, apparecchiati A seminar la strage e la rovina. Cantava ancor che i loricati Achivi, Dal ventre oscuro del cavallo usciti, Invadean la cittade; e mentre gli altri 620 I templi n’atterravano e le case, Il bellicoso Laerziade, a Marte Somigliante, correa col biondo Atride Di Deifobo al tetto, ove una fiera [135] Pugna s’accese, e, Pallade Minerva 625 Aiutatrice, n’ottenea la palma. Così l’illustre vate, e a quel ricordo Intenerito, bagna Ulisse il volto Di lagrime furtive. E come donna Piange lo sposo, che a tardar l’eccidio 630 Della sua terra sia caduto, ed essa Che moribondo il vede e palpitante Sovra lui s’abbandona e geme e stride, Mentre alle spalle il vincitor superbo Con l’asta la percuote, e la incatena, 635 Per serbarla ai tormenti e alle fatiche, E la infelice di mortal pallore Tutta si copre: in simil guisa Ulisse Versava dalle ciglia amaro pianto. Ma restò quel suo pianto a tutti ascoso, 640 Salvo ad Alcinoo, che sedeagli appresso, E gravemente gemere l’udìa; Onde, rivolto ai Feacesi, ei disse: Udite, o prenci e condottieri, e lasci Il buon cantore di toccar la cetra, 645 Ché non a tutti ciò ch’ei canta è grato. Da che cenammo, ed ei la sua canzone Incominciò, di lagrimar non cessa Il forestiero, come se profondo Cordoglio il prema. Taccia ei dunque, e lieto 650 Qui sia ciascuno, l’ospite non meno Di noi che diamo all’ospite ricetto; Ché per lui solo abbiam nel fòro i giochi Celebrati e il convito, ed apprestata La scorta, e in pegno d’amicizia offerti 655 I bei presenti. A chi non sia d’umani Sensi sfornito è l’ospite un fratello. Però tu pure, o forestier, sincero Per l’utile tuo stesso, a me rispondi; E dimmi con qual nome i tuoi parenti, 660 E gli abitanti della tua contrada Solean chiamarti; ché, sia buono o tristo, [136] Alcun non vive che non abbia un nome, E i genitori il dànno ai figli appena Schiudon gli occhi alla luce. E dimmi ancora 665 Ove sia la tua gente e la tua terra, A cui la vigil nave ti trasporti; Perocché di piloti e di timoni Uopo non hanno le feacie navi, E sanno ciò che l’uom pensa e disegna, 670 E le città conoscono e i paesi Ricchi di biade, e come stral veloci Varcano il mar pescoso, in densa avvolte Impenetrabil nube, né paura Mai d’arrenare o d’affondar le coglie. 675 Ben mi dicea Nausitoo, il padre mio, Ch’era con noi crucciato il gran Nettuno, Perché ognor salve traghettiam le genti; E che una bella nostra nave avrebbe Un dì perduta nel ritorno, e chiuso 680 Il nostro porto col rizzarvi un monte. Il buon vegliardo sì dicea. Ma cómpia O non cómpia Nettuno, il re dell’onde, La sua minaccia, tu mi narra intanto Quali hai solcato ignoti mari, a quali 685 Terre sei sceso, e i popoli ch’hai visto, Se buoni e giusti, o inospitali e crudi; E dimmi alfin perché piangi e sospiri In udir degli Achivi e de’ Troiani Le rie vicende e d’Ilio la caduta. 690 Era deciso dagli Dei che tanta Strage seguisse, perché tèma un giorno Fosse ai poeti di canzon famosa. Forse ne’ teucri campi alcuno è morto De’ tuoi congiunti? il suocero, lo sposo 695 D’una tua figlia? o qualche amico illustre? Ché non è d’un fratello a noi men caro Un fido e saggio e valoroso amico. [137] LIBRO NONO SOMMARIO Ulisse palesa il proprio nome ai Feaci, e comincia il racconto delle sue avventure, dopo la distruzione di Troia. - Battaglia coi Ciconi. - Arrivo al paese dei Lotofagi. - Descrizione dell’isola e della spelonca del Ciclope Polifemo, il quale divora sei compagni d’Ulisse. - Questi lo accieca, e con un nuovo stratagemma campa sé e gli altri dalla morte. Rispose Ulisse, e incominciò: Possente, Magnanimo signor, di cui famoso Si spande il nome fra i mortali, è bello Un poeta ascoltar, come costui, Che nella voce rassomiglia ai Numi; 5 Né men bello è mirar tutta una gente Lieta e festosa, e a lui dintorno assisi I convitati, mentre colmo è il desco Di pani e di vivande, e nelle tazze Si versa in giro dai pincerni il vino. 10 No, più grato non havvi e più giocondo Spettacolo di questo. Ma la storia Tu vuoi ch’io dica delle mie sciagure, Onde più sempre m’addolori e pianga. Dove principio, dove il mio racconto 15 Termine avrà, se tanti sono i guai Da me sofferti per voler di Giove? Innanzi tutto vi farò palese Il nome mio: perché, se al patrio lido [138] Salvo ritorno, forse un dì l’ospizio 20 Ricambiar vi potrei, ben ch’io dimori Da voi lontano. Il figlio di Laerte, Ulisse io sono, alle universe genti Noto per senno e per tramate insidie, E la mia gloria fino agli astri ascende. 25 Abito la serena Itaca, dove Alza il Nerito la selvosa cima; E su quel mar Zacinto anco e Dulichio Giacciono e Samo ed altre popolate Isole, l’una accanto all’altra; e queste 30 Guardan l’Aurora, mentre all’Occidente Itaca in mar s’avanza, Itaca alpestre, Ma di gagliarda gioventù nudrice, E tanto a me diletta. Invan Calipso, Nobilissima Dea, nelle sue grotte, 35 Ne’ suoi palagi invan la bella Circe Ritenermi sperò, della mia mano Desïose ambedue; perché né l’una, Né l’altra giunse a guadagnarmi il core: Tanto il viver co’ suoi nel proprio tetto 40 Più ci lusinga, che in dorati alberghi, Pur con gli Eterni, ma da’ suoi lontano. Or le sciagure, che nel mio ritorno Dai teucri campi m’invïâr gli Dei, Racconterò. Mi spinse prima il vento 45 All’Ismaro, abitato dai Ciconi. Saccheggiai la città, molti trafissi De’ cittadini, e tutte in parti eguali Fuor delle mura ne venìan divise Tra noi le donne e le rapite spoglie. 50 Io, ciò fatto, a partir senza dimora Esortava i compagni; ma gli stolti, Sordi a’ miei detti, a tracannar si diêro I dolci vini, ed a scannar le pingui Agnelle e i pingui buoi dal tardo piede 55 Lungo la spiaggia. Da vicine terre I fuggenti Ciconi ivano intanto [139] Con tumulto chiamando altri Ciconi, Di lor più forti e numerosi e destri A pugnar di piè fermo ed a cavallo. 60 Quanti fior, quante foglie a primavera Il suol produce, tanti di costoro Al dì novello si mostrâr sul lido; E una sorte crudele a noi l’eterno Re d’Olimpo apprestava. Innanzi ai legni 65 Ostinato appiccossi aspro conflitto, Ed a vicenda si ferìan con l’aste I Ciconi e gli Achei. Tutto il mattino E gran parte del dì, quantunque pochi Incontro a molti, intrepidi pugnammo; 70 Ma sul tramonto, quando i buoi distacca Dall’aratro il villan, fûr dai Ciconi I miei seguaci di fuggir costretti. Ogni nave perdea sei de’ migliori Suoi combattenti, io mi salvai con gli altri. 75 Di là salpammo, tutti ancor dolenti Degli estinti compagni, e lieti insieme Del nostro scampo. Tuttavia le navi Non lasciâr quella rada, anzi che ad alta Voce chiamati avessimo tre volte 80 Ad uno ad uno i miseri, trafitti Dall’aste de’ nemici. Ed ecco Giove, Il supremo de’ nembi adunatore, Levar repente un procelloso Borea, Che la terra coperse e il mar di nubi, 85 E negra notte giù dal ciel piombò. Ma come vidi dal furor del vento Lacerate le vele, e su le gonfie Onde piegarsi e traballar le navi, A’ miei nocchieri io comandai di tosto 90 Calar gli alberi, e al lido remigando Spinger le prore. Quivi afflitti e mesti Noi due dì giacevamo; e su l’Aurora Del terzo, sollevati alberi e vele, Ci ponemmo a seder, bastando il vento 95 [140] E i timonieri a governar le navi. E salvo forse alla paterna terra Sceso io sarei, se nel girar la punta Della Malea respinto non m’avesse L’ira dell’onde, e a navigar costretto 100 Verso Citera. Da crudeli venti Nove giorni sul pelago sonoro Di qua, di là sbalzati, le gioconde Rive al fin de’ Lotofagi toccammo, Che pasconsi d’un fiore. Ivi approdati, 105 E l’aqua attinta, s’allestîr sul verde Lido le mense; e poiché ognun fu sazio, Io scelgo due compagni, e un banditore Che li preceda, e ad esplorar gl’invio Che gente quella terra alberghi e nutra. 110 Dopo breve cammino, essi nel mezzo Si trovâr de’ Lotofagi. Costoro Di mal talento non diêr segno ai nostri; Anzi loro a gustar porgeano il loto. Ma di quel fiore assaporato il suco, 115 Quanto il mele soave, i messaggieri, Dimenticando la natìa contrada, Restâr volean dove si ciba il loto; Sì che piangenti a forza sul mio legno Io li condussi, e ai banchi li legai. 120 Agli altri ingiunsi di salir le navi Subitamente, per timor che alcuno Colà restasse a pascersi del loto; E v’ascesero tutti, e in ordinate Schiere sedendo e remigando, in vista 125 Al paese giugnemmo de’ Ciclopi: Gente trista e crudel, che imbaldanzita Del favor degli Dei, campo non ara Ed albero non pianta. Il lor terreno Senza aiuto di semi né di solchi 130 Tutto fornisce, l’orzo ed il frumento E la vite vinifera, che grosse Uve produce, e Giove con frequenti [141] Piogge feconda. Leggi essi non hanno, Non pubblici consessi; ma sui monti 135 Vivono in ampie grotte, e a suo talento Ciascun le mogli vi governa e i figli, Né degli altri si cura. Indi non lunge In faccia al porto un’isola si stende, Lachea nomata, ove le agresti capre 140 Crescono a torme; perocché nessuno A turbarle vi scende, né lo stesso Cacciator che per valli e per dirupi Si logora la vita. Essa pastori, Essa bifolchi mai non vede; e giace 145 Non seminata, non arata, e sola Vi gira e pasce la belante capra. Navi non hanno dalle pinte prore I Ciclopi, né fabbri hanno di navi Ai vari ufici del commercio adatte, 150 E che rechino genti forestiere A coltivar quell’isola ferace. Ogni buon frutto a sua stagion maturo Coglier vi si potrìa; potrìeno verdi Irrigui prati aprirsi in riva al mare; 155 Crescer perenne si vedrìa la vite; E, lieve essendo e pingue il suol, secure Darìa le messi e rigogliose. Un seno Vi trovi ancor, sì commodo e tranquillo, Che non ha d’uopo di gittar la fune, 160 Né l’àncora calar, né chiuder vela, Il nocchier che v’approdi, e in pace aspetta Che il vento spiri al suo cammin propizio. Da cavo speco sgorga in fondo al seno Un cristallino fonte, a cui dintorno 165 Sorge un bosco d’ontani. Ivi sbarcammo; E certo ne fu guida un Nume amico In quella notte d’ogni luce muta; Ché di folta caligine le navi Eran coperte, né dal ciel mandava 170 Raggio la Luna, fra le nubi ascosa. [142] L’isola alcun non vide, alcun l’oscuro Flutto non vide, che battea la spiaggia, Pria ch’approdate fossero le navi. Approdate le navi, ammainate 175 Le bianche vele, su le bionde arene Ci coricammo ad aspettar l’Aurora. Ma non tosto l’Aurora in ciel comparve, Andavam per la bella isola errando Maravigliati. Suscitâr le Ninfe, 180 Prole di Giove, le silvestri capre, Per fornirci la mensa; e noi, togliendo I curvi archi dai legni e l’aste acute, In tre schiere divisi, un’abbondante Caccia, grazie agli Dei, tosto vi femmo. 185 Eran dodici i legni, e nove capre S’ebbe ciascuno, e ne lasciâr di dieci A me la scelta. Così lieti a mensa Noi sedevam, di molti cibi ingombra E dolci vini, che nell’urne in copia 190 Io chiuder feci il dì che de’ Ciconi L’opulenta città fu posta a sacco; E vedevam la terra de’ Ciclopi Fumar da presso, e n’udivam la voce, E dell’agne i belati e delle capre. 195 Sul verde lido al tramontar del Sole Noi ci corcammo; ma non tosto in cielo La rosea figlia del mattino apparve, I compagni io raccolsi a me dintorno, E così dissi: Qui restate, amici, 200 Fin ch’io non torni; ché all’opposto lido Con la sola mia nave e i miei nocchieri Io scender bramo, per saper qual gente Ha quivi albergo, se malvagia ed empia, Od ospitale e de’ Celesti amica. 205 Salii, ciò detto, il legno, e a’ miei nocchieri Seguirmi ingiunsi e liberar le funi. M’obbedir prontamente; e tutti in fila Sui banchi assisi, percotean le negre [143] Onde co’ remi. Scesi in breve al lido, 210 Sopra un’altura non discosta un’ampia Grotta vedemmo, che guardava il mare, Ombreggiata da lauri, e sotto ai lauri Capre, agnelle e montoni accovacciati. Di viva pietra una muraglia eccelsa 215 La circondava, e querce annose e pini. Avea qui stanza un uom di smisurata Statura e forza, detto Polifemo, Che pasturava le belanti greggie Lontan dagli altri, e che nessun con gli altri 220 Avea commercio, ma nel suo recinto Scellerate e nefande opre compia: Orribil mostro, in nulla somigliante All’uom che frutto cereal consuma, E sembrava d’un monte la selvosa 225 Cresta, che solitaria al ciel si leva. Io la nave confido a’ miei compagni, E con dodici, eletti fra i migliori, Alla spelonca m’incammino, un otre Di fervido lïeo meco recando, 230 Che Marone Evantide, sacerdote Del biondo Apollo, protettor d’Ismaro, Dato m’avea, perché da riverenza Mosso, lui con la moglie e co’ figliuoli Salvai da morte. Una frondosa, amena 235 Selva abitava, sacra al Nume; e in segno Di grata ricordanza, un bel cratere Tutto d’argento, e d’oro lavorato Sette talenti, e dodici di vino Anfore piene ei mi donò: bevanda 240 Soave, incorruttibile, celeste, Che nessuno de’ servi o delle fanti Mai non conobbe, solo a lui palese E alla moglie e alla saggia dispensiera. Tutte le volte che mescean fra loro, 245 Infondean di quel vino una misura In venti d’aqua, e tale ancor dal nappo [144] Fragranza uscìa, che a berne t’invogliava. Un grand’otre io ne presi, ed un canestro Di vivande, perché diceami il core 250 Che un uom feroce, di tremenda possa, Sprezzator d’ogni dritto e d’ogni legge, Avrei quivi incontrato. All’antro ascesi, Non vi trovammo Polifemo, uscito A pascolar la greggia; e quanto v’era 255 Là dentro attenti ad osservar ci demmo: Corbe gravi di cacio, anguste stalle Zeppe d’agne e di capre, in separate Chiostre fra lor divise, le lattanti, Le grandi, le mezzane; ed ogni vaso 260 Riboccava di siero, e preparate Eran le conche e i secchi ov’ei mugnea. Instavano concordi i miei compagni Che, tolto parte di quel cacio, indietro Subito si tornasse, e su la nave 265 Capre ed agnelle strascinando, al vento S’aprissero le vele. Ed io quel saggio Consiglio, ahi lasso! non seguii, bramoso Di parlar col Ciclope, e riportarne Un qualche dono. Ma gioconda a tutti 270 Rïuscir non dovea la sua comparsa. Acceso il fuoco, si fe’ prima a Giove Una preghiera; poi, gustando il molle Cacio, aspettammo fin ch’ei giunse. Un monte Avea d’aride legne in su le spalle 275 Per cuocersi la cena, e su l’entrata Versandole dell’antro, un gran fragore Vi destò; sì che noi gli uni su gli altri Ci gettammo nel fondo impauriti. Ogni capra, ogni pecora vellosa, 280 Ch’egli mugner dovea, cacciò nell’ampia Spelonca, e fuori gli arïeti e i capri Nel recinto lasciò. Ciò fatto, un aspro Macigno sollevò, di sì gran pondo, Che dieci e dieci forti carri a quattro 285 [145] Ruote smoverlo appena avrìan potuto: Tale era il masso che chiudea l’entrata! Ei pria, sedendo, le belanti capre E le pecore munse, e i propri parti A ciascheduna sottomise; e quindi 290 Accagliando metà del bianco latte, Nelle corbe il depose e lo compresse, E raccogliea l’altra metà ne’ vasi, Che gli servisse di bevanda a cena. Spedito ch’ebbe queste sue bisogna, 295 Accese il fuoco, e noi scoperse, e disse: Stranieri, olà, chi siete? A queste rive Perché scendeste? a trafficarvi forse? O non piuttosto, a guisa di pirati, Con rischio della vita il mar correte 300 A depredar le navi? - E qui si tacque. A quella voce, a quell’orrendo aspetto, Tremò ciascuno e si fe’ smorto in viso; Pur così da lontano io gli risposi: Greci noi siamo, che per altra via 305 Ritornando da Troia ai nostri lidi, Fummo da crudi venti in mar dispersi E qui costretti ad approdar; ché forse Giove così volea. Noi dell’Atride Agamennóne ci vantiam seguaci, 310 D’Agamennóne, la cui gloria ascende Fino alle stelle, perché sì famosa Città distrusse e tante genti uccise. Or prostrati ne vedi a’ tuoi ginocchi, Onde benigno tu n’accolga, e un dono 315 Porger ne voglia, come si costuma Da chi gli ospiti alberga. I santi Dei Temi, o re; perché supplici noi siamo, E vindice dell’ospite che prega È il sommo Giove. - Io così dissi; ed egli 320 Replicò disdegnoso: O tu sei folle, O ben da lungo arrivi, se pretendi Ch’io temer deggia e riverir gli Dei. [146] Né di Giove allattato dalla capra, Né d’altri Dei si curano i Ciclopi. 325 Noi siam di loro più valenti assai, Né per sottrarmi del tuo Giove all’ira A te perdonerò, né a’ tuoi compagni, Contro mia voglia. Ma tu dimmi intanto Ove lasciasti la tua bella nave: 330 In questa a noi vicina o in altra spiaggia? Fa’ ch’io lo sappia. - Sì dicea lo scaltro; Ma il segreto pensiero io ne conobbi, E così l’arte deludea con l’arte: Il grande Enosigeo contro una punta 335 Di nudo scoglio mi spezzò la nave All’estremo confin di vostra terra, E poi sul mare la respinse il vento: Dalla bufera io solo mi salvai Con questi pochi. - Non risponde il mostro, 340 Ma rapido s’avventa a’ miei compagni, E pigliandone due, come poppanti Cani a terra gli sbatte; e dalle rotte Teste il sangue ne schizza e le cervella. Tagliati a pezzi l’uno e l’altro, il desco 345 Se ne prepara in mezzo all’antro, e, a guisa Di montano leon, visceri e carni, Ossa e midolle, tutto si divora. Alla nefanda e dolorosa scena Noi, piangendo, alzavam le palme a Giove, 350 Ogni speranza di campar perduta. Poiché d’umane carni ebbe e di latte Il Ciclope l’ingorda epa ripiena, Si sdraiò nello speco, e addormentossi. Un desiderio ardente allor mi nacque 355 Di farmi a lui vicino, e il ferro acuto Levandomi dal fianco, trapassargli Il petto, dove il fegato s’asconde. Ma d’avviso mutai; perché sfuggiti Non saremmo per questo a cruda morte, 360 Rimover non potendo il masso enorme [147] Onde l’antro era chiuso; e da profondo Dolor trafitti aspettavam l’Aurora. Spuntò l’Aurora; e il mostro, acceso il fuoco, Munse pecore e capre, ed a ciascuna 365 I parti sottopose. Indi afferrati E sbranati altri due de’ cari amici, Il desco ne imbandìa. Finito il pasto, Egli cacciava fuor dell’antro il gregge, Levando agevolmente e agevolmente 370 Il gran macigno rimettendo, come Il coperchio si leva e si rimette Ad un turcasso. Or mentre, alto gridando, Polifemo guidava il gregge al pasco, Io, chiuso nella grotta, in cor volgea 375 Come potessi vendicarmi; e questo, Dopo lungo pensar, mi parve il meglio. Giacea presso una stalla il verde tronco D’un ulivo a seccar, che avea da poco, Per farne una sua clava poderosa, 380 Tagliato il mostro, e l’albero parea D’una nave oneraria a venti remi, Che va carca solcando il mare ondoso: Così lungo era il tronco e così grosso! Io ne recisi un pezzo di sei palmi, 385 E a rimondar lo diedi ai fidi amici; Io stesso poscia n’aguzzai la punta E ad infuocar la posi in su le brage, Donde tratto, il celai sotto il letame Che ingombrava lo speco. Io volli alfine 390 Che a sorte si traessero i compagni, Che dovean meco la infuocata trave Nella pupilla conficcar del mostro, Come si fosse al sonno abbandonato; Ed appunto n’uscir que’ due che scelto 395 Io stesso avrei. Non era ancor la luce Giunta all’occaso, ch’ei tornò col gregge Dai lunghi velli, e tutto quanto in fretta Lo cacciò nello speco: o per timore [148] Di qualche insidia, o per voler d’un Nume. 400 Poi sedendo mugnea pecore e capre, E, come avea per uso, a ciascheduna Ponea sotto i lattanti. Al fin dell’opra Due novamente si ghermì de’ nostri, Ed a cenar si mise. Allor, tenendo 405 In mano un nappo di vermiglio vino, Mi feci innanzi al mostro, e così dissi: Piglia, o Ciclope, e bevi, or che cibasti Umane carni; bevi, e apprenderai Di che vino provvisto era il mio legno. 410 Io molto a te potrei recarne un giorno, Se a noi pietoso di partir concedi. Ma un crudele tu se’. Tristo! chi mai Chi fia che alla tua grotta s’avvicini, Se in questa guisa gli ospiti ricevi? 415 Io tacqui: ed egli prende il nappo e beve; Ed allettato dal licor soave, A me di novo ne chiedea, dicendo: Mesci, mesci, o straniero, e il nome tuo A me palesa, perché far ti voglio 420 Un presente ospital che ti consoli. Anche ai Ciclopi dà la terra in copia Vino dall’uve che la pioggia ingrossa, Ma questo è ambrosia, è nettare celeste. Così parlava; e il vino una seconda 425 Volta gli porsi ed una terza; e, stolto! Ben tre volte ei vuotò la colma tazza. Poiché m’avvidi che alla testa asceso Gli era il fervido umore, io ripigliai: Dunque, o Ciclope, il mio nome tu chiedi? 430 Il mio nome io dirò; ma tu poi dammi Il presente ospital che m’hai promesso. Nessuno ho nome; me la madre e il padre, E me Nessuno chiamano gli amici. Ebben, prorompe in suon di scherno il mostro, 435 Nessuno io mangerò dopo i compagni: Essi prima di lui. Questo è il presente [149] Ospital che da me fra poco avrai. Ciò detto, stramazzò supino a terra; E, piegata su l’omero la testa, 440 Addormentossi. Ad or ad or ruttando Brïaco il mostro, dalle fauci il sangue E il vino gli sgorgava, a brani misto d’umane carni. Il tronco allor cacciai Fra le brage dal cenere coperte 445 Per infuocarlo, tutti inanimando I miei compagni, perché all’opra alcuno Non mi fallisse. Benché verde il legno S’infuocò prestamente, e dalle brage Ritirandolo in fretta, io lo recai 450 Vicino al mostro Mi seguìan gli amici, E a tutti un Nume d’inusato ardire Armava il petto. Essi, afferrato il tronco, Ne confisser la punta in mezzo all’occhio; Ed io ritto sui piedi ne venìa 455 Girando il calce. Come allor che fora Col trapano la costa d’una nave Il carpentier, lo gira altri a sinistra Ed altri a destra con la fune, e ratto L’instancabile trapano si volve; 460 Noi similmente giravam nell’occhio L’acceso tronco, intorno a cui bolliva Il sangue; e mentre la pupilla ardea E l’occhio crepitar s’udìa dal fondo, Abbruciava la vampa il sopraciglio 465 E le palpebre. E come strider s’ode Scure o bipenne, quando nella fredda Aqua roventi son dal fabbro immerse, Perché tempra e durezza il ferro acquisti; Così strideva, dal tizzon ferito, 470 L’occhio di Polifemo. Un urlo ei mise, Che intronò la caverna; e spaventati Noi rinculammo. Il tronco sanguinoso Si svelse ei tosto dall’occhiaia, e lungi Lo scagliò mugolando per dolore. 475 [150] Indi con alta voce a sé chiamava I Ciclopi abitanti le vicine Creste de’ monti in solitarie grotte. Alle sue grida tutti, ad uno ad uno, Per vie diverse, giù scendeano al piano; 480 E il piè sostando innanzi alla spelonca, Gli chiedean la cagion de’ suoi lamenti: Oh ch’hai tu, Polifemo? A che sì forte Per la placida notte vai gridando, E noi risvegli? Qualcheduno forse 485 Il gregge ti rapisce? A tradimento, O con la forza, qualchedun t’uccide? E così rispondea dalla profonda Caverna il cieco Polifemo: Amici, Nessuno qui mi uccide a tradimento, 490 Non con la forza. - Se nessun t’offende E tu sei solo, dicean essi allora, Dal gran Giove deriva il mal che soffri, E non ti resta che pregar tuo padre, Il re Nettuno. - Se n’andâr, ciò detto; 495 Ed io fra tanto in cor godea, che il finto Mio nome tratti in quell’error gli avesse. Ma il Ciclope, gemente e doloroso, Scostò dall’antro brancolando il masso; E poi, seduto su la soglia, in giro 500 Stendea le mani, per ghermir qualcuno Ch’uscisse con la greggia: in noi cotanta Follia credendo! Nella mente invece Io ruminava come ai cari amici Ed a me stesso procurar lo scampo. 505 Ogni astuzia, ogni inganno imaginai Per sottrarci alla morte ancor vicina; Ed ecco alfine ciò che far decisi. Belli e pingui montoni e di gran corpo l’antro chiudea, di lunghe e porporine 510 Lane vestiti. Con tenaci vinchi, Su cui dormir solea la notte il mostro, Tacitamente a tre a tre per modo [151] Insieme li legai, che quel di mezzo Portava sotto un uomo, e schermo ai fianchi 515 Gli facean gli altri due: da tre montoni Era in tal guisa ognun condotto. Io poscia Afferrai per la groppa un arïete, Il più grande e robusto, e sotto al ventre Mi stesi, alle sue lunghe e folte lane 520 Tenendomi aggrappato. Il novo Sole Così dolenti aspettavamo; e come Il Sol comparve, Polifemo al pasco Fuor cacciava i montoni; e per le stalle Belavano le pecore non munte, 525 Che di latte rigonfie avean le poppe. Sebben cruciato dalla piaga, il tergo D’ogni montone ei brancicava, e, folle! Non s’accorgea che alle lanose pance Stavan gli uomini appesi. Ultimo il pingue 530 Monton si mosse, grave de’ suoi velli E di me che l’inganno ordito avea. Ma l’arrestava il forte Polifemo, E gli dicea palpandolo: Arïete Infingardo, perché l’ultimo vieni? 535 Una volta seguir tu non solevi La greggia, ma, la testa alto portando, N’andavi innanzi a lunghi passi, e primo Le molli erbette a pascolar correvi, Primo sempre correvi alla sorgente, 540 Ed all’ovile sempre in su la sera Primo tornavi; ed or l’ultimo vieni? Forse del tuo signor l’occhio tu piangi, Che il malvagio Nessuno gli spegnea Co’ suoi perfidi amici, poiché doma 545 Gli ebbe la mente con purpureo vino? Quel Nessuno che indarno a cruda morte Cercherebbe fuggir, se tu, che senti Di me pietade, favellar potessi, E dirmi ov’egli al mio furor s’asconde? 550 Oh! sì che allora dall’infranto capo [152] N’andrìan di qua, di là per la spelonca Disperse le cervella, e alcun conforto Avrìa pur questo core al fiero strazio Che da Nessuno, un uom da nulla, io soffro. 555 Così dicendo, fuor lo spinse al pasco. Dall’antro appena e dal recinto usciti, Me primamente, indi gli amici io sciolsi; E ragunato senza indugio un branco Di pecore e di capre, le più belle 560 Di tutto il gregge, le cacciammo a furia Verso la nave. Con allegro viso n’accolsero i compagni, e sui defunti Miseramente a lagrimar si diêro. Ma quel pianto io frenava; ed or coi cenni, 565 Or con la voce, comandai di tosto Su la nave gittar le pingui capre E gli arïeti, e via fuggir sul mare. M’obbedîro i compagni; e i salsi flutti Co’ remi flagellando, eran dal lido 570 Omai lontani quanto può la voce Giunger d’un uomo, allor che vòlto al mostro, Con questi detti io lo schernìa: Ciclope, Non eran dunque amici d’un imbelle I miseri che tu nel cavo speco, 575 Di tue forze abusando, hai divorato. Oh stolto, oh vile, che sfamarti osavi Con le carni degli ospiti! ma i Numi T’hanno punito. - Al mio parlar di rabbia Arse il Ciclope, e la crollata cima 580 Avventava d’un monte, che, cadendo Innanzi al legno, ne lambì la prora, Ed un gran flutto sollevò, che al lido Lo risospinse. Ma con lungo palo L’urto io ne freno, e d’arrenar gli vieto. 585 Indi col capo facea segno ai nostri Che vogassero tutti a tutta lena, Per sottrarsi al periglio; ed essi a gara L’onde co’ remi percotean. Ma quando [153] Io mi trovai due tanti più che prima 590 Lungi da terra, al mostro un’altra volta Per favellargli mi volgea, quantunque Tutti a me contrastassero, dicendo: Sconsigliato, perché tentar di novo Quell’uom selvaggio, che poc’anzi un masso 595 Avventando, sbalzò la nostra nave Contro la spiaggia, ove perir credemmo? S’ei qui gridare o favellar t’udisse Un altro lancerebbe aspro macigno, Che noi col legno sfracellar potrìa. 600 Ma questo dir non valse ad acchetarmi, E sdegnoso proruppi: Odi, o Ciclope Se di tua sozza cecità qualcuno Mai ti domanda, gli dirai che Ulisse, Guastator di città, nella petrosa 605 Itaca nato, e prole di Laerte, Ei t’acciecava. - Un gemito traendo, Esclamò Polifemo: Ahi, che pur troppo In me si compie un vaticinio antico! Visse già fra i Ciclopi un indovino, 610 Tèlimo detto, d’Eurimo figliuolo: Uom giusto e saggio, che sui nostri lidi Profetando invecchiava; e queste cose Antiveggendo, mi dicea che l’occhio Avrei perduto per la man d’Ulisse. 615 Ma sempre un uomo di gran corpo e bello Io m’aspettava, un uom di gran valore, Non un nano, un imbelle, un uom da nulla, Che m’acciecava dopo avermi i sensi Col vin sopiti. Orsù, qua vieni, Ulisse. 620 Ond’io ti porga un qualche dono, e preghi L’Enosigeo che ad Itaca ti guidi; Perché sua prole io sono, ed ei si vanta D’essermi padre e la perduta luce Ridonar mi saprà. - Così mi fosse 625 Invïarti concesso al negro Dite, Io gli soggiunsi, come il gran Nettuno [154] Renderti non potrà la spenta luce. Allor levando al ciel le palme, il mostro Al suo possente genitor pregava: 630 M’odi, o Nettuno, che la terra abbracci, Ed azzurre hai le chiome. Se tuo figlio Veramente son io, se mai godesti Di chiamarti mio padre, ah! fa’ che Ulisse, Struggitor di cittadi, abitatore 635 D’Itaca alpestre e seme di Laerte, Più la patria non vegga. E s’è destino Ch’ei pur vi giunga, tardi almen vi giunga Senza un compagno, su straniera nave, E ripiena di guai trovi la casa. 640 Ei tacque, e il Nume n’esaudìa la prece. Ad un masso del primo assai maggiore Dando poscia di piglio, il ruota e vibra Con tanta forza, che alla poppa arriva Del nostro legno, e il temo ne rasenta. 645 Dal caduto macigno sollevata L’onda investe la nave, e furïosa L’incalza, ed oltre verso la contraria Sponda la caccia, dove i prodi amici N’attendean sospirando. A terra usciti, 650 Traemmo il legno in secco; indi ugualmente Fra noi divisa la rapita greggia, Il bel montone davano concordi A me per giunta. E al fulminante Giove Io l’immolai, bruciandone le cosce; 655 Ma poco de’ miei voti ei si curava, E di tutti gli amici e tutti i legni Già venia macchinando la ruina. Noi quel dì, finché il Sol giunse al tramonto, Presso le navi sedevamo a mensa 660 Fra pingui carni e dolci vini; e quando Il Sol disparve, e s’oscurò la terra, Ciascun si diede su l’arena al sonno. Ma sorta in ciel di rose inghirlandata La figlia del mattino, io fea comando 665 [155] A’ miei compagni di salir le navi E di spingersi in alto; ed essi, sciolte Le sartie in fretta, e l’un dell’altro al fianco Sui palchi assisi, il negro mar co’ remi Sferzavano. Così lieti del nostro 670 Scampo, e dolenti de’ perduti amici, Abbandonammo quelle spiagge infide. [156] LIBRO DECIMO SOMMARIO Eolo re dei venti accoglie Ulisse nella sua reggia, e in congedarlo gli affida i venti, chiusi in un otre bovino. - L’otre viene aperto in mare da’ suoi compagni, onde i venti ne escono con furia, e lo risospingono all’isola di Eolo, che lo discaccia con acerbe parole. - Giunge al paese de’ Lestrigoni. - Questi gli distruggono il naviglio, ed egli si salva a stento col suo legno. - Disceso all’isola Eea, Circe gli converte metà de’ compagni in porci. - Egli con un’erba, che riceve da Mercurio, si salva dagli incanti della Maga, la quale restituisce a’ suoi compagni la primiera sembianza, e li trattiene cortesemente un anno intero nella propria casa. - Morte di Elpenore. - Ulisse, tornato al mare, si apparecchia a calar nell’Inferno. Dopo lungo remar, ne sorse incontro L’isola Eolia, dove il caro a’ Numi Eolo, figliuol d’Ippota, avea dimora: Tutta intorno di bronzo una muraglia, Coronata di marmo, la natante 5 Isola gira. Dodici figliuoli, Sei femmine e sei maschi, Eolo mantiene Ne’ suoi palagi. Ei le sorelle avea Date in moglie ai fratelli; e gli uni e l’altre Col genitor diletto e con la casta 10 Genitrice seder sogliono a ricca, Splendida mensa. De’ lor canti i figli Fanno il dì risonar la vasta sala, E dormono la notte con le spose Fra molti coltri in prezïosi letti. 15 [157] Alla sua terra e a’ suoi lucenti alberghi Noi siam calati; e il re con volto amico n’accolse, e seco un mese ne trattenne, Di conoscer bramoso ad uno ad uno Di Troia i casi, e i nomi e le vicende 20 De’ Greci condottieri e delle navi Al lor ritorno, ch’io narrar sapea. Poi quando lo pregai di darmi aiuto Nel mio vïaggio, e di partir gli chiesi, Ei benigno esaudì la mia preghiera, 25 E fatto un otre con la fresca spoglia Di bue novenne, tutti entro vi chiuse I venti procellosi, e a me lo porse; Perché de’ venti correttor supremo Il gran Giove lo fece, onde sopirli 30 O suscitarli a suo piacer potesse. Poi con filo d’argento Eolo nel fondo Della mia nave assicurò quell’otre, Sì ben chiuso, che fuori un’aura sola Non n’uscìa. Ma di Zefiro lasciato 35 Avea libero il soffio, che sui neri Flutti veloce ne spingesse a tergo: Inutil dono, ché a perir la nostra Follia ne trasse. Nove giorni e nove Notti senza riposo il mar solcammo; 40 E miravamo già le patrie balze A noi vicine, e sollevarsi il fumo Dai nostri tetti. Ma un profondo sonno Allor mi colse; perocché reggea Sempre io stesso il timone, e mai non volli 45 Al pilota affidarlo, impazïente Di toccar le dilette itache rive. Mentre io dormìa, fra loro i miei compagni A ragionar si diêro; e imaginando Ch’io sul legno recassi un gran tesoro 50 Dal cortese Ippotide a me donato, Si guardavano in viso, e al suo vicino Così dicea taluno: Oh come tutti [158] Innamora costui! come la gente d’ogni terra e città l’onora e stima! 55 Molte da Troia ei porta e ricche spoglie; E noi, che pur l’abbiamo ognor seguito Ne’ suoi vïaggi, con le mani vuote Facciam ritorno. Anch’ei d’Ippota il figlio In pegno d’amistà gli die’ quest’otre: 60 Orsù, veggasi almen quant’oro o quanto Argento vi si chiuda. - In simil guisa Parlar s’udìa taluno, e al fin prevalse Il mal consiglio. Sciolsero la fune All’otre, e tutti ne sboccâro i venti, 65 Che furïosi dal paterno lido Trascinâr gl’infelici in mezzo al mare. Atterrito io mi sveglio; e a quel disastro Immeritato, stetti a lungo incerto Se lanciarmi ne’ flutti, o darmi pace 70 Ancor dovessi, e sopportar la vita. Pur mi contenni, e in fondo all’agitato Legno mi giacqui, mentre d’urli e strida Ferìan l’aria i compagni, ed all’Eolia Ne ricacciava la crudel bufera. 75 S’afferrò quella spiaggia, e l’aqua attinta Ad una fonte, presso i curvi abeti S’apparecchiâr le mense: e dopo il pasto, Tolto meco un araldo ed un compagno, Mossi d’Eolo alla reggia, ove a banchetto 80 Ei sedea con la sposa e i cari figli. Noi ci prostrammo su la soglia; e questi Dicean maravigliando: Oh come, Ulisse, Come tornasti? Quale avverso Nume Qui ti respinse? E pur t’abbiam fornito 85 Di tutto che mai fosse a te mestieri Per giunger salvo alla tua patria, o dove Più ti gradisse. - Così d’Eolo i figli; Ed io con mesta voce: I miei compagni m’hanno tradito e un ingannevol sonno. 90 Deh! m’aiutate un’altra volta, amici, [159] Voi che il potete. - Con tai miti accenti Io placarli cercai. Tacquero i figli, Ma il genitor gridò: Vanne, o malvagio, Vanne altrove a perir, da noi lontano, 95 Ché a me non lice dar soccorso ad uomo Inviso ai santi Numi; e veramente Ai Numi inviso tu se’ qui venuto. E così mi cacciò dalla sua casa. Dolenti allor quel lido abbandonammo; 100 Ma il cor mancarsi ognun sentìa, pensando Ai novi affanni, e ch’era ogni speranza Del ritorno alla patria omai perduta Per nostra colpa. Nondimen sei notti E sei dì le marine onde solcammo; 105 E giungevam nel settimo alla terra E alla città de’ Lestrigoni: eccelsa Vastissima città, che Lamo è detta, Ove entrando il pastor chiama il pastore Ad uscirne col gregge, e doppia un uomo 110 Che non dormisse aver potrìa mercede, Ora i buoi pascolando ed or le agnelle; Tanto al cader del dì l’Alba è vicina. Ivi trovammo un porto, da due lunghe Scogliere fiancheggiato, a cui di fronte 115 Ergeasi il lido. Angusta avea l’entrata, E tutte vi spingean le loro navi I compagni, schierandole vicino L’una all’altra; perché l’onda in quel porto Mai non ingrossa, ed era il ciel tranquillo. 120 Io però non v’entrai, la mia veloce Nave con salda fune assicurando d’uno scoglio alla punta. La scoscesa Vetta poi ne salìa, spïando il loco; Ma né di buoi, né d’uomini lavoro 125 Io vi scopersi, e solo ad ora ad ora Mirai levarsi dal terreno il fumo. Scesi allor dallo scoglio, e a due de’ nostri E ad un araldo di cercar commisi [160] Quali avessero albergo in quel paese 130 Umane genti. Presero costoro La via diritta, onde la selva i carri Portan dai monti alla città. Non lungi Dalle mura incontrâr del Lestrigone Antìfate la figlia, che venìa 135 L’urna empiendo d’Artacia alla fontana, Che d’aqua tutta la città provvede. Trassero innanzi alla fanciulla i messi, Chi fosse il re, chi fossero di quella Terra gli abitatori a lei chiedendo; 140 Ed ella senza indugio al grande ostello Li condusse del padre, ove, giungendo, Videro su la soglia inorriditi Una donna, che il vertice selvoso Parea d’un monte. Dal vicino fòro 145 Costei gridando a sé chiamò lo sposo Antìfate, che tosto a’ miei compagni Macchinava in suo cor morte crudele; E l’un ghermito di que’ tre, funesta Cena se ne imbandìa; ma gli altri scampo 150 Trovâr, fuggendo ai nostri legni. Intanto Antìfate levò tutta a rumore La città. D’ogni parte alla sua voce Uscìano in frotta i forti Lestrigoni, Più che ad uomini, simili a giganti, 155 E pietre immani a fulminar si diêro Dalle propinque rupi. Un miserando Strepito allor s’udìa di peste navi, E d’uomini morenti, che alle punte Dell’aste infissi, come pesci all’amo, 160 Alle tristi lor cene eran serbati. Mentre così de’ miei poveri amici Fan macello nel porto i Lestrigoni, Io fuor del porto alla mia nave in fretta Con la spada la gomena recisi. 165 Indi ai nocchieri di dar mano ai remi Comandai, per fuggir da quel periglio; [161] E il timor della morte li spingea A remar con gran lena; onde sottrarci Così potemmo al grandinar de’ sassi, 170 Ma non un solo si salvò degli altri. Da quella terra ci scostammo, afflitti Per gli estinti compagni, e insiem contenti Del nostro scampo; e all’isola giungemmo, Eea nomata, dove Circe alberga, 175 Ninfa che il crin ricciuto e dolce ha il canto, Suora germana del prudente Eeta: L’uno e l’altra dal Sole generati Per le sue nozze con la vaga Persa Figlia dell’Oceàno. Entro al capace 180 Porto in silenzio noi spingemmo il legno, Che un Celeste guidava; e ben due notti E due dì giacevam sul curvo lido, Vinti dalla fatica e dagli affanni. Ma come l’Alba il terzo dì condusse, 185 Io piglio il brando e l’asta, ed un vicino Colle ascendo, a spïar se d’opra umana Segno scorgessi o umana voce udissi. Di là girando le pupille, io vidi Attraverso i querceti alzarsi a globi 190 Un nereggiante fumo; e gran desìo Tosto mi colse d’esplorar quel loco. Ma consiglio miglior quindi mi parve Di far ritorno ai desolati amici, Rinfrancarli col pasto, ed uno stuolo 195 Prima invïar di loro a quell’intento. Or mentre io torno al mare, un Dio pietoso Per quella solitudine mi scôrse, E un cervo di gran mole e d’alte corna Levommi incontro, che dal bosco uscìa 200 Per dissetarsi al fiume. In quell’istante, L’asta vibrando, io lo colpii nel tergo, E tutto vi s’immerse il ferro acuto; Sì che la belva mugolando al suolo Cadde, e l’alma fuggì. Dalla ferita 205 [162] Trassi il cerro sanguigno, e con virgulti Svelti alla selva feci una ritorta Lunga sei palmi, e ne legai del cervo Insieme i piedi. Al collo indi la belva Attraversata, ed appoggiato all’asta 210 Con una mano, m’avvïai; ché male Avrei potuto sostener con l’altra Sovra una sola spalla il grave carco. Giunto alla nave, lo gettai sul lido, E così presi a confortar gli amici: 215 Per quanto il duol ne roda, innanzi tempo Scender non lice alla magion di Pluto. Orsù, finché di cibi il legno abbonda E di grato lïeo, non si permetta Che il digiun ne consumi. - A questi accenti 220 S’inanimâro i miei compagni, e il capo Scoprendosi, guardavano stupiti l’enorme belva su l’arena stesa. Poscia le man lavatesi nell’onda, Presso la nave apparecchiâr la mensa, 225 A cui lieti sedemmo in fino a sera. Scesa la notte, su la verde spiaggia Noi ci corcammo; e allo spuntar dell’Alba, Adunati i compagni a me dintorno, Io così dissi: Sventurati amici, 230 Udite attenti. Donde Borea spiri E donde l’Austro non sappiam, né dove Sotto la terra il Sol discenda o dove Ei sorga. Dunque consultarci è d’uopo Su ciò che far ne resta, e ch’io non veggo. 235 Dalla cima d’un colle riguardando, Quest’isola mirai, piana e da vasto Pelago circondata, e lunge a globi Alzarsi fra le querce un nero fumo. Sì disse; e a tutti venìa meno il core, 240 Del forte Polifemo e dell’immane Antìfate membrando il fiero pasto. Mettean grida e lamenti, e calde stille [163] Giù dagli occhi versavano; ma vano Era quel pianto. Io presi allor consiglio 245 Di partirli in due schiere; e me dell’una E il deiforme Eurìloco dell’altra Duce nomai. Nell’elmo indi le sorti Di noi due s’agitâro, e il generoso Eurìloco n’uscìa. Senza dimora 250 Ei s’avvïò, da venti accompagnato E due guerrieri, che da noi congedo Prendean con mesta fronte e sospirosi. Giunti ad una convalle, in loco ameno Trovâr di Circe la magion, costrutta 255 Di bianchi marmi. Vi giacean dinanzi Lupi e leoni, che ammansati avea Co’ segreti suoi farmaci la Ninfa; Né questi s’avventâr contro i compagni, Ma si rizzâr su l’anche, dimenando 260 Le lunghe code d’allegrezza in segno. Come i bracchi festeggiano il padrone Che torna con l’usata offa dal pasto, I lupi dalle forti unghie e i leoni Festeggiavano i nostri, impauriti 265 All’apparir delle feroci belve. Essi, il piede arrestando in su la porta Di quel palagio, udìan cantar di dentro Con bella voce la chiomata Circe, Mentre un’ampia tessea splendida tela, 270 Fina, stupenda, quale uscir può solo Dalle man d’una Diva; e il buon Polite, Duce di prodi e venerando e caro A me su tutti, favellò primiero: Certo, amici, una donna od una Diva 275 Ha qui soggiorno, che al telaio assisa Empie l’albergo del suo dolce canto. Or via dunque si chiami. - Ei tacque, e tosto Essi fuor la chiamâro. Uscì la bella Circe, schiudendo le dorate imposte, 280 E ad entrar gl’invitò. Tutti la Ninfa [164] Sconsigliati seguìan; ma non l’accorto Eurìloco, temendo un qualche inganno. Essa li collocò su troni d’oro, E poi di cacio e farro e miele infuse 285 Una mistura in prammio vino, e al pane Un veleno aggiugnea, ch’ogni memoria In lor sopisse del terren natìo. Non appena vuotata ebber la coppa, Circe con una verga li percosse; 290 E tutti li cacciò dentro una stalla, Ove prendean di porci e testa e voce E corpo setoloso, intero e saldo Come prima serbando l’intelletto. Così dolenti li rinchiuse, e ghiande 295 E cornïole vi gittò la Ninfa, Onde il maiale sonnolento ingrassa. Nunzio del caso inaspettato, al lido Giugnea correndo Eurìloco; ma il core Gli tremava nel petto, e nella strozza 300 Il dolor gli serrava le parole, E gonfie avea di lagrime le ciglia. Tutti allor ci stringemmo a lui dintorno Perché parlasse; ed egli alfin la storia Così narrava de’ perduti amici: 305 Come tu comandasti, inclito Ulisse, La selva delle querce attraversando, Trovammo in quelle valli una superba Casa di marmo, sovra un poggio eretta. Ivi una donna, o Dea che fosse, un dolce 310 Canto sciogliea, tessendo una sua tela. Noi dalla soglia la chiamammo; ed ella Uscendo schiuse le lucenti imposte, E ad entrar ne invitò. Ciascun la segue Senza sospetto, e fuor rimango io solo, 315 Paventando un inganno. In un istante Tutti sparir li vidi a me dinanzi; Né verun più comparve, ancor che molto Io m’indugiassi ad aspettarli assiso. [165]All’infausta novella, il brando afferro 320 D’argentei chiovi tempestato, e l’arco Mi gitto su le spalle, e ad esso ingiungo Di meco ricalcar la via già corsa. Ma con le mani supplice i ginocchi Stringendomi e piangendo, ei mi dicea: 325 Deh! non forzarmi, o del gran Giove alunno, A seguirti colà, ma qui mi lascia; Ché né tu stesso ritornar, né gli altri Ricondur tu potrai. Fuggiam, fuggiamo, Sin che allo scampo ancor ne s’apre un varco. E tu qui resta, Eurìloco, risposi, 331 Se ciò t’aggrada; e mangia e bevi in pace, Ch’io v’andrò solo, poi che andar bisogna. Così detto, lasciai la nave e il lido; E per le sacre valli il piè movendo, 335 Già m’appressava al maestoso albergo Dell’ingannevol Dea, quando, in sembianza Di leggiadro garzon, mi viene incontro Con l’aurea verga il messaggiero Ermete; La man mi stende, e mi saluta, e dice: 340 Misero, perché vai fra queste balze, Che non conosci, così solo errando? In porci setolosi ha trasformati La maga Circe i tuoi compagni, e chiusi In ben guardate stalle. A liberarli 345 Sei qui forse venuto? Ah che tu stesso Cadresti ne’ suoi lacci! Ma t’affida, Ch’io farò di salvarti, ed odi come Prendi, e teco di Circe alla magione Porta quest’erba, ch’ogni rea ventura 350 Stornerà dal tuo capo. Le malvage Arti fra tanto della Maga apprendi. Nel vino una mistura ed un veleno Ti porgerà nel pane; e tuttavolta Né l’un, né l’altra recheranti offesa, 355 Perché il farmaco mio non lo consente. Quando poi Circe con la lunga verga [166] T’avrà percosso, tu la spada impugna, E a lei t’avventa in atto di ferirla. Sbigottita la Ninfa a quella vista, 360 Seco a giacer t’inviterà; né il letto Tu ricusarne, se i fedeli amici Vuoi che ti sciolga, e teco sia cortese. Ma prima per lo Stige ella ti giuri Di non tenderti insidie, allor che vinto 365 T’avrà con molli abbracciamenti il core. Il divin messaggiero in questo dire Mi porse un’erba, dal terren divelta, Che bruna la radice e come latte Avea candido il fiore; e ne facea 370 A me palese la virtù segreta. Moli dai Numi è detta, e braccio umano A fatica la sbarbica; ma nulla È difficile ai Numi. Il saggio Ermete, Ciò fatto, valicando la silvestre 375 Isola, ai gioghi dell’Olimpo ascese; Ed all’albergo io m’avvïai di Circe, Tristo e pensoso. Giunto in su la soglia, Io m’arresto, e la chiamo. Incontanente Esce la Ninfa dalle crespe chiome, 380 E spalancando le dorate imposte Seco d’entrar m’accenna, ed io la seguo. Essa per man mi prende, e in bella scranna Seder mi fa, d’argentee borchie adorna, Col suo sgabello ai piedi. In aurea tazza 385 Uno strano licor quindi mi porge, Ove già la mistura affatturata Infuso avea. Lo bevo, e non mi nuoce. Mi tocca allora con la verga, e sclama: Or va con gli altri, e nel porcil ti sdraia. 390 Sì parla; e ratto io snudo il brando, e come Trafiggerla volessi, a lei m’avvento. Manda un grido la Diva, e le ginocchia, Curvandosi, mi stringe, e in rotti accenti, Oh chi se’ tu, mi dice? e donde vieni? 395 [167] Dove hai tu la tua casa, i tuoi parenti? Questo licor bevesti, e non ti nocque: Io ne stupisco, perché ancor la prova Nessun mai de’ mortali ne sostenne, Nessuno impunemente l’introdusse 400 Nella chiostra dei denti. Un’alma invitta Certo in seno tu chiudi, il saggio Ulisse Certo sei tu; perché il figliuol di Maia Diceami spesso ch’egli un dì sarìa Qui da Troia venuto. Orsù, riponi 405 Nella guaina questo ferro, e meco Ti corca nel mio letto, ove abbracciati A fidar l’un nell’altro impareremo. Tacque la Diva, ed io proruppi: Ah come Esser poss’io con te pietoso, o Circe, 410 Che in porci hai convertito i miei compagni? E qui me stesso ad arte trattenendo, Vuoi che il tuo letto io salga, onde spogliarmi D’ogni virtù con molli amplessi il core? No, non sarà che teco io mai mi corchi, 415 Se pria non giuri per l’inferno Stige Che non mi tenderai novella insidia. Dissi; ed ella giurò com’io le imposi; E quando verbo a verbo proferito Ebbe il solenne giuramento, il vago 420 Suo letto ascesi. Quattro fide ancelle; Della Dea governavano la casa, Nate dai sacri fiumi, al mar correnti Dai fonti e dalle selve. Una coperse I bei sedili di purpurei drappi, 425 Sotto cui steso avea soffici lane: E rimpetto ai sedili argentei deschi Un’altra apparecchiò, su cui depose Canestri d’oro. In fulgido cratere Una terza infondea le rosee spume, 430 Ed aurei nappi scompartìa sui deschi; Mentre, l’aqua versando in un lebete Una quarta, un bel fuoco v’accendea [168] Per riscaldarla. Poi nel bagno io scesi, E sul capo spargendomi e sul dorso 435 La chiara e tepid’onda, con le spugne Mi lavò la donzella; ed io sentìa A poco a poco dalle membra uscirmi La stanchezza dell’alme roditrice. M’unse ella quindi con fragrante oliva, 440 E poi che m’ebbe una leggiadra veste Indossata ed un manto, ad una sala Mi condusse, e mi fece in ben costrutto Scanno seder, d’argentee borchie adorno. Quivi da brocca d’oro un’altra ancella 445 Mi versò l’aqua su bacil d’argento, Ed un desco recommi; e la pudica Dispensiera il coprìa di bianchi pani E di vivande, e a stendervi la destra Mi confortava. Ma di cibi schivo 450 Io sedea meditando, e imaginando Nuove sciagure. Come la ricciuta Ninfa s’avvide ch’io pensoso e mesto Non mi curava della mensa, a canto Sollecita mi venne, e, Perché, disse, 455 Qui siedi taciturno, e sì t’attristi, Né cibo prendi né bevanda? Forse Di qualche inganno tu paventi; e a torto, Dopo quel ch’io giurai terribil giuro. Come, o Circe, io risposi, un uom che chiuda 460 Un core in petto, saporar potrìa Carni o vino, sapendo i suoi compagni Mutati in belve? Se davver tu brami Ch’io qui mi cibi, rendimi gli amici, Fa’ che tosto io li vegga a me dinanzi. 465 Sì dissi; e Circe con la verga in pugno Corse ad aprir la porta della stalla, E tosto uscirne i miseri facea, Che di porci novenni avean l’aspetto. Si schierarono tutti a lei di fronte; 470 E la Maga, dall’un passando all’altro, [169] Con un benigno sugo a ciascheduno Ungea le terga; e dalle membra i lunghi Peli ad essi cadean, che la mistura Avea prodotti, ed uomini di novo 475 Si facean, più che pria giovani e belli E vigorosi. Non tardâr gli amici A ravvisarmi; e tutti ad uno ad uno Stringendomi la mano, in un dirotto Pianto scoppiâr, sì che la stessa Maga, 480 Impietosita, a me si volse, e disse: O di Laerte glorïoso figlio, O saggio Ulisse, su via, corri al lido. Tira in secco la nave, e i tuoi tesori E l’armi ne’ vicini antri nascoste, 485 Co’ fedeli compagni a me ritorna. Il suo consiglio di buon grado accetto; Ed alla spiaggia discendendo, io trovo I miseri sul legno, disperati Di nostra sorte, e in largo pianto immersi. 490 Come quando dal pascolo satolle Ai lor presepi tornano le vacche, Escono le vitelle ad incontrarle, E le madri circondano festose Saltellando e muggendo; in simil guisa 495 Mi si fecero intorno i cari amici, E lor quasi parea l’itache prode Aver raggiunte e le paterne mura. Inclito Ulisse, del gran Giove alunno, Il rivederti tanto ne consola 500 (Dicean) che più non ne potrìa la vista D’Itaca nostra e delle nostre case. Ma degli altri che fu? come perîro? Ed io tranquillo rispondea: Compagni, Tiriam la nave in secco, e ne’ vicini 505 Antri i tesori nascondiamo e l’armi E tutti meco poi venite al sacro Tetto di Circe, dove allegramente I nostri cari banchettar vedrete. [170] Tacqui; ed essi obbedìan volonterosi. 510 Solo Eurìloco cerca trattenerli, Or questo or quello a sé chiamando, e grida: Sventurati, ove andiam? che vi trascina Alla casa di Circe, onde in maiali Ella vi cangi, o in lupi od in leoni 515 Condannati a difenderne la soglia? Ah! vi ricordi Polifemo, e l’antro Ove già questo temerario Ulisse Guidava i nostri a miseranda fine! Mi corse a quel parlar la mano al ferro, 520 E reciso gli avrei dal busto il capo Benché di sangue ei fosse a me congiunto; Ma gli altri mi frenâr, così dicendo: Eversor di città, divino Ulisse, Deh! non t’incresca di lasciar costui 525 A guardia della nave, e noi conduci All’ostello di Circe. - In questo dire, Davano al negro pino e al mar le terga, Né vi rimase Eurìloco, temendo Il mio corruccio, e anch’egli ne seguìa. 530 Con molta cura avea la Ninfa intanto Lavati e sparsi d’odoroso ulivo I redenti compagni, e di leggiadre Vesti coperti. Tutti al desco assisi Noi li trovammo; ed essi nel vederci, 535 I tollerati affanni rammentando, A singhiozzare e a lagrimar si diêro. Ma Circe a me s’appressa, e così parla: Di Laerte figliuol, prudente Ulisse, Anch’io conosco i rischi e le fatiche 540 Da voi durate sul pescoso mare, Conosco i mali che nemica gente Patir vi fece in terra; e pur vorrei Che al tanto lamentar poneste un freno Cibatevi, bevete, finché tutta 545 In voi l’antica gagliardìa si desti. Ma la memoria delle acerbe angosce [171] Che vagando soffriste, ogni conforto, Ogni letizia v’ha dal cor bandito. Il parlar della Dea ne persuase; 550 Sì che, cessati i pianti, un anno intero In giocondi conviti ivi passammo. Ma poi qualcuno de’ più fidi, a parte Chiamandomi, dicea: Misero! è tempo Che ti ricordi della patria terra, 555 Se pur t’assente d’approdarvi il fato. Il suo dir mi commosse. Ancor quel giorno Sedemmo al desco, di vivande ingombro E dolci vini. Ma caduto il Sole, Giacquero gli altri per l’oscuro albergo, 560 Ed alla stanza della Dea salendo, Io le stringo i ginocchi, e così prego: O Circe, adempi la promessa, e al caro Suol natìo ne rimanda: unico, ardente Mio desiderio, e de’ fedeli amici, 565 Che con pianti m’attristano e con lagni Solo un momento che da me ti scosti. Laerziade divino, accorto Ulisse, La Dea rispose dalle crespe chiome, Non io, vostro malgrado, in questo albergo 570 Vi tratterrò. Ma pria novo cammino Correr v’è d’uopo, di calar v’è d’uopo Allo squallido Averno, e del tebano Cieco Tiresia consultar lo spirto; Di Tiresia, che solo tra i defunti, 575 Per favor di Proserpina, conserva Il senno antico, mentre aeree, vane Forme son gli altri. - A quel crudele annunzio Il cor mi si spezzò: sedea piangendo Sul letto, e più né sopportar la vita, 580 Né i rai del Sole rimirar volea. Ma visto alfin che indarno era il mio pianto, Alla Ninfa rivolto, io domandai: E chi mi guiderà per quella via, Se ancor pilota non drizzò la prora 585 [172] Al buio inferno? - E a me così la Ninfa: Astuto figlio di Laerte, Ulisse, Non ti crucciar, se non avrai per quelle Aque un pilota. L’albero drizzato E spiegate le vele, in su la poppa 590 Siedi tranquillo, ché di Borea il soffio Guiderà la tua nave. Ma l’immenso Pelago valicato, e gli aquidosi Lidi raggiunti, dove sono i boschi A Proserpina sacri, e gli alti pioppi 595 E i salici infecondi; il corso arresta Della volante prora, e ai foschi alberghi T’avvia di Pluto. Quivi Flegetonte, E Cocito, che sgorga dallo Stige, Versano in Acheronte i vorticosi 600 Flutti, e s’ode il rimbombo dei due fiumi Che mescon fra i dirupi le correnti. Colà t’inoltra, e quanto io dico adempi: Scava una fossa quadra, che misuri Per ogni verso un cubito, e libando 605 Devotamente ai mani, in pria su l’orlo Latte vi spargi, e vino poscia ed aqua, E su vi gitta candide farine. Fatto ciò, leva un prego a tutti i morti, E prometti che, in Itaca tornato, 610 Una giovenca ad essi immolerai Delle più belle, prezïosi aromi Abbruciando sul rogo, e al sol Tiresia Un arïete, il fiore della greggia E tutto nero. Come avrai compiuta 615 La tua preghiera, all’ombre degli eroi Svena un montone ed una negra agnella, Che all’Èrebo conversa abbian la fronte; Ma tu rivolta la terrai del fiume Alla tetra corrente. Una gran turba 620 Verso la fossa accorrerà di lievi Ombre. Intanto alle vittime scannate Trarranno il cuoio e n’arderan le carni [173] I tuoi compagni, agl’infernali Numi Voti porgendo e al prepossente Pluto 625 E alla fiera sua sposa; e tu col nudo Ferro nel pugno impedirai che al sangue S’accostino de’ morti i vani capi, Fin che non abbia il buon Tiresia udito. Verrà Tiresia in breve, e il tempo e il modo 630 Del tuo ritorno ad Itaca serena Palese ti farà. - Disse; e l’Aurora Sul dorato suo trono in ciel comparve. Mi vestì, m’indossò tunica e manto; E sé la Dea ravvolse in ampia gonna, 635 Candida, fina, e di gentil fattura, Si strinse ai lombi un’aurea fascia, e un vago Serto si pose su la testa. Io ratto M’aggiro per le stanze, e ad uno ad uno, Sorgete, grido, ché al fin giunta è l’ora 640 Della nostra partenza: a me l’avviso Ne die’ poc’anzi la divina Circe. Grate ad essi tornar le mie parole, E m’obbedir. Ma quinci ancor non tutti Io potei salvi ricondur gli amici. 645 Era Elpenore meco, un buon garzone, Mal destro all’armi, e povero di senno, Che dormito m’avea lontan dagli altri, Cercando refrigerio alla caldura Del tracannato vino. In piè repente 650 Ei levossi, al rumore ed alle voci De’ ridesti compagni; ed oblïando Di calar per la lunga usata scala, Giù dal tetto cadea. Della cervice Si ruppe i nodi, e scese l’alma a Dite. 655 Poiché li vidi intorno a me raccolti, Io così favellai: Voi forse, amici, Al patrio lido navigar credete; Ma ben altro cammin Circe ne addita, E comanda che pria scendiamo all’Orco 660 Del teban vate a consultar lo spirto. [174] Io tacqui; e corse a tutti un gel per l’ossa. Piangeano al suol prostrati, e dalla testa Si strappavano i crini: ma quel pianto Nulla ad essi giovò. Quando alla spiaggia 665 Mesti arrivammo, Circe avea sul legno Un montone e una negra agna legati, Precedendo non vista. E chi potrebbe Un Celeste veder, spiarne i passi, Quando all’occhio mortal desìa sottrarsi? 670 [175] LIBRO UNDECIMO SOMMARIO Ulisse scende colla sua nave ai Cimmerii, ed entra nell’Inferno, dove tosto sacrifica una pecora ed un montone alle anime dei defunti. - Suo colloquio con Elpenore. - Tiresia, famoso indovino, lo istruisce de’ futuri suoi casi. - Parla con la madre, da cui apprende lo stato della propria famiglia; indi gli si presentano molte eroine ed eroi, fra i quali Achille, Aiace Telamonio, ed Agamennone, che gli narra la morte infelice a lui tramata dalla moglie. - Vede Minosse, che giudica le anime dei morti, e Tizio, e Sisifo, condannati a varie e durissime pene. - Quindi s’incontra collo spettro di Ercole, il quale gli volge cortesi parole. - Finalmente alle grida di una turba di spettri, còlto da paura, torna frettoloso alla nave. Ma giunti al lido, e spinta in mar la nave, Albero alziamo e vele, e l’arïete Quindi e l’agna pigliandoci sul dorso, Li gettiam nella stiva; e alfin dolenti E sospirosi vi montiam noi stessi. 5 Circe, chiomata Dea, che dolce canta, Ne sollevò da poppa un’aura amica, Fida, costante, che ferìa nel mezzo I bianchi lini. Messi allor da parte I nostri arnesi, sedevam tranquilli 10 Nella corsìa, lasciando che la brezza Guidasse il legno; e questo il giorno intero Agilmente le azzurre onde fendea. Ma come il Sol disparve, ed offuscossi [176] Il cielo, entrò nelle profonde foci 15 Dell’Oceàn, che bagna la pianura Ove ha sua stanza la cimmeria gente, Sempre in tetra caligine sepolta; Perché l’occhio del Sol mai non la guarda, Sia ch’ei s’innalzi alla siderea vòlta, 20 Sia che pieghi di là verso la terra: La trista Notte sempre l’ali brune Stende sul capo ai miseri mortali. Ivi approdammo; e l’agna scaricata E l’arïete, lungo la corrente 25 Del gran fiume salimmo, in sino al loco Da Circe designato. Perimede Ed Eurìloco l’ostie tenean ferme; Ed io, snudata la tagliente spada, Una fossa scavai, che misurava 30 Per ogni verso un cubito. Su l’orlo Quindi vi sparsi e latte e vino ed aqua, L’un dopo l’altro, e sopra vi spruzzai Bianche farine, propinando ai mani; E con fervide preci ai nudi spettri 35 Io promettea che, in Itaca tornato, Una giovenca ad essi immolerei Fra le più belle, di fragranti aromi Ricolmando la pira; e un arïete, Il fiore della greggia, e tutto nero, 40 Al sol Tiresia. Questi voti e queste Preci compiute, l’agna ed il montone Io scannai su la fossa; e mentre il caldo Sangue sgorgava, uscìan l’ombre de’ morti Fuor dell’Erebo in frotta. Erano spose, 45 Eran garzoni imberbi, e vecchi infermi, E verginelle tenere, coi segni Del fresco lutto su le guance impressi; Eran alme d’eroi caduti in guerra, Con le membra dall’aste vulnerate 50 E gli usberghi cruenti, che alla fossa Vagolavano intorno, sollevando [177] Un immenso clamor. Fredda paura Mi strinse il core, ed affrettai gli amici A scuoiare, a bruciar l’ostie svenate, 55 E porger voti agl’infernali Dei, Al forte Pluto, alla crudel sua moglie; Ed io, sedendo con la spada in pugno, Impedìa che i vaganti simulacri S’accostassero al sangue, anzi che avessi 60 Tiresia udito. Prima a farsi avanti Fu l’anima d’Elpenore, non anco Onorato d’esequie; ché insepolta E illagrimata n’avevam la salma Deposta in casa della Diva, ad altre 65 Opre chiamati. Appena il vidi, io piansi; E, di pietà compunto, il salutai, Elpenore, dicendo, e come all’Orco Sei tu disceso? e come sei qui giunto Tu prima a piè, che noi su l’agil prora? 70 Ed egli a me piangendo: O di Laerte Illustre figlio, un demone maligno E il troppo vino mi guastâr la mente: Sendomi su l’altana addormentato Dell’albergo di Circe, io mi scordai 75 Di calar per la scala, e giù dal tetto Precipitando, mi spezzai del collo I nodi, e scese l’alma al negro Pluto. Or io ti prego pe’ tuoi cari assenti, Per tua moglie, e tuo padre, che nudrito 80 T’ha da fanciullo, per l’unico figlio Io ti prego, che in Itaca lasciasti: Quando all’isola Eea sarai tornato (Ov’io so che dall’Orco un’altra volta Approderai con la tua bella nave), 85 Ricòrdati di me, fa’ ch’io non giaccia Senza onor di sepolcro e senza pianto, Se l’ira provocar non vuoi di Giove. Ah! dammi al rogo, mio signor benigno, [178] Con l’armi stesse che portai vivendo; 90 E del canuto mar sul lido innalza Un tumolo, che ai posteri rammenti L’infelice nocchiero, e su la vetta Vi pianta il remo ch’io trattar solea De’ miei compagni al fianco. - Ei disse; ed io, 95 Infelice, risposi, ogni tua voglia Appagata sarà. - Noi sedevamo Alternando così meste parole; E quando io già tacea, sul sangue stesa Ognor tenendo l’affilata spada, 100 Egli ancor mormorava oscuri accenti. Ma sopraggiunse l’ombra d’Anticlea, Del generoso Autòlico figliuola, La madre mia, che ad Ilio navigando Viva lasciai nelle paterne mura. 105 Piansi in mirarla io, sì, pietà profonda Di lei mi strinse; e pur nemmeno ad essa, Benché me ne crucciassi amaramente Conceder volli d’appressarsi al sangue Prima che avessi il re Tiresia udito. 110 Ed ecco uscir con l’aureo scettro in pugno Del tebano profeta il simulacro. Mi conobbe, e sclamò: Perché del Sole, Misero, abbandonasti i dolci rai? Per veder vani spettri e mesti alberghi? 115 Ma via ti scosta dalla fossa, e il ferro Deponi, perché io beva, e il ver ti dica. A questi accenti io mi scostai, la spada Nel fodero celando; e il buon profeta Al negro sangue s’avvicina, e beve. 120 Ed a me rivolgendosi, prosegue: Facile e piano, il so, tu speri, o prode Laerziade, il ritorno. Ma un Celeste Lo sturberà: perocché indarno agli occhi Vorrai sottratti di Nettun, che in ira 125 Ti prese il dì che gli acciecasti il figlio. Nondimen fra dolori e le sciagure [179] Itaca rivedrete se, scendendo All’isola Trinacria, i tuoi compagni E te medesimo contener tu sappia. 130 Ivi pascono i buoi, pascono i pingui Arïeti del Sol, che tutto vede E tutto ascolta. Se al vïaggio intenti Voi lascerete quelle mandre illese, Benché a fatica, le itacesi sponde 135 Vi fia dato afferrar. Ma guai se alcuno Su quelle ardisse di calar la scure! La tua nave, te stesso, i tuoi compagni, Tutti allor colpirebbe il fato estremo. E quando ancor tu solo ne campassi, 140 Tardi, senza conforto e senza amici E su nave straniera, alla tua casa Ritornerai, che d’ogni male è piena, Ed in balia di giovani superbi, Che ne sprecan gli averi, e alla pudica 145 Tua sposa offrendo nuzïali doni, Tentan sedurne il core. Aspra vendetta Tu ne farai. Ma come con la forza O con l’inganno avrai gli amanti uccisi, Prendi un agile remo, e in via ti poni; 150 E va’, finché non giunga ad una gente Che visto mai non abbia il mar pescoso, Che sal non mesce ai cibi, e non conosce Che sian le navi dalle pinte prore, E i remi che son l’ali delle navi. 155 Avrai per segno che colà giugnesti, Se qualcun che t’incontri sul cammino Dirà che un ventilabro hai su le spalle. Allor tu pianta l’agil remo in terra; E, svenati a Nettuno un arïete, 160 Un toro e un porco non castrato, a casa Ritorna, ed offri senza indugio a tutti Gl’immortali del cielo abitatori Un’ecatombe. Al mar così sfuggito, Lentamente da placida vecchiezza 165 [180] Consunto, morirai dal tuo felice Popolo circondato. Io tel predico. Qui si tacque Tiresia, ed io gli dissi: Certo quanto hai narrato è nella mente De’ Celesti. Ma d’altro or si ragioni. 170 Io veggo a me dinanzi il simulacro Dell’estinta mia madre; è là seduta, Mesta, vicino al sangue, ed a suo figlio Uno sguardo non volge, una parola. Deh tu m’insegna come far poss’io 175 Ch’ella mi raffiguri! - Inclito Ulisse, Agevole (soggiunse il cieco vate) È la risposta: l’ombre di coloro, Cui tu concedi d’appressarsi al sangue, A te favelleranno, e taciturne 180 Ti daran l’ombre, a cui lo nieghi, il tergo. Compiuto il vaticinio, il buon Tiresia Ne’ foschi alberghi rïentrò di Pluto. Ma lì fermo io restai, fin che alla fossa Non venne, e il sangue non gustò la madre, 185 Che tosto mi conobbe e dolorando Mi chiese: O figlio, come hai tu potuto Scender vivo quaggiù, nella profonda Caligine dell’Orco? All’uom mai sempre Ardua ne fu la via, da rauchi fiumi, 190 Da torbide correnti attraversata, E dal gonfio oceàn, che non si varca A piè, ma solo in ben costrutta nave. Forse da Troia dopo lunghi errori Col tuo legno a noi vieni e i tuoi nocchieri? 195 E ad Itaca non fosti? e ancor la cara Sposa tua non vedesti e le tue case? Dura necessità, madre, io risposi, Quaggiù mi trasse a consultar lo spirto Del tebano Tiresia. A lido acheo 200 Con la negra mia nave ancor non giunsi, Né la patria rividi; e sempre errando Andai miseramente in fin dal giorno [181] Che su l’orme del grande Agamennóne Salpai per Ilio, di cavalli altrice, 205 A pugnar co’ Troiani. Or tu mi svela Qual caso mai ti diede in braccio al duro Sonno di morte. Fu lento malore? Fu l’arciera Dïana che t’uccise Con le sue frecce? Parlami del padre, 210 Di mio figlio mi parla, e fa’ ch’io sappia Se re nella mia casa ancora io sono, O s’altri vi comanda, come s’io Più tornar non dovessi; e mi palesa La mente di Penelope e i disegni: 215 S’ella vive col figlio e custodisce I domestici averi, o se impalmata Già non l’abbia qualcun de’ prenci achivi. E a me la veneranda genitrice: No, la povera tua moglie dimora 220 Sotto il tuo tetto, in lagrime e sospiri; E tristi i giorni, tristi alla dolente Scorron le notti. Nel regal tuo seggio Nessuno ti successe; e i tuoi poderi Coltiva ognor Telemaco tranquillo, 225 E, come al figlio si convien d’un prence, Agli onesti conviti egli s’asside, A cui spesso è chiamato. Il tuo buon padre Vive fra i campi, né in città mai viene. Ei non ha letto morbido, non coltri, 230 Non lanosi tappeti; e nella fredda Stagion s’addorme al focolar vicino Co’ suoi famigli, di sdruscite vesti Appena ricoperto; e nell’estate E nel fecondo autunno, un letticciuolo 235 Gli stendono di foglie tra i filari Della sua bella vigna, ov’ei si giace Piangendo il tuo destino, e dalla tarda Età consunto. Anch’io così son morta: Né Dïana, che mai non vibra in fallo, 240 Co’ suoi strali m’uccise, o lunga tabe [182] L’anima dalle membra uscir mi fece; Sì la brama di te, l’ansia, il sentirmi Orba dell’amor tuo, divino Ulisse, M’hanno rapita a’ dolci rai del Sole. 245 A tali accenti un gran desìo mi nacque d’abbracciar la defunta genitrice. Io ben tre volte lo tentai, ma sempre Qual sogno od ombra mi fuggì dinanzi; Onde pien di dolore e di corruccio, 250 Madre, perché t’involi alle mie braccia? Io le dicea; perché non vuoi che in dolci Amplessi uniti, anche nel buio Inferno Gustiam la trista voluttà del pianto? O non sei tu che un idolo bugiardo, 255 Dalla cruda Proserpina mandato A funestarmi il core? - E la pietosa Genitrice proruppe: Ahi figlio mio, Ahi più d’ogni altro sventurato eroe! No, Proserpina, moglie del gran Pluto, 260 Te non inganna. Ma la sorte è questa De’ miseri defunti, che non hanno Più carni ed ossa, dall’ardente rogo Già consumate: quando in noi la vita Si spegne, l’alma, simile ad un sogno, 265 Prende rapida il volo e si dilegua. Ma via, t’affretta, riedi alle serene Piagge del mondo, e ciò ch’io ti svelai Ricorda e narra alla fedel tua sposa. Mentre questo parlar fra noi seguìa, 270 Dal nume di Proserpina incitate, Ecco in folla apparir de’ più famosi Eroi le figlie e le consorti, e tutte Sitibonde aggirarsi intorno al sangue. Ma poiché interrogarle ad una ad una 275 Io bramava, afferrata la lucente Spada, ad esse impedìa di bere insieme; E così l’una dopo l’altra, il nero Sangue libato, a me facean palese [183] La patria terra, il nome e le vicende. 280 Ivi la prima a favellar fu Tiro, D’illustre seme; perocché si disse Nata dal generoso Salmoneo, Ed anche di Creteo moglie si disse, D’Eolo figliuolo. S’invaghì costei 285 Del divino Enipeo, fiume gentile, Che tutti vince di beltade i fiumi Che scendono da Giove. Essa nell’aque Si bagnava del suo caro Enipeo, Quando la vide il gran Nettuno; e tolte 290 Di quel leggiadro fiume le sembianze, Ratto v’accorse, e n’occupò la foce. Pari ad un monte un’onda porporina Allor piegossi in arco, e la fanciulla Nascose e il Nume, che il virgineo cinto 295 Le sciolse, e per le membra le diffuse Un tenero sopor. Poiché Nettuno Fe’ di lei pago l’amoroso ardore, La man le strinse, e sì parlò: T’allegra Di questo amore, o donna. Anzi che l’anno 300 Tocchi al suo fine, partorito avrai Bella gemina prole; ché infecondi Non son gli amplessi degli Dei. Tu cura Ne prendi, e la nutrisci. Or vanne, e chiuso Serba in core il segreto: io son Nettuno, 305 Il Nume che la terra abbraccia e scuote. Calò, ciò detto, in grembo al mare, e sparve. Tiro ingrossando partorì Neleo E il magnanimo Pelia, ambo di Giove Possenti alunni: e Pelia la ferace 310 Jaolco resse, che di greggi abbonda, E resse l’altro l’arenosa Pilo. La bellissima donna indi a Creteo Di tre figli fu madre, Eson, Ferete, E il guidator di cocchi Amitaone. 315 Tiro scomparsa, Antïope mostrossi, Prole d’Asopo, glorïosa anch’ella [184] D’aver dormito al re de’ Numi in braccio; E Zeto gli produsse ed Anfïone, Che i primi a Tebe dalle sette porte 320 Gittâr le fondamenta, e di superbe Torri la circondâr; ché mal senz’esse Nell’ampia Tebe si tenean securi. Dopo costei si presentava Alcmena, Moglie d’Anfitrïon, madre d’Alcide, 325 Anima di leone, ingenerato Dai caldi amplessi dell’Egioco Giove; E Megara, figliuola di Creonte, Dell’indomito Alcide inclita sposa. Si presentò d’Edipo anco la bella 330 Genitrice Epicasta, che commise Per error della mente un gran misfatto, Sé dando al figlio; ed egli, ucciso il padre In moglie la condusse. Ma il nefando Caso ai mortali rivelâr gli Dei 335 Subitamente. Nell’amena Tebe Visse Edipo, e regnò gran tempo, in preda Alle sventure, che su lui piovea L’ira del cielo; ed Epicasta, un laccio Alla vòlta del suo talamo appeso, 340 Calò, vinta dal duolo, al negro Pluto, Del materno furor lasciando al figlio L’eredità funesta. Indi m’apparve Clori, che per le sue mirande forme Il saggio re Neleo si tolse in moglie, 345 E di rari colmò superbi doni: Clori, figlia minor del generoso Iaside Anfïon, che un dì lo scettro Su l’Orcomeno Minïeo stendeva E su Pilo arenosa. Egregia prole 350 Diede Clori al marito: il buon Nestorre, Cromio, e Periclimeno, e la divina Pero, portento di beltade, a gara Da tutti ambita. Ma sposarla il padre [185] Volea solo a colui, che prima i forti 355 Buoi ritogliesse al prepotente Ificle, Che in Filaca rinchiusi li tenea: Difficile rapina, a cui da solo Melampo, l’infallibile profeta, Erasi accinto; ma gli avversi Numi, 360 L’aspre ritorte, e i ruvidi bifolchi Gli fûr d’inciampo. Nondimeno, all’ore I giorni succedendo, e ai giorni i mesi, E ormai d’un anno il termine venuto, Lo stesso Ificle libero mandollo, 365 Perché compiuti ad uno ad un ne vide Tutti i presagi, come piacque a Giove. E Leda uscì, di Tindaro la sposa. Che lieto il fece di due prodi figli, Castore di cavalli domatore 370 E il vigoroso lottator Polluce. Vivono entrambi in seno all’ampia terra, Cari al massimo Giove; ed a vicenda Si mostrano e si celano allo sguardo Dell’uom, che al pari degli Dei gli onora. 375 E d’Aloeo la sposa Ifimedìa Uscì, che pure con Nettun si giacque. N’ebbe due figli, ancor fanciulli estinti, Oto ai Celesti eguale ed Efïalte: Altissimi, bellissimi fanciulli 380 Fra quanti ne nudrì l’alma Tellure, Se ne togli Orïon, beltà suprema. Non toccavan due lustri, e avean già largo Nove cubiti il petto, e trenta braccia Alta dal suol portavano la fronte; 385 Sì che gli stessi Dei n’ebber paura Quando venner con essi ad azzuffarsi: Ché levar su l’Olimpo avean tentato L’Ossa, e su l’Ossa il Pelio, ed alle stelle Farsi una scala. Né fallìa l’impresa 390 Ove le membra avesse lor cresciute La pubertà. Ma il saettante Apollo [186] Li trafisse ambedue, pria che fiorite Le guance e il mento avessero di peli. E Fedra e Procri io vidi, ed Arïanna, 395 La figlia di Minosse, che Teseo Ai pingui campi della sacra Atene Da Creta addusse; né goder potea, Perché Cinzia, da Bacco stimolata, Prima l’uccise nell’ondosa Dia. 400 Sopraggiunsero Mera indi e Climene, E l’abborrita Erifile, che fece Del marito con l’oro il vil baratto. Ma di tutte le spose e le figliuole D’eroi, ch’ivi scopersi, i nomi e i casi 405 Non io ricorderò; ché a tal racconto Non basterìa l’intera notte, e l’ora Del dormir s’avvicina. Ei disse; e muti Stavano ad ascoltarlo i Feacesi, Di segreta dolcezza il cor ripieni. 410 Allor sorgendo, così parla Arete Dalle candide braccia: O Feacesi, Che vi sembra d’un uom di tanto senno, Di sì belle sembianze? Ospite mio Egli è bensì; ma tutti voi non meno 415 Onorar lo dovete. A congedarlo Dunque non v’affrettate, ed ogni cosa Onde abbisogni gli fornite in copia, Già che tanto con voi fu largo il cielo. Tacque; e il prence Echeneo, ch’era il più vecchio Fra gli eroi della Scheria, Amici, disse, 421 Non abbia indarno favellato Arete, Poiché da saggia favellò; ma pria Convien d’Alcinoo consultar la mente. Proruppe Alcinoo allor: Tale è l’usanza 425 Che sempre seguirò, finché la vita Mi basta, e re di queste genti io sono. Ma l’ospite s’indugi, ancor che tanto L’andar gli prema, fino al dì novello, [187] Onde i doni io raccolga; e ai Feacesi, 430 E più che agli altri a me, che qui comando, Tutta del suo partir la cura affidi. E lo scaltro Itacense: O grande Alcinoo, O valorosi condottieri e prenci, Se a congedarmi carco di bei doni 435 Qui vi piacesse trattenermi un anno, Dolermi non potrei; perché se piene Avrò le mani, in Itaca tornando, Io vi sarò più festeggiato e caro. Stranier, soggiunse de’ Feaci il sire, 440 Il tuo sembiante chiaro a noi palesa Che ciurmador, né mentitor tu sei, Della mala semenza, che la negra Terra nutrica, di color che vanno Mascherando con arte la menzogna, 445 Sì che dal vero la discerni appena. Onesta hai l’alma, ornata la favella, E come vate rammentar sapesti Le tue vicende, e degli eroi le imprese. Ma dimmi ancora se laggiù qualcuno 450 Incontrasti, che teco ha combattuto Sui teucri lidi, e vi perdea la vita. Lunga è la notte; e se a narrar tu segui La tua storia dolente, ad ascoltarti Noi qui staremo fino all’Alba immoti. 455 Ulisse replicò: l’ore del sonno L’ore del molto favellar non sono, Pur, se udirla tu brami, io la pietosa Storia qui narrerò de’ condottieri Che, salvi usciti dalle iliache stragi, 460 Perìan miseramente al lor ritorno Per colpa d’una femmina spergiura. Poiché tutte la casta Proserpina Ebbe le femminili ombre disperse, Lo spettro dell’Atride Agamennóne 465 Mesto si presentò, dai simulacri Accompagnato de’ guerrier che seco [188] Avea la prole di Tïeste uccisi. Come il sangue ei libò, mi riconobbe, E, rigando di lagrime le gote, 470 Allungò il braccio a stringermi la mano: Ma nol potea, ché vuoti erano i polsi Dell’antico vigor. Piansi pur io In vederlo, e pietà mi vinse il core, Sì che a nome il chiamai, così dicendo: 475 Duce di prodi, glorïoso Atride, Chi mai ti spinse innanzi tempo all’Orco? Forse Nettuno, scatenando i venti, Ruppe il tuo legno, e ti sommerse in mare? O ti trafisse popolo nemico, 480 A cui predavi i pingui armenti e i greggi? O moristi pugnando alla difesa Della patria e de’ figli? - Io dissi; e tosto A me la dolorosa ombra d’Atride: O figliuol di Laerte, o saggio Ulisse, 485 Né me sommerse in mare il gran Nettuno, Né popolo nemico in terra offese; Ma l’empio Egisto con la rea mia sposa M’ha tramato la morte, e poi scannato Nella sua casa e alla sua mensa assiso, 490 Come si scanna al suo presepio un bue. Così fui spento; e tutti a me dintorno Cadevano sgozzati i miei compagni, A quel modo che cadono i maiali Dalle candide zanne, ai gran conviti 495 Ed alle nozze di signor potente. E tu che tanti eroi perir vedesti In singolar tenzone ed in battaglia, Tu stesso avresti pianto in rimirarci Stesi al suol, fra le mense e fra le coppe, 500 In un lago di sangue. A me vicina Gemer sentìa la vergine Cassandra, Di Prïamo figliuola, a cui squarciato Avea l’iniqua mia consorte il seno; Ed io morente brancicava indarno 505 [189] Per vendicarla un ferro. A quella vista S’arretrò Clitennestra; ed al marito, Che fra l’ombre scendea, non chiuse il ciglio E non compose con le dita il labbro. No, non ha belva più spietata e cruda 510 Di donna che, da turpe amor sedotta, Alla morte congiuri dello sposo. Mentre io credea col mio ritorno e figli E servi rallegrar, la scellerata Ha sé d’infamia ricoperto, e tutte 515 Infamate le donne, anche innocenti, Che dopo lei verranno. - Ed io ripresi: Ahi quante angosce alla magion d’Atreo E ai prodi Achivi non costò la colpa Di tristi donne! A tutta Grecia Elèna 520 Fu cagion di rovina, e a te lontano Mortale insidia Clitennestra ordìa. Né pur tu dunque, soggiungea lo spettro d’Agamennóne, della tua ti fida, Né tutto le palesa il tuo segreto: 525 Solo in parte lo scopri, e in parte il cela. Ma la tua moglie, Ulisse, a te la morte Non darà; perché casta ed amorosa È la saggia Penelope, la figlia Del prode Icario. A Troia veleggiando 530 Noi lasciata l’abbiam novella sposa, Con un pargolo al seno, che dovrìa Esser già fatto un grande e bel garzone; E lui vedrà nel suo ritorno il caro Padre, ed ei gettarassi al padre in braccio. 535 Ma l’empia Clitennestra a me togliea Di bearmi negli occhi di mio figlio, E pria m’uccise. Or m’odi, e in cor ti serba Le mie parole: non calar di giorno Alla tua terra, ma di furto, ignoto, 540 Ché fede nelle donne aver non lice. Or dimmi, amico: sai tu dove alberghi Il figlio mio, se in Orcomeno o in Pilo [190] O presso Menelao nell’ampia Sparta? Ancor fra l’ombre non è sceso Oreste. 545 Vana domanda, Atride, io replicai; Ch’io non so dove, né se pure ei viva. Così fra noi si ragionava, il pianto Alle parole mescolando; ed ecco Giunger l’ombra d’Achille e di Patròclo 550 E del divino Antìloco e d’Aiace, Il più grande, e il più forte degli Achei, Dopo il Pelide. Mi conobbe, e tosto In suono di rampogna il piè-veloce Eroe sclamò: Di Giove alunno, astuto 555 Di Laerte figliuol, qual novo inganno Sei tu venuto a macchinar nel fondo Del cieco Inferno, dove sol dimora Han gli spettri insensibili e le inani Ombre de’ trapassati? - Ed io risposi: 560 O figlio di Peleo, possente Achille, Il teban vate a consultar qui venni, Onde mi sveli come alla petrosa Itaca io rieda; perché spiaggia achiva Ancor non vidi, e ancor la sposa e il figlio 565 Non abbracciai, dall’ira de’ Celesti Perseguitato. Te felice, Achille, Che vivo onoravamo al par d’un Nume, E quaggiù regni su la morta gente: Tu lagnarti non puoi del tuo destino. 570 Ed ei di novo: O generoso Ulisse, Invano t’affatichi a consolarmi Della mia sorte; ché più caro avrei Il servir da bifolco a chi non abbia Pur da sfamarmi, che regnar su l’ombre. 575 Ma tu di Pirro invece mi favella, Del figlio mio: dimmi se, come un tempo, Si slancia nelle mischie ognor fra i primi; E dimmi se Peleo sui bellicosi Suoi Mirmidoni impera, o se spregiato 580 Vive in Ellade o in Ftia, da che la tarda [191] Età le mani gli fiaccava e i piedi. Ahi! campion di mio padre io più non sono Nell’ostello natìo, né più mi reggo Su le ginocchia, come allor che il fiore 585 Mietea de’ Teucri, per gli Achei pugnando. Oh se mostrarmi, qual già fui, potessi Al fianco di Peleo solo un momento! Ben io con questo braccio la baldanza De’ suoi nemici rintuzzar saprei! 590 Del tuo buon padre nulla udir m’avvenne, Io gli risposi, e nulla dirti io posso. Bensì novelle ti darò del figlio; Ché sul mio legno io stesso al campo achivo Lo condussi da Sciro. Ei primo sempre 595 Ne’ parlamenti alzar solea la voce; Né la facondia gli mancò, né il senno, Sì che il vecchio Nestorre e me soltanto Ebbe rivali. Quando poi scendea A pugnar co’ nemici innanzi a Troia, 600 Mai con la turba de’ guerrier confuso Ei non restò; ma tutti precorrendo A lunghi passi, di nemici eroi Tante all’Orco sospinse anime illustri, Che il seme a stento ne ricordo e il nome. 605 Sol dirò che di Tèlefo la prole, Eurìpilo, trafisse, de’ suoi fidi Cetei nel mezzo; Eurìpilo venuto Per nozze ad Ilio, che i Troiani tutti, Salvo Mennone, di beltà vincea. 610 E quando nel cavallo, opra d’Epeo, Noi Greci entrammo, e il carco a me fu dato Di serrarne ed aprirne il cieco ventre, Uscir furtivo agli altri duci io scòrsi Dagli occhi il pianto, e palpitar le membra. 615 Ma non impallidì la bella fronte Del figlio tuo, né lagrima segreta La guancia gli rigò: sì mi chiedea Ad ogni istante, che calar dal chiuso [192] Nascondiglio il lasciassi; ed ora l’elsa 620 Della spada brandendo, ed or crollando La lancia poderosa, allo sterminio Anelava de’ Teucri. Alfin le sacre Iliache mura debellate ed arse, Pirro salvo ascendea con ricche spoglie 625 Il suo naviglio; ché né stral da lungi, Né il ferì da vicino asta nemica, Come succede quando Marte infuria. Io tacqui; e l’ombra del Pelìde Achille, Lieta in udir da me lodato il figlio, 630 Per l’erbosa pianura allontanossi, La testa alta portando. A me dinanzi Nuove intanto accorrean larve pietose, I lor casi narrando e i loro affanni. Solo in disparte si tenea d’Aiace, 635 Figlio di Telamon, l’ombra, crucciosa Della vittoria, ch’io su lui per l’armi Del gran Pelide conseguìa. Le pose Teti nel mezzo, la dolente madre, E Palla e i Teucri decidean la lite. 640 Vittoria sciagurata, onde sotterra Scese un tanto guerrier, che dopo Achille Era dell’oste greca il più gagliardo. Io questi a lui volgea cortesi accenti: O Aiace, o del famoso Telamone 645 Magnanimo figliuol, né pur tra i morti Dunque tu l’ira deporrai, per l’armi Che sì funeste a noi resero i Numi? Ah! tu crollasti, o ròcca degli Achivi, E noi ti piangevamo al par d’Achille. 650 Ma di tua morte non è mia la colpa; Sì del gran Giove, ai bellicosi Atridi Infesto sempre. Via ti placa, o sire, Doma il cor disdegnoso, e a me t’appressa. Al mio parlar non die’ risposta Aiace, 655 E mi volse le terga; e si sarìa Aspra lite fra noi là pure accesa, [193] Se un ardente desìo non mi traea A veder novi spirti. E del gran Giove Il prudente figliuol, Minosse io vidi, 660 Che sul suo trono con l’aurata verga I morti giudicava; e al trono intorno Essi, parte seduti e parte in piedi, Udir faceano al re le lor querele. Indi vidi Orïon, la mano armata 665 Di ferrea clava, per gli erbosi piani Stancar le belve, ch’ei vivendo ucciso Avea sui monti. E Tizio vidi, il figlio Dell’alma Terra, che sdraiato nove Cubiti misurava. Un avoltoio 670 A destra, e un altro senza posa a manca Col rostro adunco gli rodeano il core, Ed ei scacciarli non potea. Tentato Aver, costui di vïolar Latona, Moglie di Giove, mentre i colli ameni 675 Di Panope varcava, andando a Pito. Poscia in un lago, che giugneagli al mento, Tantalo ancor vid’io, macero e scarno. Ardea di sete, né mai ber potea; Ché quante volte il veglio sitibondo 680 Si piegava su l’aqua, ed altrettante L’aqua sparìa, dal negro fondo assorta, Che un Nume disseccava. Alberi eccelsi Gli stendean su la testa i verdi rami, Carchi di frutta, e pere e melagrane 685 E pome rubiconde e dolci ulive E pingui fichi; ma non tosto il veglio Sporge la man bramosa ad afferrarle, Ecco un buffo di vento al ciel le sbalza. E Sisifo pur vidi affaticarsi 690 Intorno ad un macigno. Con le mani E co’ piedi puntando, il sasso enorme Spinge su per un monte; ma nell’atto Di toccarne la cima, egli s’arresta A mirare i Cratei. La stolta pietra 695 [194] A salti, a balzi allor rovina al piano; E su per l’erta il misero la caccia Con nova lena, e tutto di sudore Ha molle il viso, e lordo il crin di polve. Della possa d’Alcide alfin m’apparve 700 Il simulacro; perché in ciel l’eroe Siede a mensa co’ Numi, accanto ad Ebe, Ebe dal bianco piè, figlia di Giove, E di Giunon dai sandali dorati. Con alte grida lo seguian gli spettri, 705 Come stormo d’augei, mentre alla fosca Notte simìle, col grand’arco teso E lo strale sul nervo, orribilmente Girava intorno le pupille, in atto Di saettar. Gli attraversava il largo 710 Petto la formidabile cintura, Su cui vedevi, in oro effigïati, Lupi e cinghiali e leoni feroci, E zuffe e pugne e stragi ed omicidi: Opra miranda, a cui l’egual non fece, 715 Né mai farà l’artefice divino Ond’essa uscìa. Guardommi il simulacro, Mi conobbe, e sclamò pietosamente: O di Laerte generoso figlio, Te pur, misero, incalza il reo destino, 720 Che me già colse sotto i rai del Sole? Da Giove io nacqui; ma d’angosce piena Fu la mia vita, perché un uom da poco, Un imbelle, m’impose ardui cimenti; Ed una volta fin quaggiù mandommi 725 A trarne il can trifauce, non credendo Che a tanta prova mi bastasse il core. Pure il conquisi, e fuor dell’Orco il trassi, Da Minerva scortato e da Mercurio. Disse; e calò di Pluto ai tristi alberghi; 730 Ed io fermo rimasi, la comparsa Ivi aspettando d’altri antichi eroi. E Teseo forse e Piritòo, de’ Numi [195] Ambo famosi germi, avrei veduto; Ma in questo mezzo una turba infinita 735 Di spettri s’accostò con urli e strida, Sì che paura io n’ebbi, e sospettai Che contro me Proserpina dall’Orco Invïasse la testa di Medusa. Io tornai quindi alla mia nave in fretta, 740 E salirvi e sgropparne le rudenti Ai compagni gridai, che in un baleno Vi furon dentro, e si schierâr sui banchi E pria dai remi, e poscia dall’amica Aura sospinta, la veloce prora 745 Risolcando venìa l’onde marine. [196] LIBRO DUODECIMO SOMMARIO Ritorno di Ulisse all’isola Eea. - Funerali di Elpenore - Ammaestrato da Circe ad evitare nuovi disastri, Ulisse parte, e radendo l’isola delle Sirene, ne ascolta senza pericolo il canto. - Passa fra Scilla e Cariddi, perdendo sei compagni. - Indi approda all’isola Trinacria; e mentre egli si ritira a pregare gli Dei, gli altri uccidono i buoi del Sole, e ne mangiano le carni. - Segni infausti coi quali gli Dei annunciano il loro corruccio. - Giove fulmina la nave in mezzo alle onde, e tutti i compagni d’Ulisse vi rimangono sommersi. - Egli solo sugli avanzi della nave fulminata si salva, e ripassando fra Scilla e Cariddi, arriva in dieci giorni all’isola Ogigia. - Qui finisce la sua narrazione. Il gran fiume Oceàno abbandonando, Per l’ampio golfo risalìa la nave Verso l’isola Eea, dove la bella Aurora alberga co’ suoi cori, e dove Si leva il Sole. Colà giunti, e scesi 5 Sul lido, e tratto il nero legno in secco, Dormendo aspettavam l’Alba novella. E come la novella Alba comparve, Uno stuolo invïai di nostra gente Alla casa di Circe, onde pigliarvi 10 D’Elpenore la salma; e rami intanto Recisi e tronchi nel vicino bosco, Ove il lido più sorge, lagrimando Allestimmo la pira. Indi la salma Bruciata e l’armi, un tomolo v’ergemmo, 15 [197] E sul tumolo un cippo, e presso al cippo Il terso remo. Al doloroso uficio Quivi intenti eravam, quando, saputo Il nostro arrivo, l’alma Circe al mare Sollecita venìa con le sue fanti, 20 Carni recando e bianchi pani ed otri Di soave lïeo. Fra noi si pose La vaga Ninfa, e così schiuse il labbro: O sventurati, che scendeste all’Orco, E due volte morrete, ancor che l’uomo 25 Muoia solo una volta, orsù con questi Cibi vi ristorate e questi vini, E partirete allo spuntar dell’Alba; Ma non pria che il cammin noto io vi faccia, E quanto i rischi ad evitar del mare 30 E della terra vi sarà mestieri. Al suo dir persuasi, ivi sul lido L’intero dì noi sedevamo a mensa; E come il Sol disparve, e della notte Sorsero l’ombre, si traean gli amici 35 A dormir su la nave. Ma la Ninfa Prese me per la mano, e in solitario Loco seder mi fece, a lei da canto, E volle che i miei casi ad uno ad uno Io le narrassi. E poi che il mio racconto 40 Ebbi compiuto, gli occhi in me fissando, Ella soggiunse: Tutto ormai trascorso È ciò che mi narrasti: or quello ascolta Che dirti io penso, e che alla mente i Numi Richiamar ti sapranno. Alle Sirene 45 Tu primamente arriverai, che han l’arte D’affascinar le genti. Chi s’arresta Delle Sirene alle fatali spiagge, E n’ode il canto, la consorte e i figli Più non vedrà festosi dalla soglia 50 Venirgli incontro. Sopra un verde prato Elle sedute, allettano cantando Il passaggiero; ma non lungi un monte [198] Si leva di spolpate ossa e d’umane Luride pelli. Per quel mar le vele 55 Tu sforza e i remi, e chiudi a’ tuoi le orecchie Con molle cera, sì che alcun non oda Il canto lusinghier. Tu, se lo brami, L’udrai; ma pria, legato e mani e piedi, T’assicurino all’albero con funi 60 I compagni. Così delle Sirene Goder potrai la bella voce; e quando Di liberarti li chiedessi, i nodi Ti raddoppino invece e le ritorte. Oltrepassata quell’infida spiaggia, 65 Dischiuse innanzi ti vedrai due strade: M’ascolta, e pensa qual pigliar ti giovi. Seminata di ripide scogliere È l’una, con fragore eternamente Dall’onde flagellate. Ingannatrici 70 Chiamanle i Numi, e impunemente il volo Mai non vi spiega augello, né le stesse Sacre colombe, che all’Egioco Giove Recan l’ambrosia; poiché sempre alcuna Ne furano le roccie, e un’altra sempre 75 A compirne la schiera il Dio ne manda. Legno per quella via mai non si mise Che incolume n’uscisse: procellosi, Immensi flutti, e turbini di fuoco Inghiottono la nave e i naviganti. 80 Argo sola, che al cielo era diletta, Illesa un dì vi navigò da Colco; E forse infranta a quelle acute balze Ella stessa perìa, ma l’alma Giuno La campò per amor del suo Giasone. 85 Due rupi ha l’altra via: fino alle stelle Con l’acuta sua cima ergesi l’una, Ed è da fosche nubi circondata. La stagione invernal corra o l’estiva, Mai quella densa tenebrìa non frange 90 Raggio di Sole; né mortal salirvi [199] O calar ne potrebbe, anche se venti Braccia stancasse e venti piè, sì lisci Ne sono ed erti i fianchi. In mezzo al masso S’apre una spaventosa atra caverna, 95 Che all’Orco s’inabissa; e tu la curva Tua nave tanto ne terrai lontana, Quanto da mano giovanil vibrato Vola uno strale. Quivi Scilla alberga, Ch’or latra cupamente, ed or guaisce 100 Qual cagnolin da latte; e Scilla è mostro Tal che gli stessi Dei n’avrìan paura. Ha ben dodici adunchi, informi piedi, Sei lunghissimi colli, e su ciascuno Un capo orrendo ed un’orrenda bocca, 105 Con una siepe triplice di denti Aguzzi e spessi, e con la negra morte In ogni dente. Tiene il corpo ascoso Nella caverna, e fuor la testa allunga, Spïando se ghermir presso la rupe 110 Possa il delfino o il marin cane od altro Più grosso pesce, che il ceruleo golfo Ne’ suoi spechi alimenta. Un legno solo Mai senza offesa non varcò quell’onde, Perché quante spalanca avide bocche, 115 Tanti Scilla spietata uomini ingoia. Lunge un trar di saetta, un’altra in faccia Vi sta più bassa rupe; ed ha nel mezzo Un ingente, frondoso caprifico, Sotto cui la terribile Cariddi 120 Assorbe il negro flutto. Ella tre volte Ogni giorno l’assorbe, ed altrettante Mugghiando lo rigetta. Ah ben ti guarda D’appressarti alla rupe allor che assorbe! Nettuno stesso non potrìa sottrarti 125 Alla ruina. Ma più presso a Scilla Spingi la nave, e via trascorri: è meglio Perder sei de’ compagni, anziché tutto. Questo udito, io sclamai: Deh! tu m’insegna [200] Come, scampato alla fatal Cariddi, 130 Potrò Scilla punir, che già rapito M’avrà gli amici. - E Circe: Ahi sciagurato! Che ancor d’armi e di pugne mi ragioni, Né cedi ai Numi, credi tu che Scilla Sia mortal cosa? Scilla è novo, eterno, 135 Tremendo, immane, insuperabil mostro, Contro cui l’uomo aver non può difesa Che nel pronto fuggir. Se t’indugiassi A trattar l’armi, fuori un’altra volta Tu balzar la vedresti, e tanti ancora 140 De’ compagni rapir, quante sui capi Schiude orribili bocche. Ah! fuggi adunque, Fuggi, e prega Cratea, madre del mostro, Che di novo al tuo legno ei non s’avventi. Dell’isola Trinacria indi agli erbosi 145 Ameni prati arriverai, che sette Mandre, ciascuna di cinquanta buoi, E di cinquanta agnelle sette greggie Pascono al Sole, dalla morte immuni Tutte, e tutte infeconde. Alla custodia 150 Sono affidate di due belle Ninfe, Faetusa e Lampezia, che la diva Neera al Sole Iperïon produsse. Allevate che fûr, la veneranda Neera lunge le invïava ai prati 155 Della Trinacria, le vellose greggie E i bianchi armenti a custodir del padre. Se, al ritorno pensando, alcun non osi Vïolar quelle torme, ai vostri lidi, Benché non senza affanni, approderete; 160 Ma se un giovenco solo o un sol montone Mai ne feriste, l’ultima sciagura A te predìco e al legno e a tutti; e quando Pur tu salvo n’uscissi, a stento e tardi Itaca rivedrai, senza un compagno. 165 Qui fin pose al suo dir. Rifulse intanto Al balzo d’orïente il dì novello, [201] E la ricciuta Dea per la silvestre Isola allontanossi. Io volsi il piede All’arenosa spiaggia, ed agli amici 170 Subitamente varar feci il legno, E liberar le funi. Erano tutti Già sovra i banchi in ordinanza assisi E sferzavan co’ remi il mar canuto, Quando la Ninfa ne destava un fido 175 Vento da poppa, che gonfiò le vele; E noi, deposti i remi, a quel propizio Vento lasciammo e al timonier la cura Di guidarci su l’onde. Allor, dal petto Un sospiro traendo, Amici, io dissi, 180 Mal si conviene che a me sol palesi Sieno di Circe i vaticini. Or dunque, O felice od avverso, ognun conosca Il destin che l’attende. Ella più ch’altro Toccar ne vieta le fiorite spiagge 185 Delle Sirene, ed ascoltarne il canto: A me solo il concede, pur ch’io sia All’albero legato della nave; Ma se prego o comando io vi facessi Di svincolarmi, e voi più mi legate. 190 Poiché il pensiero della Diva io feci A’ miei compagni manifesto, il legno Velocemente all’isola giungea Delle Sirene. Ma qui tacque il vento, E l’onde azzurre s’agguagliâr, sopite 195 Da un Dio nemico: sì che i bianchi lini Ammainati, dechinâr l’antenna I naviganti, e spumeggiar le chete Onde facean co’ remi; ed io di cera Affettai con la spada un ampio disco, 200 E la compressi con le man robuste. Da’ miei sforzi domata e dai cocenti Raggi del Sole Iperïon, la cera Si venìa rammollendo; ed io l’orecchie, Ne turai degli amici. Alla lor volta 205 [202] Essi me ritto all’albero con doppia E salda fune assicurâr, le mani Mi legarono e i piedi, e poi remando Spingean oltre la nave. Eravam lunge Quanto correr d’un uom potrìa la voce, 210 Allor che udito il flagellar de’ remi, E visto il legno appropinquarsi, al lido Accorrean le Sirene, e in questi accenti Proruppero cantando: O glorïoso Della Grecia splendor, divino Ulisse, 215 Ferma la nave e il nostro canto ascolta. Ancor quest’aque non solcò nocchiero Senza gustarne la dolcezza, e sempre Più contento e più saggio ei ne partìa; Perché non solo ciò che innanzi ad Ilio 220 Oprâr Teucri ed Achei, ma quanto accade Su la terra e sul mare è a noi palese. Sì dicean le Sirene; ed io bramoso Di meglio udirne il canto, ai più vicini Facea segno con gli occhi di slegarmi: 225 Ma vogava ciascun curvo sul remo, Ed Eurìloco ratto in piè sorgendo E Perimede, mi stringean con altre Funi le membra. Quando poi la nave Tanto si fu dal lido allontanata, 230 Ch’io più la voce non udìa né il canto Delle Sirene, a me sciogliean le funi, E a sé la molle cera dalle orecchie Togliean gli amici. Ma non era appena Quella terra scomparsa, che da lunge 235 Si vede un fumo, e un’onda immensa, e s’ode Un gran fragore, sì che ai naviganti Cadeano i remi per terror di mano. Tutti suonâr cadendo i remi, e il legno, Non più sospinto, rimanea su l’aque 240 Immobile. Di su, di giù mi volgo Allor per la corsìa, con questi detti Or l’uno or l’altro confortando: Amici, [203] Nuovi non siamo alle sventure, e quella Che ne sovrasta esser non può maggiore 245 Del trovarsi rinchiusi nella grotta Del tremendo Ciclope. E tuttavolta Col valor, col consiglio e la prudenza, Anche di là vi trassi; ed oblïarlo Voi non potete. Su via, dunque, torni 250 Ognuno ai banchi, il remo ognun ripigli, E il mar fendete, se vogliam che Giove Ne scampi dalla morte. E tu che siedi Del timone al governo, attento orecchio Porgi a’ miei detti: Da quel nembo oscuro 255 Quanto puoi ti discosta, e t’avvicina Alla contraria rupe, onde la nave E noi con essa non inghiotta il mare. Io così dissi, e m’obbedîr. Ma tacqui Di Scilla, il crudo, inevitabil mostro, 260 Perché i nocchieri, còlti da paura, Non lasciassero i remi, rinculando Gli uni su gli altri alla rinfusa. E il cenno Dimenticato della Diva, io cinsi L’acuta spada, e due lancie brandite, 265 Su l’alta poppa mi piantai, guardando Se Scilla comparisse ad involarmi I cari amici; ma per quanto io fermi Tenessi gli occhi al cavo del macigno, Vederla non potea. L’agile prora 270 Avea raggiunto il lagrimevol passo: Di qua Scilla avevam, di là Cariddi, Che dintorno assorbìa l’onda marina. Allor ch’erutta, come un gran lebete Che bolle al fuoco, freme e rumoreggia, 275 E in larghi sprazzi lancia il flutto al sommo Delle due rupi; ma poi quando assorbe, Tutta dentro la salsa onda s’aggira, Orribilmente ne rimbomba il sasso, E nudo appare l’arenoso fondo. 280 A quella scena impallidîr gli amici; [204] E anch’io, la morte paventando, gli occhi Drizzo a Cariddi. Sbucò Scilla intanto, E sei compagni mi ghermì, di tutti I più valenti; e quando a lei mi volsi, 285 I miseri vedea che mani e piedi Agitavano in alto, Ulisse, Ulisse, Chiamando indarno per l’ultima volta. E come pescator, che dallo scoglio Con lunga verga in mar calando il corno 290 Di selvatico bue, porge l’infida Esca ai minuti pesci, e fuor dell’aqua Li trae guizzanti, e sul terren li gitta; Scilla così dal legno mi rapìa Gli amici tremebondi, e innanzi all’antro 295 Li divorava; ed essi a me dolenti Stendean le mani, e l’aria empìan di strida. Spettacolo più crudo e miserando Io mai non vidi da che solco il mare! Ma sfuggiti agli scogli ed all’orrenda 300 Cariddi e a Scilla, noi giungemmo in breve Al cospetto dell’isola, che pasce Del Sole i pingui armenti e i pingui greggi, E i belati s’udìan, s’udìan dall’ampie Stalle i muggiti; sì che tosto in mente 305 Mi tornò di Tiresia e dell’Eea Circe l’avviso, che tener lontano Io mi dovessi dall’amena terra Sacra al Sol de’ viventi allegratore. Quindi ai compagni io dissi: Ancor che tanto 310 Già dal mar travagliati, il vaticinio Di Circe udite e del teban Tiresia. E l’una e l’altro di toccar la bella Terra del Sole mi vietâr, dicendo Ch’ivi còlti n’avrìa l’estremo fato: 315 Innanzi adunque si sospinga il legno. Abbrividîr gli amici a questo annunzio, E con presto parlar così sdegnoso Eurìloco proruppe: Ah certo, Ulisse, [205] Un crudele tu sei! Perché sortisti 320 Indomito vigor, né mai ti stanchi, E sei di ferro, vorrai tu che gli altri, Affamati, spossati, in su la riva Non escano col cibo a ristorarsi E col riposo? e per l’aperto mare 325 Nel buio della notte errar dovremo In preda ai venti? Credi tu che salva Avrem la vita, se Ponente od Ostro Ne levan contro una procella? All’ombre Obbediam della notte, e sul vicino 330 Lido la cena apparecchiam; con l’Alba Drizzerem novamente al mar la prora. Disse; e tutti lodâr le sue parole. Io ben m’accorsi allor che il nostro danno Macchinava un Celeste; onde, rivolto 335 Ai compagni, esclamai: Solo son io, E a tutti oppormi non potendo, io cedo. Ma giuratemi almen, che se gli armenti Del Sole e i greggi incontrerem, nessuno Di voi sarà che scellerato ardisca 340 Su giovenco o montone alzar la mano, E stia contento ai cibi che la vaga Circe ne diede. - Tutti al mio comando Giurâro; e spinto il ben costrutto abete In un tranquillo seno, ad una viva 345 Fonte da presso, v’allestîr la mensa. Finito il pasto, a piangere si diêro I compagni da Scilla divorati, E ancor piangenti li sorprese il sonno. Già scorsi della notte eran due terzi, 350 E già sparìan le stelle, allor che Giove Adunator de’ nembi una bufera Suscitò, che la terra e il mar coperse Di folte nubi, ed oscurossi il cielo. Comparso appena il novo dì, la nave 355 Traemmo in uno speco, ove adunarsi Solean le Ninfe ed intrecciar le danze. [206] Ivi chiamai gli amici a me dinanzi, E così dissi: Cibi ancora e vino Abbiam sul legno; dunque ognun si guardi 360 Dal toccar queste greggie e questi armenti Al Sol diletti, il formidabil Nume Che tutto vede e tutto ascolta. - Io tacqui; E persuasi s’acchetâr gli amici. Un mese intero sui cerulei flutti 365 Noto pria dominò; poi di conserva Con Noto senza posa Euro soffiava. Finché di pani e di vermiglio vino Non ebbero difetto, i miei compagni, Morir temendo, rispettâr del Sole 370 I sacri armenti; e come le vivande Su la nave mancâr, dalla ria fame Costretti, uscìan con ami adunchi e frecce D’augelli e pesci in cerca. Io tutto solo Per l’isola vagando, un dì pervenni 375 Ad un rio, che dai venti era difeso; E lavate le mani in quella pura Onda, il gran Giove e gli altri Dei pregava Ad aprirmi la via della partenza. Finito il prego, su le ciglia un dolce 380 Sonno mi scese. Intanto a’ miei compagni Eurìloco propose un reo consiglio. Sventurati, m’udite, egli dicea: Duro è sempre il morir, ma più crudele Destin non havvi che morir di fame. 385 Orsù dunque, leviam da queste mandre I migliori giovenchi, e in sacrificio S’offrano agl’immortali abitatori Dell’alto Olimpo. Quando poi la patria Ne sia dato veder, tosto un superbo 390 Tempio al Sole ergeremo, e su gli altari Deporrem numerosi e ricchi doni. Ché se l’ira del Nume il nostro legno Perder volesse, né contrasto un altro Nume gli faccia, meglio fia sommersi 395 [207] Ad un tratto morir, che non consunti Da lunga tabe in isola deserta. Disse; e tutti approvâr lo stolto avviso. Agli armenti del Sol quindi strappati I più floridi buoi, che non lontano 400 Dalla nave pascean, tutti in un branco Se li chiusero in mezzo; e d’una quercia Còlte le foglie, perché lor fallìa Il candid’orzo, porsero agli Dei L’usate preci. Terminato il rito, 405 Le vittime sgozzâr, le discuoiâro, Ne reciser le cosce, in doppio zirbo Ravvolte le coprîr di crudi brani; E in difetto di vino, su le ardenti Brage le cosce e i visceri con aqua 410 Spruzzavano. Le cosce indi combuste E i visceri assaggiati, in su gli spiedi Infilzavano il resto delle carni. Apersi in questa le pupille, e mentre Volgo alla spiaggia frettoloso il piede, 415 Ecco ferirmi le narici un grave Odor di carni abbrustolate; ond’io Così dissi gemendo: O sommo Giove, O santi Dei, ben fu crudele il sonno Che m’invïaste, se compir fra tanto 420 Si dovea dai compagni un tal misfatto! Della trista novella annunziatrice, Lampezia, avvolta in largo peplo, alzossi Incontro al Sole, che i sereni spazi Correa del cielo; e d’ira acceso il Dio, 425 Saturnio Padre, giusti Numi, esclama, Ah! paghino d’Ulisse i rei compagni Il fio d’avermi trucidati i buoi, Della cui vista, sia che al ciel salissi, Sia che alla terra discendessi, io sempre 430 Prendea novo diletto. Ove alla colpa Non s’adegui la pena, al negro Dite Io calo, e reco la mia luce ai morti. [208] E a lui Giove di nembi adunatore: O Sole, no, non cesserai per questo 435 Di recar la tua luce agl’Immortali Ed ai mortali su l’immensa terra; Ché un infocato fulmine vibrando Io di costoro sfascerò la nave. Queste cose narrava a me Calipso, 440 E Calipso le udìa dal divo Ermete, Di Giove messaggier. Venuto al lido, Con acerbe parole or l’uno or l’altro Io rampognava; ma giacean trafitti I buoi, né il male avea riparo. Intanto 445 Con funesti prodigi il loro sdegno Facean chiaro gli Dei: serpean le pelli Sul terreno, fremean le carni crude E le abbronzate intorno agli schidoni, E mandavano un suono che parea 450 Il mugghiar de’ giovenchi. E nondimeno Ben sei giorni i colpevoli compagni Di quelle carni si cibâr. Ma come Spuntò la settim’Alba, e il procelloso Vento calmossi, la veloce prora 455 In mar sospinta e l’albero rizzato E spiegate le vele, incontanente Ci mettemmo in cammino. Ai nostri sguardi Già la bella Trinacria erasi tolta, E terra più non si vedea, ma cielo 460 Soltanto e mare; allor che d’improvviso Il figliuol di Saturno un nembo oscuro Su noi raccolse. Né gran tempo il legno Le salse onde fendea, perché di novo Furïando Ponente, ambo i ritegni 465 Dell’albero spezzò, che tutte seco Trascinando le vele e le rudenti, Ruinò su la poppa, e al timoniere Il capo infranse. Come palombaro Precipitava il misero ne’ flutti, 470 E il buio eterno gli coprìa le luci. [209] Tuonò Giove in quel punto, e su la nave Un fulmine vibrò, da cui percossa, La nave si contorse, un forte puzzo Mise di zolfo, e rovesciò nell’onde 475 I miei compagni; ed essi, a somiglianza Di marine cornacchie, al fulminato Legno intorno aggravansi, e dal legno Un Dio nemico li tenea lontani. Di qua, di là, con presti passi il ponte 480 Io misurava, sin che il flutto, urtando, Della carena non disciolse i fianchi E l’albero staccò. Di bue selvaggio Stava all’albero appesa una coreggia; Ed io con questa, insieme albero e chiglia 485 Legati, sopra mi v’assisi, e all’onde M’abbandonai. Ma non ancor cessato Avea Ponente di soffiar, che un crudo Noto levossi, e alla fatal Cariddi Un’altra volta mi venìa cacciando. 490 Vagai tutta la notte; e come apparve La prima luce, mi trovai fra Scilla E la tetra vorago nell’istante Che, muggendo, inghiottìa l’oscuro flutto. Allor verso il frondoso caprifico 495 Spiccando un salto, il tronco io n’afferrai, Ed aggrappato mi v’attenni, a guisa Di vipistrello, salir non potendo, Né il piè fermar di sotto; perché chiuse Eran nel masso le radici, e troppo 500 Discosti i rami che coprìan di larga Ombra Cariddi. Così saldo al tronco Stava abbracciato, ad aspettar che uscisse Dalla vorago l’albero e la chiglia Col nero flutto assorti. Alfin nell’ora 505 Che, molte liti il giudice composte, Esce dal fòro, e a cena s’incammina, Fuor dell’abisso i sospirati avanzi Erompean della nave; ed io le mani [210] Sciolte e i ginocchi, vi piombai vicino 510 Con un gran tonfo: sopra mi v’assisi, E con le palme a remigar mi diedi. Il gran Padre de’ Numi e de’ mortali Non permise che Scilla mi vedesse, E dall’antro sboccasse a divorarmi. 515 Io quindi nove dì vagai su l’onde; E la decima notte un Dio mi spinse All’isola d’Ogige, ove dimora Calipso, Ninfa dalle crespe chiome, Che benigna m’accolse, e ne’ suoi spechi 520 Mi diede ospizio. Ma perché tai cose Io qui rammento? Alla tua casta Arete E a te poc’anzi io le narrava, e troppo Il ricantarle or mi sarìa molesto. [211] LIBRO DECIMOTERZO SOMMARIO Nuovi doni fatti ad Ulisse, che si accomiata da’ suoi ospiti, e s’imbarca. - I nocchieri feacesi, giunti ad Itaca, lo depongono addormentato sulla spiaggia, e si rimettono in mare. - Nel ritorno, a poca distanza dalla Scheria, Nettuno converte in pietra la loro nave. - I Feaci, atterriti a quel portento, cercano di placare il Nume con voti e sacrifici. - Ulisse, destandosi, non riconosce la sua patria. - Minerva gli appare in sembianza di giovane pastore, gli promette di aiutarlo a vendicarsi de’ Proci, e, perché non venga scoperto, lo trasforma in vecchio accattone. Taciti, immoti, per l’ombroso albergo Stavano i prenci, di stupor compresi E di dolcezza. Il generoso Alcinoo Primo ruppe il silenzio in questi detti: Odimi, Ulisse; poiché amico ospizio 5 A noi chiedesti, non temer che novo Infortunio ti colga ritornando Alle tue terre. E voi, che in questa sala Di spumante lïeo vuotate i nappi, E il canto udite del gentil poeta, 10 Date orecchio al mio dir. Giaccion nell’arca Le vesti e l’oro ben foggiato, e gli altri Doni, che i feacesi condottieri Hanno all’ospite offerto. Ora, ciascuno Anche un massiccio tripode gli rechi 15 E un argenteo lebete; e perché troppo [212] A noi grave non sia, farem che tutta A questo carco la città concorra. Disse; e piacque il consiglio, e ai loro alberghi A dormir si ritrassero i Feaci. 20 Ma come il raggio mattutin comparve, Coi tripodi lucenti e coi lebeti S’avviarono al lido, e nelle mani Li ponean d’Alcinòo, che sotto ai banchi Li scompartìa del legno, onde al nocchiero 25 Non fossero d’inciampo, allor che il saldo Remo ei trattava. Ad affrettar la mensa Facean quindi ritorno al regio ostello, Ove il sir della Scheria un pingue toro Immolava al Saturnio. Arse le cosce, 30 Al solenne banchetto ognun s’assise, E, toccando la cetra, ad un soave Canto il poeta vi schiudea le labbra. Ma il figliuol di Laerte ad ora ad ora Gli occhi al Sole volgea, desideroso 35 Di vederlo piegar verso il tramonto. Come al villano, che co’ negri buoi Tutto il giorno solcato abbia un maggese, E già mancar si senta le ginocchia; Così tornava all’itacense eroe 40 Grato il cader della dïurna luce. Quindi ai feaci naviganti, e in prima Ad Alcinòo drizzando le parole, O re, proruppe, o popolo cortese, Poi che avrete libato agl’Immortali 45 Fate ch’io parta. I voti miei son paghi: Pronta è la scorta, pronti sono i doni; Il ciel benigno or mi protegga, e voglia Che, ad Itaca tornando, io vi ritrovi Salvi i miei cari. E voi con le consorti 50 E co’ figli vivete ognor contenti E virtuosi, e pubblica sciagura Mai non venga a turbar la vostra pace. Disse; e, all’udir sì generosi accenti, [213] Alzâr di plauso un grido, e ad una voce 55 Tutti chiedean che all’ospite si desse Alfin commiato. Alcinoo allor si volse Al fido araldo, e favellò: Protonoo, Versa il purpureo vino a tutti in giro, Perché al re de’ Celesti supplicando 60 Mandiam l’ospite amico al suol natìo. A quel comando il banditor mescea Nell’auree tazze ai circostanti; ed essi Dai lor seggi agli Dei del vasto Olimpo Fean libagioni, quando il saggio Ulisse 65 In piè rizzossi, e una rotonda coppa Ad Arete porgea, così dicendo: Salve tu sempre, salve, o mia regina, Finché vecchiezza non ti colga e morte, Comun retaggio degli umani. Io parto; 70 E tu qui co’ tuoi figli e col tuo sposo E col popolo tuo vivi felice. Ciò detto, Ulisse della sala uscìa. Il re commise ad un sagace araldo Di guidarlo alla nave; e la regina 75 Da tre donzelle seguitar lo fece, Di cui la prima un manto ed una veste, L’altra un’arca dorata, e gli portava Cibi e vino la terza. E poiché giunti Fûro alla spiaggia, presero i nocchieri 80 I cibi e i doni, li locâr nel fondo Della concava nave, e su la poppa Steser la veste e il manto, ove tranquillo Adagiarsi e dormir l’eroe potesse. V’ascende ei poscia, e tacito si corca; 85 E i nocchieri, la fune liberando Dalla forata pietra, e sovra i palchi Sedendo in fila, sferzano co’ remi Al mar canuto il dorso. Un sonno intanto Soave, placidissimo, profondo, 90 Un sonno che alla morte somigliava, Su le pupille dell’eroe discese. [214] In quella guisa che in aperto campo Quattro maschi destrieri, al cocchio aggiunti, E tutti a un tempo dal flagel percossi, 95 Sollevano le groppe, e folgorando Divorano la via; così correa L’agil pino, levando alta la poppa, Dietro a cui rovinava il mar sonante. Correa securo, né l’avrìa raggiunto 100 Lo sparvier, de’ volanti il più veloce: Sì ratto esso fendea l’onda spumosa, Un uom portando, per valor, per senno, Ai Numi uguale, e che fra l’armi avea Molto sofferto e molto fra i perigli 105 Del mar pescoso, ed ora in braccio al sonno Tutti oblïava i suoi dolori. E come In ciel comparve la lucente stella Dell’Alba annunziatrice, il feacese Legno ferì su l’itaca riviera. 110 Quivi un porto giacea, che dal marino Veglio Forco era detto, e due sporgenti Rupi difesa gli facean dall’ira De’ negri flutti, sì che nel suo seno Mestier di funi non avean le navi. 115 Sorgea ramoso in fondo al porto un grosso Ulivo, e si schiudea non lunge un ampio, Delizïoso speco, alle gioconde Naiadi sacro. In ordine disposte Vi giravano intorno anfore ed urne 120 Di bianco marmo, in cui le industri pecchie Fabbricavano il miele; e pur di marmo V’eran lunghi telari, ove le Ninfe Per diletto tessean purpurei drappi, Mirabili a vedersi. Aque perenni 125 Con grato mormorìo scorrean nel mezzo Del cavo speco, a cui mettean due porte. L’una aperta ai mortali, a Borea vòlta; L’altra vòlta a Ponente, e di stupenda Fattura, solo agl’Immortali aperta. 130 [215] In quel porto, che noto era ai Feaci, Entrò volando il legno, ed avanzossi Mezzo sul lido; da sì forti braccia Era sospinto! Balzâr tosto a terra I rematori; e primamente Ulisse, 135 Così com’era, in alto sonno immerso E ne’ morbidi panni avviluppato, Tolsero dalla nave, e chetamente Il posâr su l’arena. Indi gli arredi Ne levâr, che i magnanimi Feaci 140 Gli avean donato, per favor di Palla; E fuor di via li posero, vicino Al verde ulivo, per timor che alcuno Li scorgesse in passando, e li rapisse Mentre ei dormiva. Diêr, ciò fatto, i remi 145 Di novo all’onde, e abbandonâr quel lido. Ma contro il divo Ulisse ancor lo sdegno Non tacea di Nettuno, che la mente Di Giove interrogò con questi detti: Giove Padre, chi più fra gl’Immortali 150 M’onorerà, se il popolo feace, Che pur da me discende, non m’onora? Credea che solo a stento e fra le angosce Le patrie sponde riveder dovesse Il figliuol di Laerte, e non m’opposi 155 Al suo ritorno, perché tu l’avevi Col cenno della fronte acconsentito. Ma su veloce prora, in braccio al sonno, Lo tragittano invece i Feacesi, E il depongono in Itaca, d’immensi 160 Doni ricolmo: con tant’oro e bronzo E ricche vesti, quante dalla vinta Troia seco recato ei non avrebbe Se ne redìa con la sua preda illeso. Che dicesti, o Nettuno? gli rispose 165 Il supremo de’ nembi adunatore. Non ti spregian gli Dei; che non sarìa Senza rischio spregiar l’antico, il grande [216] Rettor del mare. Ma se alcun vivente, Troppo in sue forze e in suo valor fidando, 170 Te non onora, adesso e in ogni tempo Puoi castigarlo, come il cor ti detta. E a lui Nettuno: Io di buon grado e tosto Ciò che dici farei, se il tuo corruccio Non paventassi. La superba nave 175 De’ Feacesi, che il ceruleo golfo Sta rivarcando, io ruinar vorrei; Io vorrei sotto un monte seppellirne La città, perché smettano una volta Il mal costume di scortar le genti. 180 Questo il meglio sarìa, disse al fratello Il re de’ Numi. Quando i Feacesi Tornar vedranno il legno, e non discosto Sarà da terra, e tu lo cangia in pietra, Che a nave ancor somigli, e monumento 185 Resti ai mortali di stupor; d’un’alta Montagna poscia la città ne copri. Sì Giove disse; e il forte Enosigeo Scese alla Scheria, e si piantò sul lido; Ed ecco spinta da gagliarde braccia 190 La carena arrivar. Sopra vi balza, D’ira acceso, Nettuno, e con un tocco Della sua destra la converte in pietra Immobile su l’onde, e s’allontana. Ciò visto, i prodi Feacesi, al mare 195 E al remo avvezzi, a mormorar si diêro Tra lor confusamente, e al suo vicino Con maraviglia si volgea taluno, Chi mai, dicendo, chi fermò la negra Prora che sì veloce a questa volta 200 Navigar vedevam? - Ma del portento Nessun qual fosse la cagion sapea. Fattosi innanzi allor proruppe Alcinoo: Ahimè! ch’io veggo un tristo vaticinio Di mio padre avverarsi. Ei mi dicea, 205 Ch’era con noi sdegnato il gran Nettuno, [217] Perché salvo guidiamo al suo paese Ogni errante stranier; dicea che avrebbe Nel redir su le azzurre onde una nostra Bella nave perduta, e con un monte 210 Coperta la città. Tal di Nausitoo, Il santo veglio, era il presagio; ed ecco Giunta l’ora fatale. Or via, si giuri Che più straniero non sarà scortato Dai nostri legni; e dodici a Nettuno 215 Grossi tori sveniam, perché gli prenda Di noi pietade, né col monte copra Questa città. - Così parlava Alcinoo; E i Feacesi, di terror colpiti, Preparavano in fretta al Nume i tori. 220 Mentre intorno all’altar preghiere e voti Faceano i prenci della Scheria e i duci Al re dell’onde, il Laerziade Ulisse Dal sonno si destò nella sua terra, Già da lunga stagione abbandonata, 225 Né la conobbe; perocché Minerva l’avea d’oscura nube circonfuso, Onde alcun nol vedesse, e ne recasse Altrui l’avviso, prima ch’ei punito Avesse i Proci de’ sofferti oltraggi. 230 Tutto quivi all’eroe parea mutato: Mutate l’ardue vie, mutato il porto E l’alte rupi e gli alberi frondosi Della foresta. In piè levossi, e gli occhi Girò mirando la natìa contrada; 235 Indi un gemito mise, e con la palma Si batté l’anca, e lagrimando disse: Misero! in qual paese, e fra qual gente Son io venuto? Scellerata e cruda, O degli ospiti amica, e giusta e pia? 240 Ove drizzo i miei passi? ove poss’io Questi doni celar? Perché alle rive Della Scheria approdar mi fece un Nume, Anzi che altrove, presso un re cortese, [218] Che con più fida scorta al patrio suolo 245 Inviato m’avesse? Io qui non veggo Dove gli asconda; tuttavia lasciarli Non voglio in preda di ciascun che passi. Certo mal destri furono o sleali I feaci nocchier, che alla serena 250 Itaca tragittarmi avean promesso, E m’hanno invece abbandonato in questo Ignoto lido. Ah! li punisca Giove, Giove il re degli Dei, che tutto vede E i supplici protegge e il reo colpisce. 255 Ma si contino i doni, e si conosca Se n’abbiano i fuggenti alcun rapito. Così dicendo, a noverar si mise Le belle vesti e i fulgidi lebeti E l’oro e il bronzo; né mancava un solo 260 Di tanti doni. Nondimen le dolci Paterne balze sospirava ei sempre, E del sonante mar lungo la riva Mesto i passi traea. Repente allora Agli occhi suoi Minerva presentossi, 265 Di giovine pastor sotto le forme, Che membra avea gentili, e somigliante Era al figlio d’un re. Fina e leggiadra Veste indossava, e nitidi calzari Portava ai piedi, ed una freccia in mano. 270 Allegrossi in vederla, e a lei vicino Si fe’ l’accorto Laerziade, e disse: Salve, amico, che primo io trovo in questa Solinga spiaggia. Ah! non recarmi offesa, E mi proteggi, e a custodir m’aiuta 275 Questi miei beni, poi ch’io te qual Nume Supplice imploro, e i tuoi ginocchi abbraccio. Ma dimmi schietto: qual contrada è questa? E qual gente v’alberga? e chi la regge? Sarebbe forse un’isola, od un lembo 280 Del continente, che si stenda in mare? O tu sei stolto, o ben da lunge arrivi, [219] Gli rispose la Dea, se mi domandi Di questa terra. Non è dessa oscura: A tutti è nota, o ch’abbiano soggiorno 285 Là dove sorge la vermiglia Aurora, O dove il Sol tramonta. Alpestre è in vero, Né al corso adatta de’ cavalli, e in breve Ora la giri; ma di messi e ricca, Ricca è di vini, perché un Dio benigno 290 Di pioggie la conforta e di rugiade. E le capre vi crescono e i giovenchi, E di foreste rigogliose abbonda E d’aque irrigatrici; ond’è che il nome D’Itaca giunge fino al teucro lido, 295 Che dicono dal nostro sì lontano. D’Itaca al nome, che dal labbro uscìa Della figlia di Giove, al divo Ulisse Brillò di gioia il core; e pronta avendo Una sua nova fola, a dir riprese. 300 Io già d’Itaca udii nella remota, Fertile Creta, donde io venni, ai figli Parte lasciando delle mie ricchezze, Parte meco recando. E Creta io fuggo, Dove trafissi Orsìloco, diletto 305 D’Idomeneo figliuol, che i più veloci Alla corsa vincea. Costui la preda Che ottenni in sorte ad Ilio, e per cui tanto Fra sanguinose pugne e in mar soffersi, Involarmi tentò, perché a suo padre 310 Obbedir non mi piacque, e d’altre schiere Il comando accettai. Mentre scendea Dalla sua vigna, lo colpii con l’asta Sul sentier dove io stava ad aspettarlo Con un mio fido. Buia era la notte, 315 Né alcun mi scòrse, ed anche a lui che uccisi Restai celato. Su fenicia nave Allor salendo, a’ suoi nocchieri offersi Generosa mercede, e li pregai Di tragittarmi senza indugio a Pilo 320 [220] O nella sacra Elide, governata Da’ forti Epei. Ma quinci li respinse Un vento procelloso; e, lor malgrado, (Ché d’ingannarmi non avean pensiero) Dopo lungo vagar, notturni entrammo 325 In questo porto. Né verun, quantunque Digiuno e di ristoro bisognoso, Si curò della cena, e su la spiaggia Ne coricammo. Di stanchezza oppresso, Me tosto colse un grave e lungo sonno; 330 E i fenici nocchier, sorti con l’Alba, Deposero sul lido i miei tesori, E vèr Sidone dirizzâr le vele, Me qui lasciando addolorato e solo. Ride la glauca Diva a tal racconto, 335 E il mento gli accarezza. All’improvviso Quindi si cangia in maestosa e vaga Donna, che tutto sa, che tutto intende, E, chiamandolo a nome, così dice: Anche fra gl’Immortali andrìa famoso 340 Chi te, fabbro d’insidie, e di menzogne, Avanzasse. O malvagio! in ogni guisa Di raggiri cresciuto, e non mai sazio Di tesser frodi, che mentir solevi Sin da fanciullo; non vorrai tu dunque 345 Dagl’inganni cessar nella tua stessa Paterna terra? Ma tacer qui giova, Ché nell’arte noi siamo ambo maestri: Tutti d’accorgimento e d’eloquenza I mortali tu vinci, e tutti io vinco 350 D’accorgimento e di scaltrezza i Numi. Né la figlia di Giove ancor ravvisi, Palla Minerva, che ti sta ne’ rischi A canto sempre, e sempre ti soccorre, E che poc’anzi t’acquistò la grazia 355 Del popolo feace? Or teco io sono Novellamente a conferir venuta, E i doni ad occultar, che dagl’illustri [221] Principi della Scheria offrir ti feci; E più che tutto a rivelar gli affanni 360 Che in Itaca t’appresta il fato avverso. Ma bada che soffrirli a te conviene Con intrepido cor; né donna od uomo Conosca, Ulisse, il tuo ritorno, e solo Col silenzio rispondi a chi t’offende. 365 E a Pallade così l’itaco eroe: Arduo sarebbe lo scoprirti, o Diva, Anche al più scaltro de’ mortali, tante Sono le forme che vestir ti piace. Ben so che a me propizia ognor tu fosti 370 Ne’ teucri campi; ma poiché distrutte fûr di Priamo le torri, e noi spiegammo Le vele ai venti, e Giove in mar disperse Della Grecia i guerrier, su la mia nave Più non scendesti a darmi aita. Ed io, 375 Da tutti abbandonato, a lungo errai Sul mar pescoso, fin che un Dio benigno Diede tregua a’ miei mali, e tu venisti Con amiche parole a confortarmi Nella fertile Scheria, ed all’albergo 380 d’Alcinòo mi guidasti. Or io ti prego Pel tuo gran genitor (poiché non anco Esser mi sembra nella patria terra, E temo che ingannar tu non mi voglia Con vani detti), fa’ ch’io sappia, o Diva, 385 Se questa è veramente Itaca mia. Ancor tu, dunque, a dubitar t’ostini? Gli rispose Minerva. E tuttavolta Dimenticarti nelle tue sciagure Io mai non posso, tal palesi ingegno 390 E facondia e prudenza. Altri che fosse In patria giunto da sì lungo esilio, Impazïente d’abbracciar gli amici E i congiunti sarìa: ma tu di loro Udir non vuoi, né domandar novelle, 395 Se prima il cor non provi di tua moglie, [222] Che da gran tempo ti sospira indarno, E misera nel pianto i dì consuma E consuma le notti. A me non era La tua sorte nascosta, e ben sapea 400 Che la nave e i compagni al tuo ritorno Perduto avresti; ma lottar non volli Col gran Nettuno, contro te sdegnato, Che gli acciecasti il figlio. Ora mostrarti Vo’ d’Itaca la terra, onde a’ miei detti 405 Alfin tu creda. Del marino Forco È questo il porto, e quello è il frondeggiante, Antico ulivo, che vi cresce in fondo. Mira aprirsi laggiù l’ombroso speco Alle Naiadi sacro, ove tu stesso 410 Offrir solevi un giorno a quelle Ninfe Vittime elette; e mira del Nerito Sorger non lunge la selvosa cima. Qui Pallade sgombrò la nebbia, e tutta L’alpestre Itaca apparve. Intenerito 415 A cotal vista, giubilò l’eroe, E la terra baciò. Quindi, levando Al ciel le mani e supplicando, disse: Ninfe, prole di Giove, io non credea Di vedervi mai più. Salvete, o Ninfe! 420 Noi v’offriremo ancora i doni usati, Se la Dea de’ guerrieri eccitatrice Mi serba in vita e mi protegge il figlio. E Minerva all’eroe: Ti rassecura, O saggio Ulisse, né temer ch’io manchi 425 A te d’aita. Ma le tue ricchezze, Su via, celiamo nel vicino speco, Sì che alcun non le scopra; e poi vedremo Che far ne giovi a ben condur l’impresa. Entrò, ciò detto, nell’ombroso speco, 430 Cercandone i segreti penetrali; E il figliuol di Laerte la seguìa, Le belle vesti in man recando e l’oro E l’indomito bronzo, a lui donati [223] Dai feacesi prenci. E come tutti 435 Ebbero que’ tesori ivi deposti, L’antro chiuse la Dea con un macigno. Del sacro ulivo poi sedendo al piede, E la morte de’ Proci meditando, Così la Dea ripiglia: È tempo, Ulisse, 440 Di fiaccar la baldanza degli Achei, Che da tre Soli regnano in tua casa, La tua bella consorte vagheggiando, E tentandone il cor con la promessa Di larga dote; ma la casta donna 445 D’aspettar non si stanca il tuo ritorno, Tutti pasce di speme, a tutti invia Lusinghieri messaggi, e ad altro intende. Dunque, Ulisse gridò, la miseranda Sorte che colse in sua magion l’Atride, 450 Me còlto avrebbe nella mia, se tutto Non m’avessi scoperto a parte a parte Tu, cortese mia Diva? Or dimmi ancora Come de’ Proci vendicar mi possa, E stammi al fianco, e quel vigor m’infondi 455 Ch’io m’ebbi allor che le superbe torri Espugnammo di Troia. Ove il tuo Nume Mi sia propizio, o figlia del gran Giove, Pur con trecento di pugnar non temo. E così pronta rispondea Minerva: 460 Sempre al fianco m’avrai, vigile sempre Terrò su te lo sguardo, allor che l’opra Starem compiendo; e spero io ben che alcuno Di questi Proci, ch’or si va sfamando Alla tua mensa, brutterà fra poco 465 Col sangue e le cervella il pavimento. Ma tutto io penso trasformarti in guisa Che nessun de’ mortali ti conosca: La fresca pelle aggrinzerò, che copre Le tue floride membra, dalla testa 470 Sparir farò le bionde chiome, e un manto T’indosserò sì lurido, che n’abbia [224] Schifo ognun che t’incontri. Anche i begli occhi Io vo’ sconciarti, perché brutto e vile Ai Proci appaia e alla consorte e al figlio. 475 Vanne prima ad Eumeo, l’antico servo, Che guarda i porci setolosi, e t’ama, E Telemaco onora e la prudente Penelope. Nel mezzo il troverai Della sua mandra, che vicino al sasso 480 Detto del Corvo e al fonte d’Aretusa Aggirasi, pascendo le silvestri Ghiande, e bevendo l’aqua limacciosa, Onde il maiale sonnolento ingrassa. Ivi t’arresta, e d’ogni cosa il chiedi, 485 Mentre a Sparta io m’avvio, di belle donne Educatrice, a richiamar tuo figlio, Che alle case n’andò di Menelao, Per saper se tu vivi e in qual contrada. Perché non l’hai tu detto al figlio mio, 490 Ulisse replicò, tu che il sapevi? Forse perché su l’onde tempestose Vada il meschino anch’egli errando, ed altri Il paterno retaggio a lui divori? Non crucciarti di ciò, Palla rispose. 495 Io stessa lo mandai, perché v’acquisti Nome onorato; ed or tranquillo alberga Nella reggia d’Atride. È bensì vero Che su negra carena il suo ritorno Stanno i Proci spiando, desïosi 500 D’ucciderlo per via; ma, se non erro, Essi piuttosto morderan la polve. Così detto, la Dea con una verga Tocca Ulisse, e la pelle su le membra Gli dissecca, e sparir gli fa dal capo 505 Le bionde chiome, e di senili rughe Gli segna il viso, e gli contorce e sforma I fulgid’occhi. Poi di lana un saio Gl’indossa, ed una tunica, sdruscita, Sordida, affumicata, e con un’ampia 510 [225] Logora spoglia di montana cerva Tutto lo copre. Gli presenta alfine Un nodoso bastone, ed una sozza Bucherata bisaccia, sostenuta Da ruvida coreggia. E come dato 515 Ebbe così principio al suo disegno, Schiuse Pallade il volo, e all’alma Sparta Discese, il figlio a richiamar d’Ulisse. [226] LIBRO DECIMOQUARTO SOMMARIO Ulisse giunge dal lido alla casa d’Eumeo. - Affettuosa accoglienza fatta da questo buon servo al suo signore senza conoscerlo. - Loro colloquio. - Ulisse fingesi nativo di Creta, e racconta imaginarie avventure. - Sopraggiunta una notte fredda e tempestosa, ottiene con astuzia dal servo un mantello per coprirsi. - Eumeo si corica in una grotta presso la sua mandra. Ma dal lido si tolse il divo Ulisse, E per aspro sentier mutando i passi, E folte macchie e balze attraversando, Giunse al loco ove Pallade gli avea Additato de’ servi il più fedele; 5 E lo trovò nel portico seduto D’un saldo ed ampio casolar, che posto Era in cima d’un colle, e si potea Tutto correr dintorno. Il mandrïano, Nell’assenza d’Ulisse, e senza darne 10 Alla regina ed a Laerte avviso, Fabbricato l’avea di pietra viva, Tolta a vicina cava, e circondato d’una siepe di spini; ed alla siepe Avea condotto in giro uno steccato 15 Di rimondi quercioli. Una appo l’altra Ivi dodici stalle eran disposte, E ciascheduna contenea cinquanta Feconde scrofe. Dalle stalle i maschi Dormìan lontani, e li venìan più sempre 20 Di numero scemando i baldi Proci, Perché loro il pastor dovea mandarne [227] Il più grasso ogni dì; sì che a trecento E sessanta eran essi omai ridotti. Fieri come leoni, alla custodia 25 Del casolar vegliavano la notte Quattro mastini, che allevati avea E nudrìa di sua mano il buon famiglio. Ei su bovina rossa pelle inciso Avendo allora un paio di calzari, 30 Se gli adattava ai piedi; ed eran gli altri Dal casolare usciti a vari ufici: Tre con le mandre al pasco, e con l’usato Tributo un quarto alla città, l’ingordo Ventre de’ Proci a satollar di carni. 35 Veduto appena Ulisse, i quattro cani Accorsero latrando; ma l’astuto Eroe s’accascia, ed il baston depone. Tuttavolta davanti alle sue stalle Duro strazio ei soffrìa, se il mandrïano, 40 Lasciandosi di man cader la pelle, Fuor non balzava dalla porta, e or l’uno, Ora l’altro sgridando de’ mastini, Di qua, di là non li cacciava a sassi. Indi vòlto al suo re, così dicea: 45 Poco, o veglio, mancò che tu sbranato Non fossi da’ miei cani, e la vergogna Io ne soffrissi; come se d’angoscia Altra cagion non abbia e di querele, Io che qui sto piangendo e sospirando 50 Il miglior de’ padroni, e i suoi maiali Pascer mi tocca per cibarne altrui; Mentre forse tra gente sconosciuta Ei s’aggira mendico ed affamato, Ove pur viva, e ancor gli splenda il Sole. 55 Ma tu seguimi, o veglio, ed entra meco In questa casa; e poi che ristorato Col cibo ti sarai, le tue vicende E la tua patria mi farai palesi. Sì dicendo, il precede; e nel campestre 60 [228] Albergo entrati, gli prepara un denso Letto di frondi, e con villosa pelle Di capra boschereccia lo ricopre, Ed a seder lo invita. Egli contento In vedersi così dal suo fedele 65 Porcaio accolto, a nome il chiama, e dice: Favorisca il gran Giove ogni tua voglia, Poiché tanto ti mostri a me cortese. Ospite alcuno, gli rispose Eumeo, Io non disprezzo, quando pure ei fosse 70 Più misero di te; perché il Saturnio A noi gli ospiti manda e i poverelli. Poco offrir ti poss’io, ma questo poco Di cuore io l’offro. Oh trista è ben la sorte De’ servi ch’obbediscono tremando 75 A giovani padroni! Un Dio nemico Vieta il ritorno di colui che solo Avea cura di me, che qui mi pose, E casa e terra e bella e ricca moglie Dato m’avrebbe; come far costuma 80 Buon padrone col servo industrïoso, A cui prosperi Giove le fatiche. Sì, felice io sarei, se nel suo tetto Fosse invecchiato; ma perì lontano Da’ suoi cari il meschino. Ah perché tutta 85 D’Elena invece non perì la stirpe, Che tanti eroi mandò sotterra! E anch’egli Per onor degli Atridi le sue genti Avea condotto a guerreggiar co’ Teucri. Si stringe in questo dir col cinto ai lombi 90 La tunica, e ai presepi s’incammina: Due porcelli ne leva, e poi gli scanna E gli abbronza e gli squarta e negli acuti Spiedi gl’infigge. Quindi gli arrostiti Brani, fumanti e negli spiedi infissi, 95 Mette all’ospite innanzi, e li cosperge Di candida farina. In una tazza Alfin gli versa il dolce vino, e a fronte [229] Se gli pone, e a cibarsi lo conforta, Così dicendo: Amico, or via ti sfama 100 Con queste carni, destinate ai servi; Mentre i porci più grossi e sagginati, Senza pietà, senza timor del cielo, Si divorano i Proci. Ma gradite Non sono le malvage opre ai Celesti, 105 Della bontà, della giustizia amanti. Anche il pirata, che, scorrendo i mari, Invase e saccheggiò lontana terra, Anch’ei, se a casa torna con le navi Carche di preda, l’ira ne paventa; 110 Ma costoro, a cui forse il tristo fine Del mio re fu scoperto, la vendetta Non temono de’ Numi, e, tutti a gara Vagheggiando la sua pudica sposa, Ne consumano in pace le sostanze. 115 Quanto lunga è la notte e lungo il giorno Seggono al desco, né d’un’ostia o due Tengonsi paghi, e il generoso vino Senza misura tracannar li vedi; Ché ricco egli era, d’ogni eroe più ricco, 120 Che il negro continente o la silvestre Itaca alberghi. Non di venti eroi La ricchezza uguagliar potrìa la sua. Di buoi dodici armenti ed altrettante Greggie d’agnelli, e dodici di capre 125 E pingui porci spazïose stalle, Gli guardano in paese a noi vicino E nostrali pastori e forestieri. E qui pure, al confin di questi campi, Ei possiede di capre undici stalle; 130 E ciascun de’ custodi una ogni giorno Delle migliori ne fornisce ai Proci; E anch’io, che pasco questo armento, un pingue E grosso porco sempre ad essi invio. Tacque, ciò detto, il mandrïano; e il figlio 135 Di Laerte si ciba intanto e beve [230] Senza far motto, nel pensier volgendo La strage degli Achei. Poiché finita Ebber la cena, e confortato il core, Eumeo si colma il nappo, e lo presenta 140 All’eroe, che lo vuota, e con allegro Volto a lui così parla: Amico, il nome Ora mi svela di colui che compro T’ha pel suo gregge, di colui che vanti Sì ricco e grande, e che sarìa perito 145 Il glorïoso Agamennón seguendo. A me lo svela, e ti dirò se mai Io quell’uomo conosca, se per sorte Incontrato l’avessi in qualche terra Delle molte che vidi; e san gli Dei 150 Se il vero io ti dirò! - Vecchio, ad Ulisse Il porcaio rispose, un mendicante Che qui recasse del mio re novelle, Né dalla moglie sua, né da suo figlio Fede otterrìa. Troppo a mentir son usi 155 Questi erranti accattoni, bisognosi Di tunica e di pane. Un solo ai nostri Lidi mai non ne giunge, che non corra A spacciar le sue ciance alla regina; E tutti li riceve ella cortese, 160 Di cento cose li domanda, e il pianto Cader si lascia dalle ciglia, come Far si vede la donna, a cui lo sposo Muoia fuor di paese. E tu, buon vecchio, Non tarderesti a vender la tua fola, 165 Se una tunica e un manto da coprirti Qualcun ti desse. I cani e gli avoltoi Ne lacerâr le carni, o divorato L’hanno i pesci nel mare, e l’ossa ignude Giaccion sul lido, nell’arena involte. 170 Certo ei così perìa, tutti i suoi cari, E me più ch’altri, nel dolor lasciando; Ché mai non troverò sì buon padrone, Dovunque io vada, ed anco se tornassi [231] Alla casa ove nacqui, ove allevato 175 M’hanno i parenti. E tanto non mi punge La brama di vederli un’altra volta, Quanto mi crucia aver perduto Ulisse. Benché sia morto l’infelice, io sempre Con reverenza ne ripeto il nome; 180 Perché molto m’amava, e molta cura Ei prendeasi di me, sì che pur io L’amo e l’onoro qual maggior fratello. E a lui di novo il saggio eroe: Pastore, Tu neghi adunque ch’ei tornar mai possa, 185 Ed incredulo sei; ma non con vane Ciance, no, con solenne giuramento Io t’assicuro che ritorna Ulisse. Ora in compenso del felice annunzio Una veste io ti chieggo ed un mantello, 190 Che tu però non mi darai che quando Tornato ei sia: benché mendico, io nulla Prima d’allora accetterei; ché al pari Delle porte d’Averno odio colui Che per bisogno mentitor si rende. 195 Lo sappia Giove, il sommo re de’ Numi, Lo sappia l’ospital mensa ed il sacro Focolare a cui seggo, avranno intero Compimento i miei detti. In questo stesso Anno Ulisse verrà, verrà nel giro 200 Di questo mese o nel seguente, e tutti I tristi punirà, che di vergogna Gli coprono la sposa e il caro figlio. Amico, il fido mandrïan soggiunse, Né del felice annunzio il guiderdone 205 Io ti darò, né di Laerte il figlio Tornerà. Ma via, bevi in pace, e d’altro Qui si ragioni; né voler tai cose Tu ricordarmi, perché sempre il core Mi piange udendo favellar d’Ulisse. 210 Bando per ora ai giuramenti, e torni Alfin l’eroe, come da me si brama, [232] Da me, dal buon Laerte e dalla sposa E dal figlio, che bello è come un Dio. Ahi! che pianger mi tocca amaramente 215 Anche per questo suo fanciul, che i Numi Hanno allevato come pianta eletta, E ch’io sperava di veder cresciuto, E brillar per saggezza e per valore Non men del padre. Ma, pur troppo, alcuno 220 Degl’Immortali o de’ mortali il senno Guastò del giovinetto. All’alma Pilo Ei navigò del genitore in traccia; E gli han teso un agguato i Proci intanto Per rapirgli la vita al suo ritorno; 225 E così spenta del divino Arcesio Sarà la stirpe! Ma vi cada, o salvo N’esca, e il protegga il folgorante Giove, Anche di lui si taccia; e tu mi narra I tuoi casi, o straniero, e fa’ ch’io sappia 230 Chi sei, dove nascesti, e donde vieni E su qual nave, e come alla petrosa Itaca sei calato, perché a queste Rive tu certo non giungesti a piedi. Io di buon grado, rispondea l’astuto 235 Di Laerte figliuol, ti narrerei Le mie vicende, quando a noi concesso Fosse di qui seder tranquilli a mensa, Col nappo innanzi e le vivande, mentre Stanno gli altri al lavoro; ma non credo 240 Che bastar mi potrebbe un anno intero, Se narrar ti volessi ad uno ad uno I mali che soffrir m’han fatto i Numi. Io nacqui in Creta, e mi fu padre un saggio E ricco cittadin, ch’altri non pochi 245 Illustri figli generati avea Da legittima sposa, ed allevati Sotto il suo tetto. Ed io da compra donna Partorito gli fui; ma non men caro De’ legittimi figli mi tenea 250 [233] L’Ilacide Castorre, onde mi vanto Esser disceso, e ch’era dai Cretensi Onorato qual Dio, per gesta insigni E per dovizie e per famosa prole. Come poi vecchio uscì di vita, i beni 255 Ne spartîr gli altri figli; indi le sorti Gittâr fra loro, solo a me lasciando Una povera casa e pochi averi. Pure un signor ricchissimo la vaga Sua figlia a sposa mi concesse, in merto 260 Del valor che mostrai; perché un imbelle Io già non era, o facile alla fuga Ne’ guerreschi cimenti. Ma di tutto Or privo io sono. Nondimen la spica Tu scerner dalla paglia in me saprai, 265 Se guardi sotto il cumulo de’ mali A cui soggiacqui. Col favor di Marte E di Minerva, io degli eroi le intere Squadre fugava, quando co’ miei fidi Irrompea d’improvviso ad assalirli 270 Da teso agguato. Mai timor di morte Non entrò nel mio petto; e tutti sempre Io precorrea, con l’asta trafiggendo Quanti nemici non aveano il piede Più veloce del mio. Tal nelle ardenti 275 Pugne io fui; ma le cure e le fatiche Necessarie a nutrir l’amata prole Io m’ebbi a schifo, e solo mi fûr care Le navi a molti remi e le pungenti Aste e l’arco e gli strali: al core altrui 280 Tristi, orribili cose, al mio sì grate, Ove poste le avea l’Olimpio Giove, Che ad opre varie ognun di noi destina. Pria che gli Achei drizzassero le vele Alle troiane sponde, io nove volte 285 Le nostre genti comandai sul mare Contro nemici forestieri; e tanto In ogni impresa a me fortuna arrise, [234] Che per le spoglie ch’io mi scelsi, e quelle Che in sorte mi toccâr, presto s’accrebbe 290 Il mio retaggio, e grande e riverito Il mio nome divenne. E quando Giove Ai Greci indisse quel fatal vïaggio, Che sciolse le ginocchia a tanti eroi, Me scegliean col possente Idomeneo 295 A guidar verso Troia il lor naviglio; Né mi fu dato ricusar quel carco, Cui tutti a gara mi venìan chiamando Con tumulto i Cretesi. Ivi ben nove Anni pugnammo; e al decimo l’altera 300 Città distrutta, lieti ai nostri alberghi Noi tornavamo, allor che un Dio gli Achivi In mar disperse. Io le paterne rive Afferrai; ma dovea nova sciagura Colpirmi in breve per voler de’ Numi. 305 Un mese appena con la saggia sposa E co’ figliuoli avea goduto, e brama Già mi nascea di visitar l’Egitto Co’ miei vecchi guerrieri. Io nove legni Prestamente allestii, di vettovaglie 310 Li provvidi, e sei giorni banchettando L’oste intrattenni su la verde spiaggia, Con le vittime offerte agl’Immortali Rifornendo le mense. Alfin, comparso Il novo dì, salpammo; ed incalzate 315 Dal gagliardo soffiar dell’Aquilone, Come dall’onda rapida d’un fiume, Senza disagio e senza rischio in mare Volavano le navi; e noi, tranquilli Sui banchi assisi, a quel propizio vento 320 E ai timonieri lasciavam la cura Di governarle. Il quinto dì giungemmo All’Egitto, di limpida corrente, E risalendo il vasto fiume, i neri Legni arrestammo alle sue sponde. Ingiunsi 325 Quindi ai compagni di tirarli in secco, [235] E fermarsi colà, pochi invïando Ad esplorar dalle vicine alture Quella contrada. Ma da ria baldanza, Da cupidigia questi trascinati, 330 A devastare, a saccheggiar si diêro Il fertile paese degli Egizi, A rapirne le donne ed i fanciulli, E a trucidarli. Alla città ne corse Subito il grido, e al novo Sol vedemmo 335 Tutta d’armi lucenti e di cavalli E di fanti inondata la campagna. Allor di fuga tale un vil desìo Mise il Tonante in petto a’ miei guerrieri, Che alcun far testa non osava, e chiuso 340 Era a tutti lo scampo. Altri di lancia, Altri cadean di spada al suol trafitti, Altri presi eran vivi, ed in catene Condannati a servir. Ma per salvarmi A me Giove inspirò questo consiglio; 345 Benché, se tanto poi soffrir dovea, Ben meglio era che fossi anch’io perito. Dagli omeri lo scudo, e dalla fronte Io mi spicco il cimier, l’asta e la spada Gitto da me lontano, e corro incontro 350 Ai cavalli del re: gli stringo e bacio Lagrimando i ginocchi, ed ei pietoso M’accoglie nel suo cocchio, e senza indugio Al suo tetto mi guida. È ver che molti Con l’aste alzate mi seguian, bramosi 355 Di vendicarsi; ma il buon re col cenno Il furor ne frenava e con la voce, Del gran Giove ospital l’ira temendo, Che i supplici protegge. Io sette interi Anni rimasi fra gli Egizi; e tutti 360 Colmandomi di doni, un gran tesoro V’adunai. Ma l’ottavo anno correndo, Un Fenice arrivò, mastro di frodi, Che per insana avidità di lucro [236] Già molti avea traditi; e tanto seppe 365 Raggirarmi il fellon, che navigai Seco in Fenicia, dove un ampio albergo E poderi ei tenea. Quivi dimora Io feci un anno; indi sul proprio legno Ei mi propose di condurmi in Libia 370 A trafficarvi, mentre in cor volgea Di vendermi a gran prezzo: ed io, quantunque Ne temessi, il seguii. Col vento in poppa Il nostro legno rapido solcava L’aque di Creta, quando il gran Saturnio 375 Distruggerlo pensò. Già più né Creta Allo sguardo apparìa, né terra alcuna, Ma ciel soltanto e mare; e un’atra nube Ei sul capo ne stese, e mare e cielo Di tenebre coperse. Indi, tuonando, 380 Un fulmine scagliò contro la nave; E la nave, dal fulmine percossa, Cigolò, si contorse, un grave puzzo Mandò di zolfo, e noi precipitammo In mezzo ai flutti. Simili a cornacchie 385 S’aggiravano gli altri intorno al legno, E tutti li sommerse un Dio nemico. A me solo un Celeste in quel periglio Mise innanzi una trave, onde alla morte Sfuggir potessi. A quella avviticchiato, 390 E sbattuto dai venti, errando andai Per nove giorni, fin che al primo albore Un’onda impetuosa alla tesprozia Terra mi spinse, dove umanamente Il generoso re Fidon m’accolse. 395 Un de’ suoi figli m’incontrò sul lido Spossato, assiderato, e con la destra Sorreggendomi il fianco, mi condusse Alle case paterne, e d’una bella Tunica mi fe’ dono e d’un bel manto. 400 Fu là che intesi favellar d’Ulisse: Mi narrava Fidon, che dato ospizio [367] Gli avea que’ giorni, mentre alla sua patria L’eroe tornava; e mi mostrò l’acciaro E l’oro e il bronzo, che adunato avea, 405 La sua famiglia a sostentar bastanti Per dieci età. Soggiunse il re, che andato Era allora a Dodona, la frondosa Quercia di Giove a consultar, se dopo Sì lunga assenza ritornar dovesse 410 Sconosciuto o palese al suol natìo; E mi giurò, libando agl’Immortali, Ch’era pronta la nave e i naviganti Destinati a scortarlo. Egli fra tanto m’accomiatava su tesprozio legno, 415 Che alla ricca di messi alma Dulichio Volgea la prora; ed ai nocchier commise D’indirizzarmi all’ospitale albergo Del prence Acasto. Ma perché ricolma Fosse alfin la misura de’ miei mali, 420 Di me ben altro divisâr costoro. S’era tolto di vista il lido appena, E già vendermi a prezzo avean deciso: Tunica e manto mi spogliâro, e un rozzo Lacero saio mi gittâr sul dorso, 425 Questo stesso che vedi. Alla serena Itaca giunti sul cader del Sole, Mi legarono ai banchi della nave, E poi tutti a cenar su l’arenosa Spiaggia scendean. La mano allor d’un Nume Le mie ritorte agevolmente infranse; 431 Ed io, ravvolto il saio intorno al collo, Sdrucciolai dal timone, e con le palme Tacito remigando, in su la riva Uscii non visto; e l’erta d’una selva 435 Ascesa in fretta, m’acquattai nel mezzo Di folta macchia. Mi cercâr fremendo I tesprozi nocchieri; ma, perduta Ogni speranza di scoprirmi, al legno Facean essi ritorno, e me nascosto 440 [238] Tennero gl’Immortali, ed all’ostello Mi guidâr poscia d’uom benigno e saggio, Poiché vuole il destin ch’io viva ancora. Ospite sventurato, Eumeo soggiunse, Affè che tu m’hai l’anima commossa 445 I tuoi mali narrando e le tue tante Aspre vicende. Tuttavia non credo Al ver conforme ciò che mi dicesti Del divo Ulisse. Ah che mentir non giova! Il so ben io quanto del mio signore 450 È vicino il ritorno! A lui nemici Tutti sono gli Dei, che gli han negato Di morir sotto Troia, o fra le braccia De’ suoi congiunti; ché gli avrìano a gara Gli Achivi eretto un tumolo, e famoso 455 Col suo s’udrebbe di suo figlio il nome Risuonar fra le genti. Ahimè! che invece Senza gloria ei morì, dalle crudeli Arpie rapito. Ed io vivo solingo Presso la greggia, e la città non veggo 460 Che quando a sé Penelope mi chiama, All’apparir di qualche avventuriero Portator di novelle. Ognuno ai fianchi Se gli stringe, e l’interroga a vicenda; E chi si lagna che il suo re non torni 465 Dopo sì lunga assenza, e chi ne gode E gli consuma impunemente il vitto. Ma interrogar costoro a me non piace Dal dì che m’ingannava un uom d’Etolia, Reo d’omicidio, ch’avea corso errando 470 Molte contrade, e a cui ricetto io diedi In questa casa. Mi dicea costui Ch’appo il re de’ Cretensi, Idomeneo, L’avea veduto risarcir le navi Sconquassate dall’onde, e che l’estate 475 O l’autunno sarìa con gran tesoro E co’ suoi prodi in Itaca disceso. Dunque tu pure non volermi, o vecchio, [239] Lusingar con menzogne; ché per questo Io caro non t’avrò, ma perché temo 480 Il gran Giove e di te pietà mi prende. Certo un’alma ostinata in sen tu chiudi, Il figliuol di Laerte gli rispose. Orsù, facciamo un patto, e testimoni Ne sian dal cielo i sempiterni Dei. 485 Se torna in breve alla sua terra Ulisse, Una veste mi dona ed un mantello, E, come bramo, al fertile Dulichio Senza indugio m’invia. Se dopo un mese Ancor tornato ei non sarà, tu contro 490 M’incita i servi, e da scoscesa rupe Capovolto mi sbalza, onde per sempre Si guardi dal gabbarti ogni mendico. Un gran merito, invero, una gran lode M’acquisterei nel mondo, Eumeo riprese, 495 Se dopo averti ospitalmente accolto Nel mio povero albergo, io ti traessi L’alma dal petto. Oh sì, che allor potrei Sollevar con fiducia al gran Saturnio Le mie preghiere! Ma del pasto è l’ora, 500 E tardar non dovrebbero i famigli A far ritorno, e preparar la cena. Mentre ei così ragiona, ecco i maiali Appressarsi, cacciati dai famigli, Che nei presepi li chiudeano; ed essi 505 Empìan l’aria di strida e di grugniti. Ai servi allora disse Eumeo: Compagni, Conducetemi un porco de’ più grossi, Per ch’io lo sveni all’ospite qui giunto Da lontane contrade; e festa insieme 510 Farem noi tutti, che per questo gregge Tanto soffrir dobbiam, mentre col frutto Delle nostre fatiche altri s’ingrassa. Eumeo, ciò detto, con la scure un tronco Fendea di quercia, e dalla stalla intanto 515 Conducevano i servi un sagginato [240] Grosso porco quinquenne, e innanzi al fuoco Il collocâr. Né de’ celesti Numi Il prudente pastor dimenticossi; Ché svelto della fronte un ciuffo al porco 520 Lo gittò su le fiamme, supplicando Pel ritorno del re. Con una scheggia Della quercia spaccata indi al grugnante Tale un colpo vibrò, che al suol lo stese. I famigli a sgozzarlo, ad abbronzarlo, 525 A squartarlo si diêro; ed egli i brani Spiccando dalle cosce, altri gli avvolse Nell’adiposo omento, ed altri, aspersi Di candida farina, li distese Su gli ardenti carboni. Il resto, in pezzi 530 Ugualmente diviso, era sui lunghi Schidoni infisso, e con solerte cura Indi arrostito. Si levâr dal foco Alfin tutti ad un tempo, e su la mensa Si deposer le carni. Il saggio Eumeo 535 Sette parti ne fece; ed una offerta Al buon figlio di Maia ed alle Ninfe De’ boschi abitatrici, ai servi l’altre Distribuì. Ma di rispetto in segno Diede all’ospite il tergo, di letizia 540 Empiendo il core del suo re, che questi Detti a lui rivolgea: Possa tu sempre, Come a me, viver caro al fulminante Giove e a tutti gli Dei, poiché mi rendi, Nello stato in che sono, un tanto onore. 545 E tu così gli rispondesti, Eumeo: Ospite venerando, accetta il poco, Che solo offrirti è a me concesso: il resto Darà Giove, o terrà, ché tutto ei puote. Così disse; e bruciando le primizie, 550 E libando agli Dei, porse la tazza All’eroe di cittadi espugnatore, Che a fronte gli sedea. Sul desco il pane Mesaulio scompartì, garzon robusto, [241] Che comperato avea dai Tafi Eumeo, 555 Nell’assenza del re, co’ suoi guadagni, Senza che nulla la regina e nulla Ne sapesse Laerte. Allor le mani Stesero al colmo desco; e quando in tutti Fu delle dapi il desiderio estinto, 560 Mesaulio il pan raccolse, e ciascheduno Ritirossi a dormir nel proprio letto. Sopraggiunse una fosca, orrida notte: Il gran Giove piovea diluvïando Una pioggia incessante, e furïoso 565 Vento soffiava da Ponente. Ulisse, A cui sì grande affetto il mandrïano Avea mostrato, fece in sé pensiero Di tentar s’egli stesso, o per suo cenno Alcun de’ servi gli cedesse il manto; 570 E così favellò: M’ascolta, Eumeo, M’ascoltate, voi tutti. Io pochi accenti In mio vanto dirò, sì come il pazzo Lïeo comanda, ch’anco i saggi move A cantar fuor di tempo, a spiccar salti, 575 A scrosciar dalle risa, a far palese Ciò che meglio è tacer. Ma poiché il freno Omai sciolsi alla lingua, io francamente Proseguirò. Deh! perché fresca ancora Quell’età, quella forza in me non brilla, 580 Ch’io m’ebbi allor, che dagli Achei si tese Ai nemici un agguato innanzi a Troia, Duci l’inclito Ulisse e Menelao, Ed io con essi? Giunti all’ardue mura, Tutti nell’arme chiusi, ivi nascosti 585 Giacevam fra le canne e fra i virgulti In terren paludoso. Algente e trista Notte ne colse: d’improvviso un vento Aquilonar levossi, e una minuta Neve calava come brina, e dense 590 Croste di ghiaccio ne coprìan gli scudi. Nelle tuniche avvolti e nei mantelli [242] E degli scudi gli omeri coperti, Prendean gli altri riposo; io, che quel gelo Previsto non avea, lasciai partendo 595 Il mantello ai compagni, e l’armi solo Tolsi meco e la veste. Ma già corso Il terzo della notte, e già cadendo Le stelle, urtai col gomito l’astuto Laerziade, che a me dormìa vicino. 600 Ei dal sonno si sveglia, ed io gli dico. O magnanimo Ulisse, o di Laerte Valoroso figliuol, più fra i viventi In breve io non sarò: m’uccide il verno. Io non ho manto; ché m’indusse un Nume 605 A venir sol di tunica vestito. Ah, che per me non v’ha più scampo! - E, il saggio Ulisse, che non meno ebbe ai consigli Pronta la mente, che gagliardo il braccio Nelle battaglie, con sommessa voce 610 All’orecchio mi disse: Amico, taci, Che nessuno t’ascolti. - Indi rizzossi Sul cubito, e la fronte sollevando, Così tolse a parlar: Compagni, udite. Mentre io dormìa tranquillo, una celeste 615 Imagine discese ad avvisarmi Che noi troppo ci siam dai padiglioni Allontanati. Vada, orsù, qualcuno Al re de’ regi Agamennón, che tosto Mandi novi guerrieri in nostro aiuto. 620 Tacque Ulisse; e Toante Andremonide Sorge, depone il roseo manto, e ratto Alle tende s’avvia. Quel manto io presi, E me lo cinsi intorno al corpo, e chiuso Vi restai fino all’Alba. Oh! se nel fiore 625 Degli anni e delle forze ancor foss’io, Forse alcuno di voi, pel quel rispetto E quell’amore ch’uom valente inspira, Un mantello qui pure a me darebbe; Ma in questi cenci niun di me si cura. 630 [243] Vecchio, Eumeo replicò, leggiadra istoria Tu ci narrasti, né veruno, o sconcio O vano accento, è dal tuo labbro uscito. Né di manto, né d’altro, onde abbisogni Un ospite infelice, avrai difetto 635 In questa notte. Ma doman ripiglia I tuoi panni, perché qui non abbiamo Di tuniche dovizia e di mantelli, Da cangiarli a talento, ed uno solo Ne possiede ciascuno. Appena il caro 640 Telemaco sarà fra noi venuto, Ei di vestirti si darà pensiero, E d’invïarti ovunque andar ti piaccia. Sì dicendo, egli sorse; un letto quindi Gli pose accanto al fuoco, e su vi stese 645 Pelli d’agne e di capre. Ivi corcossi Il figlio di Laerte; e il buon porcaio Lo coprì con lanosa ed ampia pelle, In cui sé stesso avviluppar solea Allo scoppiar d’insolita bufera. 650 Così posava sconosciuto Ulisse Nel mezzo de’ suoi servi. Ma il pastore, Che dormir non volea da’ suoi grugnanti Porci diviso, per uscir l’usate Armi indossava; e lui cotanto Ulisse 655 Degli averi sollecito mirando Del lontano suo re, sentìasi tocco Di gioia il core. Un’affilata spada Ai forti omeri appese; un gran gabbano Riparator del vento indi si strinse 660 Alla persona; in man si tolse un vello Di cornigera capra, e un’asta acuta Finalmente, degli uomini terrore E de’ mastini. Così tutto in punto A corcarsi n’andò sotto una rupe, 665 Ove, dal soffio aquilonar difeso, Giacea l’armento dalle bianche zanne. [244] LIBRO DECIMOQUINTO SOMMARIO Minerva appare in sogno a Telemaco, e lo esorta di tornare ad Itaca; ed egli si accomiata da Menelao, dopo averne ricevuto gli ospitali presenti. - Giunto a Pilo col figlio di Nestore, s’imbarca senza entrare in città. - Accoglie nella sua nave l’indovino Teoclimeno, fuggito dalla patria per avervi commesso un omicidio. - Nuovi colloqui fra Ulisse ed Eumeo, il quale gli narra come, essendo ancor fanciullo, fu rapito a’ suoi parenti dall’isola di Siria, e venduto a Laerte. - Telemaco, scampato alle insidie de’ Proci, giunge co’ suoi compagni alla spiaggia itacense. - Comparsa d’uno sparviero, e augurii di Teoclimeno. - Spediti i compagni colla nave alla città, Telemaco si avvia tutto solo alla casa d’Eumeo. Palla intanto scendea nell’alma Sparta Ad annunziar del saggio Ulisse al figlio L’ora della partenza, ad affrettarne Alla patria il ritorno; e coricato Il trovò con Pisistrato nell’atrio 5 Della reggia d’Atride. Dolcemente Pisistrato dormìa; ma non d’Ulisse La cara prole, che per la solinga Notte al padre pensando, non potea Al molle sonno abbandonar le membra. 10 Accostossi la Diva al giovinetto, E favellò: Telemaco, non lice Che tu più lungamente erri lontano Dai paterni poderi, e che il tuo tetto [245] Lasci ai Proci in balìa. Bada che i tristi 15 Non partansi fra lor le tue ricchezze, E, non che vano, torni a te dannoso Questo vïaggio. Non tardar tu dunque Ad impetrar da Menelao commiato, Se veder brami ancor tua madre in casa; 20 Ché vuole Icario, vogliono i fratelli Darla in moglie ad Eurimaco, de’ Proci Quello che più le dona, e le promette Più larga dote. Allora uscir vedresti Di casa il meglio; perocché la donna 25 Tu ben conosci: del novello sposo Solo si studia d’arricchir l’albergo, E lo sposo defunto e i primi figli Essa più non ricorda e più non cura. Ma tu, tornando, scegli fra le ancelle 30 La più saggia, e il governo le commetti Della famiglia, fin che degna sposa Non sia dai Numi a te concessa. Or d’altro Io favellar ti deggio, e tu m’ascolta. Nel golfo che divide Itaca alpestre 35 Dall’arenosa Samo, i baldi Proci Si stanno vigilando ad aspettarti, D’ucciderti bramosi, anzi che arrivi Al suol natìo. Ma fallirà l’impresa, S’io non m’inganno, e forse pria la terra 40 Qualcuno coprirà di que’ malvagi. Tuttavolta la bruna isola schivi La tua carena, e naviga di notte, Col fresco vento che da tergo un Nume A te propizio leverà. Disceso 45 Su la riva itacense, i tuoi nocchieri Con l’agil pino alla città spedisci; E tu vanne all’ostel del fido servo, Che tien la mandra setolosa in guardia. Ivi tu dormi; e il servo incontanente 50 A Penelope invia, per avvisarla Che tu da Pilo ritornasti illeso. [246] Tacque, e all’Olimpo risalì la Diva. Col piede allor Telemaco risveglia Di Nestore il figliuolo, e, Sorgi, amico, 55 Sorgi, gli dice, aggioga i corridori, E partiam. - Ma Pisistrato rispose: È buia ancor la notte, e a me fra l’ombre Guidar gli ardenti corridor non lice. Partiremo con l’Alba omai vicina, 60 Quando l’Atride Menelao deposti Avrà sul nostro cocchio i suoi presenti; Perché l’ospite sempre si ricorda Di colui che l’alberga, ove partendo Un qualche pegno d’amistà ne rechi. 65 Come la nova Aurora in ciel comparve Sul dorato suo trono, il forte Atride, Lasciando della bella Elena il letto, Ai due garzoni s’avvïò. Lo vide D’Ulisse il figlio, e in fretta alla persona 70 La leggiadra sua tunica s’avvolse, Si gittò su le spalle il largo manto, E fuori uscendo, gli si fece incontro, E così disse: Atride Menelao, Di Giove alunno, dammi or via congedo, 75 E fa’ ch’io tosto al patrio suol ritorni. Telemaco, rispose il saggio Atride, Io tuo malgrado a lungo in questo albergo Trattenerti non voglio. Al par mi spiace Chi di soverchio l’ospite accarezza 80 E chi lo spregia, sempre il meglio essendo Giusto modo serbar: ché non è meno Discortese colui, che lo straniero Arresta quando è di partir bramoso, Che chi bramoso di restar lo caccia. 85 Quando s’indugi, festeggiarlo, e pronto Dargli commiato, quando il cerchi, è d’uopo. Ma tu fermati almen tanto ch’io ponga Alcun dono sul carro, e che comandi Alle donzelle d’apprestarti un desco 90 [247] Di serbate vivande. E bello insieme E giocondo ti fia correr gli ameni Campi, di cibi confortato il core. Che se d’Argo la terra e Grecia tutta Visitar ti piacesse, io col mio cocchio 95 E i miei destrieri ti sarei compagno Alle illustri città, dove nessuno Senza un bel dono ti darìa congedo; E un tripode n’avresti od un lebete O un’aurea coppa o due gagliardi muli. 100 Di Giove alunno, correttor di genti, Telemaco ripiglia, alle mie case Che incustodite abbandonai partendo, Ricondurmi desio, perché i miei beni Non disperdano i Proci, e pêra io stesso 105 Mentre del padre vo cercando invano. Più non disse; e l’Atride alla consorte E alle donzelle subito commise D’apparecchiar la mensa. Apparve intanto Il figliuol di Boete, Eteoneo, 110 Sorto allor dal suo letto, in cui non lunge Dal re dormìa. D’accendere un gran foco Questi gl’ingiunse e d’arrostir le carni; Né il suo comando ad eseguir fu tardo Eteoneo. Col figlio Megapente 115 E con la moglie scese quindi Atride Nella stanza odorata, ove giacea Infinito, mirabile tesoro: Ei medesmo si toglie un’aurea coppa, E al figlio accenna di levarne un’ampia 120 Urna d’argento. Ma la diva Elèna Fermossi alle segrete arche davanti, Ove chiusi tenea non pochi pepli, Dall’industre sua mano in varie guise Leggiadramente ricamati; ed uno 125 Fuor ne trasse, il più grande, il più guardato, Fulgido come stella. Attraversando Poscia le sale, giunsero al cospetto [248] Del figliuolo d’Ulisse, a cui l’Atride Questi accenti volgea: Possa il gran Giove, 130 Il glorïoso di Giunon marito, Felicemente ad Itaca guidarti; E questo da me prendi insigne dono, Il più bello fra quanti io ne possegga Ed il più ricco: un’urna effigïata, 135 Di puro argento, che le labbra ha d’oro Maravigliosa di Vulcan fatica. Dalle troiane spiagge ritornando A me la diede in sua magion l’illustre Fèdimo, re delle sidonie genti, 140 E di buon grado a te la cedo, o figlio. Così dicendo, Menelao gli mise La tonda coppa in mano, e dal suo caro Megapente posar gli fece ai piedi La bella urna d’argento. Allor s’accosta 145 Col vago peplo al giovinetto Elèna Dalle floride guance, e così parla: Prendi, amato figliuol, da me pur anco Questo candido peplo. Esso è lavoro Delle mani d’Elèna, e tu lo serba 150 Per sua memoria. Il giorno sospirato Delle nozze adornar potrà le membra Alla tua sposa; dentro all’arche intanto La madre il custodisca, e tu ritorna Lieto con questi doni alla tua terra. 155 Ei con gioia l’accetta; e i bei presenti Ammirava Pisistrato, e sul cocchio Li deponea. Ciò fatto, alle superbe Aule i garzoni Menelao condusse; E come fûr seduti, una donzella 160 Versò loro la pura aqua alle mani Da brocca d’oro, ed un pulito desco Apparecchiava, che d’elette dapi E di pani colmò la veneranda Dispensiera. Le carni Eteoneo 165 Distribuì, versò nell’auree tazze [249] Il vino Megapente; ed essi al desco Stendean le mani. Come in lor fu sazia Del cibarsi la voglia, i corridori Aggiogarono, e il cocchio indi salendo, 170 Fuor dell’atrio e del portico sonante Il guidâr lentamente; e li seguìa Il biondo Atride, una dorata coppa Di vermiglio licor tenendo in mano, Perché pria di partir le libagioni 175 Facessero agli Dei. Dinanzi agli alti Corridori ei fermossi, e propinando Ai garzoni, esclamò: Diletti figli, Salute a voi, salute al re Nelide Di popoli pastor, che a me fu sempre 180 Come padre benigno, allor che i Greci Sotto le mura combattean di Troia. E a Menelao Telemaco rispose: Tutto, come tu brami, inclito Atride, Il buon veglio saprà. Così potessi 185 A mio padre narrar quale accoglienza Io m’ebbi in questa casa, e i molti e ricchi Doni mostrar che mi facesti! Or mentre Ei favella così, levossi a destra Con ali tese un’aquila, che avea 190 Negli artigli una bianca e smisurata Domestic’oca, dal cortil ghermita. La seguìa schiamazzando una gran turba D’uomini e donne; e l’aria essa fendendo Avvicinossi ai due garzoni, e a destra 195 Sparve innanzi ai corsieri. A quella vista Ognun s’allegra; e il figlio di Nestorre, Al re converso, Credi tu, gli disse, Ch’abbia alcun de’ Celesti a noi mostrato, O a te, divino Atride, un tal prodigio? 200 Alle parole del garzon l’Atride Meditava in silenzio una risposta; Ma il prevenne di Tindaro la figlia, [250] Dicendo: Udite, ciò che un Dio m’inspira, E che certo avverrà. Come il grifagno 205 Augel, calando dall’eccelsa rupe Ove annidano i suoi teneri parti, L’oca rapiva nel cortil nudrita; Tal fia che torni da lontan paese All’isola natìa vindice Ulisse: 210 Se già non è tornato, e già la strage Non v’apparecchia de’ superbi amanti. E Telemaco a lei: Deh, ciò piacesse Al gran padre de’ Numi! ed io preghiere Anche a te leverei, siccome a Diva. 215 Fe’ la sferza, ciò detto, in su le groppe De’ corsieri sonar, che a tutta briglia La città percorrendo, ai campi uscîro. Squassando il giogo sul crinito collo Essi volar l’intero giorno; e come 220 Il Sol disparve e s’oscurò la terra, Giunsero in Fera, di Dïocle al tetto, Di Dïocle d’Orsìloco, che il chiaro Fiume Alfeo generò. Quivi la notte Ebber riposo ed ospitali doni 225 I giovinetti. Ma non tosto il cielo L’Aurora aperse con le rosee dita, I corsieri aggiogâr, la screzïata Biga salîro, e il portico sonante Traversando, Pisistrato animava 230 Col flagello i cornipedi veloci, Che indefessi battean la via de’ campi; Né lungamente ad apparir di Pilo Tardò l’alta città. D’Ulisse il figlio Al figlio di Nestorre allor dicea: 235 Pisistrato, non m’hai tu già promesso Che in tutte cose il mio piacer faresti? Ambo pari d’età, di padri amici Ambo figli noi siam; ma questo nostro Vïaggio a Sparta ed il conforme ingegno 240 L’uno all’altro di nodi ancor più saldi [251] Ne stringeranno. Non voler tu dunque Entro Pilo condurmi, e sul vicino Lido mi lascia: troppo il buon vegliardo Trattener mi potrìa nel vostro albergo 245 Per festeggiarmi; e a me partir conviene. A quel parlar Pisistrato volgea Nella sua mente come al caro amico Attener la promessa. In tal pensiero Spinse al mare i cavalli, e su la spiaggia 250 Deposti i doni del divino Atride, Su via, disse a Telemaco, la nave Ascendi coi compagni, e in mar t’allarga Pria che al padre sia noto il nostro arrivo; Ché ben io lo conosco, e so per prova 255 Come il sangue gli bolle. Ad invitarti Verrebbe ei stesso immantinente al lido; E se tanto indugiar tu non volessi Che i suoi presenti anch’ei ti porga, in volto Tutto di stizza lo vedresti acceso. 260 Così detto, voltar facea le terga Ai corridori, che nel regio ostello Entrâr volando. Ma d’Ulisse il figlio A sé chiama i compagni, e così grida: Affrettatevi, amici, armate il legno, 265 Date al vento le vele. - Essi a quel cenno Obbedïenti, senza indugio il negro Legno salîro, e si schierâr sui banchi. Or mentre, la partenza accelerando, Telemaco a Minerva un sacrifizio 270 Facea presso la nave, uno straniero Gli comparve dinanzi, che fuggìa D’Argo, ove un uomo avea da poco ucciso. Era indovino, della stirpe uscito Di Melampo, che un dì vivea nell’alma 275 Pilo, nutrice di lanose greggie, Ove una bella avea splendida casa. Poi la patria fuggendo e il bellicoso Neleo, che un anno riteneagli a forza [252] Gli adunati tesori, ad altre terre 280 Migrava, e a lungo dolorando in ceppi Nella magion di Fìlaco rimase, Di Neleo per la figlia, e per l’audace Impresa che l’Erinni in cor gli mise. E nondimeno, dalla negra Parca 285 Scampato, trasse da Filace a Pilo I contrastati armenti; ed in Neleo Vendicato l’oltraggio, la consorte Al fratello condusse. Indi all’altrice Di superbi cavalli Argo passando, 290 Per voler degli Dei su molte genti Ivi stese lo scettro, ivi costrusse Un maestoso albergo, ed una vaga Moglie si tolse, che di forti figli Il fe’ padre, d’Antìfate e di Manzio. 295 E d’Antìfate nacque il generoso Oicleo, che produsse Anfïarao Di popoli pastore, al sommo Giove Carissimo mortale e al biondo Apollo. Ma di vecchiezza Anfïarao le soglie 300 Non toccò; che d’Anfìloco possente Genitor divenuto e d’Alcmeone, Sotto Tebe morì per tradimento D’avara donna. Clito e Polifide Manzio poi generava; e dall’Aurora, 305 Innamorata di sue forme, in cielo Fu Clito assunto ad abitar co’ Numi. Ma quando all’Orco scese Anfïarao, Più che ad altri, al divino Polifide Concesse Apollo de’ presagi il dono; 310 Ed egli, irato al genitor, passava In Iperesia, dove agli accorrenti Mortali apriva del futuro il velo. Era figlio a costui Teoclimeno, Lo stranier che a Telemaco giugnea, 315 Mentre coi cari amici un sacrifizio Stava a Pallade offrendo. A lui dinanzi [253] Si presentò Teoclimeno, e disse: Poiché ti trovo su la spiaggia, intento A questo rito, per gli eterni Dei, 320 Per li tuoi sacrifizi e i tuoi compagni, Per lo stesso tuo capo, io ti scongiuro, Di ciò che chieggo non celarmi il vero. Chi se’ tu? di che sangue, e di che gente? Ospite, gli rispose il giovinetto, 325 Il vero ti dirò. D’Itaca io sono, Ed Ulisse m’è padre, se pur vive Mio padre ancora; perocché già forse È morto l’infelice, ed io con questa Nave e questi compagni il cerco invano. 330 Di novo allor Teoclimeno: Anch’io Son dalla patria ad esular costretto, Perché di mia tribù v’uccisi un uomo, Che molti in Argo prepossenti amici E fratelli lasciò. Scampato appena 335 Dalle ultrici lor mani, io vado errando Ove il fato mi trae per l’ampia terra. Deh! tu dunque pietoso mi ricetta Su la bella tua nave, onde raggiunto Io non sia da costoro, e trucidato. 340 Mai non sarà, Telemaco ripiglia, Che dal mio legno, ove salir mi chiedi, Io ti respinga. Vieni, e l’accoglienza Da me ricevi, che qui farti io posso. L’asta gli prese in questo dir, sul palco 345 La depose; e salita indi la nave Dell’onde vïatrice, in su la poppa Ei s’assise, e seder fece al suo fianco Teoclimeno. Diede poscia il segno Della partenza a’ suoi nocchieri; ed essi, 350 I canapi sgroppati dai ritegni, Sollevâr nell’incasso e con le sartie L’albero assecurâr: con le rudenti V’appesero le vele. Allor la figlia Del gran Saturnio suscitò gagliardo, 355 [254] Propizio vento, che volar sui flutti Facea la nave, e al tramontar del Sole Arrivâr sopra Fea. Quindi la sacra Elide costeggiando, ove han dimora I magnanimi Epei, d’Ulisse il figlio 360 Fra le sassose Echìnadi si mise, In suo cor dubitando, se alle insidie Sfugga de’ Proci, o vi rimanga estinto. Col fedel mandrïano e gli altri servi Cenava in questa Ulisse; e del cibarsi 365 Spenta la voglia, prese accortamente Ad esplorar, se con l’usato zelo Trattener lo volesse il buon porcaio, Od invïarlo alla città. - M’ascolta, Eumeo, voi tutti m’ascoltate. Io penso 370 Andar domani alla città, la vita A mendicarvi; ché non amo il vostro Vitto qui consumar. Co’ tuoi consigli Tu dunque, Eumeo, m’aiuta, e fa’ che un servo Meco ne venga, che la via m’insegni. 375 Come crudel necessità comanda, Ivi di porta in porta andrò cercando Chi mi porga un bicchier di vino e un pane; M’inoltrerò nella magion d’Ulisse, Per recarne a Penelope novelle; 380 Né di mischiarmi agli orgogliosi Proci Temerò, che di cibi in tanta copia Forse lasciarmi non vorran digiuno. D’ogni lor cenno esecutor fedele Io sarò; perché d’uopo è tu conosca 385 Che per mercé del messaggiero Ermete, Che grazia aggiunge all’opre de’ mortali, Nessun mi vince ne’ servili ufici: Fender l’aride legne, accender fuoco, Mescer vino, arrostir, trinciar le carni, 390 Come coi grandi fanno i poverelli. Oh! che parli, stranier? che mai disegni? Rispose il mandrïano. Affè che stanco [255] Sei della vita, se mischiarti ardisci Con la turba de’ Proci, onde la stolta 395 Oltracotanza fino agli astri ascende. Ben diversi da te, svelti donzelli, Di tuniche e di clamidi vestiti, Leggiadro il volto, inanellato il crine, Ministrano ai superbi; e le forbite 400 Mense ne sono di purpurei vini E di carni e di pani ognor ricolme. Orsù, rimani; ché non io, né alcuno De’ miei compagni n’avrà noia. Appena Telemaco qui giunga, ei d’una veste 405 Ti farà dono e d’un mantello, e poscia Invïeratti ovunque andar ti piaccia. Eumeo, riprese il pazïente Ulisse, Così fossi al gran Giove e a tutti i Numi, Come a me tu sei caro, a cui riposo 410 Da lunghi affanni e lungo errar consenti! Ben degno è di pietà, degno di pianto, Chi da rabbiosa, cieca fame è tratto A vagar mendicando in su la terra. Quanti disagi tollerar gli è forza, 415 Quanti dolori! Ma da che pietoso Vuoi che teco io rimanga, della madre E del padre d’Ulisse mi favella, Ch’erano al suo partir già d’anni carchi: Dimmi se ancora li conforta il Sole, 420 O se agli alberghi scesero di Pluto. E di novo il porcaio: Ospite, il vero Io ti dirò. Vive Laerte ancora, Ma senza posa dai Celesti ei chiede La fine de’ suoi dì; tanto si crucia 425 Dell’assente figliuolo, e della moglie, Che vecchio e tristo lo lasciò morendo. E anch’ella, sempre il suo diletto Ulisse Sospirando, morìa miseramente. Ah, che nessuno mai perir non possa 430 De’ miei cari così! Finché vivea, [256] Erami grato il visitarla, e seco Ragionando seder: poi ch’ella stessa m’allevò con l’amabile Ctimene, La minor di sue figlie, e di me cura 435 Avea non meno che di lei. Ma come Alla bramata pubertà giungemmo, Ctimene a Samo fu da’ suoi condotta A prendervi marito, e gran tesoro N’ebbero in dote; ed io dalla regina, 440 Che pur tanto m’amava, alla campagna, Ben provvisto di tuniche e mantelli, Fui questo gregge a custodir mandato. Sì belle vesti più non tengo adesso; Nondimeno le mie fatiche i Numi 445 Prosperato han così, che mai penuria Né per me, né per gli ospiti di cibi Io non ebbi e di vini. Ma conforto Aspettar da Penelope non lice D’opere o di parole, or che in balìa 450 D’insolenti garzoni è la sua casa: Né vederla o parlarle, e alcun ristoro Di cibo averne, è dato a’ suoi più fidi, O riportarne ai campi un qualche dono, Onde tanto s’allegra il cor de’ servi. 455 Dunque, Eumeo, replicò l’accorto Ulisse, Te pur la sorte dal paterno tetto Sbalzò lontano ancor fanciullo. Or via, Narrami se diserta o incenerita Fu la bella città, dove gl’illustri 460 Tuoi parenti han soggiorno; o se il nemico Presso l’agne soletto o presso i tardi Buoi t’ha sorpreso, e tratto alla sua nave, E per molt’oro a questo re venduto. Poiché cotanto di saper tu brami 465 I casi miei, gli disse il mandrïano, Qui siedi al desco, e tacito m’ascolta, E vuota il nappo a tuo talento. Lunghe Sono le notti, e novellando in parte [257] Passarle, e in parte noi potrem dormendo; 470 Ché nuoce il sonno ancor quando è soverchio. Se a qualcun tuttavia dormir piacesse, Esca e si corchi; ma co’ primi albori Sorga, e, prendendo il cibo usato, al pasco La sua greggia conduca. E noi fra tanto 475 Con la storia de’ mali un dì sofferti Ci verremo l’un l’altro consolando; Ché spesso si consola col racconto De’ suoi dolori l’uom che molto errato Abbia e molto patito. Odimi or dunque, 480 O forestiero. Un’isola, che Siria È nominata, se parlarne udisti, Giace a Delo vicina, ove i ritorni Si segnano del Sole: ampia non molto, Ma di mandre feconda, e di frumenti 485 Ricca e di vini generosi, e dove Mai la fame non entra, né i felici Abitatori morbo rio consuma. Ma quando la vecchiezza alfin li coglie, Il signor del sonante arco d’argento, 490 E la vergine Cinzia, all’improvviso Gli uccidono, vibrando acuti dardi. In due cittadi è l’isola partita, Tra lor di forza e di ricchezze uguali; E lo scettro stendea su l’una e l’altra 495 Il mio buon genitor, Ctesio Ormenide, Che un Celeste parea. Dalla Fenicia Ivi un dì sopraggiunse un’operosa Gente, nell’arte nautica maestra, Che mille seco industri bagatelle 500 Su la nave recò. Fra le sue mogli Avea mio padre una fenicia donna, Grande e leggiadra e in bei lavori esperta, Che stava su la spiaggia allor per caso Lavando i lini. Presso al cavo legno 505 La menò, la sedusse il più scaltrito De’ que’ nocchieri, e l’ultimo ne colse [258] Frutto d’amore, a cui sì pronto sempre Il cor di donna, ancorché saggia, inchina. Poi del nome la chiese, e donde fosse 510 Colà venuta. Ed ella, il vasto albergo Gli mostrò di mio padre, e gli rispose: Io son figliuola d’Aribante, un ricco Della chiara Sidone abitatore. Mentre dai campi alla città redìa, 515 Tafi ladroni m’han rapita, e quindi Condotta in Siria, e a questo re venduta. Colui ripiglia: Dunque a te discaro Non sarà di seguirci al tuo paese, E veder la tua casa e i tuoi parenti, 520 Che ancor son vivi, e ricchi ognun li dice. Ben lieta ne sarei, sclamò la donna, Quando voi tutti qui giurar voleste Di salva ricondurmi alla mia terra. Tacque, ed essi giurâr. Ma così tosto 525 Ella soggiunse: Amici, ora è mestieri Di segretezza; e se di voi qualcuno Per via m’incontri, o in riva al mare o al fonte, Guardisi dal parlarmi, onde nol sappia Il vecchio, e me col carcere punisca, 530 Voi con la morte. Vi stampate in core Le mie parole, né pensier vi prenda Che delle merci. Come il dì sia giunto Della partenza, a me ne date avviso Occultamente; e quanto di più caro 535 Mi verrà fatto di ghermir, sul legno Io meco porterò, forse con altro Più nobil carco. Di quel mio signore Allevo un figlio, vispo e cattivello Così, che s’io nol veglio, ad ogni istante 540 Fuor mi scappa di casa: io questo ancora Condurrò su la nave, e voi ritrarne Prezzo non lieve ne potrete, ovunque Ei sia venduto. - Quando ebbe ciò detto, Fe’ ritorno all’ostello; ed essi, un anno 545 [259] In Siria dimorando, avean di nove Merci raccolto ingenti some. Il legno Carco, e vicini alla partenza, un messo Alla donna invïâr, prudente e destro, Che venuto alla reggia, un suo monile 550 Venia mostrando, di forbito elettro Vagamente ingemmato. Or mentre a questo La genitrice e le donzelle intente, Fra le dita il volgean, maravigliando, E lui chiedean del prezzo, ei fe’ degli occhi 555 Ratto un cenno alla donna; indi alla nave Si ricondusse. Per la man mi piglia Essa allora, e, l’albergo attraversando, Vede nell’atrio su la mensa i nappi, Ove del genitore avean bevuto 560 I commensali, a parlamento usciti: Tre ne toglie, i più belli, e sotto un lembo Della veste gli asconde; ed io di nulla Sospettando la seguo. Il cielo omai S’offuscava e la terra; e noi, veloci 565 Il sentiero battendo, ambo aspettati Giungemmo al lido, e n’accogliean con festa Su la nave i Fenici. Un vento in poppa, Che il figliuol di Saturno avea levato, Lunge in mar ne sospinse. E già sei notti 570 Senza posa e sei dì la negra antenna Correa l’umide vie; ma come il Sole Apparve in orïente, ecco la Diva Dell’arco amica saettar la donna, Che con rumor cadea nella sentina, 575 Qual folaga trafitta. I naviganti La travolser nell’onde, esca de’ pesci E delle foche; ed io, mesto e piangente, Restai sul legno sin che, fausta sempre L’aura spirando, scesi a questa spiaggia, 580 Ove con oro mi comprò Laerte. Così la prima volta Itaca io vidi. Il tuo racconto mi commosse, Eumeo, [260] L’accorto eroe proruppe. E tuttavolta Giove ti pose al male il ben vicino, 585 Se al ricco albergo ti guidò di caro E pietoso signor, dove non soffri Di cibo inopia, né di vino, e meni Vita tranquilla; ed io di terra in terra Vo mendicando fra gli stenti il pane! 590 Tacque; e, dal lungo ragionar cessando, Si corcarono entrambi, e presto il novo Raggio dell’Alba a risvegliar li venne. Telemaco fra tanto e i suoi compagni Giungean d’Itaca in vista. Allor le vele 595 Chiudendo in fretta e l’albero abbassando, Verso la riva sospingean co’ remi Il curvo pino, e, l’àncora gittata, N’assecurâr la gomena alla prora. Quindi, scendendo su l’amena spiaggia, 600 Apparecchiâr la mensa, e di spumante Vino i nappi colmâr. Poiché di cibo Ognun fu sazio, così tolse a dire Il prudente Ulisside: Amici, ai campi Io m’incammino a visitar la greggia 605 E i lavori de’ servi, e voi guidate Alla città la negra nave; anch’io Vi sarò sul tramonto, e al dì novello Del ritorno il convito imbandiremo. Ed io dove n’andrò, diletto figlio? 610 Disse Teoclimeno. A qualche onesto d’Itaca cittadino, o drittamente Alla tua casa e alla tua madre? - E pronto Gli rispose il garzone: In altro tempo Io stesso di buon grado alla mia casa 615 T’avrei mandato, e senza doni uscito Non ne saresti; ma non or, ché teco Io non verrei, né ti vedrìa la buona Mia genitrice che, i superbi amanti Usa a fuggir, nel talamo solingo 620 Sta chiusa, all’opra delle tele intenta. [261] Un ospite bensì nomar ti posso Che in sua magion t’accoglierà, l’illustre Eurimaco, de’ Proci il più valente, Dagl’Itacesi in grande onor tenuto. 625 Ei più che gli altri di mio padre al regno, Ed alle nozze di mia madre aspira; Ma se giorno di nozze o di sterminio Sorgerà per gli amanti, è noto al solo Massimo Giove, abitator dell’etra. 630 Avea ciò detto appena, ed ecco a destra Un augello spiegar per l’aria i vanni: Un grosso falco, messaggier d’Apollo, Che fra l’ugne stringendo una colomba, La spennava col rostro, e ne spargea, 635 Presso il legno, a Telemaco sul capo, Le volubili piume. Allor chiamato In disparte il garzon, per mano il prese Teoclimeno, e profetando disse: Saggio Ulisside, non per caso a destra 640 Quell’augello volò, che il gran Saturnio Di lieti eventi annunziator t’invia. Stirpe non vive in Itaca più grande Della stirpe d’Ulisse, e re possenti Voi ne sarete, e chi da voi discende. 645 Oh, s’avveri il presagio, ospite mio! Telemaco soggiunse: e tal d’amore Pegno n’avresti, che dovrìa beato Ognun chiamarti che per via t’incontri! Indi al figliuol di Clito, il più prudente 650 De’ suoi compagni, favellò: Pireo, Tu che fra i cari amici alla divina Pilo meco venuti, in tutte cose Ossequïoso al mio voler ti mostri, Anche in ciò m’accontenta: al tuo palagio 655 Lo straniero conduci, e fin ch’io torni Lo festeggia, l’onora e l’accarezza. E di Clito il figliuol: Per quanto a lungo Tu ne’ campi t’arresti, io cura sempre [262] Dell’ospite m’avrò; né di bei doni 660 Nella mia casa ei patirà difetto. Salì Pireo, così dicendo, il legno, E di salirvi ingiunse ai fidi amici, Che, l’àncora levata, e dalla prora Sciolta la fune, s’adagiâr sui palchi. 665 Al piè stringea Telemaco fra tanto I purpurei calzari, e la ferrata Lancia impugnava. Quindi, ad un suo cenno, I robusti garzoni il curvo pino Guidan remando alla cittade; ed egli 670 Prende la via de’ campi, e studia il passo, Finché giunge alla casa ove dimora Il custode fedel de’ suoi maiali. [263] LIBRO DECIMOSESTO SOMMARIO Gioia d’Eumeo alla comparsa di Telemaco, che lo spedisce alla città per avvisar la madre del suo arrivo. - Minerva restituisce le naturali sembianze ad Ulisse, e gli comanda di scoprirsi al figlio. - I Proci, accortisi che Telemaco era giunto in Itaca, escono dall’agguato. - Si radunano poscia a segreta consulta sul lido, e Antinoo propone di uccidere Telemaco. - Penelope viene istrutta di quella trama: suo dolore, e suoi rimproveri ad Antinoo. - Eumeo, eseguita l’ambasciata di Telemaco, si riconduce al suo casolare; ma non riconosce ancora Ulisse, perché nuovamente da Minerva trasformato in mendico. Allo spuntar della novella Aurora Sorsero il divo Ulisse e il mandrïano; E, il foco acceso, si venìan la mensa Apparecchiando, mentre al pasco i servi Spingean le greggie. Ed ecco entro il recinto 5 Avanzarsi Telemaco, e festosi Uscîrgli incontro saltellando i cani, Senza latrar. Notò l’accorto eroe Quel blandir de’ mastini, ed il crescente Rumor de’ passi, e al mandrïan dicea: 10 Certo alcuno qui giunge, o tuo compagno O conoscente; ché un rumor di passi Mi ferisce l’orecchio, e i tuoi mastini, Non che latrar, gli corron lieti incontro. Così diss’egli; e su la soglia apparve 15 [264] Pari ad un Nume il giovinetto. Eumeo Balzò stupito in piedi; e dalla destra Uscîr lasciando il nappo, ove mescea Il vermiglio licor, col pianto agli occhi Si trasse innanzi al suo signore, e baci 20 Gli stampò su le mani e su la fronte E su gli occhi lucenti. E quale un padre Il figlio abbraccia, che da strania terra Ritorna al decim’anno, unico e solo Che gli nascesse nell’età più tarda, 25 E lungamente ha sospirato e pianto; Non altrimenti Eumeo si stringe al petto Il leggiadro garzone, e tutto il copre D’ardenti baci, come se scampato Fosse allor dalla morte. O caro prence, 30 O dolce lume, gli dicea piangendo, Sei tu dunque tornato? Io dall’istante Che navigasti all’arenosa Pilo, Mai più vederti non credea. Deh! vieni, Vieni, o figliuolo, sì che tutta io gusti 35 Del mirarti la gioia, poiché sceso Sul lido appena, al mio povero albergo Il piè volgesti. Tu sovente i campi Visitar non costumi, i Proci iniqui Nella tua casa di vegliar costretto. 40 Sì, padre mio, Telemaco rispose, Per salutarti qui venuto io sono, E saper se mia madre ancor dimora Sotto il mio tetto, o già qualcun de’ Proci L’ha disposata, e tessano le immonde 45 Tele sul letto di mio padre i ragni. Benché in pianto le notti, in pianto i giorni La misera consumi (il mandrïano Pronto a lui replicò), sempre la madre Fida e costante in tua magion dimora. 50 Così detto, la lancia Eumeo gli prese; E il limitar Telemaco varcando, S’inoltrò nell’ostello. Allor si leva [265] E il proprio seggio gli presenta Ulisse; Ma il garzon non l’accetta, e, Resta, dice, 55 Resta, amico: altro seggio in questa stanza Noi troveremo, e già l’appronta Eumeo. Di novo a quel parlar l’eroe s’assise; E di freschi virgulti un denso strato Apparecchiava il mandrïano, e sopra 60 Una pelle vi stese, ove d’Ulisse Il figliuol s’adagiò. Poi l’arrostite Carni, che poste in serbo avea la sera, Lor recò sul tagliere; e l’un su l’altro Messi i candidi pani in un canestro, 65 Empì di vin le tazze, e anch’ei s’assise Ad Ulisse di fronte. Indi le mani Porsero al desco; e, come ognun fu sazio, Al mandrïan Telemaco si volse, Così dicendo: Eumeo, di qual contrada 70 È quest’ospite nostro? e su qual nave, Con quai nocchieri al nostro lido è giunto? Il mandrïano a lui rispose: Il vero Io ti dirò. Nell’opulenta Creta Nato si vanta, e dice che infinite 75 Terre e città peregrinando vide Per voler de’ Celesti. Al fin sul nostro Suolo disceso da tesprozio legno, Ei venne a questi campi, ed io l’affido Alle tue mani. Tu di lui disponi 80 Come t’aggrada, e solo ti rammenta Ch’egli è infelice, e il tuo soccorso implora. Quanto, ripiglia il buon figliuol d’Ulisse, Quanto, Eumeo, ciò che ascolto al cor m’è grave! Come poss’io nella paterna casa 85 L’ospite ricettar? Giovane troppo Io sono ancora, né con queste braccia Difenderlo potrei da chi l’insulta. Fra due pensieri la mia madre ondeggia: Se rispettando il marital suo letto 90 E la pubblica fama, ella dimori [266] Col figlio sempre, e la magion ne regga; O se scelga a marito il più valente E più ricco de’ Proci, e seco passi Ad altro albergo. Ma poiché venuto 95 Ai nostri campi è questo forestiero, Una veste e un mantello io dar gli voglio E bei calzari; io dar gli voglio un brando A doppio filo, e con secura scorta Poscia invïarlo ovunque andar n’accenni. 100 Che se qui trattenerlo ti piacesse, Perché non sia né a te, né a’ tuoi di peso, Io volentieri e cibo e vestimenta Gli fornirei. Ma che s’accosti ai Proci Patir non posso: troppo son costoro 105 A tristi fatti avvezzi, ed io con pena Oltraggiato e percosso anco il vedrei, Né dato mi sarìa prestargli aiuto, Ché male un solo può cozzar con molti. Se a me qui fosse di parlar concesso, 110 Allor soggiunse il pazïente eroe, Anch’io direi, che il cor mi cruccia, udendo L’opere scellerate che dai Proci Si consumano in casa d’un tuo pari. Ma dimmi, amico: soffri tu l’indegno 115 Giogo senza contrasto? o per sinistra Voce d’un Dio sei tu caduto in ira Ai cittadini? O forse ti fallisce L’aita de’ fratelli, in cui pur tanto Nelle sommosse popolari un prence 120 Fidar costuma? Oh, fossi ancor nel fiore Della mia giovinezza! o prole io fossi Del magnanimo Ulisse, o Ulisse stesso! Vorrei che dalle spalle uno straniero Mi spiccasse la testa, se tornando 125 Alla mia terra, la mercé dovuta Non rendo a que’ malvagi. E quando ancora Soverchiato ne fossi, io prima estinto Cader vorrei, che sì nefande colpe [267] Impunite lasciar: gli ospiti offesi, 130 Vïolate le ancelle, e le migliori Anfore tracannate, e di mia casa Tutti sprecati indegnamente i beni. Amico, rispondea d’Ulisse il figlio, Schietto il ver ti dirò. Né a tutti in ira 135 Gl’Itacesi son io, né posso aita Dai fratelli sperar; perché ai Celesti È piaciuto che mai dal nostro seme Fuor che un rampollo non uscisse. Arcesio Il sol Laerte generò, Laerte 140 Il solo Ulisse, e me lasciava Ulisse Nelle paterne mura unica prole, Di cui poco gioì. Quanti ha Dulichio, Giacinto e Samo ed Itaca petrosa Illustri prenci, tutti di mia madre 145 Aspirano alle nozze, e tutti a gara Mi spogliano la casa. Ella fra due Pende sospesa, e ancor non sa se accetti Le inamabili nozze, o le ricusi; Ed essi intanto delle mie sostanze 150 Si van pascendo, e forse del mio sangue Sbramar fra poco io li dovrò. Ma questo Su le ginocchia degli Dei riposa. Or tu vanne, o custode, alla pudica Mia genitrice, e dille che da Pilo 155 Salvo giunsi al tuo tetto. Io qui rimango; E tu, dato l’avviso, a noi ritorna, Né alcun t’ascolti degli Achei, che troppo Di rapirmi la vita avidi sono. Saggio favelli, disse Eumeo, né porgi 160 A chi mal ti comprende il tuo consiglio. Ma non vuoi tu che pure al buon Laerte Ne rechi la novella? Ei, benché afflitto Per l’assenza d’Ulisse, un dì vegliava Al lavoro de’ campi, e co’ famigli 165 Seder solea nella sua casa al desco; Ma poi che a Pilo navigasti, è fama [268] Che cibo né bevanda ei più non gusti, Né più visiti i campi, e su la soglia, Scarno sedendo, si quereli e pianga. 170 Ahi, misero! sclamò d’Ulisse il figlio. Ma lasciarlo è mestieri ancor per poco Nel suo dolore. Se dar sempre effetto Potesse l’uomo al suo voler, farei Che venisse mio padre. Il tuo messaggio 175 Compiuto appena, dunque a noi ritorna, Né svïarti pe’ campi; e prega invece Penelope, che mandi una donzella Segretamente ad avvisarne il veglio. Udito quel comando, il mandrïano 180 Prese i calzari, se li strinse ai piedi, E in via si pose. Come allontanarsi Pallade il vide, la persona assunta Di vergine superba, a cui l’acuta Mente dal viso trasparìa, piantossi 185 All’entrar dell’ostello, ed al divino Laerziade comparve. Né il garzone Di lei s’accorse; ché scoprirsi a tutti Non usano gli Eterni, e al solo Ulisse Volle Minerva palesarsi, e ai cani, 190 Che, repressi i latrati, impauriti Di qua, di là si spersero per l’aia, Sommessamente guaiolando. Un cenno Ella fece degli occhi, e la comprese Tosto l’eroe, che, della stanza uscendo 195 La seguì nel cortile; ed ivi a fronte Di lei ristette, che le labbra aperse In questi accenti: Generoso Ulisse, Artefice d’inganni, è giunta l’ora Che ti sveli a Telemaco, che tutto 200 Dal tuo labbro egli sappia, onde alla reggia Mover d’accordo, e preparar la strage Degli abborriti prenci. Anch’io fra poco Nell’ardua mischia vi sarò compagna. Con aurea verga in questo dir lo tocca, 205 [269] E bella, intatta veste, e porporino Manto al corpo gli avvolge, e la statura E la forza gli cresce, e come prima Piene e fresche apparîr gli fa le guance, E serene le ciglia, e intorno al mento 210 Nera spuntar la barba. In simil guisa Trasformato l’eroe, sparì Minerva, Ed ei ripose nella stanza il piede. Attonito lo mira il caro figlio, E, credendolo un Dio, gli occhi per tema 215 Al suolo abbassa, e dice: Ospite, oh quanto Da quel di pria cangiato io ti riveggo! Altre son le tue vesti, altro l’aspetto E la persona: certo un glorïoso Dell’alto Olimpo abitator tu sei. 220 Deh! tu ne sia propizio, e ne perdona; E di vittime sacre e doni eletti Noi ti faremo d’ora innanzi offerta. No, non sono un Celeste, a lui risponde Il travagliato Ulisse. E perché ai Numi 225 Uguagliarmi vuoi tu? Sono tuo padre, Il padre tuo, che tanto hai sospirato, Per cui tanti hai sofferto affanni ed onte. E ciò detto, si stringe il figlio al seno, Di baci il copre, e largo dalle gote 230 Gli scorre il pianto. Né per questo il figlio Lo riconosce; e, No, dicea, che Ulisse Il padre mio non sei: ma qui m’inganna Un qualche Nume, perché io più mi crucci; Ché tal prodigio oprar non può che un Nume, Prendendo aspetto, or di languente vecchio, 236 Or d’uom robusto. In rozzo manto avvolto Eri poc’anzi e d’anni carco, ed ora Un Dio somigli, abitator del cielo. Dunque non altro, ripigliò l’eroe, 240 Che stupore e timore in cor ti desta L’amato padre, or che in tua casa il vedi? Invano, o figlio, un altro Ulisse attendi: [270] Son io colui, son io colui, che oppresso Da insoffribili angosce, or, dopo venti 245 Anni torno a’ miei campi. È del gran Giove L’invitta figlia, che a piacer mi presta Forme diverse; ed ora mi converte In vecchio mendicante, ora in gagliardo Giovane, adorno di leggiadre vesti, 250 Lieve essendo agli Dei, che tutto ponno, Dar sembianze ai mortali or vaghe, or sozze. Così favella, e siede. Il figlio allora, In lagrime scoppiando, s’abbandona Fra le braccia d’Ulisse, ed ambedue 255 Lagni e strida mettean miseramente, Sì come fanno l’aquila grifagna E l’avoltoio, a cui dal nido i figli Rapito abbia il villano. E così forse Avrìen l’intero dì trascorso in pianto, 260 Se l’Ulisside non dicea: Deh! narra, Narra, o padre, qual legno e quai nocchieri T’han qui condotto, poiché il mare a piedi Tu non varcasti. Come brami, io tutto A te, mio figlio, narrerò, soggiunse 265 Il divo Ulisse. Dai Feaci, illustri Navigatori, che guidar cortesi Sogliono i pellegrini ai loro alberghi, Fui qui condotto. In bella ed agil nave Io valicai dormendo i salsi flutti, 270 E fui dormendo su la nostra spiaggia Da lor deposto, che al partir donato M’avean tuniche e manti e bronzo ed oro, Da me celati in solitario speco. Indi qui giunsi per voler di Palla 275 A concertar de’ Proci la ruina. Ma fa mestieri che tu pria mi dica Quanti e quali son essi, ond’io poi vegga Se a consumar l’impresa altri in aiuto Chiamar convenga, o se bastiam noi soli. 280 [271] E di novo il garzone: È grande, o padre La gloria del tuo nome, e qui ciascuno Narra che tutti di valor tu vinci E di prudenza i greci eroi; ma cosa Incredibile or dici, e che mi colma 285 Di maraviglia. Ah, mal potrìano a molti E poderosi contrastar due soli! Ché non dieci, non venti i Proci sono, Ma grossa schiera, come udir potrai. Cinquantadue dal fertile Dulichio 290 Con sei donzelli, e venti da Zacinto, E ventiquattro vennero da Samo, Tutti giovani eletti. Itaca stessa Fra i più prestanti dodici ne diede; E van con essi il banditor Medonte, 295 E il divino cantore, e due famigli Dotti nell’arte d’apprestar vivande. Se noi due soli con lor tutti uniti Misurar ci vogliam, temo che alfine Non troppo allegra n’otterem vendetta. 300 Però mi sembra che cercar fia d’uopo Chi ne soccorra. E di rimando Ulisse: Io soccorsi cercar? Dunque non credi Che a quell’impresa Pallade ne basti E il suo gran Padre? Certo, a lui rispose 305 Telemaco, possenti aiutatori Sono Pallade e Giove, essi che impero Han su tutti i mortali e tutti i Numi; Ma fra le nubi l’una e l’altro alberga. Nel calor della mischia, riprendea 310 Il saggio Ulisse, t’assecura, o figlio, Ambi al fianco gli avremo. Or, dunque, al primo Spuntar dell’Alba ad Itaca ritorna, E ti mesci co’ Proci. Anch’io, guidato Dal fedel mandrïano, al nostro albergo 315 Verrò tra poco in forma di mendico, [272] Già per gli anni cadente; e se dai Proci Schernito io fossi ed oltraggiato, o s’anco Strascinar mi vedessi per li piedi, O fatto segno ai loro strali, in pace 320 Tu lo sopporta, e solo con amiche Parole cerca di frenar gli stolti. Ma chiuderanno al tuo pregar l’orecchio, Ché il dì fatale a tutti omai sovrasta. Or altro io dir ti voglio, e ben ti guarda 325 Dall’oblïarlo. Come da Minerva Saprò che l’ora del conflitto è giunta, Con un cenno degli occhi a te l’avviso Io ne darò. Tu l’armi, che disperse Troverai per la casa, allor raccogli, 330 E le trasporta alle superne stanze; E se qualcun le chiederà de’ Proci, Risponderai, che dal vapor del fuoco Tu le togliesti, perché più non sono Quali tuo padre, ad Ilio navigando, 335 Qui lasciate le avea, ma dalla sozza Fuligine annerite. E digli ancora: Io lo feci dai Numi consigliato, Per tema che se un dì fra i colmi nappi Veniste a lite, uccidervi l’un l’altro 340 Voi non possiate, e funestar le allegre Mense e le nozze; poiché il ferro spesso Al sangue invita. Ma per noi due lancie Tieni in pronto e due spade e due rotelle, Onde armarci a suo tempo; e lo scompiglio 345 Giove e Minerva gitteran fra loro. Or, se tu sei mio figlio, se del nostro Seme nascesti, bada che nessuno Sappia ch’è giunto alla sua terra Ulisse: Non Eumeo, non un servo, non Laerte, 350 Non Penelope stessa. Andrem noi due Delle fantesche e de’ famigli intanto L’animo investigando, e chi ne inganni Conosceremo e chi ne sia fedele. [273] E a lui l’accorto giovinetto: In breve 355 Vedrai, padre, chi sono, e se fidanza Aver tu possa in me. Forse non giova Per or la mente investigar de’ servi; Perché, mentre vagar dovresti a lungo Per le campagne, ti verrìano i beni 360 Sciupando i Proci. Meglio fôra invece Le donzelle vegliar, che alla tua casa Fanno vergogna: de’ famigli il core Spiar più tardi noi potrem, s’è vero Che l’ora del conflitto omai s’appressa. 365 Mentre così nella magion d’Eumeo Favellava col padre il buon garzone, I suoi compagni conducean remando La nave alla città. Nel porto entrati, La traean su l’arena; e poiché tolte 370 n’ebbero l’armi i fanti, essi co’ pingui Doni alla casa s’avviâr di Clito. Ma spediscono innanzi un banditore, Ad avvisar Penelope che s’era Alle stalle d’Eumeo condotto il figlio, 375 Ond’ella morto non lo creda, e pianga. Arrivarono insieme, apportatori Dell’annunzio a Penelope, l’araldo E il mandrïano; e alle sue stanze ascesi, Fra le donzelle ad alta voce il primo 380 Disse: Regina, il tuo figliuolo è giunto. Quindi a lei s’accostando, Eumeo del caro Figliuol, sommesso, l’imbasciata espose, E redìa senza indugio alle sue stalle. Ma costernati a tal novella i Proci, 385 Uscìan per l’atrio dalla casa, e innanzi Alla porta sedean. Ruppe sdegnoso Eurimaco il silenzio, e così disse: Certo, amici, una grande opra compiuto Ha d’Ulisse il figliuol col suo vïaggio, 390 E noi lasciò scornati. Or via, s’appronti Con esperti nocchieri un’agil nave [274] Che annunci ai nostri del garzon l’arrivo. Eurimaco non anco avea finito Queste parole, e Anfinomo, guardando 395 Verso la spiaggia, vide entrar nel porto La nave de’ compagni, in cui le vele Altri calava, ed altri ancor tenea Nel pugno il remo. Anfinomo sorride A quella vista, e dice: Eccoli in porto. 400 Più non è d’uopo di spiccar messaggi: O che lor di Telemaco l’arrivo Un Dio scoperse, o l’han seguito invano. Ei tacque; e al lido i Proci discendendo, Trassero in secco il nero legno, e l’armi 405 Ne levarono i servi. Indi a consesso S’adunarono in loco, ove nessuno, Che de’ Proci non fosse, entrar potea, Giovane o vecchio; e così prese Antinoo, Figliuol d’Eupite, a ragionar: Compagni, 410 Fûro i Celesti che salvâr costui. Su la cima de’ monti alla vedetta Stavano i nostri tutto il giorno, e sempre Da sera a mane il pelago scorrendo, Noi sul celere pino la venuta 415 N’aspettavamo, per calar sovr’esso Nel buio della notte, e trucidarlo. Ma lo guidava a questa spiaggia intanto Un qualche Nume. Ora pensar conviene D’impedirne la fuga, e far ch’ei muoia. 420 Ogni nostro disegno andrà fallito Fin ch’ei respira; perocché di senno Non è privo il garzone e di consiglio, E sul favor di queste genti ancora Noi contar non possiamo. Io mi figuro 425 Di vederlo chiamar tutti a consesso I cittadini, e sorgere gridando Che noi di trucidarlo abbiam tentato; Ed essi la crudele opra per certo Non loderanno, e forse dalle nostre 430 [275] Terre saremo ad esular costretti. Prevenirlo è mestieri, e pria che torni, O fra i campi o per via, trafitto ei cada. Tutte allora fra noi le sue sostanze Divideremo, e alla sua madre, e al prence 435 Cui si mariti, lascerem la casa. Ché se questo consiglio a voi non piace, E bramate ch’ei viva e che i paterni Beni si goda, di seder cessiamo Alla sua mensa: si ritiri ognuno 440 Al proprio albergo, e i nuzïali doni Apparecchiati, ne domandi a sposa La genitrice; ed ella poi si scelga Chi più le reca, e Giove le destina. Ammutolîro, a questo dir, gli amanti. 445 Si rizza alfin dell’Areziade Niso Il chiaro germe, Anfinomo, che il capo Era de’ Proci usciti dall’erbosa, Alma Dulichio, e per gentil favella Ed indole soave alla regina 450 Men degli altri odïoso. In piè si rizza, E a’ suoi compagni così parla: Amici, Telemaco non io spegner vorrei, Ché periglioso troppo è il dar la morte Al figliuolo d’un re. Del gran Saturnio 455 Si consulti la mente; e s’ei l’approva, Leverommi a ferirlo io stesso il primo; Se non l’approva, fia miglior consiglio Lasciarlo in pace. - S’acquetar gli amanti Al ragionar d’Anfinomo; e sorgendo 460 S’avvïâro alla reggia, ove su molli, Pulite scranne ciaschedun sedea. Ma la casta regina, a cui l’insidia Contro suo figlio ordita avea scoperto Il banditore, agl’insolenti Achivi 465 Presentarsi risolve. Accompagnata Dalle sue fanti, il talamo abbandona, E, alla sala venuta, in su la porta, [276] Bella come una Diva, arresta il passo, E d’un candido velo il viso adombra. 470 Indi in suon di corruccio Antinoo chiama, E così gli favella: O svergognato, O traditore, tu che a torto in voce Sei d’uom prudente e parlator facondo, Perché alla vita di mio figlio insidie 475 Ordisci, e l’ira degli Dei non temi? Dunque oblïasti che tuo padre un giorno, Dal popolo inseguito, ebbe qui scampo? Ei co’ Tafi ladroni erasi in lega Unito a danno de’ Tesproti; e questi, 480 Per vendicarsi, trargli il cor dal petto Voleano, e tutti depredarne i beni. Ma si frappose Ulisse, e, nostri amici Sendo i Tesproti, li placò, quantunque Del suo sangue anelanti. E in ricompensa 485 Tu la casa d’infamia gli ricopri, Ne vagheggi, n’attristi la consorte, E n’uccidi il figliuol. Cessa, deh cessa Dall’empie trame, e gli altri ne sconsiglia! O saggia, illustre donna, a lei rispose 490 Eurimaco, fa’ core, e non t’affligga Sì funesto pensier. Non fu, non evvi, E fin ch’io viva e il lume avrò degli occhi, Mai non sarà chi tenti alzar la mano Contro tuo figlio; e se qualcun l’osasse, 495 Tu del suo sangue rosseggiar vedresti Questa mia spada. Il Laerziade Ulisse, Eversor di città, su le ginocchia Toglieami spesso, e l’arrostite carni Mi porgea di sua mano e il dolce vino, 500 Sì che suo figlio m’avrò caro io sempre. E tu, regina, non temer che morte Gli dìano i Proci; ma cozzar non giova Col voler degli Dei. - Così le dice Per consolarla il tristo, e la ruina 505 Di Telemaco agogna. Alle sue stanze [277] Penelope tornando, il sospirato Lontano sposo a lagrimar si diede, Finché gli occhi le chiuse un molle sonno. Facea ritorno ai campi il mandrïano 510 Verso il tramonto, mentre avendo Ulisse E Telemaco ucciso un bel maiale, N’allestìano la cena. In quell’istante Palla tocca l’eroe con l’aurea verga, E un’altra volta in vecchio lo trasforma 520 De’ suoi cenci coperto; onde il porcaio, Ravvisando il suo re, subitamente Con l’annunzio a Penelope non corra. Tu sollecito riedi, il giovinetto Disse ad Eumeo. Ch’hai tu di novo udito 525 Alla città? vi son tornati i Proci? Han lasciato le insidie? o su la nave Ancor si stanno ad aspettar ch’io giunga? E il mandrïan: Di questo alcun pensiero Io non mi presi. La cittade in fretta 530 Attraversai, recando alla regina Il tuo messaggio, e ritornai qui tosto. Sì l’araldo vid’io, che i tuoi compagni Avean mandato, e a lei del par facea Palese il tuo venir. Salendo il colle 535 Sacro a Mercurio, vidi poscia un legno Carco d’uomini e d’armi entrar nel porto. Mi parve il legno degli amanti; ed altro Io dir non so. - Tacque il famiglio; e il viso Da lui torcendo, dolcemente al padre 540 Guarda, e ride il garzon. Così le agresti Opre compiute, e il desco apparecchiato, Stese alle carni e al vino ognun la mano, E quindi al sonno abbandonò le membra. [278] LIBRO DECIMOSETTIMO SOMMARIO Telemaco precede Ulisse alla città, dove giunto, narra alla madre il suo viaggio a Pilo e a Sparta. - Ulisse, accompagnato dal mandriano, s’incammina verso Itaca, e incontra per via il capraio Melanzio, da cui riceve un calcio nella coscia. - Contesa che ne segue fra Eumeo ed il capraio. - Il vecchio cane Argo riconosce il suo padrone, e ne muore di gioia. - Ulisse entra nella reggia; e mentre va in giro mendicando fra i Proci, Antinoo gli scaglia contro uno sgabello. - Penelope gli fa sapere che desidera aver seco un colloquio. - Risposta dell’eroe. Ma come in cielo, d’ostro ornata e d’oro, La vaga figlia del mattin comparve, Il divino Ulisside, impazïente D’incamminarsi alla città, si stringe I calzari alle gambe, un’asta afferra 5 Atta al suo pugno, e al fido Eumeo rivolto, Così favella: Buon custode, è d’uopo Ch’io senza indugio alla città ritorni, Perché non credo che la madre al duolo Metterà fine e al lagrimar, se pria 10 Non m’ha veduto. L’ospite infelice A mendicar vi condurrai tu poscia; Ché un pane e un colmo nappo in ogni casa Troverà chi gli porga. Io, che già tanti Mali sopporto, disfamar non posso 15 Ogni errante mendico; e se volesse Meco sdegnarsi, n’avrìa danno ei solo, [279] Ché non per questo fia che il vero io taccia. Né trattenermi qui pur io disegno, Al figliuol rispondea lo scaltro Ulisse. 20 Assai meglio in città torna al mendico Accattar che fra i campi; ed ivi un tozzo Di pan qualcuno mi darà. Né tale È l’età mia, ch’io possa ancor piegarmi Un padrone a servir. Tu vanne adunque: 25 Il mandrïan mi scorterà, non tosto Sarà l’aria più mite, e avrò scaldate Le membra al fuoco; perocché con questo Lacero saio d’affrontar non oso La brezza mattutina, se dai campi, 30 Come tu dici, è la città lontana. Egli tacque; e Telemaco, le stalle Attraversate, in via si pose, ai Proci Meditando in suo cor l’estremo danno. Giunto in Itaca, entrò nella paterna 35 Casa, appoggiò la grave asta ad un’alta Colonna, e ratto la marmorea soglia Oltrepassò. Prima da lunge il vide La nudrice Euriclea, che le villose Pelli stendea sui seggi, e lagrimando 40 Gli corse incontro. Tutte indi festose Accorrono le ancelle a lui dintorno, E chi le spalle e chi gli bacia il capo. A Cinzia somigliante e all’aurea Venere, Scende anch’essa Penelope veloce 45 Dal suo talamo eccelso, e tutta in pianto Il diletto figliuol si stringe al seno, E su gli occhi gli stampa e sulle gote Fervidi baci; e tuttavia piangendo, Telemaco, gli dice, amato lume, 50 Dunque a noi ritornasti? Io non credea Più vederti dal dì che, mio malgrado, Furtivamente al mar t’abbandonasti In traccia di tuo padre. Or dimmi, o caro, Dimmi ciò che t’avvenne, e ciò che udisti. 55 [280] E il prudente garzone: O madre mia, Deh! non volermi rattristar col pianto, E l’animo crucciar con la memoria Del passato periglio. Ascendi invece Alle tue stanze con le ancelle; e quivi 60 Ti lava, e belle, immacolate vesti Indossando, prometti al sommo Giove Ostie solenni, se i miei voti adempie. Io vado al fòro, un ospite infelice A ricercarvi, che al partir da Pilo 65 Ricettai su la nave, e con gli amici M’ha preceduto; e fino al mio ritorno Commisi al buon Pireo d’averne cura. Non indarno ei parlò. Salì la donna Alle sue stanze, si lavò, si cinse 70 Bella, candida veste; e un’ecatombe Promise a Giove, se compiuti avesse I voti di suo figlio. Il figlio intanto Dal regio albergo, con la lancia in pugno, Uscìa, seguito da due bianchi alani. 75 Tutto di grazia e di beltà l’avea Rivestito Minerva; e stupefatti, Mentre passava, lo venìan guardando I cittadini. Gli orgogliosi amanti Gli si fecero intorno, con melate 80 Voci sul labbro, e il cor di fiele asperso: Ma, della calca uscendo, ei si rivolse Dove Mentore, Antifo ed Aliterse, Vecchi amici del padre, eran seduti; E si mise fra lor, che tutti a gara 85 Il chiedean de’ suoi casi. Apparve in breve Pireo, di lancia vibrator famoso, Che per le vie della città guidava Lo straniero alla piazza. Appena il vide Se gli appressò Telemaco; e Pireo, 90 Figlio d’Ulisse, gli dicea, spedisci Alla mia casa le fantesche, i ricchi Doni a levar che Menelao ti diede. [281] Telemaco rispose: Amico, in dense Tenebre chiuso è l’avvenir. Se i Proci 95 M’uccideranno a tradimento, e tutte Si partiran le mie paterne spoglie, Anzi che alcun di loro, a me fia grato Che tu goda que’ doni; e quando invece Io rïuscissi a sterminar costoro, 100 Allor contento a me li recherai, Ed io da te li prenderò contento. E così detto, l’ospite condusse Alla sua casa. Quivi su le scranne I mantelli e le tuniche deposti, 105 Entrâr nel bagno; e poi dal bagno usciti, E le membra d’ulivo confortate, E indossate le tuniche, vicino L’uno all’altro sedea. L’aqua alle mani Venne loro a versar da brocca d’oro 110 Sovra bacil d’argento una donzella, E la mensa spiegò, che la pudica Dispensiera di pani e di serbate Dapi coperse. In questa, a lor di fronte Penelope s’assise, ricamando 115 Un suo fulgido peplo; e come il pasto Ebber compiuto, così disse al figlio: Telemaco, alla mia vedova stanza Io salgo il letto a premere, che sempre, Dal dì che Ulisse mi lasciò, d’amare 120 Lagrime bagno. Non vorrai tu dunque, Pria che vengano i Proci, a me novelle Di lui narrar, se alcuna mai n’udisti? Ed egli rispondea: Quanto m’avvenne Tutto, o madre, io dirò. Giunti all’eccelsa 125 Pilo, al pastor de’ popoli Nestorre Mi presentai. Qual dopo lunga assenza Un amoroso padre accoglie il figlio Che a lui ritorna da lontana terra; Non altrimenti il buon vecchio Nelide 130 M’accolse e festeggiò nel proprio tetto. [282] Ma dicea che nessuna avea d’Ulisse Novella udita, e non sapea s’ei pure Ancor vivesse. Su lucente cocchio Indi scortar mi fece all’alma Sparta, 135 Ove in casa d’Atride la famosa Elena vidi, per cui Greci e Teucri Tanto han sofferto. Appena Menelao Del mio vïaggio la cagion conobbe, D’un grande eroe per certo, egli proruppe, 140 Quegli imbelli salir vogliono il letto! Ma come incauta cerva che, deposti I teneri portati entro il covile Di feroce leon, va per gli erbosi Gioghi pascendo e le romite valli; 145 Riede intanto la belva alla sua tana, E pria de’ figli e poscia della madre Duro scempio commette: in simil guisa Potrìa, tornando, il Laerziade Ulisse Dar morte ai Proci. Ed oh! piacesse a Giove 150 E a Pallade piacesse e al santo Apollo, Che come un giorno nell’amena Lesbo Levossi a fiera lotta, e al suol prostese Filomelide, tutti a lui plaudendo I magnanimi Achivi, or sui malvagi 155 Terribile piombasse il forte Ulisse: Affè, che amare ne sarìan le nozze E il viver breve! Ma volendo il giusto Tuo desiderio satisfar, soggiunse Il re di Sparta, ti dirò sincero 160 Ciò ch’io dal labbro non mendace udìa Del marin Proteo. Mi narrò l’antico Nume, che in solitaria isola il vide Grave il cor di tristezza, ove Calipso Bella, superba Ninfa il tien prigione; 165 Ond’ei, che più non ha nave e nocchieri Che sul dorso il trasportino dell’onde, Ogni speranza ha di veder perduta La sua casa e i suoi cari. Io, questo udito, [283] Dal prode Menelao tolsi congedo, 170 E un fausto vento, dagli Dei levato, Salvo mi ricondusse ai nostri lidi. A tal racconto si commosse il core Della casta Penelope; ma il saggio Teoclimeno così a lei, dicea: 175 O del prudente Ulisse inclita sposa, Tutto a lui non è conto. Un vaticinio Odi invece da me, che in breve appieno Vedrai compiuto. Chiamo il sommo Giove, Re dell’Olimpo, in testimonio, e questo 180 Albergo, e questa del divino Ulisse Mensa ospital, ch’ei nella patria terra Già s’asconde o s’aggira, e l’opre inique Va spiando de’ Proci, ed in segreto La strage n’apparecchia. Il fe’ poc’anzi 185 A me palese uno sparvier, che vidi Sedendo su la nave, e al tuo diletto Figliuol mostrai. - Deh, piaccia agl’Immortali, Che il presagio s’avveri, ospite amico! Penelope rispose; e tali e tanti 190 Tu del grato mio cor pegni n’avresti E bei presenti, che dovrìa felice Ognun chiamarti che per via t’incontra. Mentre seguìan fra lor queste parole, Fuor della reggia si venìano i Proci 195 Trastullando in gittar quadrella e dischi Sul pavimento, consueto arringo Della lor tracotanza. Ma vicina Essendo l’ora della cena, e giunti Con le vittime usate i guardïani, 200 Medonte araldo, che il favor godea Degli amanti, e sedea con essi al desco, Giovani, disse, poiché già vi siete Qui trastullati, nell’albergo entriamo A preparar la mensa, ché a suo tempo 205 Anche alla mensa di pensar conviene. Piacque l’avviso; e nell’albergo entrati, [284] E posti i manti su le scranne, i Proci Una giovenca ad immolar si diêro E sagginati porci e capre ed agne; 210 E le mense allestìan. Ma il saggio Ulisse E il mandrïano, ritornar volendo Alla città, questi, all’eroe converso, Così parlava: Amico, io di buon grado T’avrei qui trattenuto alla custodia 215 Delle mie stalle; ma lo sdegno io temo Del mio signor, né provocarlo ardisco. Or, poi ch’egli m’ingiunse, e tu pur brami Ch’io t’accompagni alla città, n’andiamo: Non poca parte è scorsa omai del giorno, 220 E l’aria sul tramonto si raffredda. Ben ti comprendo, ospite mio, rispose Di Laerte il figliuol. Su via, si parta, E tu precedi i passi miei; ma prima Dammi, prego, un bastone, a cui mi regga 225 Nel cammino, che lungo odo e scabroso. In questo dire, all’omero sospese La sdrucita bisaccia, e il mandrïano Il baston gli porgea; quindi ambedue S’avvïâr, delle mandre alla difesa 230 I famigli lasciando ed i mastini. Sotto forma così d’un infelice Vecchio mendico, in cenci avvolto, e curvo Sul bastone, l’eroe dal fido servo Era condotto alla città. Ma il lungo, 235 Aspro cammin trascorso, alla fontana Giunsero che fornisce ai cittadini Le fresche linfe: d’Itaco e Nerito E del buon Politorre opra stupenda, A cui dintorno avean piantato un bosco 240 D’alni aquidosi. Dalla viva pietra Zampillar si vedean le limpid’onde; E un’ara a tergo vi sorgea, che sacra Era alle Ninfe, dove il pellegrino [285] I suoi voti sciogliea. Quivi in Melanzio, 245 Figliuol di Dolio, s’incontrâr, che pingui Capre alla mensa conducea de’ Proci, Le più belle del gregge; e due pastori Da vicino il seguìan. Come li vide, Ecco un tristo, ei dicea, che guida un tristo: 250 Al suo simile il simile accompagna Giove sempre così. Dove, o bifolco, Dove meni quel sozzo paltoniere, Quel vil ghiottone, peste de’ conviti Che, fregandosi agli usci delle case, 255 Non tripode, né spada, ma gli avanzi Chiederà delle mense? Ove costui A pulirmi le stalle, ed il letame A sgombrar mi venisse dalla corte, E a cogliermi le frasche per le capre, 260 Satollar si potrìa di latte e cacio. Ma ne’ vizi cresciuto, e di fatica Schivo, piuttosto andar vorrà strisciando Di porta in porta, finché gonfia ha l’epa. Però ti dico, né lo dico invano, 265 Che se alla soglia del divino Ulisse Mostrarsi osasse, di sgabelli e scranne Gli cadrebbe una grandine sul capo. Tacque; e si fece a lui dappresso, e un calcio Gli vibrò nella coscia. Ma resiste 270 A quel colpo imperterrito l’eroe, E non si scuote, nel suo cor volgendo S’ivi il ribaldo uccida col bastone, O se in alto il sollevi, e poi gli sbatta Sul terreno la testa. Il mandrïano 275 Squadrò torvo Melanzio, e rampognollo Acerbamente; indi, le mani al cielo Innalzando, pregò: Figlie di Giove, Alme Ninfe, de’ fonti abitatrici, Se mai d’agne o di capre il saggio Ulisse 280 V’arse le cosce, in pingue zirbo avvolte, Fate che salvo ei torni alle sue case. [286] Oh! ben egli fiaccar saprìa l’orgoglio, Con che tu sempre, o perfido capraio, Obliando la greggia a te fidata, 285 Passeggi la città. - Che va latrando, L’altro allor rispondea, quel cane astuto, Che a qualche terra forestiera io presto A vender manderò su vecchia barca? Così trafitto dall’arciero Apollo 290 Telemaco perisse, o sotto il ferro De’ prenci achivi, come certo io sono Che più non torna di Laerte il figlio. Di là si spicca in questo dir Melanzio, E frettoloso alla città procede. 295 Giunto alla reggia, si mischiò fra i Proci, E vicino ad Eurimaco si pose, Che assai caro l’avea; né le vivande A recargli tardâr sul desco i servi, Né la sagace dispensiera i pani. 300 Ma sopraggiunse il Laerziade intanto E il mandrïano, che i concenti uditi Della cetra, che Femio, il buon cantore, A toccar cominciava, il piede innanzi Alla porta arrestâr. L’eroe qui prende 305 Al mandrïan la destra, e così parla: Eumeo, per certo del divino Ulisse Questo è l’albergo, che su gli altri tutti Bello e grande si leva: uno steccato Lo circonda ed un muro, ed una salda 310 Inespugnabil porta a doppia imposta Ne difende l’entrata. Ivi, cred’io, Siede a mensa un’allegra comitiva; Ché l’odor delle carni le narici Mi fêre, ed odo della cetra il suono, 315 Che ai conviti sposar sogliono i Numi. Nel ver cogliesti, gli rispose Eumeo. Or consultiamo chi di noi là dentro Prima s’avanzi, e co’ Proci si mesca: Se prima a te d’andarvi non piacesse, 320 [287] Io v’entrerò; ma non voler qui troppo Indugiar, ché, vedendoti qualcuno, Non ti scacci o percuota. Or via risolvi. A buono intenditor parlasti, amico, Ulisse replicò. Tu mi precedi, 325 Ed io dopo verrò. Nuovo non sono Alle percosse ed agl’insulti, e chiudo Un’alma in seno, che costante han fatto Le molte in terra e in mar sofferte angosce; E queste all’altre aggiungerò. Ma forza 330 Non ho che basti a rintuzzar la rabbia Indomita del ventre, per cui tante Pene l’uom dura, e a guerreggiar le genti Arma le navi e i venti sfida e l’onde. Mentre al pastor così l’eroe favella, 335 Argo, il vecchio suo cane, che sdraiato Ivi giacea, rizzò le orecchie e il capo: Il cane ch’egli stesso un dì nudrito Avea, ma indarno, perché reo destino Al sacro Ilio lo trasse; ed in sua vece 340 A cacciar lepri e cervi e capre agresti Solean condurlo i giovani itacesi. Essendo allora il suo padron lontano, Tutto pieno di zecche Argo giacea Su lo sterco de’ muli e de’ giovenchi, 345 Sparso innanzi alla porta. Immantinente Conobbe Ulisse, e in segno d’allegrezza Crollò le orecchie e dimenò la coda: Ma levarsi di là, né farsi incontro A lui potea. Lo scòrse alla sua volta 350 Ulisse, e dalle gote una furtiva Stilla tergendo, la nascose al fido Servo, a cui rivolgea queste parole: Eumeo, perché sul fimo abbandonato Giace quel cane di sì belle forme? 355 Ma chi sa se veloce avesse il piede, Come la taglia ha bella, o se infingardo Non fosse, come i cani da trastullo, [288] Che s’impinguano al desco de’ padroni. Il pastor gli rispose: È questo il cane 360 Del mio buon re, ch’io più veder non deggio. Oh! se di corpo ei fosse e di vigore Quale Ulisse il lasciò passando a Troia, Tu nel mirarne l’opre e l’ardimento Stupor n’avresti. Per le oscure selve 365 Così ratto le fere egli inseguìa, Che nessuna potea schivarne il dente. Ora langue il meschin, perché lontano È morto Ulisse, e le indolenti ancelle Non si curan di lui. Presto il famiglio 370 I suoi doveri oblìa, se del padrone Più non ode la voce; ché il gran Giove All’uom metà di sua virtude invola Il dì che a viver servo lo condanna. Così dicendo, nell’ostello il piede 375 Ei mise; e dopo venti anni, veduto Il suo signor, contento Argo spirava. Ma come nella sala il mandrïano Comparve, a sé Telemaco lo chiama; Ed ei, presa la scranna, ove solea 380 Seder lo scalco nel partir le carni, La pianta a lui vicino, e vi s’adagia; E il banditore dal canestro i pani E dal taglier gli reca le vivande. Indi a poco s’inoltra a lento passo 385 Il divo Ulisse, sotto le sembianze D’un vecchio e miserevole pitocco, Al bastone appoggiato; e su la soglia Di frassino s’asside, con le spalle Al cipressino stipite rivolte, 390 Che un artefice industre avea piallato Ed innalzato a filo. Un pan si tolse Telemaco e di carne un grosso brano, E ad Eumeo favellò: Prendi, e li reca Al forestiero, e digli da mia parte 395 Che vada in giro per la sala, e chiegga [289] L’elemosina ai Proci; ché il rossore Mal si conviene ad un mendico. - Ei tacque; E il mandrïano all’ospite s’appressa, E gli dice: Stranier, queste vivande 400 T’invia d’Ulisse il figlio, e vuol che in giro Tu vada per la sala domandando L’elemosina ai Proci; e ti ricorda Che al povero dannosa è la vergogna. Giove Padre, sclamò l’accorto Ulisse, 405 Deh! fa’ che di Telemaco sia paga Ogni voglia, e su tutti ei sia felice. Sporse le mani, sì dicendo; e tolte L’offerte dapi, se le pose ai piedi Su la bisaccia, e a manicar si mise, 410 Mentre Femio cantava; e quando Femio Cessò dal canto, anch’ei finìa la cena. Sorse allor nella sala un gran tumulto; E Minerva, ad Ulisse comparendo, Gli comandò d’avvicinarsi ai Proci, 415 E chieder pane; onde scoprir chi crudo Fosse o cortese, benché già di tutti Ferma avesse la morte. Egli a ciascuno Si presentava, e a guisa di mendico Stendea la mano. Lo venìan guardando 420 Impietositi, e gli porgeano il pane I Proci, e l’uno domandava all’altro Chi fosse e donde lo stranier venuto. Il pastor delle capre allor ridendo In piè si leva, e grida: Udite, amanti 425 Della casta regina. Io già quest’uomo Incontrai su la via, mentre il porcaio Qui lo guidava; ma di qual prosapia Egli si vanti, non ancor conosco. Tacque Melanzio; ed Antinòo si volse 430 Corrucciato ad Eumeo con questi accenti: Temerario, perché costui guidasti Alla cittade? Abbiam noi forse inopia Di noiosi accattoni e vagabondi [290] Che appestano le mense? E non ti basta 435 Che consumino il vitto al tuo padrone I prenci achivi, ch’altri pur vi meni A divorarlo? - E il mandriano: Antinoo, Prode tu sei, ma saggio non favelli. Nessun per fermo di buon grado invita 440 Uno stranier, che al pubblico non giovi, Come indovino, o sanator di morbi, O artefice di navi, o nobil vate Che ne rallegri con la cetra il core. Questi desìa ciascun, ciascuno invita, 445 Non un vil mendicante o un vagabondo Che dell’altrui si pasce. Ma fra i Proci Tu fosti ognor d’Ulisse ai servi infesto, E, più che agli altri, a me. Poco mi cale Del tuo sdegno però, finché mi resta 450 Penelope e suo figlio in questa casa. E Telemaco a lui: T’accheta, Eumeo, Né cambiar con Antinoo altre parole. È suo costume di ferir con aspri Motti la gente, e suscitar litigi. 455 Poscia ad Antinoo sì dicea: Paterna È in ver la cura che di me tu prendi, Tu che l’ospite mio cacciar vorresti Da questo albergo. Ah Giove nol consenta! A lui piuttosto porgi a piene mani, 460 Ch’io non tel vieto, anzi il desìo; né tema Di mia madre ti tenga o de’ miei servi. Ma questo non farai, perché fu sempre A te più caro satollar te stesso Che sfamar gli altri. - E di rimando al figlio 465 D’Ulisse il figlio rispondea d’Eupite: O svergognato cianciator, che parli? Se ciascuno a costui donar volesse Ciò ch’io gli serbo, per tre Lune almeno Sbucar non si vedrìa dalla sua tana, 470 Né più sarebbe a noi molesto. - Ei prese, In ciò dir, con la destra lo sgabello [291] Su cui posava banchettando i piedi, E per aria il mostrò. Ma gli altri tutti Porgevano ad Ulisse e carni e pani, 475 Finché ricolma n’ebbe la bisaccia. Or mentre, per gustar de’ Proci i doni, Alla soglia redìa, fermossi innanzi Ad Antinoo, dicendo: Amico, nulla A me dar tu vorrai, tu che il migliore 480 Sembri de’ Proci, poiché un re somigli? Dammi tu dunque; ed io farò per tutto Risuonar le tue lodi. Anch’io felice Vissi un tempo, e abitai superbo ostello; E qual pur fosse lo stranier, qualunque 485 Il bisogno che a me lo conducesse, Sempre contento il rimandai; ché molti Avea famigli, né fallìami cosa Che la vita conforta. Ma il Saturnio Tutto disperse il dì che per lontani 490 Mari mi trasse con ladroni erranti A visitar l’Egitto. Ivi del fiume Salita la corrente, altri lasciai De’ miei nocchieri a custodir le navi, E ad altri ingiunsi di spïar la terra. 495 Ma da furor costoro e da malnata Voglia sospinti, a devastar si diêro Le fertili campagne, a trucidarne Gli abitatori, ed a rapirne i figli E le consorti. Alla città ne corse 500 Subitamente il grido; e al nuovo albore Ecco tutto di fanti e di cavalli Empirsi il piano e balenar d’acciari. Ma il gran Giove, del fulmine signore, Tal mise in petto a’ miei seguaci un vile 505 Desìo di fuga, che verun far fronte Più non sostenne: tutto era scompiglio, E chi cadea di lancia e chi di spada, Ed eran altri di catene avvinti E a servir condannati. All’Iaside 510 [292] Demètore, di Cipro illustre sire, Io fui donato, e misero da Cipro A queste rive mi sbalzò la sorte. Qual demone, gridò d’Eupite il figlio. Una tal peste ad ammorbar condusse 515 Le nostre mense? Tienti in mezzo, e lungi Da questo desco, se trovar qui pure Non brami un altro Egitto e un’altra Cipro. Accatton più sfrontato e più noioso Di costui non conobbi: a ciascheduno 520 Qui si presenta, e ciaschedun gli dona Senza misura; perocché non havvi Né pietà, né ritegno a dar l’altrui. Allor ritira Ulisse alquanto il piede, E dice: Oh come poco in te risponde 525 Al volto il senno! In tua magion per fermo Tu non daresti pur di sale un grano Ad un mendico, se con tanta copia Di cibi innanzi, all’altrui mensa assiso, Anche un frusto di pane a me ricusi. 530 Arde a questo parlar di sdegno Antinoo, E bieco il guardo in lui fissando, esclama: Salvo non uscirai da questo albergo, Or che m’insulti. - Lo sgabel ripiglia, Così dicendo, e il vibra, e gli percuote 535 L’omero destro. Saldo come rupe Stette a quel colpo il figlio di Laerte; Ma, crollando la testa, meditava In suo cor la vendetta. Indi alla soglia Tornato, e la bisaccia al suol deposta, 540 l’eroe s’assise, e favellò: M’udite, Vagheggiatori dell’illustre donna. Se de’ suoi campi o de’ suoi pingui armenti Pugnando alla difesa, è l’uom ferito, Ei querelarsi e lagrimar non deve; 545 Ma per colpa di questo maledetto, Ingordo ventre, che mi punge e strazia, Mi percosse Antinòo. Deh, se i Celesti [293] O se l’Erinni de’ mendici han cura, La morte prima delle nozze il colga! 550 E a rincontro Antinòo: Frena la lingua, Straniero, e mangia in pace, o vanne altrove, Se trascinato per le mani e i piedi Esser non vuoi da’ servi, e fatto in brani. Ma contro Antinoo s’adirâr gli amanti, 555 E taluno dicea: Figlio d’Eupite, Mal facesti a ferir quell’infelice. E s’egli fosse un qualche Dio? ché sotto Forma di peregrini usan gli Dei Vagar per le città, l’opre spïando 560 Virtuose o malvagie de’ mortali. Ma chiuse a quel parlar l’orecchio Antinoo. Alla percossa dell’amato padre Telemaco si cruccia; e tuttavolta Dagli occhi stilla non versò di pianto, 565 E solo il capo tacito scuotendo Macchinava de’ Proci la ruina. E Penelope anch’essa, udendo come Fosse in sua casa l’ospite ferito, Fra le ancelle sclamò: Così te pure, 570 O scellerato, il re dell’arco Apollo Un dì colpisse! - Se al gran Giove i nostri Voti piacesse di compir, nessuno Di que’ superbi, Eurìnome soggiunse, Spuntar vedrebbe la novella Aurora. 575 Nudrice mia, Penelope riprese, Son tutti iniqui, e tutti io li detesto; Ma del par che le porte atre di Pluto Antinoo abborro. Un misero straniero, Dalla ria fame a mendicar costretto, 580 Entrando, ai Proci s’appressò. Ciascuno Gli diede e carni e pani; ed egli invece Con lo sgabello gli ferì la spalla! Nella vicina stanza con le fanti Questi lagni facea la casta donna, 585 Mentre dell’aula su la soglia assiso [294] L’eroe cenava. Il guardïan de’ porci Ella quindi chiamando, Eumeo, gli disse, L’ospite a me conduci, ond’io gli chiegga Se mai nel mio consorte egli s’avvenne, 590 O se n’udisse ragionar ne’ molti Paesi che vagando avrà veduti. Oh! se cessar dalle importune grida Volessero gli amanti, Eumeo rispose, Ben ti saprebbe confortar costui. 595 Dal mar fuggendo, alla mia casa ei giunse; E quivi per tre giorni e per tre notti Io meco il tenni, né le sue vicende Tutte ancor mi narrò. Ma come attento Porgiam l’orecchio e cupido lo sguardo 600 A buon cantore, allor che un Dio l’inspira E fra le genti dolci carmi intuona, E mai d’udirlo non si sazia il core; Così, sedendo all’ospite di fronte, Io l’udìa stupefatto. Egli narrommi 605 Che in Creta, patria di Minosse, avea Dato ospizio ad Ulisse, e che da Creta Lo sbalestrava una crudel procella Alle rive itacensi. E seguitando Mi dicea, che disceso alla contrada 610 De’ Tesproti, v’udì ch’era il tuo sposo Ivi giunto da poco, e che tornato Al suo tetto sarìa con gran tesoro. Vanne dunque, o pastore, e qui l’adduci, Penelope ripiglia, ond’io gli parli; 615 E per la casa ai giochi ed alle danze Si trastullino i Proci, a cui nessuna Cura l’animo attrista. Accumulando Essi vanno i lor beni, in parte solo Consumati dai servi; e in questa casa 620 Fan macello di pecore e di buoi, E del vino miglior vuotano l’urne; Impunemente, perché lungi è l’uomo Che frenar li potrebbe, è lungi Ulisse. [295] Oh s’ei tornasse, ben saprìa col figlio 625 Que’ ribaldi punir! - Mentre la donna Così favella, scoppia in un sonoro Starnuto il figlio, che tremar la vòlta Fa della sala. Rise, e al mandrïano Ella gridò: Su via, t’affretta, Eumeo, 630 Venga a me lo stranier. Non odi come Al mio parlar Telemaco starnuta? Della vendetta è l’ora omai vicina, E nessun di costoro alla sua sorte Involar si potrà. Tu sappi intanto, 635 Che s’ei mi dice il vero, io d’una bella Veste gli farò dono e d’un bel manto. A quel cenno il pastor corre ad Ulisse, E, Straniero, all’orecchio gli bisbiglia, La madre di Telemaco, la saggia 640 Penelope ti chiama. Ella desìa Di suo marito aver da te novelle. Ove sincero scorga il tuo racconto, Ti fornirà del manto e della veste Che t’abbisogna; e poscia mendicando 645 Andar potrai per la città, ché tutti E vino e carni ti daranno in copia. Eumeo, rispose il travagliato eroe, Io volentieri appagherò le brame Della regina, perché vidi Ulisse, 650 E son pari alle mie le sue sciagure. Ma pavento de’ Proci la baldanza; Ché mentre per la sala io m’aggirava Limosinando, né ad alcun di loro Recava offesa, m’ha colui percosso 655 Con lo sgabello; né d’Ulisse il figlio, Od altri, il colpo ad impedir sorgea. Dunque, benché d’udirmi impazïente, Le dirai che aspettar non le dispiaccia Fin che il Sole tramonti. Allor d’Ulisse, 660 Del suo ritorno ragionar potremo; Ma presso al fuoco, perché mal difeso, [296] Come vedi, son io da questi cenci. Udito quel parlar, die’ volta Eumeo; Ma la regina, non appena il vide 665 Su la soglia apparir, così gli disse: Eumeo, non viene ei dunque? e che l’arresta? Forse il timore? forse la vergogna? Tristo il mendico se vergogna il frena! E il mandriano: Non a torto ei cerca 670 Schivar le offese degli alteri Proci, E ti prega indugiar fin che caduta Non sia la luce, perché allor da soli Liberamente favellar potrete. Qualunque ei sia, costui folle non parmi, 675 Ella riprese: io gente non conobbi Più superba di questa e più malvagia. Tacque; e il pastore, nella sala entrando, S’avvicina a Telemaco, e sommesso Così gli parla: Amato figlio, è d’uopo 680 Ch’io torni ai campi a custodir la greggia Che il cibo ne fornisce; e tu fra tanto Veglia su la tua casa, e su te stesso, Poiché molti qui sono i tuoi nemici, Che Giove sperda anzi che mal n’avvenga! 685 Sia come dici, padre mio, rispose Il buon garzone. Pria ti ciba, e parti; Ma doman sul mattino a noi conduci I tuoi maiali per la mensa, e lascia A me del resto ed agli Dei la cura. 690 Al desco allor si pose il mandrïano; E, di cibi e di vino ristorato, Prese la via de’ campi, abbandonando La cerchia dell’albergo, tutto pieno Di gente al canto ed alla danza intesa, 695 Mentre all’occaso già chinava il Sole. [297] LIBRO DECIMOTTAVO SOMMARIO Zuffa tra il mendico Iro ed Ulisse. - Penelope si lagna coi Proci perché insultino gli ospiti, e, desiderando averla a sposa, consumino le sue sostanze, invece di offrirle i doni nuziali, secondo il costume. - Doni fatti dai Proci a Penelope. - Venuta la notte, Ulisse è nuovamente insultato dall’ancella Melanto e da Eurimaco. Presentavasi in questa un accattone Avvezzo a mendicar di porta in porta: Divorator famoso, che mai sazïo Per cibo non avea l’ingordo ventre, E povero di forze era e codardo, 5 Benché di membra smisurate. Arneo Era il suo nome, ché così nascendo La genitrice il disse; ma venìa Iro più spesso o messaggier chiamato, Perché di qua, di là recar solea 10 Le imbasciate de’ Proci. Avea la soglia Raggiunta appena, che cacciar volendo Dalla sua casa il figlio di Laerte, Sgombra, o vecchio, gli grida, o per un piede Fuor di qua ti strascino. E non t’accorgi 15 Che a farlo ognun m’invita? Tuttavia Frenarmi ancora io voglio; ma tu sorgi E va’, se meco di pugnar non brami. Con torvo ciglio il mira, e, Sciagurato, [298] Gli risponde l’eroe, né con parole, 20 Né con opre io t’offendo, e non t’invidio Se molto altri ti dona. Ad ambedue Basterà questa soglia; e tu, che sembri Mendico al par di me, tu non dovresti Impedir ch’io rimanga: all’uno e all’altro 25 Il suo bisogno forniran gli Dei. Ma guarda dal toccarmi, o, benché vecchio, T’insozzerò di sangue il viso e il petto; E allora in pace io mi vivrei, ché certo Tu non faresti qui doman ritorno. 30 Poh! crucciato il pitocco Iro soggiunse, Più volubili scorrono gli accenti A questo ghiotto, che a noiosa vecchia Nelle sere invernali. Eh sì, che un pugno Io gli aggiusto alla guancia, e tutti a terra 35 Gli sbalzo i denti, come ad un maiale Che divori la messe! Or dunque meco A pugnar t’apparecchia, e vegga ognuno Se ti puoi misurar con un mio pari. Ambo così su la marmorea soglia 40 Con aspri motti si ferìan. Gl’intese, Ed agli amici Antinoo disse: Nova, Gioconda scena ci prepara un Nume In questa casa: il pellegrino ed Iro Van fra loro altercando; orsù n’andiamo 45 Ad aizzarli, ad affrettar la zuffa. Sorsero i Proci, e sghignazzando intorno Ai due pezzenti s’affollâr. Compagni, Prese quindi a parlar di novo Antinoo, Già si stanno arrostendo per la cena 50 Molte ventresche, piene di grasselli E di sangue. Colui che vincitore Uscirà dalla zuffa, una a sua voglia Ne prenda, e sempre con noi segga al desco, Né mai più qui s’aggiri altro mendico. 55 Piacque il partito; e il Laerziade Ulisse, Artefice di frodi, Amici, esclama, [299] Mal si conviene ad uom da lunghe ambasce Logorato e dagli anni cimentarsi Con un gagliardo dell’età nel fiore; 60 Ma la ria fame ad affrontar mi sprona Ogni periglio. Voi però giurate Che qui nessuno leverà la destra D’Iro in aiuto, perché allor di certo Sconfitto io ne sarei. - Giurâr gli amanti, 65 Come Ulisse bramava; e a lui rivolto Tosto così Telemaco dicea: Forestiero, se cor ti senti e lena Di provarti con lui, nessun ti prenda Timor de’ Proci; ché dovrìa con molti 70 Pugnar chi fosse di toccarti ardito. Io degli ospiti ho cura, e i sensi miei Approveranno Antinoo pure, io credo, Ed Eurimaco, entrambi onesti e saggi. Tutti lodâr le sue parole. E il prode 75 Laerziade s’avvolse un cencio ai lombi, Nudo il petto mostrando e nudi i larghi Omeri e nude le robuste braccia E l’ampie cosce; perché a lui la Dea Dalle azzurre pupille avea di novo 80 Ingrossate le membra. Onde, colpiti Di meraviglia, i prenci achei l’un l’altro Guardavansi, dicendo: Iro fra poco Iro più non sarà, perché il malanno Già gli sovrasta ch’ei s’andò cercando: 85 Tali braccia ha snudate e tali cosce Il suo rivale! - Sì diceano; ed Iro S’arretrò, gravemente in cor turbato Ma i servi a forza lo spingeano innanzi, Di paura tremante e smorto in viso, 90 Mentre il figlio d’Eupite lo pungea Con questi accenti: Vantator codardo, Perché già non sei morto, o a che nascesti, Se così tremi e temi un uom consunto Dalle angosce e dagli anni? Intanto ascolta: 95 [300] Se nella lotta lo stranier ti vince, Io ti caccio nel fondo d’una nave, E ti mando in Epiro al rege Echeto, Degli uomini flagello, onde le orecchie Ti recida ed il naso, e i genitali, 100 Strappandoti, li getti a’ suoi mastini. Fu da novo tremore a tal minaccia, Iro assalito; ma poiché nel mezzo L’ebber sospinto i servi, e sollevate I combattenti già tenean le destre, 105 Stette in forse l’eroe, se lui dell’alma Ad un tratto spogliasse, o solo a terra Lo rovesciasse tramortito. E questo Gli parve il meglio, per così tenersi Ai Proci ascoso. Il destro omero appena 110 Iro tocca ad Ulisse, e questi un colpo Sotto l’orecchio subito gli vibra, Che l’ossa ne sfracella; ond’ei mugghiando Stramazza nella polve, e dalla bocca Sangue versando e digrignando i denti, 115 Con le calcagna il suol percuote. I Proci Al cader del pitocco alzan le mani, Scoppiando dalle risa; e il prode Ulisse Tosto un piede gli afferra, e fuor per l’atrio Lo strascina alla porta. Ivi col tergo 120 Alla parete l’appoggiò, gli pose Un baston nella destra, e così disse: Or qui ti siedi, e scaccia dall’albergo I cani e i ciacchi; e, come sei, codardo, Non voler coi mendichi e gli stranieri 125 Insolentir, ché peggio non ti colga. La sdruscita bisaccia in questo dire Si gitta su le spalle, ed alla soglia Ritorna e siede. Sorridendo allora Gli s’accostano i Proci, e, Forestiero, 130 Gridan, gli Dei ti rendano mercede D’aver noi liberati e gl’Itacesi Da questo insazïabile paltone, [301] Che in Epiro a finir suoi tristi giorni Invïeremo al truculento Echeto. 135 A quell’augurio serenò la fronte Il travagliato Ulisse, ed una grossa Ventresca Antinoo gli recò di sangue E d’adipe ripiena, e dal canestro Due bianchi pani Anfinomo si prese 140 E a lui li porse, e poi gli porse un colmo Nappo, così dicendo: Ospite, salve; Giacché povero fosti e sventurato, Un Dio ti renda in avvenir felice. Anfinomo, rispose il divo Ulisse, 145 Uom tu mi sembri assai facondo e saggio; E in ciò somigli a Niso Dulichiense, Al padre tuo, che buono al par che ricco Ognun vantava. Attento orecchio or presta A detti miei. Fra quante creature 150 Han vita e moto su la terra, alcuna Non è che l’uom nella miseria uguagli. Finché amica la sorte a lui sorride, E saldo il braccio e salde ha le ginocchia, Egli a futura traversia non pensa: 155 Ma se sciagura il coglie, a sopportarla Mal si rassegna, e se n’attrista e cruccia; Perocché varia in noi la mente, come Varia è la sorte che ne manda il cielo. Fui grande anch’io; ma troppo confidando 160 Nell’aiuto del padre e de’ fratelli, Molte in vero commisi opere ingiuste. Sii dunque pio tu sempre, e godi in pace La fortuna che il sommo arbitro Giove T’ha conceduta; né imitar costoro, 165 Che oltraggiano la sposa, e le sostanze Van logorando di colui, che molto, Io te n’accerto, dal paterno ostello Non rimarrà lontano. Ah possa un Nume Involarti al suo sguardo allor ch’ei giunga! 170 Ché senza sangue fra gli achivi prenci [302] E lui decisa non sarà la lite. Ciò detto, il colmo nappo accosta al labbro, E di Niso al figliuol vuoto il ritorna. Ma, de’ suoi mali Anfinomo presago, 175 Pensoso e mesto passeggiava, il capo Ad or ad or crollando; e nondimeno Anch’egli non poté fuggir da morte, Ivi arrestato dalla glauca Diva, Che per l’asta il volea del generoso 180 Telemaco domato. Alfin si trasse Al suo scanno il garzone, e vi s’assise. A Penelope, in questa, alla prudente Regina, inspira Pallade Minerva Di mostrarsi ai rivali, e la baldanza 185 Frenarne in guisa, che al marito e al figlio Più che prima d’amor degna e d’onore Ella apparisca. Involontario il riso Le spunta su le labbra, ed alla vecchia Eurìnome favella: O mia diletta, 190 Odi pensiero che nel cor mi sorge: Ho risoluto di mostrarmi ai Proci, Benché gli abborra. Io porger bramo al figlio Un saggio avviso, e dirgli che la troppa Domestichezza di que’ tristi ei lasci, 195 Che gli parlan cortesi, e di nascosto Tramano intanto alla sua vita insidie. Ben dici, rispondea la buona vecchia: A lui scendi tu dunque, e gli palesa I sensi tuoi. Ma pria ti lava, e spargi 200 L’unguento su le gote, e agli orgogliosi Proci dinanzi non andar col viso Di lagrime solcato. È tempo omai Che cessi il pianto, or che i tuoi voti i Numi Fecero paghi, e di tuo figlio il mento 205 Già di folta lanugine si copre. Di lavacri e d’unguenti ah non parlarmi, Eurìnome! dicea la casta donna. Dal dì che Ulisse verso i teucri lidi [303] Co’ suoi guerrieri veleggiò, le rose 210 Appassîr sul mio volto. Orsù, mia cara, Autonoe chiama e Ippodamìa, che meco Scendan nell’aula, perché avrei vergogna Di presentarmi sola ai Proci. - Uscìa Sollecita la vecchia a quel comando, 215 E a chiamar corse e ad affrettar le ancelle. Ma qui novo pensier formò Minerva; E un lieve sonno su le stanche ciglia Di Penelope infuse che, la testa Al letto reclinando, addormentossi. 220 Allor la figlia dell’Egioco Giove, Perché più sempre i prenci achei rapisse Con lo splendor di sua beltà, le guance Della stessa immortal soave essenza Le irrorava, onde Venere s’asperge 225 Quando move di rose incoronata Al ballo delle Grazie. A lei più tonde Rese le membra e svelta la persona, Ed un candor sul volto le diffuse Che l’avorio vincea. Ciò fatto, un volo 230 Spiccò la Diva, e su l’Olimpo ascese. Vennero schiamazzando le donzelle Dalle candide braccia, e la regina Subitamente si riscosse, e gli occhi Tergendosi, sclamò: Qual dolce sonno, 235 Giusti Dei! mi sorprese? Oh! dolce al pari Mi vibrasse Dïana in questo punto Una sua freccia; ché così finito Avrei di consumarmi nel dolore, Un caro sposo sospirando, un saggio 240 Eroe, cui forse mai l’egual non visse. In questo dir, dalle superne stanze Penelope scendea, con le fedeli Donzelle a tergo; e come su la soglia Giunse, al cospetto degli amanti, il passo 245 Ella rattenne, ed un leggiadro velo Si calò su la fronte. A quella vista [304] Sentiansi i Proci di stupor rapiti E di dolcezza, e fervido desìo Li pungea di goderne i cari amplessi. 250 Ma la donna in disparte a sé chiamando Telemaco, gli dice: Odimi, o figlio. Senno maturo, pronto accorgimento Tu palesavi da fanciullo; ed ora Che negli anni crescesti, e che in mirarti 255 Sì bello e grande, ti dirìa ciascuno Di glorïoso genitor rampollo, Or d’intelletto e di ragion sei privo. Opra esosa, nefanda, si consuma Nel nostro albergo: l’ospite s’oltraggia, 260 E tu lo vedi e il soffri? e non t’accorgi Che sul tuo capo ne cadrà l’infamia? Madre mia, del tuo sdegno io non m’adonto, Rispondea l’Ulisside. Anch’io rivolgo Nel pensier queste cose, e il dritto e il torto 265 Più che in mia fanciullezza ora discerno; Ma tutto oprar non m’è concesso, e tutto Antiveder. Questa ribalda gente M’odia e mi tende insidie, e solo io sono, E non ho chi m’aiuti. Ma lo scontro 270 Fra l’ospite e il mendico Iro per colpa Di costor non avvenne; ed anzi il primo N’ebbe la palma. Oh! faccia il gran Saturnio E Pallade Minerva e il biondo Apollo, Ch’io vegga un dì gl’iniqui a me dintorno 275 Tutti di sangue sozzi e barcollanti. Come quell’Iro, che, nell’atrio assiso, Quinci e quindi cader lascia la testa D’un ebro a somiglianza, e sostenersi Su le gambe non può, né far ritorno 280 Al proprio tetto, sì le membra ha peste. Così dicean fra loro. Alla regina S’appressa intanto Eurimaco, e favella: Penelope, se tutti per la vasta Argo gli Achei t’avessero mirata, 285 [305] Certo d’amanti una più grossa schiera In questa casa a banchettar verrebbe; Perché donna non v’ha che a te di senno E di statura e di beltà s’agguagli. Eurimaco, rispose la regina, 290 Grazia, senno, beltà, tutto i Celesti Mi tolsero dal dì che il mio consorte Navigò verso Troia. Oh se il governo Ei ripigliasse di mia vita, oh quanta Gloria a me ne verrìa! Ma troppo io sono 295 Addolorata, perché un Dio crudele Molti guai m’invïò. Rammento ancora Quando, presso a lasciar l’itaca sponda, Dolcemente l’eroe per man mi prese, E così mi parlò: Donna, io non credo 300 Che tutti illesi torneran da Troia I magnanimi Achei. Gente guerriera Dice i Troiani il comun grido, istrutti A vibrar lancie e dardi, e per gli aperti Campi a guidar superbi corridori, 305 Che dell’ardue battaglie in un momento Decidono le sorti. Io quindi ignoro Se potrò rivederti, o innanzi ad Ilio Perir dovrò. Tu d’ogni cosa intanto Abbi qui cura: come prima onora, 310 E, se il puoi, più che prima, il padre mio E la mia buona madre; e quando il figlio Di lanugine il mento avrà coperto, Scegli allora uno sposo ed abbandona La casa tua. Così parlava Ulisse; 315 E tutto ecco si compie, e s’avvicina L’infausto giorno che novelle nozze A un’infelice recherà, cui Giove D’ogni gaudio privò. Ma più m’attrista E mi cruccia il veder che gli usi antichi 320 Oblìano i Proci. Quando della figlia D’alcun ricco signor s’ambìa la mano, Alla sua casa conducean gli amanti [306] Pecore in copia e capre e pingui buoi, Per convitar gli amici, e bei presenti 325 Alla sposa facean. Ma qui costoro Le altrui sostanze a logorar si stanno. L’eroe gioisce, che i rivali alletti Con parlar lusinghiero, e ricchi doni Così n’ottenga, mentre in cor ben altro 330 Ella rivolge. Trasse Antinoo in questa A lei dinanzi, e favellò: Regina, Noi vaghi doni qui recar faremo; E tu gli accetta, ché follia sarebbe Il recusarli. Ma nessun de’ Proci 335 Di tua casa uscirà, se il più valente Tu pria non abbia per tuo sposo eletto. Così d’Eupite il figlio; e al proprio albergo Tosto a prendervi i doni invia ciascuno Il banditore. Ei stesso Antinoo diede 340 A Penelope un peplo a più colori, Ampio e leggiadro, e ch’avea d’oro intorno Dodici fibbie, in ordine disposte Con ricurvi ardiglioni. Aureo monile, d’ambra ingemmato, e che splendea qual Sole, Eurimaco le porse, e due stupendi 346 Orecchini e tre goccie Euridamante, E una collana di gentil lavoro Il figliuol di Polittore, Pisandro. Così l’un dopo l’altro i lor presenti 350 Le faceano i rivali. Alle sue stanze Alfin salì Penelope, seguita Dalle due fanti con gli offerti doni. Allor di novo al canto ed alla danza Volgeansi i Proci; e come il dì fu spento, 355 Collocâr nella sala tre bracieri Da fessi aridi tronchi alimentati, Che gran luce spandean, mista al chiarore Di molte faci alle pareti appese. Vegliavano a vicenda que’ bracieri 360 Quattro vaghe donzelle, a cui rivolto [307] Così parlava di Laerte il figlio: O donzelle d’Ulisse, ite alle stanze Della casta regina, e quivi intente A pettinare, a dipanar le lane, 365 Sedete a lei da presso, e ne’ suoi mali La confortate. Io veglierò fra tanto A questi fuochi; e s’anco in fino all’Alba Indugiar qui volessero gli amanti, Non io mi stancherei, che pazïente 670 Son per natura, ed ai disagi avvezzo. Al parlar dell’eroe, guardansi in viso L’una l’altra ridendo le fantesche, E con procace favellar Melanto, Bella gota, il pungea. Nata di Dolio 375 Era Melanto, ma qual propria figlia In sua magion Penelope l’avea Allevata e nudrita e d’ogni cosa Fatta contenta. Tuttavia l’ingrata Mai non entrò di sua tristezza a parte, 380 Insanamente di lascivo ardore Per Eurimaco accesa. Ed or con detti Ingiurïosi il Laerziade Ulisse Così prese a schernir: Malnato vecchio, Tu per certo deliri. E che non esci 385 A giacer co’ tuoi pari in qualche vile O taverna o fucina, anzi che starti Parlator petulante in questo albergo A cinguettar con tutti? O il troppo vino Ti travolse la mente, o pure un folle 390 Tu sempre fosti, e cianci al vento. O forse Perché il sozzo mendico Iro hai domato Tanto vampo tu meni? Ah! bada, o tristo, Che alcun di lui più forte non ti rompa Le tempia e il viso con le pugna, e tutto 395 Di sangue lordo fuor di qua ti cacci. La squadrò torvo Ulisse, indi proruppe: Cagna, io reco a Telemaco i tuoi detti, Perché ti faccia con la spada in brani. [308] S’impaurîr le ancelle, e per la casa 400 Fuggìan, credendo ch’ei dicesse il vero. Ma l’eroe non si mosse, e de’ bracieri Avvivando la fiamma, ad ora ad ora Volgea gli occhi ai rivali, e macchinando In suo pensiero ne venìa la strage. 405 Né Pallade Minerva permettea Che alle offese i garzoni ed agli scherni Ponesser fine, perché in lui lo sdegno Più sempre ardesse. E lo pugnea da prima Eurimaco, le risa suscitando 410 Ne’ compagni così: M’udite, amanti Della bella regina. A qualche uficio Qui venuto è costui. Nudo è il suo capo E liscio, e splende come face: al certo Egli è venuto a rischiarar la casa. 415 Poi rivolto ad Ulisse, Ospite, aggiunse, Vuoi ch’io t’accolga fra’ miei servi, e mandi Ne’ miei poderi a racconciar le siepi E gli alberi a piantar? Buona mercede Io ti prometto, giornaliero pasto 420 E calzari alle gambe e vesti al dosso; Ma, perché sempre fosti all’ozio usato, Tu la fatica abborri, ed ami invece Pitoccar per le case, in fin che pieno Ti senti e teso il non mai sazio ventre. 425 Eurimaco, rispose il saggio Ulisse, Se a primavera, quando il dì s’allunga, Gara fra noi sorgesse di lavoro, E l’erba con le falci ambo digiuni Noi stessimo segando in vasto prato 430 Fino alla sera; o da guidar commessi Ci fossero due tori, alti e focosi, D’età pari e di forza e ben pasciuti, Onde spezzar col vomere tagliente Quattro bubulce: ben veder potresti 435 Quanta sia lena in questo braccio, e come Aprir dritto e profondo io sappia il solco. [309] O poni ancor che a sanguinosa guerra Ne invitasse il Saturnio, ed uno scudo Io m’avessi ed un’asta e un saldo elmetto: 440 Vedresti come fra i guerrier più prodi Io godrei di lanciarmi, e un vil ghiottone Tu non saresti di chiamarmi ardito. Or protervo è il tuo labbro e crudo il core Ed uom t’estimi valoroso e grande, 445 Perché solo con poca imbelle gente Uso a trattar tu sei. Ma se approdasse Alle sue spiagge il Laerziade eroe, Oh come tremeresti, e questa porta Al tuo pronto fuggir parrebbe angusta! 450 Agli aspri detti, di furor s’accese Eurimaco, e con truce occhio il mirando, Sciagurato, sclamò, vuoi ch’io t’uccida Con queste mani? Di gracchiar fra tanti Principi adunque e insolentir non cessi? 455 O tu pazzo nascesti, o tal ti rese Il vino e del pezzente Iro la palma. Afferra ei quindi uno sgabello, e il vibra; Ma rapido l’eroe fra le ginocchia d’Anfinomo si curva, e lo sgabello 460 La destra mano del coppier percuote. Cader si lascia l’anfora il coppiere, Cade anch’egli gridando; e un gran tumulto Allor si leva per la sala, e i Proci Così fra loro a mormorar si diêro: 465 Oh morto fosse pria che a noi venuto Quel vagabondo! Non sarìa qui sorto Tanto scompiglio. Per un vil pitocco Or si tenzona, e tutta omai de’ prandi Svanì la gioia, e l’odio regna e l’ira. 470 Folli, sclamò d’Ulisse il figlio, un Nume, Certo un Nume vi turba, e il cibo e i vini Dimenticate. Ma se già ne siete Sazi, su via, ciascuno al proprio albergo Si ritragga a dormir; se ciò v’aggrada, 475 [310] Ch’io non vi scaccio. - Si mordean le labbra I rivali in udir queste parole Dal giovinetto. Ma, la voce alzando, Anfinomo dicea: Deh! non si renda A giusto favellar risposta amara, 480 Né l’ospite s’oltraggi o servo alcuno Del divo Ulisse. Orsù, porti l’araldo Le tazze in giro; e fatte agl’Immortali Le libagioni, a riposar n’andiamo Nelle nostre dimore, all’Ulisside 485 Dell’ospite lasciando ogni pensiero, Perché al suo tetto e non al nostro ei venne. Plausero i Proci a questi accenti; e Mulio, Il banditor d’Anfinomo, recava Le tazze in giro; ed essi agl’Immortali 490 Venìan libando e confortando il petto Del soave licor. Come bevuto Ebbe a sua voglia, s’avvïò ciascuno Al proprio albergo, e die’ le membra al sonno. [311] LIBRO DECIMONONO SOMMARIO Ulisse e Telemaco trasportano le armi dalla sala ad una stanza superiore della casa. - Telemaco si ritira a dormire. - Colloquio fra Penelope ed Ulisse. - Questi, fingendo una sua storia, le dice di aver dato ospizio ad Ulisse in Creta, e parla delle vesti ch’egli aveva indosso, e dell’araldo che lo seguiva. - La nutrice Euriclea, lavando i piedi ad Ulisse, lo riconosce alla cicatrice di una ferita che aveva ricevuto da un cinghiale sul monte Parnaso. - Penelope gli racconta un sogno, e gli confida che intende proporre agli amanti la prova dell’arco, qual condizione delle nozze, a cui essa non può ormai più sottrarsi. Ma dalla reggia non uscì l’eroe, E pensando alla strage de’ rivali, Col figliuol si restrinse, e così disse: Telemaco, leviam da questa sala Tutte l’armi guerresche; e se qualcuno 5 Le cercasse de’ Proci, a lui rispondi Scaltramente in tal guisa: Io le sottrassi Al fumo, che annerite aveale e guaste Sì, che più quelle non parean che Ulisse Avea lasciate al suo partir. Da tema 10 Fui còlto inoltre (e forse un qualche Nume Nel mio cor la destò) che voi, da troppo Vino infiammati, non veniste a lite, Ferendovi l’un l’altro, e funestando Il convito e le nozze: il ferro spesso 15 Al sangue alletta. - Obbedïente il figlio, Ratto a sé chiama la fedel nudrice, [312] E sì parla: Euriclea, tieni le fanti Nelle stanze rinchiuse, in fin che l’armi, Un dì sì belle, che annerite ha il fumo 20 Mentre assente era il padre ed io fanciullo, Abbia in loco recate, ove non giunga Il vapor della fiamma ad insozzarle. E la casta Euriclea: Deh tal prudenza Giove alfin ti conceda, che i tuoi beni 25 E la tua casa custodir tu possa! Ma chi ti farà lume, se non vuoi Ch’escano le donzelle? - Il pellegrino, D’Ulisse il figlio rispondea: quantunque Forestiero, chi siede alla mia mensa 30 Restar non deve inoperoso. - Uditi Questi accenti, correa la vecchiarella A chiuder gli usci delle stanze. Intanto Con Telemaco al talamo superno Trasportava l’eroe gli elmi criniti 35 E i turcassi e gli scudi umbilicati E l’aste acute; e Pallade Minerva Li precedea con aurea lampa in mano, Che spandea d’ogni intorno una gran luce. Oh qual mai, padre mio, strano portento! 40 Telemaco sciamò. Le mura io veggo E le colonne folgorar qual fiamma: Certo è qui sceso dall’Olimpo un Nume. Ma l’interruppe sì dicendo Ulisse: Taci, e più non cercar. Questi portenti 45 Oprar talvolta sogliono gli Dei. Or tu vanne a corcarti: io qui rimango A vegliar le fantesche, e i sensi ascosi Di tua madre a spïar, che a me piangendo Di suo marito chiederà novelle. 50 A questo dir, Telemaco si prese Nella destra una face, e alla sua stanza Incamminossi, ove dell’Alba il raggio Aspettando giacea, mentre la glauca Diva ed Ulisse nel regale albergo 55 [313] Stavan la morte a congiurar de’ Proci. Pari a Cinzia e alla vaga Citerea, Scese in quella dal suo talamo eccelso La figliuola d’Icario; ed una scranna Le ponean le donzelle innanzi al fuoco, 60 D’un vello ricoperta, e che costrutta Dell’artefice Icmalio avea l’industre Mano, e d’argento e d’ebano commessa, Col suo sgabello ai piedi. Ivi la casta Penelope s’assise; e dalla mensa 65 Tolsero le fantesche i pani e i nappi, In cui bevuto aveano i Proci, e il fuoco Ridestâr ne’ bracieri, e legne in copia V’aggiungean, che la sala illuminasse E scaldasse ad un tempo. Allor di novo 70 Così pungea Melanto il divo Ulisse: Stranier, vorrai tu dunque anche di notte Importuno aggirarti per la casa E le fanti adocchiar? Su via, cialtrone. Ti leva di qua ratto, o ch’io con questo 75 Acceso tizzo ben farò che sgombri. La guatò bieco Ulisse, e le rispose: Sciagurata, perché meco t’accendi Sempre d’ira così? perché le guance Più non ho fresche, e rozzo manto e rozza 80 Vecchia tunica indosso, e mendicando Vo per le piazze, dal bisogno astretto? Ma tali pure gli esuli son tutti E i poverelli. Vissi un tempo anch’io Fortunato, e abitai splendide case; 85 Né stranier, né mendico alla mia soglia Mai non comparve, che digiun partisse E senza doni; perché molti avea E poderi e famigli, ond’io felice Era, ed onore mi rendea la gente. 90 Ma, qual ne fosse la cagion, l’Olimpio Giove di tutto mi spogliò. Deh! guarda Che a te del pari un Dio sparir non faccia [314] Dal viso la beltà, per cui superba Vai su l’altre fanciulle, e che lo sdegno 95 Alfin si svegli della tua regina, O, come ancor si spera, il prode Ulisse In Itaca non torni. E dove all’Orco Già sceso ei fosse, per favor d’Apollo È Telemaco omai cresciuto a segno, 100 Da non patir che nel suo tetto alberghi Femmina che malvagie opre commetta. Udì l’alterco la regina, e prese Con questi accenti a rampognar l’ancella: Cagna sfacciata, dovrò dunque io sempre 105 Coglierti in fallo? Ma di tua tristezza Io pentir ti farò. Ben tu sapevi Da me medesima, che del mio marito Chieder bramava all’ospite novelle, Per trarne a’ miei dolori alcun conforto. 110 Indi alla fida Eurìnome rivolta, Così le disse: Eurìnome, prepara Un seggio col suo vello, ove si posi Il forestiero, e al mio parlar risponda. A quel comando, frettolosa un colmo, 115 Lucente scanno Eurìnome recava, E d’un vello il coprìa. Quivi s’assise Il figliuol di Laerte, e la regina Queste parole gli drizzò: Straniero, Or primamente palesar ti piaccia 120 Chi se’ tu, di che stirpe e di che terra. Lo scaltro Ulisse a lei rispose: O donna, Lingua mortale proferir non osa In tuo biasmo un accento, e fino al vasto Cielo la gloria del tuo nome ascende; 125 Come di saggio re, che, ai Numi amico, Con mite freno un popolo reggendo, D’orzo e frumento vede rigogliose Biondeggiar le campagne, e sotto al peso Delle frutta curvar gli alberi i rami, 130 E di buoi le pasture popolate [315] E il mar di pesci, e crescere le genti Sotto al suo regno virtuose e liete. Ma non voler che della stirpe io parli E della patria mia, perché il ricordo 135 Non inaspri il dolor che mi consuma. Molto infelice io sono; e se a mia voglia Qui piangere dovessi e querelarmi, Le tue donzelle, o forse ancor tu stessa N’avresti noia, e rinfacciarmi udrei 140 Che il troppo vino a lagrimar mi sforza. Ospite mio, Penelope ripiglia, Virtù, senno e beltade e grazia e tutto Mi rapir gl’Immortali il dì che Ulisse Verso le teucre sponde alzò le vele 145 Coi duci achivi; e solo allor ch’ei faccia In Itaca ritorno, e di sua casa Segga al governo, florida e gioconda Come prima io sarei. Lutto e sciagure Versano intanto sul mio capo i Numi. 150 Quanti in Itaca sono ed in Dulichio Ed in Samo e Zacinto illustri prenci, Tutti, quantunque io li detesti, a gara Chiedono la mia mano, ed in rovina Mandano questa casa; ond’è che poco 155 Degli ospiti mi curo e de’ mendichi E de’ pubblici araldi, e sospirando L’assente Ulisse, di dolor mi struggo. Ma dai Proci incalzata all’odïoso Nodo, ricorsi ad un inganno, e, come 160 Inspirommi un Celeste, io, nel segreto Mio talamo rinchiusa, andai tessendo Un’ampia e lunga e fina tela, e quindi Agli amanti dicea: Giovani prenci, Poiché Ulisse perì, tanto vi piaccia 165 Le mie nozze indugiar, che sia compiuto Questo drappo a Laerte (ed io non l’abbia Ordito invano), in cui l’amata salma Avvolger dell’eroe, quando la Parca [316] D’eterno sonno apportatrice il colga. 170 Così nessuna delle donne achive Accusar mi potrà, che manchi un drappo In morte ad uom ch’era sì ricco in vita. A questi detti s’acchetâr gli ardenti Spiriti de’ garzoni; ed io la tela 175 Tessea di giorno, e la stessea di notte Delle faci al chiaror. Ma come, all’ore I giorni succedendo e ai giorni i mesi, Il quarto anno spuntò, l’occulta frode Svelâr le rie donzelle; e all’improvviso 180 Còlta dai Proci e rampognata, il drappo Fui mio malgrado di finir costretta. Or come a queste nozze io mi sottragga Veder non so, né so trovar compenso Per indugiarle. Tutti ad affrettarmi 185 M’esortano i parenti; e il figlio stesso, A cui sorride l’alto Giove, e, fatto Omai d’anni maturo e di consiglio, La propria casa governar potrebbe, Mal comporta lo strazio che gli amanti 190 Fan de’ suoi beni. Ma su via, mi narra In qual terra sei nato, e di qual gente: Ché d’un macigno non uscisti, io credo, Né d’una quercia, come d’altri è fama. E a lei l’astuto Ulisse: O del divino 195 Laerziade consorte, e tanto adunque Di conoscer ti cale il mio lignaggio? Or bene, io parlerò. Già più crudeli Sorger mi sento in cor l’usate angosce, Tristi compagne di chi va per terre 200 Sconosciute vagando, a lungo escluso Dal suo loco natìo. Ma, poiché tale È la tua brama, compiacerti io voglio. Ricca ed amena e di parlar diverso, Giace un’isola in mar, che nome ha Creta, 205 E, popolata da infinite genti, Su novanta città porta corona; [317] Ché i divini Pelasgi ed i Cidoni V’hanno lor sede, e i generosi Dori In tre parti divisi, ed i vetusti 210 Magnanimi Cretensi. Ivi di tutte E più grande e più splendida si leva Di Gnosso la città, dove Minosse, Del gran Saturnio consiglier, per nove Anni stese lo scettro. E fu Minosse 215 Padre al buon padre mio Deucalïone, Da cui nacquero il prence Idomeneo, Che guidò con gli Atridi il suo naviglio Al conquisto di Troia, ed io che il nome Ebbi d’Etone, e a lui d’età non solo, 220 Ma di valor cedea. Fu là ch’io vidi E diedi ospizio al Laerziade Ulisse. L’ira del vento l’avea spinto a Creta Dalla Malea, mentre alle teucri sponde Ei navigava, e nell’angusta foce 225 Si salvò dell’Amniso; ove non lunge Un antro sacro ad Ilitìa si schiude. Giunto in città, d’Idomeneo richiese, Che venerando e caro ospite suo Ei chiamava. Ma l’onde il mio fratello 230 Verso Troia fendea da dieci Aurore; Ond’io medesmo in mia magion l’accolsi, E lo colmai di doni, e per la mensa De’ suoi guerrieri pingui buoi, farine E vino rubicondo offrir gli feci 235 Dai cittadini. Un improvviso Borea, Ch’avean gli Eterni suscitato, e forte Sì che l’uom si reggea sui piedi appena, Dodici dì gli achivi legni in Creta Con Ulisse arrestò. Ma cadde il vento 240 Nel tredicesmo, e si spiccâr dal lido. Così simili al vero il divo Ulisse Queste fole narrava alla regina; E piangea la infelice. E come neve, Dagli algenti Aquiloni riversata 245 [318] Su le cime de’ monti, si discioglie Al soffiar di Libeccio, e i fiumi ingrossa; In cotal guisa si struggea la saggia Penelope, piangendo il caro sposo, Che vicin le sedea. Tutto a quel pianto 250 Lacerar si sentìa di doglia il core L’itaco eroe; ma come se di corno Gli occhi avesse o di ferro, esso li tenne Fra le palpebre immoti, e le irruenti Lagrime a forza reprimea. Di pianto 255 E di sospiri sazia alfin la casta Penelope, di novo a lui dicea: Ospite amico, fammi or tu secura Che, come affermi, al mio diletto sposo E a’ suoi prodi compagni hai dato ospizio. 260 Dimmi dunque che veste egli portava, E qual n’era l’aspetto, e quali e quanti I guerrier che il seguian. - Donna, risponde L’accorto Ulisse, malagevol fôra Queste cose narrar, così lontane, 265 Perché di dieci e dieci Soli il giro Si compie omai, che navigar da Creta Io vidi il tuo consorte. E nondimeno Ciò che alla mente richiamar mi posso Volentier ti dirò. Largo, a due falde. 270 Gli scendea dalle spalle un vago manto Di purpureo color, che gli serrava D’aureo fermaglio il doppio morso al petto; E sul fermaglio di gentil lavoro Era foggiato un veltro, che prigione 275 Si tenea fra le zampe un pauroso Vaio cerbiatto, e con l’aperta bocca Sopra gli stava. Si stupìa la gente Che fosser d’oro, rimirando il veltro Che già la belva soffocar parea 280 E farla a brani, e di terror tremante La belva che fuggir tentava indarno. Una tunica ancor gli vidi indosso [319] Fina così, che d’arida cipolla Vincea la buccia. Risplendea qual Sole, 285 E a guardarla fermavansi le donne Maravigliando. Ma non so se quelle Eran le vesti ch’ei portar solea, O se qualcuno de’ compagni in mare Od un ospite in terra a lui n’avesse 290 Fatto un presente; perocché l’amico Era di molti, e fra gli achivi duci Pochi avea somiglianti. Anch’io gli diedi Una spada, un mantello ed una lunga Tunica porporina, e fino al lido 295 L’accompagnai di riverenza in segno. Un banditore lo seguìa, che poco L’avanzava d’età, ricciuto il crine, Abbronzato la pelle, alto le spalle, Eurìbate chiamato. Avealo in pregio 300 Sovra tutti l’eroe, perché conformi Eran d’animo entrambi e di pensieri. Così parlava Ulisse; e conoscendo Le sue parole al ver corrispondenti, Spuntar di novo si sentì la donna 305 Su gli occhi il pianto, e replicò: Straniero, Un infelice io ti credea finora Degno sol di pietà; ma d’amicizia Tu sei degno e d’onor. La veste e il manto Di che favelli gli recava io stessa 310 Dal talamo piegati, io v’affiggea Quel lucente fermaglio. Ah ch’io non deggio Mai più vederlo! Avverso fato il trasse Alla malvagia, abbominanda Troia, E fato avverso di tornar gli vieta. 315 Deh! perdona, rispose il divo Ulisse, Al leggiadro tuo corpo, e il caro sposo Ognor piangendo, non voler che tutta Ti consumi il dolor. Non io per questo Biasimar ti vorrei. Piange ogni donna 320 Il perduto consorte, a cui d’amore [320] Vergine si congiunse, e padre il fece; E tu l’eroe non piangerai, che a’ Numi Dicono eguale? Tuttavolta il pianto Frena, o regina, e al mio parlar t’affida. 325 Io dai ricchi Tesproti udii che vivo È tuo marito, e in Itaca ritorna Carco di spoglie preziose e d’oro, Ch’egli vagando radunò. Ma tutti Perîr sommersi i suoi compagni. Uccisi 330 Avean del Sole i candidi giovenchi, Sì ch’ei d’ira infiammossi, e l’alto Giove Con ardente saetta li colpìa In mezzo all’onde, non appena il lido Abbandonâr della Trinacria. Ei solo 335 Fu su gli avanzi dell’infranto legno Dai tempestosi flutti alle beate Rive sospinto de’ Feaci; e questi, Che dagli Dei si vantano discesi, L’onorâr come un Nume, e di pregiati 340 Doni il colmâro, e fatto avean disegno Di salvo addurlo alla paterna terra. E già sarebbe il figlio di Laerte A voi tornato; ma miglior consiglio Parve all’eroe, che tutti di saggezza 345 Vince i mortali, nove e più feraci Terre prima cercar, per farvi acquisto D’altri tesori. Questo a me narrava Della Tesprozia il regnator Fidone: E, libando agli Dei nel proprio albergo, 350 Mi giurò che la nave era già pronta, Pronti i nocchieri, che condurlo al lido Itacense dovean. Tesprozio legno Allor per caso navigava all’alma Dulichio, e, tolto da Fidon congedo, 355 Io v’ascesi, e partii. Ma pria le molte Ricchezze mi mostrò, che il saggio Ulisse Avea raccolte e in sua magion deposte, Per dieci etadi a sostentar bastanti [321] Un’intera famiglia; e mi dicea 360 Ch’ei da poco a Dodona era passato, Del gran Saturnio a consultar l’eccelsa Quercia indovina, per saper se dopo Sì lunga assenza ritornar dovesse Al suo tetto natìo palesemente 365 O di nascosto. Vivo è dunque Ulisse, E i congiunti fra poco e i cari amici Lo rivedranno. Intanto io qui ti giuro. Chiamando Giove in testimonio, e questa Casa d’Ulisse, che mi diede ospizio, 370 Tutto, o donna, avverrà ch’io ti predico: Quest’anno stesso, questo mese, o al primo Sorger dell’altro, abbraccerai lo sposo. Ah si cómpia l’augurio! ella soggiunse, E tal pegno d’affetto e tal mercede 375 Da me n’avrai, che ti dovrà ciascuno Che t’incontri per via chiamar beato. Ma ben altro il mio cor, che mai non erra, A me predice: né al suo letto Ulisse Più tornerà, né tu secura scorta 380 Aver potrai, che al tuo ti riconduca; Ché del suo reggitor vedova è questa Casa infelice, di colui che solo Onorar gli stranieri e degnamente Congedar li sapea. Ma voi, donzelle, 385 Lavate i piedi all’ospite, e con manti E vellosi tappeti un colmo letto Gli preparate, ov’ei si corchi e dorma. Indi al primo apparir del novo Sole Entri in un bagno, e d’odoroso ulivo 390 L’ungete, e segga con mio figlio al desco, Di nove e belle vestimenta adorno. Guai, se qualcuno d’insultarlo osasse In questo albergo! ei tosto ne sarìa Da me cacciato. E come, o forestiero, 395 Io sarei delle donne la più saggia, Qual tu mi vanti, se alla nostra mensa [322] Seder cencioso ti lasciassi? I giorni Dell’uom son brevi, e chi pietà non usa S’ode vivo imprecar miserie e pianto, 400 E morto dalle genti è maledetto. Ma di chi manifesta alma cortese Suona dolce il ricordo, e chiaro il nome Per la bocca degli ospiti si spande. O degna sposa del divino Ulisse, 405 Ripiglia allor l’eroe, di molli coltri E velli e manti fin dal giorno appresi A non curarmi, che i nevosi gioghi Di Creta abbandonai con le mie navi. Su duri letti, in povere capanne, 410 Sono avvezzo a giacer, la prima luce Del mattino aspettando, e non mi cale Di lavacri e d’unguenti; né vorrei Ch’or pure alcuna delle tue donzelle Il piede mi toccasse, ove non sia 415 Qualche femmina esperta e d’anni grave E dalle angosce al par di me già doma: Questa sola potrìa lavarmi i piedi. E a lui così di novo la pudica Figlia d’Icario: Mai nel nostro albergo 420 Uom di te più gentile, o più facondo Ed assennato parlator non giunse. Vive qui meco una prudente vecchia, Che dal grembo materno uscito appena Raccolse quel tapino, e con affetto 425 Lo nudrì, l’educò. Questa i tuoi piedi, Benché mal ferma, laverà. Su via, T’affretta, o balia, lava il forestiero D’anni pari al tuo re. Così le mani, I piedi così forse ha l’infelice! 430 Ché presto l’uomo fra gli stenti invecchia. Tacque; e la fida balia, con le palme Coprendosi la faccia e lagrimando, Proruppe in questi dolorosi accenti: Ahi figlio mio, che più fra queste braccia 435 [323] Io stringer non potrò! Certo il Saturnio T’abborre e ti persegue, ancor che tanto Pietoso e giusto. E pur nessun gli offerse Vittime così pingui e numerose, Come tu, supplicandolo che il caro 440 Figlio ti fosse d’allevar concesso, E goder seco placida vecchiezza. Euriclea si rivolse indi ad Ulisse, Così dicendo: Se avverrà che asilo Cerchi il meschino in qualche ricco ostello 445 Di lontano signore, a lui faranno Le fanti insulto, come a te, buon vecchio, Fan queste cagne. E tu che vuoi le offese Evitarne e gli scherni, esser lavato Da lor ricusi; e la regina il carco 450 A me ne diede, ch’io contenta accetto, Per lei non solo, ma per te, che il core A pietà m’hai commosso. Ascolta intanto Ciò ch’io notai. Non pochi pellegrini Giungono d’ogni parte a questa casa; 455 Ma nessun mai che al Laerziade Ulisse Nell’andar, nella voce e nell’aspetto, Al par di te rassomigliasse, io vidi. E lo scaltrito eroe: Ben parli, o donna; Chi ne conobbe afferma che nessuno 460 Al grande Ulisse più di me somiglia. Così dice; e la vecchia apparecchiava Un nitido bacino, ove la fredda Aqua prima versò, poscia la calda. Sedea pensoso il figlio di Laerte 465 Accanto al fuoco, allor che d’improvviso Si ritrasse nell’ombra, sospettando Che l’amorosa vecchia in brancicarlo Gli vedesse un’antica cicatrice, E fosse di scoprirsi indi costretto. 470 Nondimeno al suo re fattasi appresso Per lavargli le piante, ella ben tosto La cicatrice ravvisò, che impressa [324] Gli avea lasciata d’un cinghial la zanna Sui gioghi del Parnaso. E ciò fu quando 475 Egli ancor giovinetto si condusse Ad Autòlico, il caro avo materno, Autòlico, famoso tra le genti Per grande astuzia e ragionar facondo: Doni d’Ermete, a cui le cosce ardea 480 D’agnelli e capre, sì che sempre il Nume Avea propizio. D’Itaca alla spiaggia Venne Autòlico un dì, che nato appena Era un bambino alla sua figlia; e questo Al finir della mensa in sui ginocchi 485 Gli depose Euriclea con tali accenti: Autòlico, tu stesso or dinne il nome Che dar ti piace di tua figlia al figlio, Per cui tanti agli Dei voti facesti. Genero, figlia mia, pronto rispose 490 Autòlico, quel nome a lui darete Ch’io vi dirò. Terribile nel mondo Agli uomini risuona ed alle donne Il nome mio: dunque si chiami Ulisse. E se poi grandicello in sul Parnaso 495 Ei venga al tetto di sua madre, io carco Il manderò di molti e ricchi doni. D’anni cresciuto, mosse lieto Ulisse A prendersi que’ doni; e con giocondo Viso e con dolce favellar l’egregio 500 Autòlico l’accolse in mezzo ai figli; E la vecchia Anfitea, madre a sua madre, Il fanciullo abbracciando, gli coprìa Gli occhi e il capo di baci. Ai giubilanti Suoi figli poscia d’allestir commise 505 Autòlico la mensa; e dalle stalle Essi un pingue adducean bove quinquenne, Che scannato, scuoiato e fatto in brani, Infilzâr negli spiedi, e su le ardenti Brage arrostito con perizia, a tutti 510 Ugualmente il partîr. Così l’intero [325] Giorno, fino all’occaso, a lauto desco Sedean, ciascuno delle apposte dapi Partecipando; e come sparve il Sole E s’oscurò la terra, a dolce sonno 515 S’abbandonâro. Ma non anco in cielo Biancheggiar si vedea la prima luce, Che d’Autòlico i figli e il divo Ulisse Uscîr co’ veltri a caccia, e la silvestre Erta salendo del Parnaso, in breve 520 N’ebber raggiunte le ventose gole. Spuntando il Sole dai marini gorghi, Co’ rugiadosi lucidi suoi strali Le campagne ferìa, quando la turba De’ cacciatori in un’angusta valle 525 Si calò. Precedean l’orme fiutando I cani, e presti li seguìano i figli D’Autòlico, ed Ulisse, che vicino Teneasi ai cani sempre, e nella destra Una lunga scotea ferrata lancia. 530 Stava un grosso cinghiale entro una macchia Appiattato, ove mai raggio di Sole, Né pioggia, né di vento umido soffio Penetrò, così denso era quel bosco: Aride foglie vi coprìan la terra. 535 Quando, al latrar de’ cani ed alle grida De’ garzoni accorrenti, udì la caccia Appropinquarsi, dal riposto covo La cruda belva eruppe; e le tremende Zanne arruotando ed arricciando i peli 540 Dell’ispida cervice, ai cacciatori Piantossi incontro, e con acceso sguardo Stette a mirarli. Con la man robusta Librò la salda lancia, e innanzi a tutti Per atterrarlo si scagliava Ulisse. 545 Lo prevenne il cinghiale, e di traverso Sopra il ginocchio gli ficcò le zanne, Strappandone le carni: ma l’acuto Dente non giunse fino all’osso. Un colpo [326] Gli trasse allor l’intrepido garzone, 550 E a parte a parte gli passò con l’asta L’omero destro. Stramazzava al suolo Il mostro, e l’alma gli fuggìa dal petto. Ma d’Autòlico i figli al prode Ulisse Corsero intorno, gli fasciâr la piaga 555 Destramente, e con magiche parole Stagnato il sangue, alle paterne case Senza indugio il guidâr. Poiché fu salda La ferita, il colmâr d’eletti doni, E alla sua terra il rimandâr contento. 560 In vederlo esultando, i genitori Il chiedean d’ogni cosa, e più che d’altro Di quella piaga; e il caro giovinetto Narrava che, cacciando sul Parnaso Co’ figliuoli dell’avo, il bianco dente 565 Lo ferì d’un cinghiale, ed ei l’uccise. Mentre la vecchia su la nuda coscia Per lavarla facea scorrer le palme, La cicatrice vi scoperse, e il piede Cader lasciò. Sul labbro del bacino 570 Percosse il piede, e il cavo bronzo un cupo Suono mise, e piegossi. e tutta a terra Si sparse l’aqua. Da dolor, da gioia Assalita ad un tempo, la nudrice Empir di pianto si sentì le ciglia 575 E la voce arrestarsi in mezzo al petto. Poi con la mano tremola gli tocca Il mento, e dice: Ah tu sei certo Ulisse! Il figlio mio tu sei! Né, sciagurata! Io ti conobbi prima che t’avessi 580 Fra queste palme. - Tacque; e alla regina Guardava in faccia, quasi dir volesse: Ecco il tuo sposo! Ma, benché presente, Nulla vide Penelope, di nulla Ella s’accòrse, Pallade Minerva 585 Ad altro avendo il suo pensier rivolto. Ratto allor con la destra Ulisse afferra [327] La vecchia per la gola, a sé la tragge Con la manca, e così parla sommesso: Vuoi tu perdermi, o donna? Io sì, nudrito 590 Fui del tuo latte; e dopo ben vent’anni Di dolori e di stenti alfin riveggo Questa mia casa. Ma poiché mi fece A te palese un Dio, bada, o nudrice, Ch’altri nol sappia; perocché ti giuro, 595 Né giuro invano, che se Giove i Proci Mi consente fiaccar, da te neppure Le mani io tratterrò, quando le inique Fanti cadranno dal mio ferro uccise. Gli rispose Euriclea: Che dici, o figlio? 600 Non m’hai tu conosciuta in ogni prova Fida e costante? Io terrò chiuso in core, Come in arca di bronzo, il tuo segreto. Anzi se mai sarà che un Dio la palma Ti conceda sui Proci, io le malvagie 605 Donne ti svelerò, che alla tua casa Fanno vergogna. - Uopo non è, soggiunse L’accorto Ulisse, ch’altri a me le scopra: Scoprirle io stesso ben saprò. Tu solo A tacer pensa, e lascia il resto ai Numi. 610 Sparsa la prima, uscì d’altr’aqua in cerca Sollecita la vecchia; e come Ulisse Fu lavato e di pingue olio cosperso, Di novo s’appressò col seggio al foco Per riscaldarsi, e con la veste ascose 615 La cicatrice. Ma riprende in quella Il suo dir la regina. Un breve indugio Soffri ancora, o stranier. Già l’ora è giunta Ch’ogni mortale in grembo al sonno oblia I suoi dolori; ma conforto o tregua 620 I miei non hanno. Fin che il dì risplende E sui lavori femminili io veglio, Di sospiri mi pasco e di querele; Poi quando annotta, e trova ognun dormendo A suoi mali riposo, anch’io sul letto 625 [328] Le membra adagio; ma l’usate angosce Movono a questo cor guerra crudele, E passo l’ore fino all’Alba insonni. Come allor che di Pandaro la figlia, La gentil Filomela, in primavera, 630 D’un arboscello tra le verdi frondi Snoda in soavi flebili concenti L’instancabile voce, Iti plorando, Iti diletto, che da Zeto, illustre Prence, le nacque, e per error trafisse; 635 Così piangendo io vado, e quinci e quindi Fra discordi pensier m’avvolgo incerta: Né so se il letto maritale e il grido Popolar rispettando, io qui rimanga Presso il figliuol, delle sue fanti a guardia 640 E de’ suoi beni; o se la mano accetti Del miglior fra gli Achivi, e che più ricca Dote mi porga. Finché d’anni imbelle Egli era ed inesperto, abbandonarlo Io non osai, passando ad altre nozze; 645 Ma poiché con l’età gli crebbe il senno, Sdegnoso di veder così dai Proci Dissipati gli averi, uscir m’esorta Del suo tetto egli stesso. Ora un mio sogno Odi, amico, e l’interpreta, se il puoi. 650 Uno stuolo di venti oche io m’allevo Nella corte, che beccansi dal truogo Il biondo grano. Or mentre con diletto Io mi stava a guardarle, ecco una grande Aquila giù calar dalla montagna, 655 Franger a tutte con l’adunco rostro La cervice, per terra una su l’altra Prive di vita riversarle, e l’ali Novamente spiegar verso le nubi. A quella vista, mi parea che il cielo 660 Empissi di lamenti; e a me dintorno Venìan fra tanto le ricciute Achive, Che pianger mi vedean miseramente [329] L’oche mie dal grifagno augel trafitte. Ma l’aquila, tornando, in su lo sporto 665 Si posava del tetto, e con umana Voce queste parole a me volgea: Figlia d’Icarïo, t’assecura: un sogno Questo non è, ma visïon verace, Che pieno effetto sortirà. Gli amanti 670 Riconosci nell’oche; e in me, che forma D’aquila vesto, il tuo fedel marito In sua casa comparso a sterminarli. Tacque, e il sogno svanì; ma poi, guardando Nella vicina corte, io l’oche vidi 675 Come prima beccar dal truogo il grano. Penelope, rispose allor l’eroe, In altra guisa interpretar non lice La portentosa visïon, che Ulisse Già ti spiegava. Niun de’ Proci omai 680 Può sottrarsi al suo fato. - E la regina: Stranier, non sempre mortal senno arriva Il senso occulto a penetrar de’ sogni, Or veri, or falsi; ché son due le porte Degl’instabili sogni, altra di corno, 685 Altra d’avorio. Dall’eburnea porta Sorgon fantasme ingannatrici e vane. Mentre nunzio del vero è sempre il sogno Che da quella di corno invian gli Dei. Ma di qui certo non uscìa lo strano 690 Sogno ch’io m’ebbi. Ah troppa gioia al figlio Ed a me ne verrebbe! Or questo ancora, Amico, io voglio confidarti. È giunto L’infausto giorno che dovrò la casa Lasciar d’Ulisse; ma un cimento avviso 695 Prima agli amanti offrir. Dodici pali Piantar solea l’un dopo l’altro in fila Il mio consorte; su la cima avea Ogni palo un anello, e da lontano Scoccando un dardo, tutti li passava. 700 Propor disegno questa gara ai Prenci: [330] Chi saprà meglio tender l’arco, e tutti Con la saetta trapassar gli anelli, Io costui seguirò, la bella, ricca, Glorïosa magione abbandonando 705 Del magnanimo Ulisse, onde presente Anche nel sonno mi sarà l’imago. O del divino Icario inclita figlia, L’accorto eroe soggiunse, un tal cimento Non differir. Prima che alcun de’ Proci 710 Il lucid’arco a maneggiar s’avvezzi E tutti possa attraversar gli anelli, Metterà nel suo tetto Ulisse il piede. Se col tuo saggio favellar, riprese La casta donna, al fianco mio seduto, 715 Seguir volessi a confortarmi il core, Chiudermi gli occhi non potrebbe il sonno; Ma vegliar sempre a noi non è concesso Immutabili norme in tutte cose Poste ai mortali gl’Immortali avendo 720 Su questa terra. Alla mia stanza io dunque Salgo a corcarmi nel solingo letto, Ch’io di lagrime bagno dall’istante Che verso l’abborrito Ilio i suoi legni Drizzava Ulisse; e tu ti sdraia al suolo, 725 Se così ti talenta, o sovra il letto Che allestir ti farò. - Tacque; e all’eccelso Talamo ascese con le fide ancelle, Ove di pianger non cessò l’amato Sposo, finché la prole alma di Giove 730 Le stillò su le ciglia un dolce sonno. [331] LIBRO VIGESIMO SOMMARIO L’eroe si corica nell’atrio, e osserva le tresche delle ancelle coi Proci. - Chiede a Giove qualche segno propizio, e n’è esaudito. - Parlamento degl’Itacesi. - Temerità del capraio Melanzio. - Accoglienza amorevole del mandriano Filezio al suo re. - Ctesippo scaglia contro ad Ulisse una zampa di bue, ed egli, declinando il capo, se ne schermisce. - Vaticinio di Teoclimeno. - I Proci si fanno beffe di lui e d’Ulisse, ed anche di Telemaco, perché accolga in sua casa ospiti sì fatti. Come fu solo, il Laerziade Ulisse Si coricò nel portico, su greggia Bovina spoglia, ch’ei coperto avea Con altre molte di lanose agnelle Dai rivali sgozzate; e un largo manto 5 Su lui la vecchia Eurìnome distese. Egli così giacea: ma, sempre desto, Fra sé pensava alla vendetta; ed ecco Di qua, di là, scherzando e sghignazzando, Spuntar le ancelle, coi garzoni usate 10 A mischiarsi in amor. D’ira s’accende A quella scena il generoso eroe, E in cor rivolge se, balzando in piedi, Tutte non le trafigga; o se consenta Che coi perfidi Proci anco una volta 15 Pecchino le malvagie. In questo dubbio Si rode Ulisse: e come allor che, scorto [332] Un estranio venir, gira la cagna Intorno ai figli e il pelo arriccia e ringhia, D’azzuffarsi bramosa; a tal sembianza, 20 Mal comportando quelle tresche oscene, Ei di sdegno fremea contro le ancelle. Pur, battendosi il petto, e sé medesmo Rampognando, dicea: Perché in tal guisa T’affanni Ulisse, tu che imperturbato 25 Hai veduto il Ciclope ad uno ad uno Divorarsi nell’antro i tuoi compagni? Tanto allor ti frenasti, che il tuo fino Accorgimento in salvo ti condusse, Benché già quasi di morir securo. 30 Così ragiona il figlio di Laerte, Sedar cercando in petto il cor commosso; E alquanto il core si sedò. Ma come Quinci e quindi taluno una ventresca, Tutta di sangue e d’adipe rigonfia, 35 Volge e rivolge al fuoco, impazïente Di vederla arrostita; in simil modo Or su l’un fianco ed or su l’altro Ulisse Agitato si volta, meditando Come stuol così denso di nemici 40 Ei solo affronti. Ma discese in questa Dal sommo Olimpo, in forma di donzella, La Dea dagli occhi azzurri, e, sul suo capo Librandosi, gli disse: E perché ancora, Infelice, non dormi? E sei pur dentro 45 Alla tua casa, alla tua sposa a canto E al figlio tuo, di cui vorrìa ciascuno Aver l’eguale. - E a lei l’accorto Ulisse: Tu parli il vero, augusta Dea; ma prima Saper m’è d’uopo come solo io possa 50 Misurarmi con tanti. E quando ancora Da te soccorso e dal Saturnio Giove, Io tutti gli uccidessi, ove dall’ira Scamperò de’ parenti? - E rispondea Palla Minerva: Ahi tristo! altri s’affida 55 [333] In un mortale povero di senno; E tu di me, che pur son Diva, e sempre Ti sono al fianco nelle tue sventure, Ne’ tuoi perigli, tu di me diffidi? Orsù, credi al mio dir: se ben cinquanta 60 Bellicose tribù, nell’armi esperte, Ti stesser contro, quando teco io fossi Tu rapir ne potresti i pingui agnelli E i cornigeri buoi. Dormi tu dunque, Dormi tranquillo; ché passar l’intera 65 Notte vegliando è troppo all’uom molesto: Tutti in breve avran fine i tuoi dolori. Così dicendo, Pallade gli chiuse In un sopor dolcissimo le ciglia; Indi ascese all’Olimpo. Or mentre il sonno, 70 Di tutte cure domator, sciogliea Le stanche membra dell’eroe, svegliossi L’innocente sua sposa e, sul deserto Letto seduta, a lagrimar si mise Dirottamente. Alfin la sconsolata 75 A Dïana volgea questa preghiera: Cinzia, figlia di Giove, inclita Diva, Deh! ti supplico, vibra a questo seno Un tuo fulgido strale, che m’uccida; O fa’ che per l’oscuro aere mi levi 80 Un improvviso turbine, e mi slanci Nell’ondoso oceàn, come le figlie Di Pandaro meschine. Ambo i parenti Avean perduto per voler de’ Numi; Ed orfane rimaste, la divina 85 Venere le nudrì di cacio e mele E vin soave, di leggiadre forme E di prudenza le fornì Giunone, Di maestà Dïana, e in tutte guise Di femminei lavori ammaestrolle 90 Palla Minerva. Ma, salita al cielo La Dea di Cipro a domandar le nozze Delle fanciulle al fulminante Iddio, [334] Che tutti de’ mortali o tristi o buoni I destini conosce e nulla ignora, 95 Fûr dalle Arpie rapite, e l’empie Erinni A servir condannate. Ah! me del pari Un qualche Dio rapisca, o mi trafigga Co’ dardi suoi la vergine di Delo, Onde ancor sotto terra il mio diletto 100 Consorte abbracci, né di me s’allegri Altr’uom, che tanto del divino Ulisse Sarìa minore. Misera! ben puossi La sventura soffrir quando, trascorso Fra le lagrime il dì, la notte almeno 105 Il sonno ci conforta, i nostri affanni D’oblìo spargendo. Ma con vani sogni Me turba un Nume; e questa notte ancora Mi parea che lo sposo avessi al fianco, Qual era allor che con l’achiva armata 110 Sciolse da queste spiagge; e il vero Ulisse, Non l’imagine sua, veder credendo, D’immensa gioia mi balzava il core. Sì disse; e cinta di vermiglie rose Comparve in ciel l’Aurora. Udì l’eroe 115 Quel pianto, e sospettò che non l’avesse Penelope scoperto, e gli parea Già mirarsela innanzi. Allor si leva, E preso il manto e l’agnelline pelli In cui giacque la notte, li depone 120 Sovra una sedia, e reca la bovina Pelle in un canto della sala. A Giove Alza quindi le mani, e così prega: Onnipossente Iddio, se dopo tante E per terra e per mar sofferte angosce, 125 Mi guidasti alla patria, or fa’ che un lieto Augurio ascolti da qualcun che veglia, E manifesto io vegga in cielo un segno Che di favor m’affidi. - Ei disse; e tosto Il folgorante di Giunon marito 130 Dalle cime tuonò dell’alto Olimpo; [335] Ed Ulisse gioìa. La voce ei quindi D’una femmina udì, che in un vicino Casolar macinava il grano ai Proci. Dodici donne con assidua cura 135 Frangean sotto alle mole il grano, e l’olio Dalle ulive spremean, fonti di vita E di forza ai mortali. A fin condotta L’opera loro, avean l’altre riposo; Ma costei, che mal ferma era e languente, 140 Compiuta ancora non l’avea. La mola Arrestò di repente, e, schiuso il labbro, Queste mandò profetiche parole: Giove, signor degli uomini e de’ Numi, Tu dall’alto tuonasti, e tutto è sgombro 145 Di nubi il cielo. Per alcun mortale Hai certo oprato un tal prodigio. O sommo Di Saturno figliuolo, il voto appaga D’una meschina: ah! sia l’ultima cena Che imbandiscono i Proci, i crudi Proci. 150 Che m’han consunta di fatica intorno A questa pietra. Ah! no, che mai costoro Io più non vegga qui sedersi al desco. Giubilò novamente il divo Ulisse Del tuono e del presagio, omai securo 155 Che avrìa le ingiurie degli Achei punite. Uscìano in quella dalle stanze interne L’altre fantesche, e senza indugio il fuoco Accendean nella sala. Anch’ei dal letto S’alza pari ad un Dio d’Ulisse il figlio, 160 E le vesti indossate, i bei calzari Si stringe ai piedi, un’affilata spada All’omero sospende, ed una salda Asta d’acuta cuspide brandita, Si ferma su la soglia, e così parla 165 Alla vecchia Euriclea: Cara nudrice, Avete voi di letto il forestiero Provveduto e di cibo? o giacque ei forse Negletto in questa casa? Anco alla madre, [336] Che in tutte cose di prudenza è specchio, 170 Avvien talvolta che il miglior non curi Ed onori il peggior. - Figlio, rispose La buona vecchia, non gravar, ti prego, Quella innocente. L’ospite seduto Bevve a sua voglia, e non toccò l’offerto 175 Cibo, dicendo che già sazio ei n’era. Quando poi l’ora del dormir fu giunta, Tua madre gli facea dalle donzelle Un buon letto apprestar; ma l’infelice, Uso agli stenti, il letto ricusando 180 E le morbide coltri, su distese Pelli agnelline si corcò nell’atrio, E con un manto Eurinome il coperse. Questo udito, il garzon, già tutto ardendo Di presentarsi al pubblico consesso, 185 Con la lancia nel pugno attraversava Il vasto albergo, e lo seguìan due cani Dal piè veloce. La figliuola intanto D’Opi di Pisenòr, saggia Euriclea, Le donzelle chiamando ad alta voce, 190 Affrettatevi, disse: il pavimento Innafin l’une e spazzino la sala E stendano sui seggi i rosei drappi; Altre con le porose umide spugne Forbiscano le mense, e i tondi nappi 195 Sciaquino poscia e le dorate brocche; E rechin altre dal vicino fonte Le fresche linfe. Qui tornar vedremo Oggi pria dell’usato in folla i Proci, Perché giorno di festa e di convito. 200 Tacque, ed esse obbedir. Di venti ancelle Una garrula schiera incamminossi Al vicin fonte; e l’altre agli altri ufici Attendean nell’albergo. Ad uno ad uno Vennero i servi degli alteri Proci, 205 E le legne fendean; venner le ancelle Col cristallino umore; e venne Eumeo [337] Con tre maiali, che i più grossi e belli Eran del gregge, e a pascer li cacciava Nello steccato. Al divo Ulisse ei quindi 210 Così dicea: Straniero, hanno gli amanti A rispettarti appreso, o non ancora Cessano d’insultarti? - E al mandrïano Il pazïente eroe: Piacesse ai Numi Questa gente punir, che s’abbandona 215 Nell’altrui casa ad opre scellerate, E ormai più dramma di pudor non serba! Mentre ad Eumeo così favella Ulisse, Con due pastori entrò nel regio albergo Il capraio Melanzio, a sé dinanzi 220 Spingendo il fiore delle pingui capre Per la mensa de’ Proci. Ei tutte in fila Le legò sotto il portico sonante; Poi si rivolse al Laerziade, e prese In tal modo a schernirlo: O svergognato! 225 E fino a quando ti vedrò qua dentro Pitoccando girar? Perché non esci Di questa casa? Ma ben io m’accorgo Che separarci non potrem, se prima Delle mie pugna non t’ho dato un saggio, 230 O vil paltone. Dunque altrove un desco Non s’imbandisce, che di te sia degno? Non rispose l’eroe; ma la vicina Fiera vendetta meditando, il capo In silenzio crollava. Ultimo giunse 235 Il buon Filezio, delle regie stalle Il custode maggior, guidando ai Proci Una bella giovenca e molte capre, Che in salda barca traghettate avea Gente che solo a questo uficio intende. 240 Quando anch’ei la giovenca ebbe e le capre Nel portico legate, al buon porcaio S’appressa, e, Chi, domanda, è lo straniero Che qui ritrovo? da qual terra ei viene? Da che stirpe discende? Ahi sventurato! 245 [338] Un re sembra all’aspetto; ma talvolta Anche ai re la sciagura invian gli Dei. Quindi all’eroe la man porgendo, Salve, Ospite, disse, e poiché reo destino Su la terra or t’incalza, almen tu sia 250 Più fortunato un dì. Fra quanti Numi Ha l’alto Olimpo, certo il più crudele, Giove, tu se’, perché gli stessi eroi Generati da te lasci agli stenti E al duolo in preda, né pietà ti prende 255 Degl’infelici. Nel mirarti, o vecchio, Un brivido mi colse, e giù dagli occhi Mi cadde il pianto, imaginando Ulisse Mendico, errante, se pur vive ancora E la luce del Sole ancor gli splende. 260 Ma lasso me, se già calato ei fosse Agli alberghi di Pluto! Il primo pelo M’era spuntato su le guance appena, Quando ei mi diede a custodir l’armento Ne’ cefaleni prati; e tanto in breve 265 Moltiplicarsi lo vid’io, che forse Dalle sue cure mai pastor non trasse Più largo frutto. Ma qual pro, s’io deggio Tutto condurlo a sazïar le brame Di questi Proci, che del grande Ulisse 270 Non rispettano il figlio, e senza freno Ne struggono gli averi? A qual partito Io m’attenga non so. Mi dice il core Che mal sarebbe, finché vive il figlio, Di passar con la mandra ad altra gente; 275 Ma ben parmi peggior ch’io qui mi crucci Presso una mandra che non è più sua. E a novello padrone io da gran tempo Già fuggito sarei (tante e sì gravi Sono le angosce che soffrir mi tocca), 280 Se non avessi un raggio ancor di speme Che torni Ulisse, e que’ superbi uccida. Al mandrïan così rispose il saggio [339] Di Laerte figliuol: Poiché né tristo, Né dissennato il tuo parlar ti scopre, 285 Io per gli Dei ti giuro e per la mensa Ospitale a cui seggo, oggi in sua casa Ulisse tornerà, potrai tu stesso Oggi vederlo sterminar gli amanti. E Filezio all’eroe: Voglia il gran Giove 290 Che il presagio si compia. Oh sì, che allora Conosceresti qual darei soccorso Col cuore e con la mano al mio padrone! Il ritorno del re chiedea pur egli, Ai giusti Numi supplicando, Eumeo. 295 Mentre in tal guisa co’ pastori Ulisse Ragionando venìa, fuor della reggia, In segreto raccolti, i Proci iniqui Al suo figliuol tramavano la morte; Ma repente a sinistra in ciel comparve 300 Un’aquila di grandi ali, che avea Fra gli artigli una timida colomba. Anfinomo la vide, e a’ suoi compagni Favellò: Di Telemaco alla morte Più non si pensi omai, ch’è vana impresa; 305 Pensiamo invece a banchettar. - Sì disse; E al suo dire assentìan gli achivi prenci. Poi, la soglia varcata, ognun depose Sui letti o su le scranne il proprio manto, Ed a sgozzar si diêro i pingui agnelli 310 E i maiali e la florida giovenca E le capre. Arrostite ed assaggiate Indi le carni, le venìano in giro Distribuendo, e tutte empìan le brocche Di vermiglio licor. Dispensa i pani 315 Il buon Filezio dai canestri, Eumeo Reca le tazze, nelle tazze i vini Versa Melanzio; e all’apprestate dapi Stendon le mani i Proci. Il caro padre Non oblïava l’Ulisside intanto, 320 E vicino alla soglia accortamente [340] Seder nell’aula il fece ad umil desco Su rozza scranna. Delle carni ei poscia Gli approntò la sua parte, e gli porgea Colma di dolce vino un’aurea coppa, 325 Così dicendo: Qui t’assidi e bevi Insiem co’ Proci; ch’io sarò tuo scudo, Se mai qualcuno d’insultarti ardisca. La reggia è questa del divino Ulisse, E non pubblico albergo; ed io, non altri, 330 Signor ne sono. E voi le mani, o Proci, E la lingua frenate, acciò non sorga Fra noi discordia e sanguinosa lite. A questi accenti mordonsi le labbra Stupefatti gli amanti. Alfin si leva 335 E sclama Antinoo: Deh! soffrite, amici, Il parlar di costui, quantunque altero. Giove il protegge; che altrimenti eterno Silenzio avremmo già da lungo imposto A questo egregio arringator. - Sì dice; 340 Ma non cura il garzon le sue parole. Per la città fra tanto i fidi araldi Conducevano i tori al sacrifizio; E gl’Itacesi nell’ombrosa selva Si raccogliean del saettante Apollo. 345 Sedeano a mensa i baldanzosi Proci, Ed una parte all’altre uguale i servi Ad Ulisse recâr, come suo figlio Avea lor comandato. In questo mezzo, Perché nel petto dell’eroe più sempre 350 l’ira crescesse, Pallade Minerva Non permettea che dagli usati oltraggi Cessassero gli amanti. Era fra loro Un ribaldo, che nome avea Ctesippo, Di Samo abitator. Costui, superbo 355 De’ paterni poderi, ambìa con gli altri D’Ulisse la consorte; e, in piè sorgendo, Uditemi, dicea, prodi compagni: Già la sua parte della mensa il novo [341] Straniero ottenne al par di noi; né giusto 360 Fôra privarne uno stranier qualsia Che giunga in questa casa. E lieto io pure Sarò d’offrirgli un ospital presente, Onde lo porga alla vezzosa ancella Che gli prepara il bagno, o a quel de’ servi 365 Che più gli piaccia del divino Ulisse. Prese, ciò detto, dal vicin tagliere Una bovina zampa, e contro Ulisse La scagliò. Lievemente egli la testa Abbassando schivolla, e ad un amaro 370 Ghigno il labbro schiudea, mentre la zampa Percotea la parete. A quella vista Telemaco gridò: Meglio, o Ctesippo, Meglio per te che lo straniero il colpo Abbia schivato; o certamente in seno 375 Io t’avrei fitto questo ferro, e invece Degli sponsali il genitor t’avrebbe Celebrate l’esequie. Io più fanciullo Non sono, o Proci, e chiaro anch’io discerno Il ben dal male; né di vini e pani 380 Tanto scialaquo e d’agne e di giovenchi, Patir vorrei, se a contrastar con molti Bastassi io solo. Ah! cessino, per dio, Le intollerande offese; e se vi punge Sete di sangue, il sangue mio bevete; 385 Ch’io più tosto morir torrei, che queste Opre indegne mirar, distrutti i beni, E gli ospiti feriti, e svergognate, Le ancelle di mia casa. - Alla pungente Rampogna i Proci ammutolîr; ma ruppe 390 Il silenzio Agelao, così dicendo: A franco ragionar non si risponda Con acerbe parole, e più non sia Chi l’ospite percuota, o faccia insulto Di Telemaco ai servi. A lui ben io 395 Ed a sua madre un provvido consiglio Darò, che grato rïuscir dovrebbe. [342] Finché ognuno credea che a noi tornato Il divo Ulisse un dì sarìa, gl’indugi Eran degni di scusa; e quando ei fosse 400 Alfin comparso, la costanza vostra E la prudenza avrìan lodato i Greci. Ma da che non rimane omai speranza Di più vederlo, tu dovresti, io penso, Alla tua madre consigliar, che scelga 405 Fra gli Achivi un marito, e seco ad altra Magion ne vada; perché allor soltanto A mensa qui potrai seder tranquillo, E tranquillo goder le tue ricchezze. Per Giove e per gli affanni, egli rispose, 410 Del mio buon genitor, che forse è morto, O vive errando in barbaro paese, Io ti giuro, Agelao, che non contrasto Le nozze di mia madre; ed anzi io stesso La conforto a sposar quello de’ Proci 415 Che più doni le rechi e più le piaccia. Ma tolga Dio che con villani accenti Ad uscir di mia casa io la costringa. Disse; e Minerva un riso inestinguibile Destò ne’ Proci, e n’abbuiò la mente. 420 Ma straniera a quel riso era la gioia, E cruente inghiottìan delle sgozzate Ostie le carni, e gonfie le pupille Avean di pianto, ed uno strano in core Presentimento di sventura. Ad essi 425 Vòlto allora il divin Teoclimeno, Ahi miseri! sclamò, qual vi sovrasta Orribil caso? Tenebrosa nube Veggo aggirarsi intorno ai vostri capi; Vi gronda il pianto dalle ciglia; un urlo 430 Mi ferisce l’orecchio; i muri, i palchi Son di sangue bruttati; ombre vaganti Empion la sala e l’atrio, e insiem confuse Sprofondansi nell’Orco; è spenta in cielo Del Sol la vampa, e della terra il volto 435 [343] Una tetra caligine ricopre. Tutti a queste parole in risa oscene Proruppero gli Achei, mentre il figliuolo Di Polibo gridava: Affè, delira Il novello stranier! Su via, qualcuno 440 De’ nostri servi l’accompagni in piazza, Che qua dentro per notte il giorno ei prende. Eurimaco, rispose il buon profeta, Uopo io non ho di guida: ancor mi basta L’occhio e l’orecchio, e salde ho le ginocchia, 445 E chiaro l’intelletto; e per me stesso Esco di questa casa, e a voi mi tolgo, Empi, che solo siete all’onte avvezzi E alle rapine. Ma tremenda io veggo Pender sul vostro capo una sciagura, 450 A cui sottrarvi cerchereste invano. Varcò, ciò detto, le regali soglie, E al buon Pireo n’andò, che in sua magione Cortesemente l’accogliea. Ma i Proci Guardavansi l’un l’altro sogghignando, 455 E, gli ospiti mordendo, all’Ulisside Queste voci drizzâr: Superbo in vero Esser puoi tu, che la tua casa alberghi Ospiti così degni. Uno è un codardo Errante paltonier, sempre di carni 460 Ghiotto e di vini, alle fatiche avverso, E peso inutil della terra; e l’altro Un insensato, che s’è fitto in mente Di spacciar profezie. Vuoi tu l’avviso Che ti diamo accettar? Mandali entrambi 465 Su vecchia nave ai siciliani lidi, E li vendi a colui che più li paga. Ma quel parlar Telemaco non cura, E tacito nel padre intende il guardo, Impazïente ch’ei l’istante accenni 470 Di piombar sui malvagi. Intanto, uscita Della sua stanza, e su la soglia assisa, La pudica regina udìa gli scherni [344] E le ingiurie de’ Proci; ed essi allegri, Con l’ostie che sgozzate aveano in copia, 475 Un lauto celebrar prandio solenne. Ma ben altra la cena esser dovea, Che ai perfidi garzoni apparecchiando Venìan Palla Minerva e il prode Ulisse. [345] LIBRO VIGESIMOPRIMO SOMMARIO Penelope propone ai giovani amanti la prova dell’arco. - Telemaco apparecchia il giuoco, piantando dodici colonnette, ciascuna delle quali aveva sulla cima un anello; quindi, toltosi in mano l’arco tenta di piegarlo, ma non vi riesce. - Ulisse, uscito dall’albergo, si scopre a Filezio ed Eumeo, e palesa loro i suoi disegni. - I Proci, l’un dopo l’altro, si adoperano invano a tender l’arco. - Lo tende agevolmente Ulisse, e al primo colpo di freccia trapassa i dodici anelli. L’alma figlia di Giove alla prudente Figlia d’Icario mise in cor che l’arco Proponesse ai rivali e i ferrei cerchi: Arduo cimento, che dovea di strage Esser principio e di vendetta. Al sommo 5 Dell’albergo salì per lunga scala, E fra le dita morbide prendendo La curva chiave, che un gentil manubrio Avea d’avorio, con le fide ancelle Mosse all’ultima stanza, ove i tesori 10 Giacean d’Ulisse, il ben temprato acciaro E l’oro e il bronzo. Quivi pur rinchiuso Era il grand’arco, e la faretra, piena Di mortiferi strali: egregi doni, Che l’Eurìtide Ifito, ai Numi eguale, 15 Nella magion d’Orsìloco in Messene [346] Presentava ad Ulisse. Avea, d’accordo Con gli altri maggiorenti, il buon Laerte Per lunga via colà mandato il figlio, Imberbe ancor, che al popol di Messene 20 Trecento agnelle coi pastor chiedesse Dagl’itacesi pascoli involati. E il generoso Ifito anch’egli giunto V’era in traccia di dodici cavalle, che coi loro puledri alla mammella 25 Avea perduto, e che gli fûr di morte Indi cagione; perché il grande Alcide, Prole del sommo Giove e d’alte imprese Operator famoso, i santi Numi E la mensa ospitale a cui l’accolse 30 Non rispettando, nel suo stesso albergo Scellerato il trafisse, onde rapirgli Le sue cavalle. Iva di queste in traccia Quando in Ulisse ad incontrar si venne, E ï arco gli donò, che pria portava 35 Il forte Eurito, e ch’ei morendo al figlio Avea lasciato. Il giovane itacese Gli diede in cambïo una tagliente spada E un’asta poderosa, unico pegno Della loro amistà; né più veduti 40 fûr da quel dì sedersi al desco stesso, Perocché in breve per la man d’Alcide Morto cadea l’Eurìtide divino. Quell’arco seco navigando a Troia Ulisse non recò; ma per memoria 45 Dell’amico diletto in appartata Stanza il serbava, e sol gravarne il dorso Godea cacciando su le patrie balze. Poiché quivi pervenne, e pose il piede Su la soglia di quercia, che costrutta 50 Co’ suoi stipiti avea perito fabbro, E levigata, e di lucenti imposte Fornita, la regina dall’anello Liberò la coreggia, entro la toppa [347] Volse la chiave, sollevò le spranghe, 55 E spalancò le combaccianti imposte; E le imposte, sui cardini girando, Metteano un suono, come di giovenca Che di rauco boato empie la valle. Essa allora montò sul palco, dove 60 Giacean nell’odorate arche le vesti, E, la mano stendendo alla caviglia, Ne staccò l’arco, nella sua forbita Guaina involto. Poi su le ginocchia, Sedendo, lo posava, e alfin lo trasse 65 Dalla guaina, e a lagrimar si mise. Come col pianto al suo dolor die’ sfogo, Giù scendea fra gli Achei, l’arco allentato In man tenendo, e gravida di dardi Micidiali la faretra. A tergo 70 Le venìan due fantesche, i tersi anelli, Un tempo usati dall’eroe, portando In un canestro. Giunta alla presenza Degli Achei la bellissima regina, Fra le pudiche fanti il piè sostenne 75 Al limitar dell’aula, e un sottil velo Calando su le gote, il labbro aperse In questi detti: O voi, che nell’assenza Del mio marito la magion n’avete Da lungo tempo invasa, ed aspirando 80 Alla mia mano, senza tema o freno Ne struggete gli averi, udite, o Proci, Le mie parole. Un novo esperimento Io vi propongo. Ecco del grande Ulisse L’arco famoso: chi tra voi quest’arco 85 Meglio tender saprà, chi saprà tutti Questi dodici anelli con la freccia Attraversar, costui sarà mio sposo; E il seguirò, la bella, ricca, illustre Maritale mia casa abbandonando, 90 Che ancor nel sonno mi sarà presente. E così detto, al fido Eumeo commise [348] Di recar l’arco ai Proci e i ferrei cerchi; E in man piangendo Eumeo li tolse, e innanzi Ai Proci li depose. Egli piangea, 95 Piangea Filezio, il buon pastor, mirando L’arco d’Ulisse; sì che, d’ira acceso, Li rampognava con tai detti Antinoo: O gente rozza e stupida, che appena Scerner sapete dalla notte il giorno, 100 Perché col vostro pianto alla regina L’animo contristar, quasi già troppo Del morto sposo non si cruci? Al desco Qui sedete in silenzio, o fuori uscite A lagrimar, lasciando l’arco ai Proci: 105 Dura, difficil prova, che mai forse Nessuno vincerà, perché nessuno Al divo Ulisse di valor s’agguaglia. Io stesso, essendo giovinetto, il vidi Piegar quest’arco, e viva ancor ne serbo 110 La memoria. - Così d’Eupite il figlio; E tuttavolta di piegar confida Il valid’arco, ed infilar gli anelli Con la saetta. Ma gustar primiero Il perfido garzon dovea la punta 115 Degli strali d’Ulisse, a cui recato Avea poc’anzi un tanto oltraggio, e tutti Ad oltraggiarlo stimolato i Proci. Di Telemaco allor la sacra possa Così favella: Ah certo il gran Saturnio 120 Me di senno privò! Benché sì saggia, Dall’albergo d’Ulisse uscir disegna La regina, e seguir novo marito; Ed io rido, insensato! e fra i bicchieri Qui con voi mi sollazzo. E nondimeno, 125 Poiché il cimento è posto, e al vincitore S’offre in premïo una donna, a cui la Grecia, Argo, Pilo, Micene, e questa stessa Itaca nostra e la feconda Epiro L’egual non vanta (ciò che a tutti è noto, 130 [349] Né ch’io la madre esalti or fa mestieri); Lasciamo, orsù, le ciance, e senza indugio Si venga all’opra. Voglio anch’io provarmi A curvarlo quell’arco, onde l’amata Genitrice non passi ad altre nozze, 135 E nel vedovo tetto il proprio figlio Non abbandoni, se nell’arduo gioco Del mio gran padre vincitor sortissi. In questo dir dagli omeri l’acuta Spada levossi ed il mantello, e un lungo 140 Solco tracciando, vi piantava i pali Coi ferrei cerchi su la cima, e a piombo Drizzandoli, col piede intorno intorno Il terren vi calcò. Stupìa ciascuno Al vederlo sì destro in un lavoro 145 Ch’egli mai non conobbe. Indi alla soglia Ritraendosi, l’arco poderoso Si tolse in mano. Per tre volte il nervo A piegarne s’accinse, il grave telo Sprigionar desïando, e gli fallìa 150 Per tre volte la lena. Or come al quarto Cimento ei venne, e certo si tenea Di tender l’arco e trapassar gli anelli, Gli fece con la testa il padre un cenno, E l’ardor ne represse. Eterno Giove! 155 Sclama allora il garzone, o che un imbelle Resterò finché vivo, o troppo io sono D’anni immaturo e a rintuzzar non basto Uom che m’assalga. Ma voi, prenci achivi, Più di me vigorosi, or via, prendete 160 L’arco, e prosegua il gioco. - E, così detto, L’arco il garzone deponendo, al saldo Lucid’uscio l’appoggia, e la saetta All’elegante anello; e torna quindi A seder sul suo scanno. Il labbro in quella 165 Antinoo schiuse, e favellò: Compagni, Facciamo or noi la prova, e si cominci A destra, dove le vermiglie spume [350] Mescon gli araldi. - Piacque il suo consiglio; E Leode s’alzò, germe d’Enope, 170 Prestantissimo vate, che vicino Sempre all’urna sedea. Di tutte colpe Aspro nemico, riprendea gli alteri Suoi compagni Leode, e nelle mani Recandosi il grand’arco, in su la soglia 175 Di curvarlo tentò. Fra le inesperte Molli dita più volte il move e gira; Ma sempre invano, e stanche alfin si sente Cader le braccia. Ond’egli, addolorato, In tai detti proruppe: Altri sel prenda, 180 Ch’io piegarlo non so. Forse la vita A molti Proci costerà quest’arco; E tuttavolta a noi morir fia meglio Che un’impresa lasciar, che tanto in questa Casa già ne trattenne. Ognun desia, 185 Ognuno spera d’impalmar la casta Moglie d’Ulisse; ma poiché provato Avrà l’arco, vedrà che gli è mestieri Andar d’un’altra achiva donna in cerca; Ed ella sposerà chi le presenti 190 Più ricchi doni, e le conceda il fato. Così dicendo, anch’egli al suol depone L’arco e il fulgido strale, indi s’asside. Ma sclamava Antinòo: Qual mai noiosa Stolta parola ti fuggì di bocca, 195 Figlio d’Enope? A che vai tu gridando Che a molti Proci apportator di morte Sarà quest’arco, sol perché tu fosti A curvarlo impotente? Se tua madre T’ha generato a trattar dardi ed archi 200 Così mal destro, ben trattarli, io credo, Altri sapranno più di te valenti. Poi si volse a Melanzio, e, Va’, gli disse, Accendi il fuoco nella sala, e a canto Una panca vi reca ed una pelle, 205 E poi d’adipe un disco, onde si scaldi [351] E s’unga al fuoco e s’ammollisca il nervo, E il proposto cimento alfin si cómpia. Disse; e tosto Melanzio un vivo fuoco Accendea nella sala, ed una panca 210 Messavi innanzi, vi stendea la pelle, E l’adipe recava. Unto e scaldato Il teso nervo, al paragon dell’arco Scesero i Proci; ma il possente arnese Mal si prestava al braccio imbelle. Antinoo 215 Solo e il divino Eurimaco, che tutti Vincean di grado e di valor gli amanti, Ancor quell’arco non avean tentato. Mentre son questi all’ardua prova intenti, Uscìan dal regio albergo il buon porcaio 220 E il fedel mandriano, e li seguìa Il cauto Ulisse. Giunti in su la porta, Così disse l’eroe: Filezio, Eumeo, Degg’io tacermi o favellar? Già troppo Il silenzio mi pesa. A chi serbato 225 Fôra il vostro favore e il braccio vostro, Se ad un tratto apparir vedeste Ulisse? Ad Ulisse od ai Proci? Or via, parlate Liberamente, come il cor vi detta. E a lui Filezio: Fa’ che un Nume il guidi 230 Alle sue case! oh sì, che allor vedresti Per chi fôra il mio braccio e la mia vita! Né pel ritorno del suo re men caldo Era il pregar d’Eumeo. Come la mente Dei due pastori ebbe l’eroe scoperta, 235 Amici, esclama, io stesso, io sono Ulisse, Che dopo lungo esilio e lunghi affanni In Itaca discesi. Io ben m’accorgo Che fra tutti i miei servi a voi soltanto Gradito arrivo: un altro ancor non vidi 240 Che di me punto si curasse. Attenti Ciò dunque udite che per voi disegno, Se a sterminar gli abbominati Achei Giove m’aiuta. Io sposa ad ambedue, [352] Io poderi darò, con bella casa 245 Dalla mia non lontana; e voi gli amici, Voi sarete del mio diletto figlio I compagni, i fratelli. E perché cessi Ogni incertezza, e siavi chiaro a prova Ch’Ulisse io sono, rimirate il segno 250 Che il bianco dente d’un cinghial m’impresse, Quando al Parnaso per cacciar cui figli D’Autòlico salii. - Ciò detto, ei sciolse La veste, e l’ampia cicatrice apparve. Riconosciuto a quel sicuro indizio 255 Il lor signore, i servi inteneriti L’abbracciano piangendo, e il caro capo Ne baciano e le spalle; e alla sua volta Anch’ei le mani lor baciava e il capo. Ed in lagrime forse il dì morente 260 Gli avrìa lasciati, se l’accorto Ulisse Così fra loro non dicea: Su via, Cessiam dal pianto, perché uscendo alcuno Qui non ne colga, e ai Proci lo racconti. Separiamci, ed entriam l’un dopo l’altro. 265 Io vi precedo; ma voi prima orecchio Date all’avviso che vi porgo. I Proci Non soffriranno che il turcasso e l’arco Io prenda; tu però, fedele Eumeo, Entrambi a me li reca, e alle donzelle 270 Comanda poscia di serrar le stanze, E per lamento o per rumor che s’oda, Fuor non escano, e cheta a’ suoi lavori Ciascuna intenda. Tu, Filezio, chiudi La porta della casa a chiavistello, 275 E con ritorte e sbarre l’assecura. Entrò, ciò detto, nell’albergo Ulisse, Ed a seder si pose in su la scranna Onde s’era levato; i due pastori Indi a poco v’entrâr. L’arco fra tanto 280 Eurimaco si piglia, e fra le dita Lo gira e lo rigira e scalda al fuoco; [353] Né piegarlo per questo gli succede. Freme il garzon magnanimo e sospira, Misero me! miseri noi! gridando. 285 Né tanto delle nozze omai perdute Io m’addoloro (di leggiadre donne Tutta essendo l’ondosa Itaca e tutta La Grecia piena), sì perché quest’arco Maneggiar non potendo, manifesto 290 Si farà quanto al paragon d’Ulisse Noi siamo imbelli, e alle future genti Passerà svergognato il nostro nome. No, t’inganni, risponde il generoso Figliuol d’Eupite: sacro è questo giorno 295 Ad Apollo, e scagliar dardi non lice. Cessi dunque la prova, e colà ritti Lasciamo i pali; ché a rapirli alcuno Non entrerà nella magion d’Ulisse. Si versi intanto il dolce vino, e pace 300 Abbiano gli archi. Alla novella Aurora Con le capre migliori, che dai campi A noi Melanzio guiderà, faremo Un sacrificio al saettante Apollo, E poscia a fine condurrem la prova. 305 Plausero i Proci al suo consiglio; e data L’aqua alle mani, e coronati i nappi, Li portâro augurando a tutti in giro I banditori. Poiché al biondo Apollo Ebbe ciascun libato, il divo Ulisse, 310 Che sempre in cor volgea novelle insidie Contra i giovani Achei, così favella: O voi, della regina illustri amanti, Tutti, prego, m’udite, e innanzi agli altri Tu che sì ben parlasti, egregio Antinoo, 315 E tu, figliuol di Polibo famoso. Cessate dal cimento oggi, e de’ Numi Obbedite al voler: cui più gli aggrada Domani Apollo donerà la palma. Intanto l’arco a me porgete, ond’io 320 [354] Vegga se un resto del vigore antico In me si trova, o se la vita errante Ed ozïosa tutto già lo spense. A queste voci s’infiammâr di sdegno I baldi amanti, per timor che l’arco 325 L’ospite non tendesse; e prese Antinoo A sgridarlo in tal guisa: Ahi sciagurato! Hai tu smarrito il senno? E non ti basta Seder con noi tranquillo a lauta mensa, E tutto udire che da noi si dice, 330 Grazia che ancor goduto alcun non ebbe De’ pari tuoi? Ma te per certo offese Il fervido lïeo, che tracannato Senza misura ad altri assai pur nocque. Nocque al Centauro Eurizïon, che giunto 335 Fra i possenti Lapiti, e molte avendo Colme tazze vuotate, a repentino Furor trascorse, e del suo stesso amico Marzïal Piritòo nella magione Nefande opre commise; onde crucciati 340 Il cacciâr della sala, e orecchie e naso Gli mozzâro i Lapiti, e fra i Lapiti E i Centauri s’accese orrenda guerra. Ma del vin tracannato ei primo il folle Eurizïon portò la pena. E sorte 345 Egual te pure, o sconsigliato, attende, Se l’arco toccherai. Né fia per ciance Che il popol nostro in tuo favor si levi; E noi su negra nave al diro Echeto Ti spedirem, flagello delle genti, 350 Dalle cui mani salvo alcun non torna. T’accheta dunque, e bevi, né desìo Di gareggiar co’ prenci achei ti punga. Ma la regina il riprendea, dicendo: Giusto non parmi, né gentil colui 355 Che nella casa del figliuol d’Ulisse Così gli ospiti oltraggia. Ove, nell’arte E nella forza lo stranier fidando, [355] L’arco tendesse, credi tu ch’ei voglia Farmi sua sposa e al suo tetto condurmi? 360 Alle mie nozze ei certo non aspira, Né voi mesti seder dovete a mensa Per sua cagione. - Alcun di noi, regina, Creder non può, che voglia il forestiero Esserti sposo, Eurimaco soggiunse. 365 Ma degli uomini al pari e delle donne Noi lo spregio temiamo, e il più codardo Della plebe dirìa: Giovani imbelli D’un gran guerriero ambiscono la moglie, E tender non ne sanno il valid’arco, 370 Mentre un vecchio accattone, un vagabondo Agevolmente il tese, e tutti quanti Passò gli anelli. Sì direbbe; e il nostro Nome per sempre ne sarìa scornato. E Penelope: Indarno fra la gente 375 Nome onorato conservar presume Chi d’un famoso eroe senza ritegno Strugge i beni e la casa ne contrista. Perché cercar nell’opre di costui L’infamia vostra? Grande ed aïtante 380 Della persona è lo straniero, e chiara Vanta la stirpe. S’abbia l’arco ei dunque, E vediam ciò che valga. Ove lo pieghi E la vittoria gli consenta Apollo, Io d’un vago mantello e d’una vaga 385 Tunica il fornirò; d’un terso brando A doppio taglio e d’un’acuta lancia Il fornirò, per rintuzzar le offese Degli uomini e de’ cani, e poi con saldi Calzari ai piedi su veloce nave 390 L’invïerò dovunque andar gli piaccia. A lei così Telemaco rispose: Il dar quell’arco o il recusarlo, solo A me s’aspetta; né verun de’ Proci, Sia d’Itaca, sia d’Elide, feconda 395 D’equine razze, l’arco mi potrìa [356] Dalle mani strappar, se allo straniero Darlo io volessi. Tu ritorna, o madre, Alle tue stanze, e quivi all’ago intendi, Alla spola, al pennecchio, e delle ancelle 400 Veglia su l’opre; e agli uomini la cura Lascia dell’arco, e a me che qui comando. Egli sì disse; e attonita partìa La casta donna, del figliuol pensando Alle sagge parole. Ma salita 405 Con le pudiche ancelle alle sue stanze, Al pianto abbandonossi, e il caro sposo Più volte a nome chiamando e gemendo, Chiuse alfin le pupille in dolce sonno. Si tolse l’arco intanto il fido Eumeo, 410 E il recava ad Ulisse; ma i rivali Con acerbi rimbrotti e con minacce Gl’intronavan le orecchie; e, Dove porti, Esclamava taluno, o vil bifolco, Dove porti quell’arco? Se propizi 415 Ne saranno il gran Giove e il santo Apollo, Io t’assecuro che verrai fra poco Nudo presso i maiali divorato Dai cani stessi di tua man pasciuti. Alla fiera minaccia sbigottito, 420 L’arco al suolo ripose il mandrïano; Ma levossi repente, e corrucciato Telemaco gridò: Mal s’obbedisce Al comando di tutti. Olà, riprendi, Eumeo, quell’arco, se non vuoi che a sassi 425 Io ti scacci di qua; perché, quantunque D’anni minore, son di te più forte. Così de’ Proci il fossi ancor, che alcuno Già snidato n’avrei da queste mura, E avrìa dal tanto insolentir cessato. 230 Scoppiava a quel rabbuffo un lungo riso Fra i prenci achei, che n’allentò lo sdegno Contro il figlio d’Ulisse. Il lucid’arco Allor riprende il mandriano, e il porge [357] Al suo signore; e poi di là si leva. 435 E la fedel nudrice a sé chiamando, Le favella così: Saggia Euriclea, Tutte serrar Telemaco t’ingiunge Le porte delle stanze; e per lamento O per rumor che s’oda in questa casa, 440 Fuor non escan le ancelle, ed il lavoro Segua ciascuna che per man si tiene. A questo dir, sollecita la vecchia L’un dopo l’altro delle interne stanze Gli usci chiudea. La sala abbandonando, 445 Anch’ei Filezio s’affrettò la porta A serrar dell’albergo, e con la fune D’egizia nave, che giacea nell’atrio, N’assecurò le imposte. Indi, tornato Alla sua scranna, ferme le pupille 450 In Ulisse tenea. Tutto era questi All’arco intento, e con maestra mano Or quinci or quindi lo volgea, spïando Se nell’assenza sua corrose i tarli N’avessero le corna; onde al vicino 455 Così dicea taluno in suon di scherno: Affè, che costui parmi un arcaiolo! Se badi come volge e palpa e squadra Il grand’arco d’Ulisse, giureresti Ch’uno egual fabbricarne si propone 460 Quel vagabondo. - Possa ogni sua voglia Il ribaldo appagar, soggiunse un altro, Come avverrà che il valid’arco ei pieghi! Ma d’ogni parte il suo possente arnese Guarda ed esplora Ulisse; e in quella guisa 465 Ch’esperto vate, d’un’eburnea cetra Il bischero girando, agevolmente Le minugie flessibili ne stira; Non altrimenti il figlio di Laerte Tratta il grand’arco. Con la destra mano 470 Afferra e tende il nervo, e questo manda Un fischio acuto, simile allo strido [356] Di vaga rondinella. Un’improvvisa Doglia trafigge il cor de’ Proci, e a tutti Imbiancano le gote. Il sommo Giove 475 Tuona dall’alto; e a quel propizio segno Esultando l’eroe, si reca in mano Un aligero stral, che su la mensa Nudo mirò: la concava faretra Gli altri chiudea, che de’ superbi Proci 480 Indi a poco gustar doveano il sangue. Pose lo stral su l’arco, e il duro nervo Alla cocca adattò; s’assise ei poscia, Prese la mira e trasse e sibilando Partì lo strale, e tutti in un baleno 485 Attraversò gli anelli. Allor l’eroe Vòlto al figliuol, Telemaco, gli disse, Non disonora la tua casa, il vedi, Questo accattone: io facilmente il duro Arco ho piegato, né fallii la mira. 490 Dunque un imbelle non son io, né merto Villanìa dagli Achei. Ma il dì già langue, E l’ora è giunta d’allestir la cena, E sposar della cetra al dolce suono Gentil canzone che il banchetto allegri. 495 Ciò detto, Ulisse fe’ degli occhi un cenno A Telemaco; ed ei, l’asta impugnata E tutto di lucenti armi coperto, Accanto al prode genitor si mise. [359] LIBRO VIGESIMOSECONDO SOMMARIO Ulisse comincia la sua vendetta col trafiggere Antinoo. - Eurimaco, avendo tentato invano di placarlo, eccita i compagni a combattere, e viene anch’egli trafitto dall’eroe. - Ucciso Anfinomo, Telemaco va ratto in cerca di nuove armi per continuare la zuffa. - Eumeo e Filezio atterrano Melanzio, e lo sospendono legato ad una trave. - Minerva infonde coraggio ad Ulisse, e coll’egida spaventa i Proci. - La pugna si fa sempre più viva. - Tutti i Proci restano uccisi, tranne il poeta Femio e l’araldo Medonte, risparmiati per intercessione di Telemaco. - Castigo e morte delle ancelle colpevoli, e strazio di Melanzio. - Ulisse con fuoco e zolfo purifica la casa; quindi comanda ad Euriclea di chiamare le ancelle innocenti, le quali si affollano intorno al lor signore con segni di grande allegrezza. I cenci si spogliò, su la marmorea Soglia balzò l’accorto eroe con l’arco E la faretra tutta piena; e quivi Piantato si versava innanzi ai piedi Le saette, sclamando: È terminata 5 Omai dell’arco la difficil prova. Altra mira or si prenda, ove nessuno Finor percosse: vedrò s’io la colgo, E la vittoria mi concede Apollo. Così dicendo, Ulisse un dardo acuto 10 Contro Antinoo vibrò. Bella, dorata Coppa a due branche, e di licor vermiglio Colma, alle labbra s’accostava Antinoo, Né in lui di morte pur cadea pensiero. [360] E chi creduto avrìa che in mezzo a tanti, 15 Seduti al desco, un solo, ancor che forte, Di trafiggerlo osasse? Il rio quadrello Penetrò nella strozza, ed alla nuca Dirittamente rïuscì. Chinossi Il garzone a sinistra, uscir di mano 20 La coppa si lasciò, di nero sangue Gli sgorgò dalle nari un largo rio, E stramazzando rovesciò la mensa; Sì che a terra n’andâr bruttati e sparsi I pani e le vivande. Un gran tumulto 25 Subitamente si levò fra i Proci, Visto Antinoo cader. Sorse ciascuno Dal proprio seggio esterrefatto, e gli occhi Alle mura volgea dell’arme in cerca, Ma più né lancia vi pendea né scudo; 30 Onde crucciati, al figlio di Laerte Gridavano: Stranier, così tu lanci Contro noi le saette, e il più famoso Colpisci degli Achei? L’ultima questa Sarà delle tue prove: ai corvi in preda 35 Noi la tua salma gitterem fra poco. Questo diceangli i Proci, ancor pensando Che avesse Antinoo per error trafitto; Né gli stolti sapean che il dì fatale Era a tutti già sorto. Ma l’eroe, 40 Terribili gli sguardi in lor fissando, Così parlava: Più da Troia, o cani, Non credevate ch’io tornar dovessi: E intanto consumarmi le sostanze E stuprarmi le ancelle vi piacea, 45 E la mia sposa vagheggiar, me vivo; Né mai timore degli Dei vi prese O de’ mortali. Or tutti, o scellerati, Scontar le colpe vi farò col sangue. A tali accenti si fêr bianchi in viso 50 I baldi Proci, e cupidi gli sguardi Di qua, di là drizzavano, cercando [361] Un qualche scampo. Solo in quel trambusto A lui rispose Eurimaco: Se Ulisse Veramente se’ tu, fra noi tornato, 55 Delle molte in tua casa e ne’ tuoi campi Opere ingiuste dagli Achei commesse A ragion ti lamenti. Ma costui, Antinoo, prima d’ogni mal cagione, Morto qui giace. Il tristo insidie ai giorni 60 Di Telemaco ordìa, più che le nozze Della tua sposa, conseguir lo scettro D’Itaca desïando. Ma il gran Giove Del reo disegno gli troncò le fila, E per tua man lo spense. Or via, ti placa, 65 E a noi perdona. De’ rapiti armenti E dell’urne vuotate a far siam pronti Pubblica ammenda; e venti bovi e copia D’oro e di bronzo ti darem ciascuno, Finché il giusto tuo sdegno alfin s’ammorzi, 70 Ed alla gioia ti si schiuda il core. Lo guatò bieco Ulisse, e in queste fiere Parole uscì: No, quando ancor qui tutti I paterni tesori a me recaste, E quanti mai possiate altronde addurne, 75 Non deporrò quest’arco, se pagato Pria non m’avete d’ogni colpa il fio. O fuggire o pugnar: più non vi resta Altro partito; ma ben tutti, io credo, Voi qui sarete da’ miei strali uccisi. 80 All’orrenda minaccia il cor gli amanti Sentìan mancarsi e le ginocchia, e il figlio Di Polibo gridava: Amici, indarno Speriam che starsi neghittoso ei voglia. Or che l’arco ha impugnato e la faretra, 85 Scaglierà contro noi le sue quadrella Finché tutti ne spenga. Alla tenzone Dunque si pensi: snudi ognun la spada, Faccia ognun d’una mensa ai dardi scudo, E stretti insieme ad affrontarlo andiamo. 90 [362] Se possiam dalla soglia allontanarlo, Noi correremo la città, levando Il popolo a rumore; e allor cessato Avrà costui di saettar gli Achivi. Disse: e brandendo un’affilata spada 95 A doppio taglio, con terribil urlo A lui s’avventa; ed ecco Ulisse un telo Dall’arco liberar, che al petto il coglie Sotto la poppa, e l’epate gli passa. Sfuggir si lascia Eurimaco la spada, 100 E aggrappatosi al desco, roteando Cade, e tazze rovescia e vini e carni E doloroso il volto al suol percuote. Ivi giacendo e co’ piedi springando, Urta la scranna, e chiude al giorno i lumi. 105 Veloce intanto dall’opposto lato Col ferro in pugno Anfinomo si spicca, Per cacciar dalla soglia il divo Ulisse. Ma il prevenne Telemaco, che l’asta Gli ficcò tra le spalle, e fuor del petto 110 Uscir la fece. Cade, alzando un grido, Il garzone, e al terren batte la fronte. S’arretra allor Telemaco, nel corpo D’Anfinomo la lancia abbandonando, Perché teme che, mentre a sprigionarla 115 Dalla piaga s’indugia, alcun de’ Proci L’assalga non veduto, e con la spada Il fianco gli trafigga. Ei quindi al padre Accostossi, e parlò: Padre, due lancie Ed un elmo ferrato ed uno scudo 120 Recar ti voglio, ed indossarmi io stesso Armi novelle, ed anche ai due pastori Altre fornirne; ché di bene armarci Or fa mestieri. - Vanne dunque, e torna, Gli rispose l’eroe, prima ch’io tutti 125 Abbia i dardi lanciati, e inerme e solo Me dalla soglia caccino gli Achei. Così dice; e il garzon corre alla stanza [363] Ove l’armi eran chiuse, ed otto lancie Prendendo e quattro scudi e quattro elmetti 130 Di folte ornati equine chiome, al caro Genitor fa ritorno. Armossi ei primo, Armaronsi i pastori, e tutti in punto Metteansi ai fianchi del divino Ulisse. Finché di strali fu l’eroe provvisto, 135 Non cessò d’avventarli, e l’un su l’altro Morti i Proci cadean. Ma poiché strali Ei più non ebbe, l’arco alla parete Appoggiando, su l’omero si gitta Una rotella a quattro doppi, un sodo 140 Elmo al capo s’adatta, a cui sul cono Equina cresta orribilmente ondeggia, E due ferrate lancie in man si toglie. Era ad un lato della sala un uscio Chiuso da forti sbarre, che mettea 145 Su pubblico sentiero; e il saggio figlio Di Laerte a guardarlo il buon porcaio V’appostò. Se n’avvide, e a’ suoi compagni Si rivolse Agelao con questi accenti: E perché non potrìa da quella porta 150 Uscir qualcuno, e sollevar gridando In nostro aiuto la città? Costui L’ultimo strale avrebbe allor vibrato. Vana impresa, Agelao, sclamò Melanzio, Delle capre il pastor; troppo ad Ulisse 155 Quella porta è vicina e troppo angusta, Sì che a cento potrebbe un sol gagliardo Contrastarne l’uscita. Io l’armi invece Vi porterò dalle superne stanze; Ché quivi, non altrove, Ulisse e il figlio 160 Le deposero, io credo. - In questo dire Ascende ratto per la scala all’alte Stanze, e dodici scudi ed altrettante Aste ed elmi criniti indi ne reca A’ prenci achei. Poiché l’eroe li vide 165 Indossar l’armi e palleggiar le lancie, [364] Sentì mancarsi le ginocchia e il core, E a Telemaco disse: Ah certo alcuna Delle ancelle, o Melanzio, ha noi tradito! Padre, rispose il giovinetto, io solo 170 Ho peccato, non altri, io che la porta Non chiusi della stanza; e qualcheduno Del mio fallo s’accòrse, e n’ha levato Quell’armi per gli amanti. Ah! corri, Eumeo, Chiudi la stanza, e di saper procura 175 Se una qualche fantesca, e se il capraio, Come io sospetto, danno ai Proci aiuto. Mentre ei così ragiona, ecco Melanzio Salir di novo a prender l’armi. Il vide Il guardian de’ porci, e al suo signore 180 Fattosi accanto, favellò: Divino Di Laerte figliuolo, alle superne Stanze ritorna il reo Melanzio. Or dimmi: Vuoi che l’uccida se a domarlo io giungo, O che qui lo conduca, e a te dinanzi 185 Paghi il fio di sue colpe? - E a lui l’eroe: Io col figliuolo basterò de’ Proci, Benché valenti, a sostener l’assalto; Tu segui con Filezio il traditore, E gittandolo a terra, e mani e piedi 190 Legandogli, alle travi il sospendete, E pria che muoia fiero strazio ei soffra. Pronti i servi obbedìan. Su per la scala Mossero entrambi taciti, e dall’ampia Stanza nel fondo videro il capraio 195 Che l’arme vi cercava; e quinci e quindi Dietro le imposte si celâr, fin ch’egli Non uscì su la soglia, in una mano Tenendo un elmo di gentil fattura, E nell’altra un antico, arrugginito, 200 Enorme scudo, che l’eroe Laerte Portar solea ne’ suoi verd’anni, ed era Screpolato, scucito e senza cinghie. L’afferrano in quel punto i due pastori, [365] Lo trascinano indietro, e resupino 205 Lo stramazzano al suolo. Ivi, seguendo D’Ulisse il cenno, a lui, che di paura Tutto tremava, saldamente i piedi Prima legâr, poscia le mani al tergo, E alla cima traendolo d’un’alta 210 Colonna, lo sospesero alle travi. Ciò fatto, Eumeo con questi detti il punge: O Melanzio, lassù tranquillamente Riposar ti potrai, qual si conviene Ad un tuo pari, e contemplar l’Aurora 215 Sorger dall’onde sul dorato soglio, Come far ti piacea quando le capre Guidavi al desco de’ voraci amanti. Disse, ed ivi il lasciâr nelle crudeli Sue ritorte sospeso; ed indossate 220 L’armi, e chiusa la porta, per la scala Scesero in fretta, e baldanzosi al fianco Si posero d’Ulisse. E così quattro Guerrier, dell’armi accinti, in su la soglia Stavansi della sala, e dentro un forte 225 Di giovani drappello. Allor Minerva, Alma figlia di Giove, il volto assunto Di Mentore e la voce, all’improvviso Calò fra le due parti. A quella vista Immensa gioia folgorò negli occhi 230 Dell’eroe, che proruppe: Ah! tu m’assisti, O buon Mentorre, e del tuo fido amico Ti rimembra, che d’anni a te conforme Tanto un giorno t’amò. - Così favella, Pur conoscendo ch’era in lui nascosta 235 Minerva degli eroi confortatrice. Ma la venìano i Proci minacciando, E fra gli altri Agelao Damastoride Alto gridava: Ah non t’induca Ulisse A pugnar contra noi! perché se morto, 240 Come n’ho speme, ei qui cadrà col figlio, Tu pure con la vita espïerai [366] Il tradimento, e i molti e ricchi averi, Che in Itaca possiedi e in altre terre, Tutti con quelli di costui fra loro 245 Divideransi i Proci, e lunge in bando Cacceranno i tuoi figli e la tua sposa. D’ira s’accende a quel parlar la Diva, E il figliuol di Laerte rampognando, Certo, Ulisse, dicea, tu più non sei: 250 Io più la possa, più l’ardir non veggo Che ne’ troiani campi un dì mostrasti Per la figlia di Giove combattendo, Elena bella, dalle bianche braccia. Orrenda strage tu colà facevi 255 Delle schiere nemiche, e per te solo Espugnata fu Troia; ed or che giunto In Itaca, la tua casa difendi E la tua donna, offeso avrai di tanta Viltade il core? Orsù, statti al mio fianco, 260 E vedrai quale nell’acerba lotta Render mercé de’ benefizi antichi Mentore ti saprà. - Tacque, ciò detto; Ma dell’inclito Ulisse e di suo figlio Provar volendo la virtù, Minerva 265 Per poco ancor fra loro incerta e i Proci La vittoria lasciò: quindi, mutata In rondinella, il volo ad una trave Diresse, e quivi ad osservar la pugna Stavasi. Intanto a rincorar gli amici 270 Prendea Demoptolemo ed Agelao Ed Eurìnomo, e Polibo prendea E Pisandro figliuol di Politorre E Anfimedonte. Fra i rimasti i primi Eran costor di forza e di coraggio, 275 E per la vita combattean: dall’aste E dal frequente saettar d’Ulisse Eran molti già domi. A tutti in mezzo Così parla Agelao: Compagni, in breve Sarà la lena di costui fiaccata: 280 [367] Dopo il suo vano millantar già sparve Mentore, e solo coi pastori e il figlio Su la soglia il lasciò. Dunque all’assalto; Ma non tutti scagliate ad una volta Le poderose lancie: i sei di fronte 285 Le scaglino da prima. Ove il Saturnio Di dar morte ad Ulisse ne consenta, Degli altri io non mi curo. - A quella voce Obbedïenti, sei frassinee lancie I compagni gittâr; ma su la soglia 290 Cadde languida l’una, alle pareti Percosser l’altre ed alla porta; e tutti Mandò la glauca Dea que’ colpi a vuoto. A Telemaco allor si volse e ai fidi Mandrïani l’eroe, così dicendo: 295 Poiché non paghi alle passate offese, Anche del nostro sangue avidi sono Questi Proci, su via, le nostre lancie Contro loro avventiam. - Disse; e ad un tempo Quattro lancie volar. Quella d’Ulisse 300 Ferì Demoptolemo, Euriade quella Del suo prode figliuol; ferì Pisandro La lancia di Filezio, Elato quella Del guardïan de’ porci; e con un grido Al suol cadendo, ognun mordea la polve. 305 Si ritrassero gli altri in fondo all’ampia Sala, ed Ulisse e il figlio e i mandrïani Correan dai corpi esangui le confitte Lancie a sferrar. Di novo intanto i Proci A fulminar si diêro; e pur di novo 310 Alla soglia, alla porta o alla muraglia Svïò Minerva i colpi; e solo il carpo Della mano a Telemaco scalfìa d’Anfimedonte il ferro, e la rotella Ad Eumeo rasentando, lievemente 315 La spalla gli solcò quel di Ctesippo, Che trascorrendo nel terren ficcossi. Ma non indarno l’aste un’altra volta [368] Vibrano questi. Ulisse Euridamante, D’Ulisse il figlio Anfimedonte, Eumeo 320 Polibo uccide; e di Ctesippo in petto Pianta l’asta Filezio, e così dice: O malvagio di risse eccitatore, Stolto Politerside, ah! cedi ai Numi, Assai di te più forti, e questo dono 325 Prendi in mercé della bovina zampa, Che poc’anzi lanciasti al tuo signore Mendicante in sua casa. - Or mentre ei parla, Scaglia Ulisse da lunge un’asta acuta Di Damastore al figlio, e lo trafigge; 330 E Telemaco anch’esso il ferro appunta Di Leocrito all’epa, e fuor lo passa Da parte a parte: prono ei cade, e a terra Batte la fronte. Allor la Dea di genti Sterminatrice discoprì dall’alto 335 La funesta ai mortali Egida orrenda. Agghiacciâr di paura a quella vista I tracotanti Proci, e bianchi in viso, Di qua, di là fuggivano tremando Per la gran sala; qual ne’ giorni estivi 340 Fugge un branco di bovi, a cui nel fianco Il suo pungolo infitto abbia l’assillo. Ma come uno sparvier dal curvo artiglio Cala dal monte sui minori augelli, Che trepidanti levansi dal piano 345 Verso le nubi, ed egli d’inseguirli Mai non si stanca, e or questo, or quel ghermisce, E gli spenna e gli uccide, al buon colono Spettacolo giocondo; in simil guisa Va d’ogni parte l’itacense eroe 350 I garzoni cacciando, e di percosse Teste suonava e di gemiti e strida La spazïosa vòlta, e il pavimento Negro sangue correa. Leode in questa Appressandosi al figlio di Laerte 355 Le ginocchia gli stringe, e così prega: [369] Miserere di me, divino Ulisse, Che mai non feci alla tua donna oltraggio Con atti o con parole, ed anzi gli altri A frenar m’adoprai; ma, sciagurati! 360 Non m’obbedîro, e tutti ora la cruda Parca li coglie. Ed io, vate innocente, Sarò con essi qui confuso e morto? È questo il premio alla virtù serbato? Con fronte dispettosa il guata, e sclama 365 Il Laerziade eroe: Se fra gli amanti Nella mia casa profetar ti piacque, Tu per fermo agli Dei sovente hai chiesto Ch’io più non ritornassi, e che di figli A te fosse Penelope feconda: 370 Dunque tu pur morrai. - Dal suol, ciò detto, Raccolse il ferro, che Agelao cadendo Avea gittato, e a lui, che ancor parlava, Trasse un fendente su la nuca, e il capo Rotolar nella polvere gli fece. 375 Ma di Terpio il figliuol, Femio, che al desco Suo malgrado cantar solea de’ Proci, Schivò la morte. Con la fida cetra S’era all’angusta porta egli ritratto, E in due pensier divisa avea la mente: 380 Se fuori uscendo della sala, asilo Cercasse all’ara tutelar di Giove, Dove Laerte e di Laerte il figlio Eran usi bruciar le pingui cosce Delle vittime al Nume; o se all’eroe 385 Presentar si dovesse, e i suoi ginocchi Supplicando abbracciar. Dei due s’attenne All’ultimo consiglio; e pria deposta La cetra al suolo, fra un lucente seggio E una grand’urna, corse le ginocchia 390 Ad abbracciar d’Ulisse, e singhiozzando Proferì questi detti: Ah porgi, Ulisse, Porgi pietoso alle mie preci orecchio! Ti risparmia il dolor, che un dì n’avresti [370] Un cantore uccidendo a tutti caro 395 I mortali e gli Dei. Maestro al canto Altro io non ebbi che me stesso, e un Dio Leggiadre istorie sempre al cor m’inspira; Onde te pure io canterei, siccome Un Celeste si canta. Ah tu perdona 400 Dunque a miei giorni! Dal tuo caro figlio Saper potrai, che per desìo di plauso, O per bisogno, non son io venuto A cantar fra gli Achei, ma che dai molti Giovani e baldi fui qui tratto a forza. 405 Così pregava il gentil vate; e il saggio Telemaco l’udendo, O padre, esclama, Guàrdati dal ferir quell’infelice! Anche Medonte banditor si salvi, Il buon Medonte, che di me fanciullo 410 Tanta cura si prese; ove già spento Ei non sia da’ pastori o da te stesso. L’udì Medonte che, a schivar la morte, Sotto una scranna s’era accovacciato, E ricoperto della fresca pelle 415 D’una giovenca. Ratto in piè si leva, E la pelle da sé lontan gittando, A Telemaco vola, e le ginocchia Gli stringe, e così prega: Eccomi, o caro, Eccomi a’ piedi tuoi; deh! tu m’aita, 420 E chiedi al padre, che in punir gli Achivi Di tante colpe in sua magion commesse, Me pure non uccida. - A questi detti Sorride, e così prende umanamente A confortarlo Ulisse: Or via, fa’ core, 425 Ch’egli già ti salvò, perché tu vegga E dica agli altri come più del vizio Giovi all’uom la virtù. Ma tu, Medonte, E tu, buon Femio, uscite ad aspettarmi Fin ch’io non abbia l’opra mia compiuta. 430 Uscîro, a quel parlar, l’araldo e il vate, E su l’ara s’assisero di Giove, [371] Girando intorno gli occhi sospettosi, Perché non anco si tenean securi Da quella strage. Ulisse per la sala 435 Spïava intanto se qualcun de’ Proci Sfuggito avesse la ria Parca; e tutti Nell’atro sangue e nella polve stesi Li mirò. Come i pesci, che dal mare Fuor trasse con la rete il pescatore, 440 Dagli infocati rai del Sol colpiti Boccheggiano sul lido, della salsa Onda bramosi; così l’un su l’altro Nella sala gacean gli estinti Proci. Al figliuol si rivolse allor l’eroe, 445 E gli disse: Telemaco, mi chiama La nudrice Euriclea, parlarle io deggio. Al cenno dell’eroe corse alla stanza Della nudrice il buon garzone, e l’uscio Picchiandone, dicea: Vieni, o nudrice, 450 Delle fanti custode; a sé ti chiama Il padre mio, che favellar ti vuole. L’uscio aperse la vecchia, e discendendo Con Telemaco, in mezzo ai morti Proci Tutto di sangue e polvere coperto 455 l’eroe trovò. Come leon feroce Che, avendo una giovenca divorato, Mostra ancor le mascelle e il vasto petto Sozzi di sangue, e dalle fosche ciglia Spira terror; così le mani e i piedi 460 Avea lordi e cruenti il divo Ulisse. Visto ch’ebbe quel sangue e quelle salme, La vecchierella s’accorgea che l’opra Era compiuta, ed a gridar si diede In segno d’allegrezza; ma l’eroe 465 La contenne, dicendo: In tuo segreto Godi, se il vuoi, ma non alzar la voce, Ché sui morti esultar non è permesso. I lor delitti e i giusti Dei gli han tratti A questa fine. Iniqui! che a nessuno, 470 [372] O nostrale si fosse o forestiero, Avean rispetto. Or tu mi noma, o vecchia, Le fanti che mi furono fedeli, E quelle che infamato han la mia casa. Gli rispose Euriclea: Diletto figlio, 475 Schietto il ver ti dirò. Son nella reggia Ben cinquanta fantesche, e a tutte io stessa Appresi un tempo a scardassar le lane, A lavorarle, a tollerar tranquille La servitude. Dodici fra queste 480 Hanno dal petto ogni pudor cacciato, Né curansi di me, né della tua Pudica sposa; perché sol da poco È Telemaco uscito di fanciullo, E la madre finor non gli consente 485 Che comandi alle ancelle. Or dimmi, Ulisse: Vuoi tu ch’io salga alle tue stanze, e svegli Penelope dal sonno, in cui sopita La tiene un Nume? - Non ancor, riprende Il saggio Ulisse: prima di svegliarla 490 Vanne a chiamar le femmine impudiche, E qui tutte le aduna a me dinanzi. Così favella; e mentre la nudrice Corre alle donne, ed a calar le affretta, Egli, il figliuolo a sé chiamando e i fidi 495 Pastori, disse: Via di qua portate Gli uccisi Proci; vi saranno all’opra Compagne le serventi. Indi con l’aqua E con le spugne cavernose i deschi Lavate e i seggi, finché tutta in sesto 500 Ritorni e al primo suo splendor la sala. Fatto ciò, conducete le malvagie Fra la torre e il recinto del cortile, E con la punta delle vostre spade Le trafiggete; e così lor di mente 505 Esca il turpe desìo, che nella cieca Notte a mischiarsi le traea co’ Proci. Ei più non disse; ed ecco insiem ristrette [373] Venir le ree fantesche, alto gemendo E lagrimando. Deponean le grame 510 Nel portico le salme, ed a vicenda Porgeansi aiuto, mentre inesorato Ulisse le spronava al duro uficio, Che compìan repugnanti; i deschi poscia E i bei sedili ripulìan con l’aqua 515 E con le spugne. Con le rastie il suolo Spazzavano fra tanto e con le scope Telemaco E i pastori; e le fantesche Raccogliean le sozzure, ed all’aperto Le venìan trasportando. Or poiché tutta 520 Ebbero la gran sala ripulita, Fra la torre e il recinto del cortile fûr tratte le meschine, ove alla fuga Era chiusa ogni via. Ma qui proruppe D’Ulisse il figlio: No, di morte onesta 525 Non morranno costor, che di vergogna Me coprîro e mia madre, e che la notte Dormian co’ Proci. - Così detto appena, Da marmorea colonna, onde pendea, Stese la fune d’una vecchia nave, 530 Ed allo sporto dell’opposta torre Alto così l’assecurò, che il suolo Toccar non vi potessero co’ piedi Le colpevoli fanti. E come tordi, O timide colombe, ad ali aperte 535 Entrando in una macchia, urtan col petto Nelle reti, e vi restano sospese Miseramente l’una all’altra a canto; Così quelle infelici, a dura morte Condannate, pendean coi capi in fila, 540 E con un laccio ognuna al collo avvolto: Guizzâr co’ piedi, ma guizzâr per poco. Poi Melanzio per l’atrio e per la corte I mandrïani strascinando, il naso Gli mozzâro e l’orecchie; i genitali 545 Gli strappâr quindi per gittarli ai cani, [374] E i piedi gli recisero e le braccia. Com’ebber la crudele opra compiuta, Si lavâr nella chiara onda, e ritorno Fecero entrambi al Laerziade Ulisse. 550 In questo mentre, ad Euriclea rivolto, Così disse l’eroe: Nudrice, fuoco Mi reca e zolfo, fugator di morbi, Ond’io purghi la casa; e fa’ che venga Qui Penelope tosto, e a me dinanzi 555 Tutte conduci le pudiche ancelle. Gli rispose Euriclea: Ben parli, o figlio; Ma non vuoi tu che un manto ed una veste Ti rechi io prima? In questi cenci avvolto Parmi indegno di te mostrarti ad esse 560 Sotto il tuo tetto. - Prima fuoco e zolfo, Riprese impazïente il divo Ulisse. A quel comando accese brage e zolfo Gli recò la nudrice; ed egli in fretta L’aula, il portico e l’atrio e tutta quanta 565 La magion vaporò. Corre la buona Figlia d’Opi fra tanto, apportatrice Del lieto annunzio, alle pudiche ancelle, E a calar le conforta alla presenza Del lor signore. Scendon esse, armate 570 Di faci ardenti, e salutando Ulisse, Gli si stringono intorno, e chi le spalle, Chi gli bacia la fronte, e chi gli stende Le braccia al collo, e chi per man lo piglia. Lesse nel core a quelle donne il saggio 575 Di Laerte figliuolo, e un dolce il prese Di sospiri e di lagrime desìo. [375] LIBRO VIGESIMOTERZO SOMMARIO Euriclea sveglia Penelope, e le annuncia che Ulisse è tornato, ed ha ucciso i Proci. - Ella non presta fede alle sue parole, e attribuendo ad un Dio l’uccisione dei Proci, non vuol riconoscere Ulisse. - Questi ordina che si danzi e si faccia rumore nella casa, per meglio nascondere ai cittadini la morte dei Proci. - Entra in un bagno, e Minerva gli restituisce le naturali sembianze, né ancora Penelope si decide a riconoscerlo; ma Ulisse finalmente vince ogni suo dubbio, a lei palesando la forma singolare del proprïo letto - Commozione e tenerezza dei due sposi, che si narrano a vicenda la storia delle passate sciagure. - Allo spuntar dell’Alba Ulisse e Telemaco escono dalla città coi due mandriani, e Minerva li circonda di nebbia per impedire che sieno veduti. Ma gongolando al talamo segreto Salìa la buona vecchia, annunziatrice Del ritorno d’Ulisse alla regina. Più non trema il ginocchio, e balza il piede Invigorito, sì che lesta il marmo 5 Della soglia varcando, a lei s’appressa, E così grida: Sorgi, o mia diletta, Sorgi, e scendi a mirar chi tu sospiri Da tanto tempo. È giunto alfine, è giunto Ulisse, il tuo consorte, e i Proci iniqui, 10 che gli aveano la casa contristata, E distrutti gli averi, e al caro figlio Rapir volean la vita, ei tutti uccise. Ma dicea la regina: Oh mia nudrice! Certo gli Dei, che a lor talento or fanno 15 [376] Del saggio un folle, ed or del folle un saggio, Ti travolsero il senno, e l’intelletto Offesero, che intero ognor serbasti. Perché vuoi tu di questa desolata Prenderti gioco, e dal mio dolce sonno 20 Vieni a destarmi? Mai, dal dì che Ulisse Al funesto Ilïon drizzò le vele, Mai sì placido sonno io non gustai. Lasciami dunque, e torna a’ tuoi lavori: S’altra donzella fosse qui venuta 25 A destarmi, narrandomi tal fola, Io subito l’avrei da me cacciata Con duri modi; ma il canuto crine In te scusar mi giova. - Ah! no, soggiunse Prontamente Euriclea, no, di te gioco 30 Io non mi prendo, amata figlia: Ulisse Il tuo sposo è tornato, e già si trova In questa casa. L’ospite, che tanto Fu dai Proci deriso ed oltraggiato, È tuo marito. Ben n’avea contezza 35 Telemaco; ma chiusi in cor tenea I disegni del padre, onde secura Compir sui tristi la fatal vendetta. Gioisce la regina a questi accenti, E dal letto balzando e lagrimando, 40 Si stringe al sen la vecchia, e così parla: Dimmi, o buona Euriclea: se veramente È tornato l’eroe, come ha potuto Solo affrontar di giovani gagliardi Sì grossa schiera? - Io dir nol so, rispose 45 D’Opi la figlia, perché nulla io vidi; Ma de’ trafitti i gemiti e le strida L’orecchio mi ferìan, mentre nel fondo D’una stanza io sedea con l’altre donne Atterrite. Comparve alfin, mandato 50 Dal padre suo, Telemaco a chiamarmi; Ed io trovai, scendendo, Ulisse in mezzo Agli esanimi Achei, che l’un su l’altro [377] Giacean, tutto ingombrando il pavimento. Come avresti goduto in rimirarlo, 55 Qual chiomato leon, ritto fra quelle Salme, di polve e nero sangue asperso! Ora stanno gli uccisi accumulati Sotto al portico; ed egli, acceso il fuoco, Va purgando la casa, ed a chiamarti 60 Qui m’invïò. Seguimi dunque, o figlia, Onde a vicenda, dopo tanti affanni, Confortar vi possiate, ed alla gioia Schiudere il core. Omai l’ansia è cessata Del tuo lungo aspettar: vivo è l’eroe, 65 Vivo e in sua casa, con la sposa e il figlio, Ed ha punito i baldanzosi amanti. Deh non gioir così, cara nudrice! La saggia donna replicò. Tu sai Come a tutti gradito, e a me su gli altri 70 E al figlio nostro, il suo tornar sarìa. Ma ciò che tu racconti, ohimè! dal vero Troppo discorda. Un Nume, un qualche Nume Fu che trafisse i prenci achei, di tante Scelleraggini offeso. Empi! che tutti 75 Oltraggiavano gli ospiti, malvagi Fossero od innocenti; e la mertata Pena li colse. Ma in lontana terra È perito il mio sposo, e più non torna. Oh che vai tu dicendo, o figlia mia? 80 L’altra sclamò. Quaggiù, vicino al fuoco, È tuo marito, e vuoi che già sia morto? Ostinata ben sei! Ma persuasa Questo, sì, ti farà: la cicatrice Della ferita, che gli aperse il dente 85 D’un cinghial sul Parnaso in una coscia, Io scoprii nel lavarlo, e fin d’allora Palesato l’avrei; ma con la destra Ei di repente m’afferrò la gola, E a tacer mi forzò. Su via, mi segui, 90 E se trovi ch’io menta, io ti concedo [378] Che di ria morte tu morir mi faccia. E Penelope a lei: Benché scaltrita, Mal tu sapresti penetrar l’ascosa Mente de’ Numi. Tuttavia n’andiamo 95 Al figliuolo, e veggiam gli estinti Proci E colui che gli uccise. - In questo dire Dal talamo scendea, fra sé pensando Se il forestiero interrogar da lunge, O se corrergli incontro ella dovesse, 100 E la mano stringendogli, baciarne La fronte e gli occhi. La marmorea soglia Così varca Penelope, e s’asside Ad un lato del vasto focolare, Di rimpetto ad Ulisse; ed ei col tergo 105 Ad uno degli stipiti appoggiato, E le pupille ferme al suolo, attende Ch’essa gli parli. Ma la donna, immota E taciturna, solo a quando a quando Lo guarda in volto; e se talor lo sembra 110 Raffigurarlo, incerta e sospettosa Poi la rende il vestir lacero e sozzo Che lo ricopre. Allor con questi detti Telemaco la sgrida: O snaturata Genitrice, perché non t’avvicini 115 Al padre mio? perché non gli favelli, E non siedi al suo fianco? In questo modo Dunque una donna il suo marito accoglie? Un marito che alfin, dopo sì lunghi Anni vissuti nel dolor, ritorna 120 Al proprio tetto? Affè, che più d’un sasso Hai duro il core! - E la regina: Oh figlio! Così compresa di stupor son io, Che una domanda, una parola io cerco Drizzargli invano, e quasi pur non oso 125 Mirarlo in faccia. Ma, se Ulisse è questi Che dinanzi mi siede, agevolmente Conoscerlo saprò per un segnale Solo a noi due palese, agli altri occulto. [379] Ride Ulisse, e a Telemaco rivolto, 130 Lascia, gli dice, che provar mi possa A suo talento: svaniran fra poco I suoi sospetti. Perché avvolto in questi Laceri panni e squallido mi vede, Essa a vile mi tiene, e suo consorte 135 Confessarmi non sa. Ma giovi, o figlio, Qui pigliar senza indugio alcun partito. Fugge talor chi solo un uom trafisse, Da pochi imbelli vindici compianto; E noi d’Itaca il fiore, i più prestanti 140 De’ suoi garzoni abbiamo ucciso. Or dimmi Dunque, o figliuolo, ciò che far convenga. Ch’io porga a te consigli, amato padre? Telemaco rispose, a te cui diêro Senno ed astuzia più che ad altri i Numi? 145 Bensì dovunque tu mi chiami, pronto A seguirti m’avrai, né dalla pugna Io cesserò finché il vigor mi basti. Riprese il divo Ulisse: Ecco il partito Che mi sembra il miglior. Con limpid’aqua 150 Tosto si lavi ognun di noi, s’indossi Vesti novelle, indossino le fanti Belle candide gonne; e il plettro arguto Si prenda Femio, ed apra una gioconda Danza col suono, acciò chi presso alberga 155 A questa casa, o per la via passeggia, N’oda i lieti concenti, e creda il giorno Venuto delle nozze. Così, prima Che sia la strage degli Achei palese Agl’Itacensi, noi saremo in salvo 160 Ai campi usciti; ed ivi poi l’avviso Seguir potrem, che dar ne piaccia ai Numi. A questi accenti, i mandrïani e il figlio Si lavâro, indossâr vesti novelle, S’abbigliâr le fantesche; indi con dotta 165 Mano scorrendo su la cetra, il vate Una subita brama in tutti accese [380] D’udirne il canto e darsi al ballo. Ed ecco Tutto echeggiar lo spazïoso albergo Al calpestìo degli uomini danzanti 170 E delle donne, di purpurei cinti Adorne il fianco; sì che alcun, passando, Certo, dicea, Penelope si scelse Oggi uno sposo. Ahi trista! che non seppe Dell’uom, cui s’era vergine congiunta, 175 La bella casa custodir. - Restava Così de’ Proci lo sterminio ascoso. In questo mezzo Eurìnome, la saggia Dispensiera, lavò nel bagno Ulisse, E d’olio l’unse, e lo vestì di vaga 180 Tunica e vago manto. Un vivo raggio Brillar gli fece di beltà sul viso L’alma figlia di Giove, e più leggiadra Gli rese la persona e maestosa, E il folto crine, al fiore somigliante 185 Del vermiglio giacinto, inanellato Su gli omeri gli sparse. E come industre Artefice, da Palla e da Vulcano In tutte guise di lavori istrutto, L’oro mesce all’argento, una gentile 190 Opra a fin conducendo; in egual modo Tutto di grazia e di beltà l’avea Pallade circondato, ed ei dal bagno Uscìa pari ad un Nume. Allor di novo A Penelope in faccia egli s’assise 195 Sul proprio scanno, e favellò: Regina, Femina su la terra io non conobbi Di te più cruda e più superba. E quale, Qual altra mai sì freddamente accolto Lo sposo avrìa, che dopo dieci e dieci 200 Anni di stenti fosse a lei tornato? Ma tu, buona Euriclea, prepara un letto Ov’io riposi, poiché un cor di ferro Chiude in seno costei. - Mirabil uomo, Sclamò d’Icario la prudente figlia, 205 [381] Né superba son io, né te disprezzo, Né lo stupor m’accieca; e ben rammento Qual era Ulisse quando con gli Achivi Salpò dal nostro lido. Orsù, nudrice, Fuor della stanza maritale il letto 210 Porta, ch’ei stesso un dì costrusse, e velli Sopra vi spiega e manti e belle coltri. Con questi detti far volea d’Ulisse L’ultima prova. Ma crucciato sorse, E rispose l’eroe: Vana parola 215 T’uscì di bocca, o donna. E come il letto Levar potrìa dal talamo la vecchia? Un uomo ancor, fortissimo quantunque, Senza l’aiuto d’un Celeste indarno Smoverlo tenterìa; perocché strano 220 Congegno ei chiude, noto a me soltanto. A me che il feci, e che verun non ebbi Compagno all’opra. Bello e rigoglioso Era un ulivo nel cortil cresciuto, Che dense avea le frondi e ritto il tronco 225 A guisa di colonna. Intorno intorno Vi disegnai la marital mia stanza; Le pareti n’alzai, vi posi il tetto, E con solide imposte ne difesi L’entrata. De’ suoi rami indi spogliando 230 L’odorifera pianta, ch’io recisa Avea dal ceppo, tutta la piallai, E drizzandola a squadra, il nostro letto Poscia ne feci. Il letto col trivello Io forai, saldamente al grosso ceppo 235 L’unii con chiodi, lo pulii, con arte Ne intarsïai d’argento e d’oro e bianco Avorio i lati, e alfin d’una vermiglia Bovina pelle tutto il ricopersi. Io tale il letto marital lasciai 240 Partendo; ma se ancora esso vi resti, O se, di là sferrandolo, qualcuno L’abbia altrove portato, io, donna, ignoro. [382] Qui tacque; ed ella, che il suo dir conobbe Al ver conforme, pallida, tremante, 245 Gli mosse incontro, gli gittò le braccia Intorno al collo, e lagrimando il viso E gli occhi gli baciò. Quindi proruppe: Deh! non volerti adirar meco, Ulisse, Tu che sempre di senno e di prudenza 250 Fosti agli altri maestro. Alla sventura Ci condannava il fato, a cui non piacque Che godessimo l’uno all’altro uniti La cara gioventù, finché raggiunti N’avesse la vecchiezza. Ah! mi perdona 255 Se al tuo primo apparir corsa non sono Ad abbracciarti. Io tutta abbrividìa Sospettando che un qualche avventuriero Non m’ingannasse; perocché la frode E la malizia cova a molti in core. 260 Così la figlia del Saturnio Giove, Elena, si mescea con lo straniero, E il letto ne salìa, non conoscendo Che l’avrebbero un giorno alle paterne Mura di novo i prodi Achei condotta; 265 Né l’opra vergognosa ella per certo Avrìa compiuta, se un perverso Nume Non le impedìa di scernere la colpa, Che fu di tante angosce a noi cagione. Ma tu del nostro letto rivelasti 270 Il segreto, a noi due solo palese, E alla fantesca Attòride, venuta Meco il dì delle nozze, e che tenea Del talamo la chiave; ed ogni dubbio Dell’incredulo cor così vincesti. 275 A questi detti un gran desìo di pianto Si destò nell’eroe, mentre la casta Sua donna al petto si stringea. Ma come Grato il lido apparir suole ai nocchieri, Cui d’improvviso il grande Enosigeo 280 Ruppe la salda nave, orribilmente [383] Dalla bufera combattuta, e pochi, Di marina salsedine coperti, Nuotando, a stento afferrano la spiaggia; Così gioìa Penelope mirando 285 Il diletto consorte, e non sapea Dal suo collo staccar le bianche braccia. E forse ancora in pianto la novella Alba còlti gli avrìa, se ad impedirlo Non calava Minerva. In sul confine 290 Del suo corso la Dea fermò la Notte, E trattenendo ne’ marini gorghi La figlia del mattino, non permise Che i veloci destrier Lampo e Fetonte Giugnesse all’aureo cocchio, della luce 295 Ai mortali e ai Celesti apportatore. A Penelope alfin parlava Ulisse In cotal guisa: Non pensar che ancora Di nostre pene il termine sia giunto: Nova, ingrata, difficile fatica 300 A sostener mi resta. Così l’ombra Mi dicea di Tiresia, allorché a Pluto Con pochi amici a consultarlo io scesi Sul mio ritorno. Ma n’andiamo, o sposa, Al nostro antico letto, ove ristoro 305 Ai lunghi affanni troverem nel sonno. E la regina: Poiché a questo albergo Ti ricondusse la pietà de’ Numi, Pronto fia sempre ad un tuo cenno il letto. Ma pria mi svela a quali prove ancora 310 Il destino ti serba; e s’io pur debbo Un dì saperlo, fa’ che tosto il sappia. Infelice, perché, risponde Ulisse, Mi costringi a parlar? Ma, poiché il brami, Io lo farò, quantunque il tuo gioirne 315 Più che il mio cor non debba. Il buon Tiresia Vagar m’impose d’una in altra terra, Su gli omeri portando un agil remo, Finché a lontano popolo non giunga, [384] Che di sal non condisce le vivande, 320 Che non conosce il mar, che mai non vide Nave dai rostri porporini, o remi Che l’ali sono delle navi. E quando Un uom che incontri per la via ti dica Che porti su le spalle un ventilabro, 325 Allor, soggiunse il vate, al suol configgi Il remo, e colà tosto un arïete, Un porco e un toro uccidi al gran Nettuno; E, in Itaca tornato, ostie solenni Offri a tutti per ordine gli eterni 330 Abitatori del sereno Olimpo. Ivi da tarda e placida vecchiezza Omai consunto, nell’ostel natìo Ti coglierà la Parca, in mezzo a genti Che rese avrai felici. Ecco la sorte 335 Che l’ombra di Tiresia a me predisse. Se tal vecchiezza, replicò la donna, Ti prometton gli Dei, sgombra dal petto Ogni tristo pensiero, e ti conforta. Eurìnome fra tanto ed Euriclea 340 Venìano, al lume delle faci, il letto Con velli e con tappeti apparecchiando. Quindi uscîr frettolose della stanza; E a dormir ritirossi la nudrice, Mentre, tenendo accesa face in mano, 345 L’altra gli sposi al talamo guidava. Giunta alla soglia, Eurìnome die’ volta, Ed essi ritornâr bramosi ai riti Del letto antico. L’Ulisside in questa Avea ritratto dalla danza il piede, 350 E di danzar cessato anco le ancelle Avendo e i servi, tutti per l’oscuro Albergo al sonno abbandonâr le membra. Poiché goduto i maritali amplessi Ebber gli sposi, a ragionar si diêro; 355 E raccontò Penelope qual grave Doglia provasse nel mirar la turba [385] Degli Achei che alle sue nozze aspirando, Facean macello di montoni e capre E pingui bovi, e del miglior lïeo 360 Vuotavan l’urne. E il Laerziade Ulisse Quanto altrui fe’ soffrire, e quanto ei stesso Nel lungo suo vagar sofferto avea, Narrò distesamente; e con diletto La saggia donna ad ascoltar lo stava, 365 Né mai palpebra chiuse, fin ch’ei tutta La storia non compì di sue vicende. Ei narrò che domato avea da prima I Ciconi; che il fertile paese Visitò de’ Lotofagi; che al crudo 370 Polifemo scontar fece la pena D’avergli nello speco divorato I cari amici. Disse che all’albergo D’Eolo giungendo, quel buon re l’avea Cortesemente accolto e congedato; 375 E in vista poscia d’Itaca venuto, Ancor dal fato a lui contesa, in mezzo Al mar di novo lo respinse il vento. Disse che de’ feroci Lestrigoni Alla terra discese, in cui perduto 380 Avea tanti compagni e tante navi, Ed egli a stento con un legno e pochi De’ suoi campò. L’astute arti e gl’inganni Disse di Circe, che il mandò lo spirto Del buon Tiresia a consultar ne’ regni 385 Tenebrosi di Pluto, ove gli estinti Amici ei vide, e la diletta madre, Che del suo latte lo nudrì. Soggiunse Che il canto lusinghiero udito avea Delle Sirene, e le vaganti roccie 390 Schivato, e Scilla, e l’orrida Cariddi Ai nocchieri funesta. Indi ricorda I buoi del Sole, dai compagni uccisi, E la tremenda folgore, che Giove Scagliò tonando dalle nubi, e tutti 395 [386] Li sprofondò nel mare. A morte ei solo Sfugge, e cala nuotando alla remota Isola Ogigia, ove la Dea Calipso L’accoglie ne’ suoi spechi, e lungamente A forza lo trattiene, e desïando 400 Averlo a sposo, gli dicea che seco Giovane sempre ed immortal vivrebbe; Né il cor per questo gli domò Calipso. Alfin di novo al mar si affida, e sceso Nella fertile Scheria, i Feacesi 405 L’onorano qual Nume, e prezïose Vesti gli offrono in dono e bronzo ed oro, E con prodi nocchier su presta nave L’invìan contento alle paterne spiagge. Come l’inclito Ulisse il suo racconto 415 Ebbe così compiuto, un dolce sonno Di tutte cure alleggiator lo prese. Ma Minerva, la Dea dagli occhi azzurri, Poiché le parve che abbastanza avesse I maritali abbracciamenti e il dolce 420 Sonno Ulisse goduto, uscir facea Dal fosco mar la figlia del mattino, Perché spandesse dal suo trono d’oro Sui Celesti la luce e sui mortali. Dal suo morbido letto allor sorgendo, 425 Così parlava Ulisse: Oh mia consorte! Ben dolorose prove abbiamo entrambi Finor durate: tu, meschina, invano Pregando ch’io tornassi, ed io per l’odio D’avverso Nume invano desïando 430 Di far ritorno. Ma poiché di novo Il fido letto coniugal n’accolse, Il governo avrai tu di questa casa; Ed agli armenti, che i superbi Proci M’han divorato, io supplirò co’ doni 435 De’ generosi Achivi, o con le prede Che farò sui nemici, in fin che piene Tutte ancor come pria n’avrem le stalle. [387] Io vado ai campi ad abbracciar mio padre, A consolarlo; e tu, benché sì saggia, 440 Ascolta un mio consiglio. In breve il grido Si spargerà, ch’io misi a morte i Proci: Sali tu dunque con le fide ancelle Alle tue stanze, ed ivi ti rinchiudi, Sì che alcun non ti vegga e non ti parli. 445 Così dicendo, il Laerziade un’asta Si tolse ed una spada, e a prender l’armi Inanimava i due pastori e il figlio; Ed essi, al suo comando, le guerriere Armi brandite, schiusero la porta 450 E ratto uscîro, dall’eroe precessi. Già rischiarata il Sole avea la terra; Ma di nebbia li cinse, ed agli aperti Campi la Diva in securtà gli addusse. [388] LIBRO VIGESIMOQUARTO SOMMARIO Mercurio guida le anime dei Proci all’Inferno, ove Agamennone racconta ad Achille gli onori funebri, che gli avea renduti l’oste greca, e la propria misera fine. - Loro incontro con le anime dei Proci. - Ulisse, giunto ai campi con Telemaco e i due pastori, trova il padre che sta lavorando nell’orto. - Dopo averlo tenuto alcun tempo sospeso, chiedendogli del figlio, a lui si palesa, e gli narra l’uccisione dei Proci. - Eupite, padre di Antinoo, leva a rumore il popolo, e, non ostante l’opposizione di Medonte e di Aliterse, lo conduce ai campi tumultuando, per vendicare in Ulisse la loro morte. - L’eroe move co’ suoi pochi ad affrontare i sediziosi. - Laerte uccide Eupite. - Mentre Ulisse e Telemaco fanno strage de’ nemici, Giove con un fulmine segna il termine del combattimento. - Minerva, sotto la figura di Mentore, ristabilisce fra le due parti la pace e l’amicizia. Fra tanto avea Mercurio a sé dintorno L’alme de’ Proci radunate, in pugno Tenendo l’aurea verga, onde su gli occhi De’ mortali a talento or chiama il sonno, Or ne lo fuga. Con la verga il Nume 5 Quell’ombre conducea. Come uno stormo Di vipistrelli, che all’oscura vòlta Aggrappansi d’un antro insiem ristretti, Se alcun ne casca, gli altri in un baleno Di qua, di là svolazzano stridendo; 10 Così stridendo il messaggier celeste Per le squallide vie seguono i vani Simulacri de’ Proci. Avean del negro Oceano varcate le correnti, E di Leucade il sasso e le dorate 15 Porte del Sole e il popolo de’ sogni Attraversato, quando ai piani erbosi [389] Arrivâr, dove stanza hanno de’ morti I vagolanti spettri. Ed eran quivi Gli spettri del Pelide e di Patròclo, 20 Ivi quelli di Antìloco e d’Aiace, Per gran corpo ammirando e per gran core Sovra tutti gli Achei, dopo il Pelide. Facean gli altri corona al glorïoso Di Tetide figliuolo, allor che, in vista 25 Tutto dolente, s’appressò lo spettro Del re de’ regi Agamennón, co’ prodi Ch’avea nel proprio albergo Egisto uccisi. Primo in questo parlar sciolse la lingua Il divo Achille: Agamennón, su tutti 30 Gli achivi eroi ciascuno ti credea Caro a Giove del fulmine signore, Perché a tante imperavi elette schiere Sotto l’alto Ilïon, trista sorgente De’ nostri affanni. E te pur dunque ha còlto 35 L’invida Parca, che a null’uom perdona, Giunto appena in tua casa? Oh perché morto Non sei tu prima su le teucre sponde? Un gran sepolcro i bellicosi Achivi T’avrìano alzato, e chiaro fra le genti 40 Col tuo n’andrebbe di tuo figlio il nome; Ma vollero gli Dei che tu di morte Miserrima perissi. - Oh! te felice, Gli rispose l’Atride, invitto Achille, Cui davanti alle sacre iliache mura 45 Morir fu dato; e poscia a te dintorno I Troiani e gli Achei per la tua salma Combattendo cadean. Gran corpo in grande Spazio disteso, fra la polve e il sangue Tu del cocchio dimentico giacevi; 50 E noi fra tanto in dura mischia avvolti Pugnavam fino a sera. E ancor cessata Col dì non fôra la cruenta zuffa, Se Giove una procella suscitando I guerrier non partìa. Ma poiché tratto 55 [390] Fosti dal campo al lido, e la tua spoglia Con tepid’onda fu lavata e sparsa Di grati unguenti, sul funereo letto Noi ti posammo; e i figli degli Achei, Forte piangendo, si radean le chiome. 60 All’annunzio crudel tua madre accorse Con le sue Ninfe dai marini gorghi; E da lunge mettean sì strane grida Ed ululati che, da tema còlte, Già le turbe fuggìan precipitose 65 Verso le navi, quando il buon Nestorre, Di cui provvido sempre era l’avviso, Argivi, Achei, fermatevi, proruppe: Questa è la Dea, che dai marini flutti Accorre con le Ninfe al morto figlio. 70 A tali accenti subito la fuga Delle turbe arrestossi, e le figliuole S’appressar di Nereo, che in un celeste Manto il tuo corpo ravvolgean, facendo D’alte querele risuonar la spiaggia. 75 Venner le nove Muse, ed a vicenda I lor concenti ripeteano in coro; E n’era sì lugùbre la canzone, Ch’ogni greco guerriero avea le guance Di lagrime rigate. E così dieci 80 E sette giorni ed altrettante notti Ti piangevano mortali e Numi; e al rogo Alfin ti demmo, e ti svenammo innanzi Molte negre giovenche e negre agnelle. Tu nel divin tuo manto fra gli aromi 85 E il mele ardevi; e i generosi Achei, Di belle armi lucenti, altri a cavallo, Altri pedoni, in ordine schierati, Traeano intorno all’avvampante pira, Levando per la spiaggia un gran rumore. 90 Ma poiché tutto dalla viva fiamma Fosti consunto, all’apparir dell’Alba L’ossa tue raccogliemmo; e in vino eletto [391] E in dolci aromi immerse, entro una bella Urna d’oro fûr poste, che recata 95 Avea tua madre, e dono era di Bacco E di Vulcan fatica. Ivi rinchiuse Giacciono, Achille, le tue candid’ossa Con quelle di Patròclo; e in separata Urna alle vostre giacciono vicino 100 Pur d’Antìloco l’ossa, a te sì caro, Poiché fu spento di Menezio il figlio. Su verde colle, in riva all’Ellesponto, T’ergea quindi la sacra oste de’ Greci Un tumolo superbo, onde chi solca 105 Quel mare a dito in ogni età lo mostri. La madre tua nel circo alfin depose I bei presenti, che impetrati avea Dai Numi in premio ai vincitori Achivi; Ed io che tante vidi illustri esequie 110 E di regi e d’eroi, dove succinta A lotteggiar la gioventù correa, Mai più grandi non vidi e più solenni Giochi di quelli che l’argentea Teti Celebrava per te, che tanto ai Numi 115 Eri diletto. Così fosti, Achille, Anche morto, onorato, e alle future Genti il tuo nome passerà famoso. Ma che fruttava a me l’aver condotto La guerra a fine, s’io per man dovea 120 D’una perfida moglie e d’un Egisto Perir di morte oscura al mio ritorno? Così parla ad Achille il divo Atride; Ed ecco avvicinarsi il saggio Ermete, Guidando l’ombre de’ garzoni uccisi 125 Dagli strali d’Ulisse. A quella vista Mossero stupefatte ad incontrarle L’ombre de’ greci capitani; e tosto Agamennón conobbe Anfimedonte, Di Melanto figliuol, da cui cortese 130 Ebbe in Itaca ospizio. A lui primiero [392] Queste parole rivolgea l’Atride: Anfimedonte, qual mai tristo caso Vi spinse all’Orco, tutta gente eletta, Tutta pari d’età? Mal si potrìa 135 Trovar garzoni più di voi gentili In tutta Grecia. Forse il gran Nettuno, I turbini destando e le procelle, Vi sommerse nel mare? o pur v’uccise Popol nemico, mentre i pingui greggi 140 Ne predavate e i pingui armenti? o forse Alla difesa delle patrie mura Combattendo cadeste? A me lo narra, Ch’ospite già ti fui. Non ti rimembra Quando in Itaca io venni alle tue case 145 Col fratel Menelao, l’accorto Ulisse Ad esortar che alle troiane sponde Ne seguitasse co’ suoi prodi? Un mese Ne costò quel tragitto; e solo a stento Fu l’eroe, di cittadi espugnatore, 150 Per noi divelto dal natìo suo scoglio. Re delle genti, glorïoso Atride, A lui rispose Anfimedón, ciò tutto Anch’io ricordo; e volentier la nostra Misera fine ti farò palese. 155 Noi da gran tempo bramavamo a gara Del divo Ulisse la consorte; ed ella Né consentir, né ricusar volendo Le mal gradite nozze, ne tramava Di nascosto la morte, e in questo inganno 160 Fermò la mente. Un’ampia e fina tela Ordì costei nelle segrete stanze, Poi così ne parlò: Giovani amanti, Certo Ulisse morì; pur non vi spiaccia Le mie nozze indugiar fin ch’io non abbia 165 Questo manto compiuto al buon Laerte, Prima ch’ei chiuda al buio eterno i lumi. Così nessuna delle achive donne Rampognar mi potrà, perché d’un manto [393] Sia privo in morte un uom che tante avea 170 Ricchezze in vita. I nostri accesi spirti Con tai detti acchetò. La tela intanto Tessea di giorno e la stessea di notte Delle faci al chiaror. Ma come, all’ore I giorni succedendo e ai giorni i mesi, 175 Il quarto anno spuntò, l’occulta frode Ne scoperse un’ancella, e la cogliemmo Nell’atto appunto che il sottil tessuto Venìa sciogliendo. Allor, da noi costretta, Compì la donna il suo lavoro, e ai Proci 180 Lo mostrò, che parea raggio di Sole O di candida Luna. Il nostro avverso Destino in quella avea condotto Ulisse Alla campagna, dove il guardïano Abitava de’ porci, e dove anch’esso 185 Telemaco giugnea dal suo vïaggio All’arenosa Pilo. In cor volgendo Lo sterminio de’ Proci, alla cittade Avvïaronsi entrambi, il figlio prima E dopo il padre. Sotto le sembianze 190 Di noioso accatton, già grave d’anni E curvo sul bastone e tutto chiuso In rozzo saio, il Laerziade eroe Fra noi comparve, dal pastor guidato; Sì che nessuno, anche d’età provetta, 195 Il riconobbe. Con motteggi e busse Fu quindi Ulisse dagli amanti accolto; Ed ei busse e motteggi sopportava Imperturbato nel suo stesso albergo. Ma come lo inspirò l’Egioco Giove, 200 Dalla sala le belle armi levando, Con l’aiuto del figlio alle superne Stanze recolle, e ne sbarrò le porte. Indi alla moglie suggerì che l’arco Proponesse ai rivali e i ferrei cerchi: 205 Arduo cimento, che finir dovea Col nostro eccidio. L’uno dopo l’altro [394] Tentaro i Proci d’allentar quel duro Nervo; ma invano, perocché da tanto Non eran essi. In mano allor si tolse 210 Per recarlo ad Ulisse il valid’arco Un de’ servi più fidi; e, benché tutti Lo sgridassero i Proci, a lui lo porse, Come il figlio volea. L’arco impugnato, L’eversor di cittadi agevolmente 215 Lo tese, e tutti trapassò gli anelli. Piantossi ei quindi su la soglia, e i dardi Versando dal turcasso, e truci intorno Volgendo le pupille, il forte Antinoo Primamente colpì. Poscia di mira 220 Prendendo gli altri, a fulminar si diede Le sue quadrella, ed essi alla rinfusa Cadean trafitti. Ma d’un Dio la mano Si fece manifesta allor che Ulisse Venìa di qua, di là per l’ampia sala 225 Incalzando con l’asta gl’infelici, E di percosse fronti e d’urli e strida Un suon confuso s’innalzava, ed era Tutto un lago di sangue il pavimento. Così perimmo, Atride; e abbandonati 230 Giaccion d’Ulisse nell’albergo i nostri Esangui corpi; ché non anco è noto Il reo caso ai congiunti ed agli amici, Che lavino la gruma alle ferite E di terra li coprano piangendo, 235 Ultimo onor concesso ai trapassati. Tacque il garzone; e in suono di lamento Sciamò l’Atride: Oh! te felice, Ulisse, Che con tanto valore hai la consorte Riconquistata. E te del par felice 240 Penelope, d’Icario inclita prole, Che il cor serbasti d’ogni colpa illeso, Né mai per volger d’anni il tuo diletto Sposo oblïasti. Memorando esempio Passerai di virtude ai dì futuri, 245 [395] E sul labbro de’ vati glorïoso Suonar faranno il nome tuo gli Dei. Ma tal non fu di Tindaro la figlia, Che scellerata a tradimento uccise Il marito fedel. Canto d’infamia 250 Udranno invece per costei le genti, E dell’infamia sua tutte le donne Andran macchiate, le innocenti ancora. Mentre a Dite così, ne’ tenebrosi Recessi della terra, ìvan quell’ombre 255 Favellando tra lor, d’Itaca uscito L’accorto Ulisse, in compagnia del figlio E de’ pastori, giunto era all’ameno Poder, che il buon Laerte avea col frutto Di sue fatiche comperato, e bello 260 Reso e fecondo. La sua casa in mezzo Egli avea del podere, e intorno intorno Erano le capanne, ove riposo Prendeano e cibo i molti servi addetti Al lavoro de’ campi. Anche una buona 265 Sicula vecchia nel solingo ostello Con Laerte abitava, e de’ cadenti Desolati suoi giorni era il conforto. Ivi giunto, l’eroe si volse ai fidi Suoi pastori e a Telemaco, dicendo: 270 Entrate in questa casa, e un pingue ciacco Sgozzate per la cena. Io vado in traccia Del caro padre, e spïerò se ancora Ei mi conosce, o se in lui tutta il tempo Ha la memoria di suo figlio estinta. 275 In questo dire, Ulisse il brando e l’asta Ai pastori porgea, che nella casa Con Telemaco entrâr. Poscia alla volta Incamminossi del vicin frutteto, Ove scendendo, né l’annoso Dolio, 280 Né i figli suoi rinvenne o alcun de’ servi; Ché dal veglio precessi, eransi tutti In un bosco internati a sveller pruni, [396] Onde il bell’orto circondar di siepe. Il padre solo vi trovò, che stava 285 Rincalzando un arbusto. Una sudicia Vile e logora tunica indossava, Ruvidi guanti e ruvidi schinieri Di vecchio cuoio gli schermìan le mani E le gambe dai rovi e dalle spine, 290 Rozzo berretto di caprina pelle Gli copriva la testa, e tutto in volto Parea tristo e pensoso. Il grande Ulisse, Come così dagli anni e dalle angosce Consunto il vide, al tronco d’un vicino 295 Pero appoggiossi, e gli spuntò sul ciglio Una stilla di pianto. Indi volgea Nella sua mente, se il diletto padre Baciar dovesse ed abbracciarlo, e tutte Le vicende narrar del suo ritorno; 300 O prima, interrogandolo, scoprirne Gli occulti sentimenti. Alfin risolve Di stuzzicarne novellando il core, E a lui, che curvo l’arbusto rincalza, Appressandosi, dice: Affè, degli orti 305 Esser tu devi un buon cultore, o vecchio. Pianta non veggo, non ulivo o melo O fico o vite, né di terra un palmo, Che la perizia di tua man non mostri. Però questo direi, se non temessi 310 Di corrucciarti: solo di te stesso Sollecito non sembri; sì spossato E squallido ti veggo, e sì meschina Tunica indossi. Certo il tuo padrone Trattar non ti vorrà come se fossi 315 Un infingardo; se un padron pur hai Tu, che al volto, alle forme, al portamento, Non uno schiavo, un principe somigli; Un uom somigli che, dal bagno uscito, Siede a splendida mensa, e poi su colmo 320 Letto s’adagia a prendervi riposo. [397] Ma via, schietto mi narra a chi tu servi E coltivi il bell’orto, e fa’ ch’io sappia Se veramente in Itaca son io, Come un uom mi dicea di poco senno, 325 Che incontrai sul cammino, e che villano Rispondermi negò quando novelle Gli chiesi d’un amico, e s’egli vive O già sia morto. Venne a me da lidi Assai lontani un ospite, fra quanti 330 Io mai conobbi, il più diletto. Ei nato Era in Itaca, e figlio di Laerte; Ed io l’accolsi nel mio ricco albergo, L’accarezzai, lo festeggiai gran tempo; E giunta l’ora del partir, gli diedi 335 Sette talenti di purissim’oro, Tutta a fiori una bella urna d’argento, Dodici coppe, dodici tappeti, E tuniche e mantelli, e quattro infine Leggiadre schiave, che a sua voglia ei scelse, 340 A tesser tele e a ricamarle istrutte. Stranier, la terra che tu cerchi è questa, Proruppe lagrimando il buon Laerte; Ma trista gente, gente scellerata. La signoreggia, e senza pro tu fosti 345 Sì largo de’ tuoi doni; ancor ch’io sappia Che se vivo il tuo caro ospite avessi Qui rinvenuto, anch’ei di doni carco Rimandato t’avrìa. Ma dir ti piaccia Da quanto hai tu nella tua casa accolto 350 Quell’infelice, che se ancor vivesse Sarìa mio figlio. Ahi lasso! dai congiunti, Dagli amici diviso, egli fu preda De’ pesci in mare, o di feroci belve In solitaria landa; e non lo pianse, 355 Né lo coprì di terra il genitore O la madre meschina, e la sua casta Penelope le ciglia a lui non chiuse, Né del suo pianto l’onorò, disteso [398] Su la bara funebre. Or dimmi ancora: 360 Chi se’ tu? di che gente? e di che sangue? E dov’è la tua nave? e dove sono I tuoi compagni? O se’ tu forse giunto Sovra legno stranier, che dopo averti Posto sul lido il suo cammin riprese? 365 Il vero ti dirò, risponde Ulisse: Io nacqui in Alibante, ove posseggo Un’eccelsa magione, e son figliuolo Del re Polipemònide Afidante, E mi chiamo Eperito. Un Nume avverso 370 Dalla Trinacria mio malgrado a questa Isola mi sospinse, e la mia nave Giace sul lido in secco, dalla vostra Città lontana. Cinque anni trascorsi Sono dal giorno che il mio tetto Ulisse 375 Abbandonò. Misero! allor gli augelli Gli volavano a destra, e si partìa Lieto da me, che lieto il congedai; E speravam che darci a gara ospizio Un dì potremmo, e ricambiarci i doni! 380 Ineffabile angoscia, a tal novella, Stringe il cor del buon veglio, che di polve Le mani empiendo, tutta se ne sparge La bianca testa, e dal profondo petto Geme e sospira. Lo contempla Ulisse 385 Impietosito, e geme anch’egli e piange, Ed un acre vapor correr si sente Per le narici. Verso il caro padre Alfin s’avanza, se gli gitta al collo, E più volte lo bacia, e, Padre, dice, 390 Ecco, o padre, chi cerchi: io son quel desso, Io che dopo vent’anni a voi ritorno. Ma frena i tuoi lamenti; e poi ch’è d’uopo Troncar gli indugi, ti dirò che tutti Ho messo a morte in nostra casa i Proci, 395 E vendicate le sofferte offese. Ah! se Ulisse tu sei, sclamò Laerte, [399] Se sei mio figlio, dammi un qualche segno Ond’io ti creda. - Vedi, o padre, vedi, Gli rispose l’eroe, la cicatrice 400 Della ferita che un cinghial m’aperse Nei boschi del Parnaso, allor che all’avo Autòlico n’andai per riportarne I bei presenti, che al partir dal nostro Tetto un dì mi promise. Io pur saprei 405 Le piante noverar, che mi donasti Nell’ameno verzier, quando fanciullo Movea dietro a’ tuoi passi, e or questa, or quella Chiedendo ti venia. Tu di ciascuna L’indole varia mi spiegavi e il nome, 410 E di tredici peri e dieci meli Dono mi festi e di quaranta fichi; E quaranta filari anco di viti Dar mi volevi, che già carco il tralcio Tutte avean di mature uve diverse. 415 A questi segni, il miserando vecchio Conosciuto suo figlio, a lui tremante Sporgea le braccia; ma i ginocchi e il core Sentì mancarsi d’improvviso, e al suolo Tramortito cadea, se non l’avesse 420 L’eroe sorretto. Non appena i sensi Ebbe ripresi e gli tornâr le forze, Possenti Dei! proruppe, ah sì, che ancora Su noi vegliate, se i superbi Proci Hanno scontato di lor colpe il fio! 425 Ma non vorrei che intanto gl’Itacesi Accorressero armati a questi campi, E spedissero messi alle vicine Città de’ Cefaleni. - E il divo Ulisse: Non prenderti di ciò pensiero, o padre, 430 E n’andiamo all’ostello, ove il figliuolo Io mandai con Filezio e col porcaio A preparar la mensa. - Ei tacque; ed ambo S’incamminar. Come all’ostel fûr giunti, Telemaco trovar co’ due pastori 435 [400] Che tagliavano in pezzi lo scannato Maiale, e l’urne empìan di vino; e tosto La fantesca lavò l’eroe Laerte, L’unse d’olio odoroso, ed una vaga Tunica gl’indossò. Minerva allora 440 Al pastor delle genti avvicinossi, E le membra gli crebbe, ond’ei più grande E robusto parea. Poiché dal bagno Somigliante ad un Nume uscir lo vide, Maravigliato gli si fece incontro 445 Così dicendo Ulisse: O padre, un Dio, Per certo un Dio, più bello e maestoso Oggi ti rende. - Ed egli: Oh! fosse a Giove E a Minerva piaciuto e al biondo Apollo Che, come un tempo, ai forti Cefaleni 450 Comandando, espugnai con le mie navi Di Nèrico la ròcca, a te vicino Fossi io stato a pugnar nel nostro albergo; Ché pur io le ginocchia avrei fiaccate Ad alcun di quei tristi, e tu, mio figlio, 455 Avresti nel mirarmi in cor gioito. Mentre questo parlar seguìa fra loro, Venìan gli altri la mensa apparecchiando. Ma non ancor le mani alle vivande Essi porgean, che Dolio sopravvenne, 460 E seco, dal lavoro affaticati, I figli suoi; perché a chiamarli uscita Era la buona sicula fantesca, Che allevati gli avea fin da bambini, E molta cura si prendea del vecchio 465 Lor genitore, che degli anni il peso A sentir cominciava. Appena visto Ebbero e conosciuto il divo Ulisse, Tutti alla soglia s’arrestâr, confusi Di maraviglia; ma cortese a Dolio 470 Si rivolse l’eroe, Vieni, dicendo, Vieni alla mensa, e lo stupor deponi. Eran le dapi già da molto in pronto, [401] Ma stendervi non volle alcun la mano Pria che veniste. - Leva, a questi accenti, 475 Le palme il vecchio, e a lui correndo, un bacio Gli stampa su la destra, e così parla: Poiché tanto bramato, e fuor di tutta Nostra speranza, alfin tra noi giungesti, Salve, Ulisse, e t’allegra, e d’ogni bene 480 Ti colmino gli Dei. Ma dimmi: è noto Alla regina il tuo ritorno, o un messo Vuoi che tosto l’avviso a lei ne rechi? T’accheta, amico, gli risponde Ulisse; Tutto sa la regina. - Allor si pose 485 Anch’egli al desco su pulita scranna L’antico servo, mentre i figli intorno Si stringono ad Ulisse, e per la mano Ciascun lo prende a gara e lo saluta; Indi vicino all’amoroso padre 490 Altri a destra sedendo ed altri a manca, Allegri insieme a banchettar si diêro. La strage intanto dall’eroe commessa Avea la fama divulgato, e in folla Il popolo con grida e con lamenti 495 S’affrettava alla reggia, onde le salme Traea de’ Proci, dando sepoltura Agl’Itacesi, e alla natìa contrada Inviando su navi peschereccie I forestieri. Quindi a parlamento 500 Si raccogliean nel fòro i prenci achei, Afflitti e sospirosi. Innanzi a tutti Alzossi Eupite a favellar, che in core Viva più ch’altri mai sentìa l’angoscia Per suo figlio Antinòo, che Ulisse avea 505 Trafitto il primo. Alzossi, e lagrimando Così sfogava il suo dolore: Ahi quante, Quante sciagure tollerar n’è forza Per colpa di costui! Molti ei condusse De’ nostri cari alle dardanie sponde 510 Con le sue navi; e navi e naviganti [402] Lasciando in preda ai flutti, al suo ritorno De’ Cefaleni i più prestanti uccise. Prima ch’ei fugga all’arenosa Pilo, O verso la divina Elide, terra 515 De’ bellicosi Epei, tutti d’Ulisse Corriam su l’orme, o noi sarem per sempre Disonorati. Se de’ morti figli E de’ fratelli non prendiam vendetta, Ah troppo grave mi sarìa la vita, 520 Meglio fôra per me calar fra l’ombre! Su via, dunque, n’andiamo, anzi che in salvo Possa altrove fuggir. - Così piangendo Dicea d’Antinoo il desolato padre, E negra nube di dolor coperse 525 La fronte degli Achei. Giunsero in questa Dall’albergo d’Ulisse, ove dormito Avean la notte, il banditor Medonte E il vate Femio. S’arrestâr nel mezzo Dell’adunanza, e mentre ognun li stava 230 Tacito riguardando, in queste voci Uscì l’accorto banditor: M’udite, Cittadini itacesi. Ah! non si creda Ch’abbia l’impresa sua compiuta Ulisse Senza l’aiuto de’ Celesti. Io stesso, 535 Vidi io stesso al suo fianco un Dio che in tutto Mentore somigliava, ed ora Ulisse Precedea nella lotta ad infiammarne Il natural valore, or per la casa I garzoni inseguìa, che l’un su l’altro 540 Morti a terra cadean. - Disse, e gli Achivi Agghiacciâr di spavento. Ed i suoi detti Incalzando Aliterse, il vecchio eroe Di Mastore figliuol, che tutte al guardo Avea presenti le passate cose 545 E le future, Me pur anco, esclama, Sì, me pure ascoltate. E chi la colpa Ha di questo infortunio, o cittadini? Invano io sempre, invano il buon Mentorre [403] A frenar v’esortava i figli vostri, 550 Che la pudica sposa insidïando E consumando dell’eroe gli averi, Forsennati credean ch’ei più tornato Non sarebbe fra noi. Prestate orecchio, Itacesi, al mio dir: nessun l’insegua, 560 Se incontrar non desìa nove sciagure. Tacque; e molti, plaudendo al suo consiglio, Si sperdean per le vie; ma nella piazza Rimaser gli altri, che il parlar del veglio Non persuase, e dal furor d’Eupite 565 Incitati, volavano fremendo A prender l’armi. Tutti, di lucente Ferro coperti, convenìan dinanzi Alla cittade; e n’era Eupite il duce, Ch’alto gridava di voler la morte 570 Vendicar di suo figlio, non pensando Ch’egli stesso a morir, folle! correa. Palla Minerva in questo mentre il senno Di Giove interrogò, così dicendo: Padre e re de’ Celesti, e quali in petto 575 Disegni ascondi? Brami tu che in pace Vivano gl’Itacesi, o che più sempre Fervan l’ire e crudel guerra s’accenda? E il gran Giove di nembi adunatore: A che di questo mi domandi, o figlia? 580 Forse non fu col tuo favor che i Proci, Tornando, uccise il Laerziade Ulisse? Tu fa’ ciò che t’aggrada; io dirò solo Ciò che far converrìa. Poiché i superbi Proci ha punito, stringa il saggio Ulisse 585 Fide alleanze, e alla sua casa il regno Assecuri. L’oblìo della vendetta Nel cor de’ padri e de’ fratelli intanto Noi spargeremo; e come pria l’un l’altro S’amino gl’Itacesi, ed ora e sempre 590 Regni fra lor la pace e l’abbondanza. Disse; e Minerva, già per sé bramosa, [404] Spiccò dal cielo folgorando un salto, E in Itaca discese. Ulisse in quella, Che nel rustico albergo avea di cibo 595 Ristorate le forze e di bevanda, Esca, disse, qualcuno, e guardi attento Se il nemico s’appressi ai nostri campi. A quel parlar, ratto un figliuol di Dolio Si mosse, e stando su la porta vide 600 Non lontani gli Achivi. All’armi, all’armi, Grida allora il garzon, che già vicini Sono i nemici. - Balza in piedi Ulisse, E Telemaco e i fidi mandrïani, E si vestono l’armi; e l’armi anch’essi 605 Incontanente afferrano di Dolio I sei figliuoli, e Dolio e il re Laerte, Perché a pugnar necessità li spinge Sebben canuti. Di guerreschi arnesi Cinti così, spalancano la porta 610 E insiem ristretti erompono, guidati Dal magnanimo Ulisse. Al fianco suo Era Pallade accorsa, il volto assunto Di Mentore e la voce; e nel mirarla Esultando l’eroe, del giovinetto 615 Telemaco in tal guisa il cor rinfranca: È giunta, o figlio, l’ora della pugna, In cui dal vile si discerne il prode: Ah non macchiar degli avi nostri il nome, Per ardimento e gagliardìa famosi! 620 Padre, vedrai, Telemaco risponde, Che al nostro sangue io non farò vergogna. Gode il vecchio in udirli, e sì favella: Gareggian di virtù figlio e nipote, Ah mai più fausto giorno a me non sorse! 625 Qui si fece Minerva a lui da canto, E gli disse: O Laerte, o generoso Fedele amico, porgi al sommo Giove E alla figlia di Giove una preghiera, E poi scaglia la salda acuta lancia. 630 [405] Animo e lena, in questo dir, gl’infuse; Ed egli all’uno e all’altra supplicando, Librò, scagliò la poderosa lancia, Ed Eupite colpì. L’elmo ferrato Non resse al colpo, e l’asta nella fronte 635 Gli penetrò; sì che riverso ei cadde Con gran rumore, e gli sonâr dintorno L’armi lucenti. Con le lancie e i brandi A doppio taglio si gittâr su gli altri Ulisse e il figlio, e li ferìano a gara; 640 E gli avrebbero tutti sterminati, Se minacciosa fra gli Achei la voce Non alzava la Dea, Fine, sclamando, Fine, Itacesi, all’aspra iniqua pugna; Sperdetevi, tornate ai vostri alberghi, 645 Sin che v’è dato di tornarvi illesi. Al parlar della Dea, còlti da fredda Paura, uscir si lasciano di mano I gravi scudi e i brandi e l’aste, e scampo Cercan fuggendo alla città. Ma, come 650 Aquila che fra i nembi agita l’ali, Insegue Ulisse i fuggitivi, e grida Terribilmente. Il re de’ Numi allora Con immenso fragor vibrò dall’alto Uno strale infuocato, e innanzi agli occhi 655 Guizzar lo fece di Minerva. A questo Segno la Diva, di Laerte al figlio Volgendosi, dicea: Germe divino, Prudente Ulisse, frena omai la destra, E fa’ che cessi la fraterna guerra, 660 Onde il Saturnio teco non s’adiri. Tacque: ed egli obbedìa volonteroso. Fra l’una e l’altra parte un novo patto Di perenne amistà quindi stringea Minerva, figlia dell’Egioco Giove, 665 Sotto la forma di Mentorre ascosa. INDICE DEL VOLUME DI OMERO E DELLA PRESENTE TRADUZIONE Pag. III Libro I. Concilio degli Dei. - Esortazioni di Minerva a Telemaco 3 Libro II. Assemblea degl’Itacesi. - Partenza di Telemaco 18 Libro III. Telemaco a Pilo 33 Libro IV. Telemaco a Sparta. - I Proci tramano di ucciderlo al suo ritorno 50 Libro V. Ulisse parte dall’isola Ogigia, e, sfuggendo ad una procella, scende all’isola de’ Feaci 78 Libro VI. Incontro di Ulisse con Nausica, figlia del re Alcinoo 94 Libro VII. Arrivo di Ulisse all’albergo d’Alcinoo 106 Libro VIII. Giuochi e banchetto celebrati dai Feaci in onore di Ulisse 118 Libro IX. Ulisse narra ai Feaci le proprie avventure, dopo la partenza da Troia. - I Ciconi. - I Lotofagi. - Il Ciclope Polifemo 137 Libro X. Eolo. - I Lestrigoni. - Circe 156 Libro XI. Discesa di Ulisse all’Inferno 175 Libro XII. Ammonizioni di Circe. - Le Sirene. - Scilla e Cariddi. - Perdita de’ compagni 196 Libro XIII. Ritorno di Ulisse in Itaca 211 Libro XIV. Ulisse cortesemente accolto nel suo casolare dal servo Eumeo 226 Libro XV. Ritorno di Telemaco. - Colloquio di Ulisse con Eumeo 244 Libro XVI. Ulisse si scopre a suo figlio 263 Libro XVII. Avviandosi alla città, Ulisse è percosso dal capraio Melanzio. - Il cane Argo. - Insulti che Ulisse riceve da Antinoo appena giunto nel proprio albergo. 278 Libro XVIII. Combattimento di Ulisse col pitocco Iro. - Doni fatti dai Proci a Penelope 297 Libro XIX. Colloquio di Ulisse con Penelope - Ulisse riconosciuto dalla nutrice Euriclea 311 Libro XX. Nuovi insulti fatti dai Proci ad Ulisse. - Augurio di Giove, e profezia di Teoclimeno 331 Libro XXI. La prova dell’arco 345 Libro XXII. La strage de’ Proci 359 Libro XXIII. Penelope riconosce Ulisse 375 Libro XXIV. Mercurio guida all’Orco le ombre dei Proci. - Ulisse esce ai campi, e si palesa al padre. - Combattimento cogl’Itacesi. - Minerva ristabilisce la pace fra gl’Itacesi ed Ulisse. 388 Criteri e uniformità ortografiche della presente edizione elettronica (a cura di Liber Liber) Si è generalizzato l'uso dell'accento sulla "i" nelle forme dell'imperfetto e del condizionale ardiano ardìano allestiano allestìano custodia custodìa avria avrìa saria sarìa empia empìa Si sono normalizzati invece gli accenti sulla "i" dei participi: seguìta seguita seguìto seguito di altri casi isolati: tuttavìa tuttavia e di altre forme verbali contratte: desia desìa Si è normalizzato l’uso dell’accento circonflesso nei passati remoti contratti: adagiaro adagiâro diero diêro aggiogaro aggiogâro salìr salîr legaro legâro Si è normalizzato secondo l’uso moderno l’uso dell’accento su che e composti: chè ché poichè poiché perché perché benchè benché purchè purché Si è normalizzato secondo l’uso moderno l’uso dell’accento su né: nè né Altre correzioni e normalizzazioni ortografiche p. 6 pie’ > piè p. 18 i popolo > il popolo p. 22 fa > fa’ (quando imperativo anche altrove) p. 39 Minante > Mimante p. 67 ôr > or p. 73 pèra > pêra p. 76 invìa > invia p. 96 va > va’ (anche altrove) p. 108 Rassénore > Ressènore p. 146 si sdraio > si sdraiò p. 158 postrammo > prostrammo p. 186 Pocri > Procri p. 221 Schiera > Scheria p. 247 pera > pêra p. 258 Arisbante > Aribante p. 286 fere > fêre p. 385 nelle speco > nello speco 1 V. Rivista Europea, anno 1842: Omero e la filosofia greca, di L. A. Binaut; egregiamente tradotto dal nostro Luigi Toccagni. 2 Istoria della Letteratura greca, di Carlo Ottofredo Müller, di questa stessa Biblioteca nazionale. 1858, tomo 1, pag. 95-96. 3 Storia generale della civiltà in Europa, ec., di F. S. G. Guizot; versione con note di A. Zoncada. Milano, 1841 sezione II. 4 Dizionario estetico. Milano, per Giuseppe Reina; 1852, tomo 1, pag. 262. 5 Eccone alcuni esempi: Cui la gloria de’ Teucri a core stava... Sanno i disegni di chi stavvi sopra... Nelle più alte stanze a oprare intende... Il più scelto liquor bevono a oltraggio... Sono e a me deon l’origine? Io credea... Presi i calzari e avvintiseli ai piedi... Non pensar che a una decade o a due sole... Terra ire alcuni ad esplorar dall’alto... Ma ei mostrommi in pria quanto avea Ulisse... Penelope e Telemaco deiforme... Ecatombe votavansi, ove al figlio... Ma tu la storia de’ miei guai domandi... Tutti s’alzaro nelle risa dando... Ritornava e sedeavi; rientraro... E di sì fatti versi s’incontrano a centinaia; e chi volesse dire ch’io li ho racimolati a gran fatica, mostrerebbe di non aver mai letta quella versione.