Ai miei cari nipotini
Queste fiabe son nate così.
Dopo averne scritta una per un caro bimbo che voleva da me, ad ogni costo, una bella fiaba, mi venne, un giorno, l'idea di scriverne qualche altra pei miei nipotini.
In quel tempo ero triste ed anche un po' ammalato, con un'inerzia intellettuale che mi faceva rabbia, e i lettori non immagineranno facilmente la gioia da me provata nel vedermi, a un tratto, fiorire nella fantasia quel mondo meraviglioso di fate, di maghi, di re, di regine, di orchi, di incantesimi, che è stato il primo pascolo artistico delle nostre piccole menti.
Vissi più settimane soltanto con essi, ingenuamente, come non credevo potesse mai accadere a chi è già convinto che la realtà sia il vero regno dell'arte. Se un importuno fosse allora venuto a parlarmi di cose serie e gravi, gli avrei risposto, senza dubbio, che avevo ben altre e più serie faccende pel capo; avevo Serpentina in pericolo, o la Reginotta che mi moriva di languore per Ranocchino o il Re che faceva la terza prova di star sette anni alla pioggia e al sole per guadagnarsi la mano di un'adorata fanciulla.
Avevo anche la non meno seria preoccupazione del giudizio di quel pubblico piccino che irrompeva rumorosamente, due, tre volte al giorno, nel mio studio, per sapere quando la nuova fiaba sarebbe finita. Quei cari diavoletti, che poi mi si sedevano attorno impazienti, che diventavano muti e tutti occhi ed orecchi appena incominciavo: C'era una volta..., mi davano una gran suggezione. Pochi autori, aspettando dietro le quinte la sentenza del pubblico, credo abbiano tremato al pari di me nel vedermi davanti quelle vispe e intelligenti testoline che pendevano dalle mie labbra, mentre io tentavo di balbettare per loro il linguaggio così semplice, così efficace, così drammatico, che è l'eccellenza naturale della forma artistica delle fiabe.
Non mi è parso superfluo dir questo al benigno lettore, pel caso che il presente volume trovasse qualcuno che volesse giudicarlo non soltanto come un libro destinato ai bambini, ma anche come opera d'arte.
Il mio tentativo ha una scusa: le circostanze che lo han prodotto. Senza dubbio non mi sarebbe passato mai pel capo di mettere audacemente le mani sopra una forma di arte così spontanea, così primitiva e perciò tanto contraria al carattere dell'arte moderna.
Rivedendo le bozze di stampa ho sentito un po' di rimorso. Non commettevo forse un'indegnità chiamando il pubblico a parte di quella mia deliziosa allucinazione che io non posso mai rammentare senza commozione e senza rimpianto?
Allora ben mi stia, se le Fate che vennero ad aleggiare tra le bianche pareti del mio studio mentre il sole di gennaio lo scaldava col tepore dei suoi raggi, mentre i passeri picchiavano famigliarmente col becco all'imposta chiusa della finestra e i miei cari diavoletti non osavan rifiatare avvertendo la presenza delle Dee; ben mi stia, se le Fate, per dispetto, abbandoneranno ora il mio libro alla severa giustizia della critica!
Roma, 22 giugno 1882
Luigi Capuana
Avvertenza. Ho usato i vocaboli Reuccio e Reginotta secondo il significato che essi hanno nel dialetto siciliano e unicamente nel linguaggio delle fiabe, cioè invece di principe reale e di principessa reale. Reuccio trovasi nelle lettere del Sassetti per Re di piccola potenza.
C'era una volta una fornaia, che aveva una figliuola nera come un tizzone e brutta più del peccato mortale. Campavan la vita infornando il pane della gente, e Tizzoncino, come la chiamavano, era attorno da mattina a sera: - Ehi, scaldate l'acqua! Ehi, impastate! - Poi, coll'asse sotto il braccio e la ciambellina sul capo, andava di qua e di là a prender le pagnotte e le stiacciate da infornare; poi, colla cesta sulle spalle, di nuovo di qua e di là per consegnar le pagnotte e le stiacciate bell'e cotte. Insomma non riposava un momento.
Tizzoncino era sempre di buon umore. Un mucchio di filiggine; i capelli arruffati, i piedi scalzi e intrisi di mota, in dosso due cenci che gli cascavano a pezzi; ma le sue risate risonavano da un capo all'altro della via.
- Tizzoncino fa l'uovo - dicevan le vicine.
All'Avemaria le fornaie si chiudevano in casa e non affacciavano più nemmeno la punta del naso. D'inverno, passava... Ma d'estate, quando tutto il vicinato si godeva il fresco e il lume di luna? O che eran matte, mamma e figliuola, a starsene tappate in casa con quel po' di caldo?... Le vicine si stillavano il cervello.
- O fornaie, venite fuori al fresco, venite!
- Si sta più fresche in casa.
- O fornaie, guardate che bel lume di luna, guardate!
- C'è più bel lume in casa.
Eh, la cosa non era liscia! Le vicine si misero a spiare e a origliare dietro l'uscio. Dalle fessure si vedeva uno splendore che abbagliava, e di tanto in tanto si sentiva la mamma:
- Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
E Tizzoncino che faceva l'uovo.
- Se lo dicevano che erano ammattite!
Ogni notte così, fino alla mezzanotte: - Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
La cosa giunse all'orecchio del Re. Il Re montò sulle furie e mandò a chiamare le fornaie.
- Vecchia strega, se seguiti, ti faccio buttare in fondo a un carcere, te e il tuo Tizzoncino!
- Maestà, non è vero nulla. Le vicine sono bugiarde.
Tizzoncino rideva anche al cospetto del Re.
- Ah!... Tu ridi?
E le fece mettere in prigione tutte e due, mamma e figliuola.
Ma la notte, dalle fessure dell'uscio il custode vedeva in quella stanzaccia un grande splendore, uno splendore che abbagliava, e, di tanto in tanto, sentiva la vecchia:
- Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
E Tizzoncino faceva l'uovo. Le sue risate risonavano per tutta la prigione.
Il custode andò dal Re e gli riferì ogni casa.
- Il Re montò sulle furie peggio di prima.
- La intendono in tal modo? Sian messe nel carcere criminale, quello sottoterra.
Era una stanzaccia senz'aria, senza luce, coll'umido che si aggrumava in ogni parte; non ci si viveva. Ma la notte, anche nel carcere criminale, ecco uno splendore che abbagliava, e la vecchia:
- Spera di sole, spera di sole, sarai Regina se Dio vuole!
Il custode tornò dal Re, e gli riferì ogni cosa.
Il Re, questa volta, rimase stupito. Radunò il Consiglio della Corona: e i consiglieri chi voleva che alle fornaie si tagliasse la testa, chi pensava che fosser matte e bisognasse metterle in libertà.
- Infine, che cosa diceva quella donna? Se Dio vuole. O che male c'era? Se Dio avesse voluto, neppure Sua Maestà sarebbe stato buono d'impedirlo.
- Già! Era proprio così.
Il Re ordinò di scarcerarle.
Le fornaie ripresero il loro mestiere. Non avevan le pari nel cuocere il pane appuntino, e le vecchie avventore tornarono subito. Perfin la Regina volle infornare il pane da loro; il Tizzoncino così saliva spesso le scale del palazzo reale, coi piedi scalzi e intrisi di mota. La Regina le domandava:
- Tizzoncino, perché non ti lavi la faccia?
- Maestà, ho la pelle fina e l'acqua me la sciuperebbe.
- Tizzoncino, perché non ti pettini?
- Maestà, ho i capelli sottili, e il pettine me li strapperebbe.
- Tizzoncino, perché non ti compri un paio di scarpe?
- Maestà, ho i piedini delicati; mi farebbero i calli.
- Tizzoncino, perché la tua mamma ti chiama Spera di sole?
- Sarò Regina, se Dio vuole!
La Regina ci si divertiva; e Tizzoncino, andando via colla sua asse sulla testa e le pagnotte e le stiacciate di casa reale, rideva, rideva. Le vicine che la sentivan passare:
- Tizzoncino fa l'uovo!
Intanto ogni notte quella storia. Le vicine, dalla curiosità, si rodevano il fegato. E appena vedevano quello splendore che abbagliava e sentivano il ritornello della vecchia, via, tutte dietro l'uscio: non sapevano che inventare.
- Fornaie, fatemi la gentilezza di prestarmi lo staccio; nel mio c'è uno strappo.
Tizzoncino apriva l'uscio e porgeva lo staccio.
- Come! Siete allo scuro? Mentre picchiavo, c'era lume.
- Uh! Vi sarà parso.
La cosa era arrivata anche alle orecchie del Reuccio, che aveva già sedici anni. Il Reuccio era un gran superbo. Quando incontrava per le scale Tizzoncino, coll'asse sulla testa o colla cesta sulle spalle, si voltava in là per non vederla. Gli faceva schifo. E una volta le sputò addosso.
Tizzoncino quel giorno tornò a casa piangendo.
- Che cosa è stato, figliuola mia?
- Il Reuccio mi ha sputato addosso.
- Sia fatta la volontà di Dio! Il Reuccio è padrone.
Le vicine gongolavano:
- Il Reuccio gli aveva sputato addosso; le stava bene a Spera di sole!
Un altro giorno il Reuccio la incontrò sul pianerottolo. Gli parve che Tizzoncino lo avesse un po' urtato con l'asse, e lui, stizzito, le tirò un calcio. Tizzoncino ruzzolò le scale.
Quelle pagnotte e stiacciate, tutte intrise di polvere, tutte sformate, chi avrebbe avuto il coraggio di riportarle alla Regina?
Tizzoncino tornò a casa piangendo e rammaricandosi.
- Che cosa è stato, figliuola mia?
- Il Reuccio mi ha tirato un calcio e mi ha rovesciato ogni cosa.
- Sia fatta la volontà di Dio: il Reuccio è padrone.
Le vicine non capivano nella pelle dall'allegrezza.
- Il Reuccio gli aveva menato un calcio: le stava bene a Spera di sole!
Il Reuccio pochi anni dopo pensò di prender moglie e mandò a domandare la figliuola del Re di Spagna. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Spagna s'era maritata il giorno avanti. Il Reuccio volea impiccato l'ambasciatore. Ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio mezza giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandò a domandare la figliuola del Re di Francia. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Re di Francia s'era maritata il giorno avanti.
Il Reuccio volea ad ogni costo impiccato quel traditore che non arrivava mai in tempo: ma questi gli provò che avea spesa nel viaggio una giornata di meno degli altri. Allora il Reuccio lo mandava dal Gran Turco per la sua figliuola. Ma l'ambasciatore arrivò troppo tardi: la figliuola del Gran Turco s'era maritata il giorno avanti.
Il Reuccio non sapea darsi pace; piangeva. Il Re, la Regina, tutti i ministri gli stavano attorno:
- Mancavano principesse? c'era la figliuola del Re d'Inghilterra: si mandasse per lei.
Il povero ambasciatore partì come una saetta, camminando giorno e notte finché non arrivò in Inghilterra. Era una fatalità! Anche la figlia del Re d'Inghilterra s'era maritata il giorno avanti. Figuriamoci il Reuccio!
Un giorno, per distrarsi, se n'andò a caccia.
Smarritosi in un bosco, lontano dai compagni, errò tutta la giornata senza poter trovare la via. Finalmente, verso sera, scoprì un casolare in mezzo agli alberi. Dall'uscio aperto, vide dentro un vecchione, con una gran barba bianca, che, acceso un bel fuoco, si preparava la cena.
- Brav'uomo, sapreste indicarmi la via per uscire dal bosco?
- Ah, finalmente sei arrivato!
A quella voce grossa grossa, il Reuccio sentì accapponarsi la pelle.
- Brav'uomo, non vi conosco; io sono il Reuccio.
- Reuccio o non Reuccio, prendi quella scure e spaccami un po' di legna.
Il Reuccio, per timore di peggio, gli spaccava la legna.
- Reuccio o non Reuccio, vai per l'acqua alla fontana.
Il Reuccio, per timore di peggio, prendeva l'orcio sulle spalle e andava alla fontana.
- Reuccio o non Reuccio, servimi a tavola.
E il Reuccio, per timore di peggio, lo servì a tavola. All'ultimo il vecchio gli diè quel che era avanzato.
- Buttati lì; è il tuo posto.
Il povero Reuccio si accovacciò su quel po' di strame in un canto, ma non poté dormire.
Quel vecchio era il Mago, padrone del bosco. Quando andava via, stendeva attorno alla casa una rete incantata, e il Reuccio rimaneva in tal modo suo prigioniero e suo schiavo.
Intanto il Re e la Regina lo piangevano per morto e portavano il lutto. Ma un giorno, non si sa come, arrivò la notizia che il Reuccio era schiavo del Mago. Il Re spedì subito i suoi corrieri:
- Tutte le ricchezze del regno, se gli rilasciava il figliuolo!
- Sono più ricco di lui!
A questa risposta del Mago, la costernazione del Re fu grande. Spedì daccapo i corrieri:
- Che voleva? Parlasse: il Re avrebbe dato anche il sangue delle sue vene.
- Una pagnotta e una stiacciata, impastate, infornate di mano della Regina, e il Reuccio sarà libero.
- Oh, questo era nulla!
La Regina stacciò la farina, la impastò, fece la pagnotta e la stiacciata, scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica; pagnotta e stiacciata furono abbruciacchiate.
Quando il Mago le vide, arricciò il naso:
- Buone pei cani.
E le buttò al suo mastino. La Regina stacciò di nuovo la farina, la impastò e ne fece un'altra pagnotta e un'altra stiacciata. Poi scaldò il forno di sua mano e le infornò. Ma non era pratica. La pagnotta e la stiacciata riusciron mal cotte. Quando il Mago le vide, arricciò il naso:
- Buone pei cani.
E le buttò al mastino.
La Regina provò, riprovò; ma il suo pane riusciva sempre o troppo o poco cotto; e intanto il povero Reuccio restava schiavo del Mago.
Il Re adunò il Consiglio di Ministri.
- Sacra Maestà - disse uno dei Ministri - proviamo se il Mago è indovino. La Regina staccerà la farina, la impasterà, farà la pagnotta e la stiacciata; per scaldare il forno ed infornare chiameremo Tizzoncino!
- Bene! Benissimo!
E così fecero. Ma il Mago arricciò il naso:
- Pagnottaccia, stiacciataccia
Via, lavatevi la faccia!
E le buttò al cane. Aveva subito capito che ci avea messo le mani Tizzoncino.
- Allora - disse il ministro - non c'è che un rimedio.
- Quale? - domandò il Re.
- Sposare il Reuccio con Tizzoncino. Così il Mago avrà il pane stacciato, impastato, infornato dalle mani della Regina, e il Reuccio sarà liberato.
- È proprio la volontà di Dio - disse il Re.
- Spera di sole, spera di sole, sarai regina se Dio vuole!
E fece il decreto reale, che dichiarava il Reuccio e Tizzoncino marito e moglie. Il Mago ebbe la pagnotta e la stiacciata, stacciate, impastate e infornate dalle mani della Regina, e il Reuccio fu messo in libertà.
Veniamo intanto a lui, che di Tizzoncino non vuol saperne affatto:
- Quel mucchio di filiggine sua moglie? Quella bruttona di fornaia regina?
- Ma c'è un decreto reale...
- Sì? Il Re lo ha fatto, e il Re può disfarlo!
Tizzoncino, diventata Reginotta, era andata ad abitare nel palazzo reale. Ma non s'era voluta lavare, né pettinare, né mutarsi il vestito, né mettersi un paio di scarpe:
- Quando verrà il Reuccio, allora mi ripulirò.
Era possibile? E aspettava, chiusa nella sua camera, che il Reuccio andasse a trovarla. Ma non c'era verso di persuaderlo.
- Quella fornaia mi fa schifo! Meglio morto che sposar lei!
Tizzoncino, quando le riferivano queste parole, si metteva a ridere:
- Verrà, non dubitate; verrà.
- Verrò? Guarda come verrò!
Il Reuccio, perduto il lume degli occhi e colla sciabola in pugno, correva verso la camera di Tizzoncino: volea tagliarle la testa. L'uscio era chiuso. Il Reuccio guardò dal buco della serratura e la sciabola gli cadde di mano. Lì dentro c'era una bellezza non mai vista, una vera Spera di sole!
- Aprite, Reginotta mia! Aprite!
E Tizzoncino, dietro l'uscio, canzonandolo:
- Mucchio di filiggine!
- Apri, Reginotta dell'anima mia!
E Tizzoncino ridendo:
- Bruttona di fornaia!
- Apri, Tizzoncino mio!
Allora l'uscio s'aperse, e i due sposini s'abbracciarono.
Quella sera si fecero gli sponsali, e il Reuccio e Tizzoncino vissero a lungo, felici e contenti...
E a noi ci s'allegano i denti.
Si racconta che c'era una volta un Re, il quale avea dietro il palazzo reale un magnifico giardino. Non vi mancava albero di sorta; ma il più raro e il più pregiato, era quello che produceva le arance d'oro.
Quando arrivava la stagione delle arance, il Re vi metteva a guardia una sentinella notte e giorno; e tutte le mattine scendeva lui stesso a osservare coi suoi occhi se mai mancasse una foglia.
Una mattina va in giardino, e trova la sentinella addormentata. Guarda l'albero... Le arance d'oro non c'eran più!
- Sentinella sciagurata, pagherai colla tua testa.
- Maestà, non ci ho colpa. È venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo e si è messo a cantare. Canta, canta, canta, mi si aggravavano gli occhi. Lo scacciai da quel ramo, ma andò a posarsi sopra un altro. Canta, canta, canta, non mi reggevo dal sonno. Lo scacciai anche di lì, e appena cessava di cantare, il mio sonno svaniva. Ma si posò in cima all'albero, e canta, canta, canta..., ho dormito finora!
Il Re non gli fece nulla.
Alla nuova stagione, incaricò della guardia il Reuccio in persona.
Una mattina va in giardino e trova il Reuccio addormentato. Guarda l'albero...; le arance d'oro non c'eran più!
Figuriamoci la sua collera!
- Come? Ti sei addormentato anche tu?
- Maestà, non ci ho colpa. È venuto un cardellino, si è posato sopra un ramo e si è messo a cantare. Canta, canta, canta, mi s'aggravavano gli occhi. Gli dissi: cardellino traditore, col Reuccio non ti giova! Ed esso a canzonarmi: il Reuccio dorme! il Reuccio dorme! Cardellino traditore, col Reuccio non ti giova! Ed esso a canzonarmi: il Reuccio fa la nanna! il Reuccio fa la nanna! E canta, canta, canta..., ho dormito finora!
Il Re volle provarsi lui stesso; e arrivata la stagione si mise a far la guardia. Quando le arance furon mature, ecco il cardellino che si posa sopra un ramo, e comincia a cantare. Il Re avrebbe voluto tirargli, ma faceva buio come in una gola. Intanto aveva una gran voglia di dormire!
- Cardellino traditore, questa volta non ti giova! - Ma durava fatica a tener aperti gli occhi.
Il cardellino cominciò a canzonarlo:
- Pss! Pss! Il Re dorme! Pss! Pss! Il Re dorme!
E canta, canta, canta, il Re s'addormentava peggio d'un ghiro anche lui.
La mattina apriva gli occhi: le arance d'oro non ci eran più!
Allora fece un bando per tutti i suoi Stati:
- Chi gli portasse, vivo o morto, quel cardellino, riceverebbe per mancia una mula carica d'oro.
Passarono sei mesi, e non si vide nessuno.
Finalmente un giorno si presenta un contadinotto molto male in arnese:
- Maestà, lo volete davvero quel cardellino? Promettetemi la mano della Reginotta, e in men di tre giorni l'avrete.
Il Re lo prese per le spalle, e lo messe fuor dell'uscio.
Il giorno appresso quegli tornò:
- Maestà, lo volete davvero quel cardellino? Promettetemi la mano della Reginotta, e in men di tre giorni l'avrete.
Il Re lo prese per le spalle, gli diè una pedata e lo messe fuor dell'uscio.
Ma il giorno appresso, quello, cocciuto, ritornava:
- Maestà, lo volete davvero il cardellino? Promettetemi la mano della Reginotta, e in men di tre giorni l'avrete.
Il Re, stizzito, chiamò una guardia e lo fece condurre in prigione.
Intanto ordinava si facesse attorno all'albero una rete di ferro; con quelle sbarre grosse, non c'era più bisogno di sentinella. Ma quando le arance furon mature, una mattina va in giardino...; l'arance d'oro non c'eran più.
Figuriamoci la sua collera! Dovette, per forza, mettersi d'accordo con quel contadinotto.
- Portami vivo il cardellino e la Reginotta sarà tua.
- Maestà, fra tre giorni.
E prima che i tre giorni passassero era già di ritorno.
- Maestà, eccolo qui. La Reginotta ora è mia.
Il Re si fece scuro. Doveva dare la Reginotta a quello zoticone?
- Vuoi delle gioie? Vuoi dell'oro? Ne avrai finché vorrai. Ma quanto alla Reginotta, nettati la bocca.
- Maestà, il patto fu questo.
- Vuoi delle gioie? Vuoi dell'oro?
- Tenetevi ogni cosa. Sarà quel che sarà!
E andò via.
Il Re disse al cardellino:
- Ora che ti ho tra le mani, ti vo' martoriare.
Il cardellino strillava, sentendosi strappare le penne ad una ad una.
- Dove son riposte le arance d'oro?
- Se non mi farete più nulla, Maestà, ve lo dirò.
- Non ti farò più nulla.
- Le arance d'oro sono riposte dentro la Grotta delle sette porte. Ma c'è il mercante, col berrettino rosso, che fa la guardia. Bisogna sapere il motto; e lo sanno due soli: il mercante e quel contadino che mi ha preso.
Il Re mandò a chiamare il contadino.
- Facciamo un altro patto. Vorrei entrare nella Grotta delle sette porte, e non so il motto. Se me lo sveli, la Reginotta sarà tua.
- Parola di Re?
- Parola di Re!
- Maestà, il motto è questo:
"Secca risecca!
Apriti, Cecca."
- Va bene.
Il Re andò, disse il motto, e la Grotta s'aperse. Il contadino rimase fuori ad attenderlo.
In quella grotta i diamanti, a mucchi per terra, abbagliavano. Vistosi solo, sua Maestà si chinava e se ne riempiva le tasche. Ma nella stanza appresso, i diamanti, sempre a mucchi, eran più grossi e più belli. Il Re si vuotava le tasche, e tornava a riempirsele di questi. Così fino all'ultima stanza, dove, in un angolo, si vedevano ammonticchiate le arance d'oro del giardino reale.
C'era lì una bisaccia, e il Re la colmò. Or che sapeva il motto, vi sarebbe ritornato più volte.
Uscito fuor della Grotta, colla bisaccia in collo, trovò il contadino che lo attendeva.
- Maestà, la Reginotta ora è mia.
Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone?
- Domanda qualunque grazia e ti verrà concessa. Ma per la Reginotta nettati la bocca.
- Maestà, e la vostra parola?
- Le parole se le porta il vento.
- Quando sarete al palazzo ve ne accorgerete.
Arrivato al palazzo, il Re mette giù la bisaccia e fa di vuotarla. Ma invece di arance d'oro, trova arance marce.
Si mette le mani nelle tasche, i diamanti son diventati tanti gusci di lumache!
Ah! quel pezzo di contadinaccio gliel'avea fatta!
Ma il cardellino la pagava.
E tornò a martoriarlo.
- Dove sono le mie arance d'oro?
- Se non mi farete più nulla, Maestà, ve lo dirò.
- Non ti farò più nulla.
- Son lì dove le avete viste; ma per riaverle bisogna conoscere un altro motto, e lo sanno due soli: il mercante e quel contadino che mi ha preso.
Il Re lo mandò a chiamare:
- Facciamo un altro patto. Dimmi il motto per riprendere le arance e la Reginotta sarà tua.
- Parola di Re?
- Parola di Re!
- Maestà il motto è questo:
"Ti sto addosso:
Dammi l'osso."
- Va bene.
Il Re andava e ritornava più volte colla bisaccia colma, e riportava a palazzo tutte le arance d'oro.
Allora si presentò il contadino:
- Maestà, la Reginotta ora è mia.
Il Re si fece scuro. Dovea dare la Reginotta a quello zoticone?
- Quello è il tesoro reale: prendi quello che ti piace. Quanto alla Reginotta, nettati la bocca.
- Non se ne parli più.
E andò via.
Da che il cardellino era in gabbia, le arance d'oro restavano attaccate all'albero da un anno all'altro.
Un giorno la Reginotta disse al Re:
- Maestà, quel cardellino vorrei tenerlo nella mia camera.
- Figliuola mia, prendilo pure; ma bada che non ti scappi.
Il cardellino nella camera della Reginotta non cantava più.
- Cardellino, perché non canti più?
- Ho il mio padrone che piange.
- E perché piange?
- Perché non ha quel che vorrebbe.
- Che cosa vorrebbe?
- Vorrebbe la Reginotta. Dice:
"Ho lavorato tanto,
E le fatiche mie son sparse al vento."
- Chi è il tuo padrone? Quello zotico?
- Quello zotico, Reginotta, è più Re di Sua Maestà.
- Se fosse vero, lo sposerei. Va' a dirglielo, e torna subito.
- Lo giurate?
- Lo giuro.
E gli aperse la gabbia. Ma il cardellino non tornò.
Una volta il Re domandò alla Reginotta:
- O il cardellino non canta più? È un bel pezzo che non lo sento.
- Maestà, è un po' malato.
E il Re s'acchetò.
Intanto la povera Reginotta viveva in ambascia:
- Cardellino traditore, te e il tuo padrone!
E come s'avvicinava la stagione delle arance, pel timore del babbo, il cuore le diventava piccino piccino.
Intanto venne un ambasciatore del Re di Francia che la chiedeva per moglie. Il padre ne fu lieto oltremodo, e rispose subito di sì. Ma la Reginotta:
- Maestà, non voglio: vo' rimanere ragazza.
Quello montò sulle furie:
- Come? Diceva di no, ora che avea impegnato la sua parola e non potea più ritirarla?
- Maestà, le parole se le porta il vento.
Il Re non lo potevan trattenere: schizzava fuoco dagli occhi. Ma quella, ostinata:
- Non lo voglio! Non lo voglio! Vo' rimanere ragazza.
Il peggio fu quando il Re di Francia mandò a dire che fra otto giorni arrivava.
Come rimediare con quella figliolaccia caparbia?
Dallo sdegno, le legò le mani e i piedi e la calò in un pozzo:
- Di' di sì, o ti faccio affogare!
E la Reginotta zitta. Il Re la calò fino a metà.
- Di' di sì, o ti faccio affogare!
E la Reginotta zitta. Il Re la calava più giù, dentro l'acqua; le restava fuori soltanto la testa:
- Di' di sì, o ti faccio affogare!
E la Reginotta zitta.
- Dovea affogarla davvero?
E la tirò su; ma la rinchiuse in una stanza, a pane ed acqua. La Reginotta piangeva:
- Cardellino traditore, te e il tuo padrone! Per mantenere la parola ora patisco tanti guai!
Il Re di Francia arrivò con un gran seguito, e prese alloggio nel palazzo reale.
- E la Reginotta? Non vuol farsi vedere?
- Maestà, è un po' indisposta.
Il Re non sapeva che rispondere, imbarazzato.
- Portatele questo regalo.
Era uno scatolino tutto d'oro e di brillanti. Ma la Reginotta lo posò lì, senza neppur curarsi d'aprirlo. E piangeva.
- Cardellino traditore, te e il tuo padrone!
- Non siamo traditori, né io, né il mio padrone.
Sentendosi rispondere dallo scatolino, la Reginotta lo aperse.
- Ah, cardellino mio! Quante lagrime ho sparse.
- La tua sorte volea così. Ora il destino è compito.
Sua Maestà, conosciuto chi era quel contadino, le diè in dote l'albero che produceva le arance d'oro, e il giorno appresso la Reginotta sposò il Re di Francia.
E noi restiamo a grattarci la pancia.
Illustrazione di Dalila ManzoQuesta è la bella storia di Ranocchino porgi il ditino, e sentirete qui appresso perché si dica così.
Si racconta dunque che c'era una volta un povero diavolo, il quale aveva sette figliuoli, che se lo rodevano vivo. Il maggiore contava dieci anni, e l'ultimo appena due.
Una sera il babbo se li fece venire tutti dinanzi.
- Figliuoli - disse - son due giorni che non gustiamo neppure un gocciolo d'acqua, ed io, dalla disperazione, non so più dove dar di capo. Sapete che ho pensato? Domani mi farò prestar l'asino dal nostro vicino, gli porrò le ceste e vi porterò attorno per vendervi. Se avete un po' di fortuna, si vedrà.
I bimbi si misero a strillare; non volevano esser venduti, no! Solo l'ultimo, quello di due anni, non strillava.
- E tu, Ranocchino? - gli domandò il babbo, che gli avea messo quel nomignolo perché era piccino quanto un ranocchio.
- Io son contento - rispose.
E la mattina quel povero diavolo se lo prese in collo, e cominciò a girare per la città.
- Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino!
Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera!
S'affacciò alla finestra la figlia del Re.
- Che cosa vendete, quell'uomo?
- Vendo questo bimbo, chi lo vuol comprare.
La Reginotta lo guardò, fece una smorfia e gli sbatacchiò le imposte sul viso.
- Bella grazia! - disse quel povero diavolo. E riprese ad urlare:
- Chi mi compra Ranocchino! Chi mi compra Ranocchino!
Ma nessuno lo voleva, un cosino a quella maniera!
Quel povero diavolo non avea coraggio di tornare a casa, dove gli altri figliuoli lo aspettavano come tant'anime del purgatorio, morti di fame.
Ranocchino intanto gli s'era addormentato addosso.
Allora lui pensò ch'era meglio ammazzarlo, piuttosto che vederlo patire: gli avrebbe ammazzati tutti, quei figliuoli, ad uno ad uno; e cominciava da questo!
Era già sera: e, uscito fuor di città, si ridusse in una grotta, dove non poteva esser veduto da nessuno. Adagiò per terra il bimbo che dormiva tranquillamente, e prima d'ammazzarlo si mise a piangerlo:
- Ah, coricino mio!
E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti!
Ah, Ranocchino mio!
E non ti vedrò più per la casa, non ti vedrò!
Ah, coricino mio!
E chi fu la strega che te lo cantò in culla, chi fu?
Ah, Ranocchino mio!
E debbo ammazzarti con queste mani, debbo ammazzarti!
Spezzava il cuore perfino ai sassi.
- Che cosa è stato, che piangi così?
Il povero diavolo si voltò e vide una vecchia seduta a traverso la bocca della grotta, con un bastoncello in mano.
- Che cosa è stato! Ho sette figliuoli piccini e moriamo tutti di fame. Per non vederli più patire, ho deliberato d'ammazzarli; e comincio da questo.
- Come si chiama?
- Si chiama Beppe; ma noi gli diciamo Ranocchino.
- E Ranocchino sia!
La vecchia toccava appena il bimbo col bastoncello, che quegli era già diventato un ranocchio e saltellava qua e là.
Il povero padre rimase spaventato.
- Fatti coraggio! - gli disse la vecchia - Fruga in quel canto; c'è del pane e del formaggio: mangerete per questa sera. Domani a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna.
Quando i figliuoli lo videro tornare senza il fratellino, si misero a strillare.
- Zitti! Ecco del pane e del formaggio.
- Ma Ranocchino dov'è?
- È morto!
Disse così per non esser seccato.
E il giorno appresso, prima dell'ora fissata, andava ad appostarsi sotto le finestre del palazzo reale. Aspetta, aspetta, la vecchia non compariva. La figlia del Re era a una finestra, che si pettinava. Lo riconobbe e gli domandò, per canzonatura:
- O quell'uomo, e Ranocchino ve l'han comprato?
Ma prima che quello rispondesse, ecco la vecchia con una coda di gente dietro. La gente fece crocchio e la vecchia, nel mezzo, diceva:
- Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri avevano un bel dirgli: - Ranocchino, porgi il ditino -; non se ne dava per inteso. Una meraviglia non mai vista. E tutti pagavano un soldo.
La Reginotta fece chiamar la vecchia sotto la finestra; voleva veder anche lei.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Rimase ammaliata. E corse subito dal Re.
- Babbo, se mi vuoi bene, devi comprarmi quel Ranocchino.
- Che vorresti tu farne?
- Allevarlo nelle mie stanze: mi divertirò.
Il Re acconsentì.
- Buona donna, quanto volete di quel Ranocchino?
- Maestà, lo vendo a peso d'oro. È quel che vale.
- Voi canzonate, vecchia mia.
- Dico davvero. Domani varrà il doppio. Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino stendeva la zampina e porgeva il ditino alla vecchia. Gli altri avevano un bel dirgli: - Ranocchino, porgi il ditino -; non se ne dava per inteso.
- Vedi? - disse il Re alla Reginotta. - Occorre anche la vecchia.
La Reginotta non s'era provata.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Ranocchino spiccò un salto, le fece una bella riverenza e le porse il ditino.
Allora bisognò comprarlo: se no, la Reginotta non si chetava.
Posero Ranocchino in un piatto della bilancia e un pezzettino d'oro nell'altro, ma la bilancia non lo levava. Possibile che quel Ranocchino pesasse tanto? Colmarono d'oro il piatto ma la bilancia non lo levava. La Reginotta e la Regina si tolsero gli orecchini, gli anelli, i braccialetti e li buttarono lì. Nulla! Il Re si tolse la cintura, ch'era d'oro massiccio, e la buttò lì. Nulla!
- Anche la corona! Vorrei ora vedere!...
Allora la bilancia levò esatta; non mancava un pelo.
La vecchia si rovesciò quel mucchio d'oro nel grembiule e andò via.
Quel povero diavolo l'attendeva all'uscita.
- Tieni!
E gli riempì le tasche.
- Però bada! Spendi tutto a tuo piacere; ma la corona reale, se tu la vendi o la perdi, guai a te!
La Reginotta si spassava, tutto il giorno, con Ranocchino.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Era una bellezza. Lo teneva sempre in mano, lo portava seco dovunque. A tavola, Ranocchino dovea mangiare nel piatto di lei.
- Una cosa sconcia! - diceva la Regina.
Ma quella era figlia unica, e le perdonavano tutti i capricci.
Arrivò il tempo che la Reginotta dovea andare a marito. L'avea chiesta il Reuccio del Portogallo, e il Re e la Regina n'eran contentissimi. Lei disse di no:
Voleva sposare Ranocchino!
Poteva darsi? Intanto non c'era verso di persuaderla.
- O Ranocchino, o nessuno!
- Te lo do io Ranocchino!
E il Re, afferratolo per una gambetta, stava per sbatacchiarlo sul pavimento; ma entrò un'aquila dalla finestra che glielo strappò di mano e sparì.
La Reginotta piangeva giorno e notte. Povera figliuola, faceva pena! E tutta la corte stava in lutto.
Intanto in casa di Ranocchino pareva tutti i giorni carnovale. Spendi e spandi; mezzo vicinato banchettava lì e i danari andavano via a fiumi. Finalmente non ci fu più il becco d'un quattrino.
- Babbo, vendiamo la corona reale.
- La corona reale non si tocca!
- Si dee crepar di fame? Vendiamola!
- La corona reale non si tocca.
Quel povero diavolo tornò nella grotta in cerca della vecchia, e si mise a piangere.
- Che cosa è stato?
- Mammina mia, i quattrini son finiti e quei figliuoli vorrebbero vendere la corona reale; ma io non l'ho permesso.
- Fruga in quel canto. C'è del pane e del formaggio; mangerete per questa sera. Domani a mezzogiorno, aspettami sotto le finestre del palazzo reale: sarà la tua fortuna.
Tornò a casa, e trovò una tragedia! Cinque figliuoli erano stesi morti per terra in un lago di sangue; uno respirava appena:
- Ah, babbo mio! È venuta un'aquila forte e picchiò alla finestra. "Ragazzi, fatemi vedere la corona reale." "Il babbo la tiene sotto chiave." "E dove l'ha riposta?" "In questa cassa." Allora, a colpi di becco, cominciò a scassinarla; e siccome noi ci si opponeva, ci ha tutti ammazzati.
Detto questo, spirò.
Quel povero diavolo si sentì rizzare i capelli. I figliuoli morti e la corona sparita!
Il giorno dopo, quando vide la vecchia, le raccontò ogni cosa.
- Lascia fare a me! - rispose quella.
La Reginotta stava malissimo. I medici non sapevano più quali rimedi adoprare.
- Maestà, - dissero, all'ultimo - qui ci vuol Ranocchino, o la Reginotta è spacciata.
Il Re si disperava:
- Dove prenderlo quel maledetto Ranocchino? L'aquila lo aveva già digerito da un pezzo.
Si presentò la vecchia:
- Maestà, Ranocchino ve lo farei trovare io; ma ci vuole un gran coraggio.
- Mi lascerei anche fare a pezzi rispose il Re.
- Prendete un coltello di diamante, il più bel bue della mandria, una corda lunga un miglio, e venite con me.
Il Re prese il coltello di diamante, il più bel bue della mandria, una corda lunga un miglio, e partì insieme colla vecchia. Nessuno dovea seguirli.
Camminarono due giorni, e al terzo, verso il tramonto, giunsero in una pianura. Lì c'era la torre incantata, senza porte e senza finestre, alta un miglio.
- Ranocchino è qui! - disse la vecchia. - Quegli uccellacci che aliano attorno alla cima, sono i suoi carcerieri. Bisogna montare lassù.
- O come?
- Maestà, ammazzate il bue e vedrete.
Il Re ammazzò il bue.
- Maestà, scorticatelo e lasciate molta carne attaccata al cuoio.
Il Re lo scorticò e lasciò molta carne attorno al cuoio.
- Ora rivolteremo questo cuoio - disse la vecchia. - Io vi ci cucirò dentro. Scenderanno gli uccellacci e vi porteranno lassù. La notte, spaccherete il cuoio col coltello di diamante; e la mattina quando l'aquila e gli uccellacci saranno andati via per la caccia, attaccherete la corda alla cima, prenderete Ranocchino e la corona reale, metterete il coltello fra i denti e vi lascerete andar giù.
Il Re esitava.
- E se la corda si spezzasse?
- Tenendo il coltello fra i denti non si spezzerà.
Il Re, per amor della figliuola, si lasciò cucire dentro il cuoio. E, subito, ecco gli uccellacci di preda che lo afferrano cogli arti gli e se lo portano lassù.
La notte, spaccò il cuoio col coltello di diamante e andò a nascondersi in fondo a uno stanzino. Quando fu giorno, aspettò che l'aquila e gli uccellacci di preda andassero a caccia, attaccò la corda alla cima della torre, prese Ranocchino e la corona reale, e si lasciò andar giù.
E il coltello? L'aveva dimenticato.
Allora la corda cominciò a nicchiare:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Come rimediare? Il Re si morse una vena del braccio e ne fece schizzar il sangue. Intanto scivolava giù.
Ma poco dopo la corda da capo:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Il Re si morse la vena dell'altro braccio e ne fece schizzar il sangue. Intanto scivolava giù.
Ma la corda da capo:
- Ahi, ahi! Mi spezzo! Dammi da bere.
Il Re, visto che ci voleva pochino a toccar terra:
- E spezzati! - rispose.
Infatti si spezzò; ma lui, per sua fortuna, se la cavò con qualche ammaccatura. Per le vene ferite delle braccia la vecchia cercò un'erba, e gliele medicò con essa, e gli sanarono a un tratto.
Appena visto Ranocchino, la Reginotta cominciò a riaversi.
- Ranocchino, porgi il ditino!
E Ranocchino porgeva il ditino, e a lei soltanto.
Il Re, per finirla, voleva far subito le nozze. Ma la vecchia gli disse:
- Bisogna aspettare ancora un mese. Intanto fate preparare una caldaia d'olio bollente.
- A che farne?
- Lo saprete poi.
Quando fu il giorno, l'olio bolliva nella caldaia. Venne la vecchia e dietro a lei quel povero diavolo con un carro, su cui erano distesi i cadaveri dei sei figliuoli.
- Reginotta, - disse la vecchia - volete sposare Ranocchino? Bisogna prenderlo per un piede e tuffarlo tre volte in quell'olio.
La Reginotta esitava.
- Tuffami, tuffami! - le disse Ranocchino.
Allora lei lo tuffò. Uno, due! Ma la terza volta le scappa di mano e casca in fondo alla caldaia. La Reginotta si svenne.
Il Re voleva far ammazzare la vecchia; ma questa, afferrati in fretta in fretta quei morticini e buttatili nell'olio bollente, cominciò a rimestare col suo bastone, e intanto cantava:
Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.
Infatti ecco il figlio maggiore che salta fuori vivo, il primo.
Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.
E rimestava. Ed ecco saltar fuori il secondo. Così tutti e sei i fratellini.
- Oh, il bel ranno! Oh, il bel ranno!
Presto fuori salteranno.
E rimestava. Ma Ranocchino venne soltanto a galla e non saltò.
La Reginotta, appena lo scorse, tentò d'afferrarlo; la vecchia la trattenne.
- Voleva scottarsi? Doveva fare come al solito.
- Ranocchino, porgi il ditino!
Ranocchino porse il ditino alla Reginotta..., e chi uscì fuori? Un bel giovane che pareva un Sole.
La Reginotta lo riconobbe pel bimbo che quel povero diavolo volea vendere, e gli domandò scusa d'avergli sbatacchiato le impòste sul viso. Ranocchino, si capisce, le aveva già perdonato.
Si fecer le nozze con magnifiche feste, e Ranocchino, a suo tempo, ebbe la corona reale.
Chi la vuol cruda, chi la vuol cotta;
Chi non gli piace, me la riporti.
C'era una volta un Re che avea una bimba.
La Regina era morta di parto, e il Re avea preso una balia che gli allattasse la piccina.
Un giorno la balia scese, insieme colla bimba, nel giardino reale. La bimba avea tre anni, e si divertiva a fare chiasso sull'erba, all'ombra dei grandi alberi. Sull'ora di mezzogiorno la balia s'addormentava; ma quando si svegliò, non trovò più la Reginotta. Cerca, chiama per tutto il giardino; nulla! La bimba era scomparsa.
Come presentarsi al Re, che andava matto per quella figliuola?
La povera balia si picchiava il petto, si strappava i capelli:
- Dio! Dio! Sua Maestà l'avrebbe fatta impiccare!
Agli urli della balia erano accorse le guardie.
Fruga e rifruga, tutto fu inutile.
Venne l'ora del pranzo.
- E la Reginotta? - domandò il Re.
I ministri si guardarono in faccia, più bianchi di un panno lavato.
- La Reginotta dov'è?
- Maestà, - disse un ministro - è accaduta una disgrazia!
Il Re pareva fuori di sé dal gran dolore. Fece subito un bando:
- Chi riporta la Reginotta, gli si concede qualunque grazia.
Ma eran già passati sei mesi, e al palazzo reale non s'era visto nessuno.
I banditori andavano di regno in regno:
- Sia cristiano, sia infedele, chi riporta la Reginotta, gli vien concessa qualunque grazia.
Ma passò un anno, e al palazzo reale non si presentò nessuno.
Il Re era inconsolabile: piangeva giorno e notte.
Nel giardino reale c'era un pozzo. La Reginotta, mentre la balia dormiva, s'era accostata all'orlo e vi si era affacciata.
Vedendo, laggiù, nello specchio dell'acqua, un'altra bimba sua pari, l'avea chiamata: - Ehi! Ehi! -, accennando colle manine. Allora era sorto dal fondo del pozzo un braccio lungo lungo, peloso peloso, che l'afferrò e la tirò giù. E così, da parecchi anni, lei viveva in fondo a quel pozzo, col Lupo Mannaro che l'aveva tirata giù.
In fondo al pozzo c'era una grotta grande dieci volte più del palazzo reale. Stanze tutte oro e diamanti, una più bella e più ricca dell'altra. È vero che non ci penetrava mai sole, ma ci si vedeva lo stesso. La bimba veniva servita da quella Reginotta che era. Una cameriera per spogliarla, una per vestirla, una per lavarla, una per pettinarla, una per recarle la colazione, una per servirla a pranzo, una per metterla a letto. S'era già abituata e non ci viveva di cattivo umore.
Il Lupo Mannaro russava tutto il santo giorno e la notte andava via. Siccome la bimba, quando lo vedeva, strillava dalla paura, si facea veder di rado: non volea spaventarla.
Intanto la Reginotta s'era fatta una bella ragazza.
Una sera, entrata in letto, non poteva dormire. Sentito che il Lupo Mannaro si preparava ad andar via, tese meglio l'orecchio. Il Lupo Mannaro con quella sua vociaccia ròca, urlava:
- Chiamatemi il cuoco.
Il cuoco venne.
- Credo che siamo in punto, - gli disse - mi pare una quaglia.
- Bisogna vedere - rispose il cuoco.
La Reginotta sentì che giravano adagino il pomo della serratura:
- Ahimè! Dunque si trattava di lei? Il Lupo Mannaro voleva mangiarsela.
Le si accapponò la pelle, sfido io! Si fece piccina piccina, e finse di dormire. Il Lupo Mannaro s'accostava al letto, svoltava le coperte con cautela, e il cuoco cominciava a tastarla tutta, come gallina da tirargli il collo.
- Ancora una settimana, - disse il cuoco - e sarà un boccone reale.
Come intese queste parole, la Reginotta si senti rinascere:
- Otto giorni! Oh, quella quaglia il Lupo Mannaro non l'avrebbe mangiata; no, no!
Pensa e ripensa, le venne un'idea. La mattina, saltata giù dal letto, appostossi alla bocca della grotta, dentro il collo del pozzo, ed aspettò che venisse gente ad attinger acqua. La carrucola stride, la secchia fa un tonfo, ed ecco la Reginotta che s'afferra alla corda, puntando i piedini sull'orlo della secchia. La tiravano su lentamente; era un po' pesa. A un tratto la corda si rompe, e secchia e Reginotta, patatunfete, giù!
Accorsero le cameriere e la ritirarono dall'acqua.
- Ebbi un capogiro e cascai. Non ne fate motto, per carità; il Lupo Mannaro mi picchierebbe.
E passò un giorno.
Il secondo giorno, aspetta aspetta, la secchia non venne giù. Bisognava trovare un altro mezzo: ma non era come dirlo. Quale? La grotta non aveva che quell'unica uscita.
E passò un altro giorno.
La Reginotta non si perdette d'animo. Appena aggiornava, era al suo posto; ma la secchia non calava.
E passarono altri due giorni.
Una mattina, mentre lei piangeva dirottamente, guardando fisso nell'acqua vide lì un pesciolino rosso, che parea d'oro, colla coda bianca come l'argento, e con tre macchie nere sulla schiena.
- Ah! Pesciolino, tu sei felice! Tu sei libero in mezzo all'acqua, ed io qui sola, senza parenti né amici!
Il pesciolino montava a fior d'acqua, dimenando la coda, aprendo e chiudendo la bocca; pareva l'avesse sentita:
- Ah! Pesciolino, tu sei felice! Tu sei libero in mezzo all'acqua, ed io qui sola, senza parenti né amici. Fra quattro giorni sarò mangiata!
Il pesciolino rosso, dalla coda bianca e dalle tre macchie nere sulla schiena, s'era accostato alla sponda:
- Se tu fossi di sangue reale e volessi sposarmi, saremmo liberi tutti e due. Per vincere il mio incanto non ci vuol altro.
- Son sangue reale, pesciolino d'oro, e son tua sposa fino da questo momento.
- Cavalcami sulla schiena e tienti forte.
La Reginotta si mise a cavalcioni del pesciolino e gli si afferrò alle branchie; e il pesciolino, nuota, nuota, la portò in fondo al pozzo. Di lì passava un fiume, sotto terra. Il pesciolino infilò diritto la corrente e la Reginotta gli si tenne sempre ben afferrata alle branchie.
Ma ecco, in un punto, un pesce grossissimo, con tanto di bocca spalancata, che voleva ingoiarli:
- Pagate il pedaggio, o di qui non si passa.
La Reginotta si strappò un'orecchia e gliela buttò. Nuota, nuota, ecco un altro pesce più grosso del primo, con tanto di bocca spalancata e una foresta di denti:
Pagate il pedaggio, o di qui non si passa.
La Reginotta si strappava l'altra orecchia e gliela buttava.
Quando la corrente sboccò all'aria aperta, il pesciolino depose la Reginotta sulla sponda e diè un salto fuor dell'acqua. Era diventato un bel giovane, con tre piccoli nèi sulla faccia. Lei disse:
- Andiamo a presentarci al Re mio padre. Son tredici anni che non mi vede.
Al portone del palazzo reale non volevano lasciarla passare.
- Sono la Reginotta! Son la figliuola del Re!
Non ci credeva nessuno, nemmeno il Re. Pure ordinò di fargliela venire dinanzi:
- Chi sa? Poteva anche darsi!
Il Re la guardò da capo a piedi: gli pareva e non gli pareva. Lei gli raccontò la sua storia; ma non disse nulla delle orecchie, per vergogna. Infatti nascondeva il suo difetto, tenendo basse le trecce.
Ma un ministro se n'accorse:
- E le orecchie, figliuola mia? Dove le perdeste le orecchie?
Il Re, indignato, la condannava a rigovernare i piatti e le stoviglie della cucina reale. Il principe Pesciolino (lo chiamarono subito così) fu dannato a spazzar le stalle:
- Imparassero in tal modo a farsi beffa del Re!
Un giorno Sua Maestà volea mangiare del pesce. Ma in tutto il mercato c'era due pesci soltanto, e nessuno sapeva che razza di pesci si fossero, neppure i pesciaioli. Ed erano lì dal giorno avanti, e cominciavano a passare. Ma il Re volea del pesce ad ogni costo, e il cuoco li comprò:
- Maestà, non c'è che questi; nessuno sa che pesci siano, neppure i pesciaioli. Trovansi in mercato da due giorni e cominciano a passare.
- Sta bene, - disse il Re - portali in cucina.
In cucina il cuoco fa per sventrarli, e che gli trova nelle budella? Due orecchie di creatura umana, ancor stillanti sangue!
Chiamarono subito Senza-orecchie, come le aven messo il nomignolo:
- Senza-orecchie, Senza-orecchie, ecco roba per te!
La Reginotta accorse: eran davvero le sue orecchie. Tremante dalla contentezza se le adattò al capo e le si appiccicarono; il sangue avea servito da colla.
Colle orecchie, il Re suo padre raffigurolla ad un tratto:
- È lei! È la mia figliuola!
E bandì feste reali per otto giorni. Poi, siccome era vecchio, volle lasciare il regno. E il re Pesciolino e la regina Senza-orecchie regnarono a lungo dopo di lui.
Stretta la foglia, e larga la via,
Dite la vostra, ché ho detto la mia.
C'era una volta un Re e una Regina che non avevan figliuoli e pregavano i santi, giorno e notte, per ottenerne almeno uno. Intanto consultavano anche i dottori di Corte.
- Maestà, fate questo.
- Maestà, fate quello.
E pillole di qua, e beveroni di là; ma il sospirato figliuolo non arrivava a spuntare.
Una bella giornata ch'era freddino, la Regina s'era messa davanti il palazzo reale per riscaldarsi al sole. Passa una vecchiarella:
- Fate la carità!
Quella per la noia di cavar le mani di tasca rispose:
- Non ho nulla.
La vecchiarella andò via brontolando.
- Che cosa ha brontolato? - domandò la Regina.
- Maestà, ha detto che un giorno avrete bisogno di lei.
La Regina le fece correre una persona dietro, per richiamarla; ma la vecchiarella aveva svoltato cantonata ed era sparita.
Otto giorni dopo, si presentava un forestiero, chiedeva di parlare in segreto col Re:
- Maestà, ho il rimedio per guarir la Regina. Ma prima facciamo i patti.
- Oh, bravo! Facciamo i patti.
- Se nascerà un maschio, lo terrete per voi.
- E se una femmina?
- Se una femmina quando avrà compiti i sette anni, dovrete condurla in cima a quella montagna e abbandonarla lassù: non ne saprete più nuova.
- Consulterò la Regina.
- Vuol dire che non ne farete nulla.
Stretto fra l'uscio e il muro, il Re accettò. Il forestiero cavò di tasca una boccettina, che gli spariva fra le dita e disse:
- Ecco il rimedio. Questa notte, appena la Regina sarà addormentata, Vostra Maestà glielo versi tutto intero in un orecchio. Basterà.
Infatti, dopo nove mesi, la Regina partorì e fece una bella bambina. A questa notizia il Re diede in uno scoppio di pianto:
- Povera figliolina, che mala sorte! Che mala sorte!
La Regina lo seppe:
- Maestà, perché avete pianto: Povera figliolina, che mala sorte?
- Non ne fate caso.
La Reginotta cresceva più bella del sole: il Re e la Regina n'erano matti. Quando entrò nei sette anni, il povero padre non sapeva darsi pace, pensando che presto doveva condurla in cima a quella montagna, abbandonarla lassù e non averne più nuove! Ma il patto era questo: bisognava osservarlo.
Il giorno che la Reginotta compì i sette anni, il Re disse alla Regina:
- Vo in campagna colla bimba; torneremo verso sera.
Cammina, cammina, giunsero a piè della montagna e cominciarono a salire. La Reginotta non potea arrampicarsi, e il Re se la tolse in collo.
- Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro.
Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia.
- Babbo, che andiamo a fare lassù? Torniamo indietro.
Il Re non rispondeva, e si bevea le lagrime che gli rigavano la faccia.
- Babbo, che siam venuti a fare quassù? Torniamo indietro.
- Siediti qui; aspetta un momento.
E l'abbandonò alla sua sorte.
Vedendolo tornar solo, la Regina cominciò a urlare:
- E la figliuola? E la figliuola?
- Calò giù un'aquila, l'afferrò cogli artigli e la portò via.
- Ah, figliuola mia! Non è vero!
- Le sbucò addosso un animale feroce e andò a divorarsela nel bosco.
- Ah, figliolina mia! Non è vero!
- Faceva chiasso in riva al fiume e la corrente la travolse.
- Non è vero! Non è vero!
Allora il Re le raccontò per filo e per segno ogni cosa.
E la Regina partì, come una pazza, per ritrovar la figliuola.
Salita in cima alla montagna, cercò, chiamò tre giorni e tre notti, ma non scoperse neppure un segnale; e tornò, desolata, al palazzo.
Eran passati sette anni. Della bimba non s'era più saputo nuova. Un giorno la Regina si affaccia al terrazzino e vede giù nella via quella vecchiarella tanto ricercata:
- Buona donna, buona donna, montate su.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
La Regina rimase male. E il giorno dopo stette tutta la mattinata ad aspettarla al terrazzino. Come la vide passare:
- Buona donna, buona donna, montate su.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
Il giorno dopo, la Regina, per far meglio, andò ad aspettarla innanzi il portone.
- Maestà, oggi ho fretta; verrò domani.
Ma la Regina la prese per una mano e non la lasciò andar via; e per le scale le domandò perdono di quella volta che non le aveva fatto l'elemosina.
- Buona donna, buona donna, fatemi ritrovar la mia figliuola!
- Maestà, che ne so io? Sono una povera femminuccia.
- Buona donna, buona donna, fatemi ritrovar la mia figliuola!
- Maestà, male nuove. La Reginotta è alle mani d'un Lupo Mannaro, quello stesso che diè il rimedio e fece il patto col Re. Fra un mese le domanderà: mi vuoi per marito? Se lei risponde di no, quello ne farà due bocconi. Bisogna avvertirla.
- E il Lupo Mannaro dov'abita?
- Maestà, sotto terra. Si scende tre giorni e tre notti, senza mangiare, né bere, né riposare, e al terzo giorno s'arriva. Prendete un coltellino, un gomitolo di refe e un pugno di grano, e venite con me. La Regina prese tutto quello che la vecchiarella avea ordinato, e partì insieme con lei.
Giunsero ad una buca, che ci si passava appena. La vecchiarella attaccò un capo del refe a una piantina e disse:
- Chi semina raccolga,
Chi ti attacca, quei ti sciolga.
Ed entrarono. Scendi, scendi, scendi, la Regina già si sentiva le ginocchia tutte rotte.
- Vecchiarella, riposiamo un tantino!
- Maestà, è impossibile.
Scendi, scendi, scendi, la Regina non si reggeva più dalla fame.
- Vecchiarella, prendiamo un boccone, mi sento svenire!
- Maestà, non è possibile.
Scendi, scendi, scendi, la Regina affogava di sete.
- Vecchiarella, per carità, un gocciolo di acqua!
- Maestà, non è possibile.
E sbucarono in una pianura. Il gomitolo del refe terminò. La vecchiarella attaccò quell'altro capo ad una pianticina, e disse:
- Chi semina raccolga,
Chi ti attacca, quei ti sciolga.
Cominciarono ad inoltrarsi. Ad ogni passo la Regina dovea lasciar cadere in terra un chicco di grano e la vecchiarella diceva:
- Grano, grano di Dio,
Com'io ti semino, vo' mieterti io.
Il grano nasceva e cresceva subito, colle spighe mature che penzolavano.
- Maestà, ora piantate in terra il coltellino e sputate tre volte; siamo arrivati.
La Regina piantò il coltellino e sputò tre volte; e la vecchiarella disse:
- Coltellino, coltellino di Dio,
Com'io ti pianto, vo' strapparti io.
Lasciamo costoro e torniamo alla Reginotta.
Vistasi sola sola in cima alla montagna, s'era messa a piangere e a strillare; poi, povera bimba, s'era addormentata. Si svegliò in un gran palazzo; ma per quelle stanze e quei stanzoni non vedeva anima viva. Gira, rigira, era già stanca.
- Reginotta, sedete, sedete!
Le sedie parlavano.
Si sedette, e dopo un pezzettino, cominciò a sentirsi appetito. Comparve una tavola apparecchiata, colle pietanze fumanti.
- Reginotta, mangiate, mangiate!
La tavola parlava.
Mangiò, bevve, e poco dopo le vennero le cascaggini.
- Reginotta, dormite, dormite!
Il letto parlava. Era uno stupore. Così tutti i giorni. Non le mancava nulla, ma s'annoiava a star lì senza vedere un viso di cristiano. Spesso piangeva, pensando al babbo e alla mamma; ed una volta si mise a chiamarli ad alta voce, tra i singhiozzi:
- Babbo mio! Mamma mia! Con che cuore mi lasciate qui, mammina mia!
Ma una vociona le gridò:
- Sta' zitta! Sta' zitta!
Ranicchiossi in un canto, e non ebbe animo di più fiatare.
Passato un anno, un bel giorno si sentì domandare:
- Vuoi vedermi?
E non era quella vociona. Rispose:
- Volentieri.
Ed ecco gli usci si spalancano da loro stessi, e di fondo alla fila delle stanze viene avanti un cosino alto un cubito, vestito d'una stoffa a trama d'oro, con un berrettino rosso e una bella piuma più alta di lui.
- Buon giorno.
- Buon giorno. Oh, bimbo mio, come sei bello!
E lo prese in braccio e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola.
- Mi vuoi per marito? Mi vuoi?
La Reginotta rideva:
- Ti voglio, ti voglio.
E un altro salto per aria, prendendolo fra le mani.
- Come ti chiami?
- Gomitetto.
- Che fai qui?
- Sono il padrone.
- Allora lasciami andare! Lasciami tornare a casa mia!
- No, no! Dobbiamo sposarci.
- Per ora bada a crescere!
Gomitetto se l'ebbe a male ed andò via. E per un anno non si fece vivo. La Reginotta s'annoiava a star lì senza vedere un viso cristiano. Ogni giorno chiamava:
- Gomitetto! Gomitetto!
Ma Gomitetto non rispondeva. Un bel giorno le domandò di nuovo:
- Vuoi vedermi?
- Volentieri.
In un anno dovea esser cresciuto un pochino: ma gli usci si spalancarono, e le venne innanzi sempre lo stesso cosino alto un gomito, vestito di stoffa a trama d'oro, col berrettino rosso sormontato da quella bella piuma più alta di lui.
- Buon giorno.
- Buon giorno.
La Reginotta, nel vederlo lo stesso, rimase sorpresa. Lo prese in collo e cominciò a baciarlo, a carezzarlo, a farlo saltare in aria come una bambola.
- Mi vuoi per marito? Mi vuoi?
La Reginotta rideva:
- Ti voglio! Ti voglio! Ma per ora bada a crescere.
E qui un capitombolo per aria, prendendolo fra le mani. Gomitetto se l'ebbe a male e andò via.
Ogni anno così; ed eran passati sette anni. Intanto la Reginotta s'era fatta una ragazza, che ci volevan quattro paia d'occhi per guardarla. Una notte non potendo prender sonno, pensava al babbo e alla mamma:
- Chi sa se più si ricordano di me? Forse mi credono morta!
E piangeva sui guanciali; quand'ecco sente buttar dei sassolini all'imposta della finestra.
Chi poteva essere, a quell'ora?
Si fece coraggio, saltò giù dal letto, aperse adagino adagino l'impòsta, e domandò:
- Chi siete? Che cosa volete?
- Son io, figliuola mia; siam venute per te!
Dall'allegrezza stava per saltar dalla finestra.
- Ascolta, figliuola - disse la Regina sotto voce. - Quel Gomitetto è il Lupo Mannaro. Ti s'è mostrato a quel modo per non farti paura. Ma ora che sei grande, fra qualche giorno t'apparirà col suo vero aspetto. Figliuola mia, non atterrirti. E se ti domanda: Mi vuoi per marito? rispondi di sì; altrimenti sarai morta; ne farà due bocconi. La prossima notte a quest'ora ci rivedremo.
La mattina, la Reginotta udì la solita voce:
- Vuoi vedermi?
- Volentieri.
Si spalancarono gli usci, ma, invece di Gomitetto, venne avanti il Lupo Mannaro alto, grosso, peloso, con certi occhiacci e certe zanne, che Dio ne scampi ogni creatura! La Reginotta si sentì mancare.
- Mi vuoi per marito? Ti feci fare apposta per me.
Lei tremava come una foglia.
- Mi vuoi per marito?
Più la Reginotta sentiva quella vociaccia, e più tremava e si smarriva.
- Mi vuoi per marito?
Voleva rispondergli: sì! Ma le scappò detto:
- Oh, no! no!
- Allora vien qui!
E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela.
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia!
Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso! Sarai mangiata domani.
La notte, all'ora fissata, lei s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi scappò detto di no; sarò mangiata domani.
- Fatevi coraggio! - disse la vecchiarella.
E picchiò forte al portone.
- Chi è? Chi cercate?
All'urlo del Lupo Mannaro tutto il palazzo tremava.
- Son coltellino,
Son piantato nella terra dura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina, all'alba, venne fuori; e come vide il coltellino, si mordeva le mani:
- Se trovo chi l'ha piantato, ne faccio un boccone!
Cercò, frugò attorno, ma non trovò nessuno. All'ultimo chiamò la Reginotta:
- Vien qua, strappami di terra questo coltellino: non ti mangerò più.
La Reginotta gli credette, e strappò il coltellino.
- Ed ora vien qui!
E l'afferrò colle granfie per ingoiarsela.
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia.
Il Lupo Mannaro stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso.
La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi disse: strappa di terra questo coltellino, ed io glielo strappai. Domani sarò mangiata!
- Fatevi coraggio!
E la vecchiarella picchiò forte al portone.
- Chi è? Chi cercate?
All'urlo del Lupo Mannaro, tutto il palazzo tremava.
- Son frumentino,
Son seminato nella terra scura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba, venne fuori; e come vide il seminato colle spighe penzoloni, si mordeva le mani:
- Se trovo chi lo seminò, ne faccio un boccone.
Cercò, frugò intorno, ma non trovò nessuno. E la mattina dopo disse alla Reginotta:
- Vieni qua: mietimi questo frumento; non ti mangerò più.
La Reginotta gli credette, e si mise all'opera. Per lei non c'era malìa, e in una giornata poté facilmente terminare di mieterlo.
- Ed ora vien qui!
- Mangiami almeno domani! Te lo chieggo per grazia.
Quegli stette un momentino incerto, e poi rispose:
- Ti sia concesso, per l'ultima volta.
La notte, la Reginotta s'affacciò alla finestra:
- Ah, mammina mia! Mi disse: mieti questo frumento ed io glielo mietei. Domani sarò mangiata.
- Fatevi coraggio!
E la vecchiarella picchiò forte al portone.
- Chi è? - urlò il Lupo Mannaro.
- Son refe fino
Son attaccato alla pianta matura,
Per difender la creatura.
Contro questa malìa, il Lupo Mannaro non poteva nulla. E la mattina all'alba venne fuori, e come vide il capo del refe legato alla pianticina, si mordeva le mani:
- Vien qua; scioglimi questo refe dai due capi: non ti mangerò più.
La Reginotta era stata indettata dalla vecchiarella.
Non doveva fermarsi un passo, né mangiare, né bere, ma aggomitolare, aggomitolare e andare avanti. Sciolse quel capo, e lei avanti, aggomitolando, il Lupo Mannaro dietro.
- Ripòsati, ripòsati!
- Quando sarò stanca, mi riposerò.
Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro.
- Prendi un boccone, prendi un boccone!
- Quando avrò fame mangerò.
Lei avanti aggomitolando, e il Lupo Mannaro dietro.
- Bevi un gocciolino d'acqua, un gocciolino!
- Quando avrò sete, berrò.
Eran già arrivati alla buca d'uscita. Come il Lupo Mannaro s'accorse che l'altro capo del refe era attaccato alla pianticina di fuori, cominciò a mordersi rabbiosamente le mani. E vista la vecchiarella, diventò bianco come un panno lavato.
- Ah! La nemica mia! Son morto! Son morto!
La Regina e la Reginotta si voltarono e, invece della vecchiarella, videro una bellissima signora, che pareva la stella del mattino. Era la Regina delle Fate. Figuriamoci che allegrezza!
La Regina delle Fate prendeva intanto dei sassi, e li metteva l'uno sull'altro davanti la buca.
- Sassi, sassi di Dio,
Io vi muro e vo' smurarvi io!
Murata la buca, la Regina delle Fate sparì.
E quella brutta bestiaccia crepò di fame lì dentro.
La Regina e la Reginotta tornarono sane e salve al palazzo; e un anno dopo la Reginotta sposò il Re di Portogallo.
C'era una volta un Re, che amava pazzamente la caccia, e per essere più libero di andarvi tutti i giorni, non aveva voluto prender moglie.
I ministri gli dicevano:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui rispondeva:
- Prenderò moglie l'anno venturo.
Passava l'anno, e i ministri da capo:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
E lui:
- Prenderò moglie l'anno venturo.
Ma quest'anno non arrivava mai.
Ogni mattina, appena albeggiava, indossava la carniera, e col fucile sulla spalla, e coi cani, via pei forteti e pei boschi.
Chi avea da parlare col Re, doveva andare a trovarlo in mezzo ai boschi e ai forteti.
I ministri ripicchiavano:
- Maestà, il popolo desidera una Regina.
Talché finalmente il Re si decise, e mandò a chiedere la figlia del Re di Spagna.
Ma, andato per sposarla, si accorse che era un po' gobbina.
- Sposare una gobbina? No. Mai!
- Ma è bella, è virtuosa! - gli dicevano i ministri.
- È gobbina e basta: no, mai!
E tornò alla caccia, ai boschi e ai forteti.
Quella Reginotta gobbina aveva per comare una Fata.
La Fata, vedendola piangere pel rifiuto del Re, le disse:
- Sta' tranquilla: ti sposerà e dovrà venire a pregarti. Lascia fare a me.
Infatti un giorno il Re, andando a caccia, incontrò una donnicciola magra, allampanata, che un soffio l'avrebbe portata via.
- Maestà, buona caccia!
Il Re, a quel viso di mal augurio, stizzito, fece una mossaccia, e non rispose nulla.
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Un'altra mattina, ecco di nuovo quella donnicciuola magra, allampanata, che un soffio l'avrebbe portata via:
- Maestà, buona caccia!
- Senti, strega - le disse il Re - se ti trovo un'altra volta per la strada, te la farò vedere io!
E per quel giorno non ammazzò neppure uno sgricciolo.
Ma la mattina dopo, eccoti lì quella del malaugurio:
- Maestà, buona caccia!
- La buona caccia te la darò io!
Il Re avea condotto con sé le sue guardie, e ordinò che quella donna del malaugurio fosse chiusa in una prigione.
Da quel giorno in poi, tutte le volte che il Re andò a caccia, non poté tirare un sol colpo. La selvaggina era sparita, come per incanto, dai forteti e dai boschi. Non si trovava un coniglio o una lepre, neppure a pagarli a peso d'oro.
Gli accadde anche peggio.
Non potendo più fare il solito esercizio della caccia, il Re cominciò a ingrassare, a ingrassare, e in poco tempo diventò così grasso e grosso, da pesare due quintali con quel suo gran pancione che pareva una botte.
Quando avea fatto due passi per le stanze del palazzo reale, era come se avesse fatto cento miglia. Soffiava peggio di un mantice, sudava da allagare il pavimento; e doveva subito subito riposarsi e mangiare anche qualche cosa di sostanza, per rimettersi in forze. Desolato, consultava i migliori dottori:
- Vorrei dimagrare.
I dottori scrivevano ricette sopra ricette. Non passava giorno, che lo speziale non mandasse a palazzo bicchieroni d'intrugli amari come il fiele, che dovevano guarire Sua Maestà.
Ma Sua Maestà, più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Nel palazzo reale avevano già allargato tutti gli usci delle stanze, perché il Re potesse passare; e una volta gli architetti dissero che se non si fossero puntellati ben bene i solai, Sua Maestà col gran peso gli avrebbe sfondati.
Il povero Re si disperava:
- O che non c'era rimedio per lui?
E chiamava altri dottori; ma inutilmente. Più intrugli prendeva e più grasso diventava.
Un giorno si presentò una vecchia e disse al Re:
- Maestà, voi avete addosso una brutta malìa. Io potrei romperla; ma voi, in compenso, dovrete sposare la mia figliuola, che si chiama Cecina, perché è piccina come un cece.
- Sposerò la tua Cecina!
Il Re avrebbe anche fatto chi sa che cosa, pur di levarsi di dosso tutto quel grasso e quel pancione.
- Conducila qui.
La vecchia cacciò una mano nella tasca del grembiule, e ne tirò fuori la Cecina, che era alta appena una spanna, ma bellina e ben proporzionata. Come vide quel pancione, la Cecina scoppiò in una risata; e mentre quella la teneva sulla palma della mano per mostrarla al Re, lei spiccò un salto e si mise ad arrampicarsi su pel pancione, correndo di qua e di là, come se il pancione del Re fosse stato per lei una collina.
Il Re, con quei piedini, sentiva farsi il solletico e voleva fermarla; ma quella, salta di qua, salta di là, peggio di una pulce, non si lasciava acchiappare. Pel solletico, il Re rideva, ah! ah! ah!, e il pancione gli faceva certi sbalzi buffi. Ah! ah! ah!
Allora la Cecina:
- Pancione del Re,
Palazzo per me!
Il Re dal gran ridere, teneva aperta la bocca; la Cecina, dentro e giù per la gola:
- Pancione del Re,
Palazzo per me!
Figuriamoci lo spavento di Sua Maestà e di tutta la corte!
Nella confusione, la vecchia era sparita.
E la Cecina, che dal suo palazzo ordinava:
- Datemi da mangiare!
E il Re doveva mangiare anche per lei.
- Datemi da bere!
E il Re doveva bere anche per lei.
- Lasciatemi dormire!
E il Re dovea stare fermo e zitto, perché la Cecina dormisse.
- Maestà, - disse uno dei ministri - che sia una malìa di quella donna magra, allampanata, fatta mettere in prigione? Facciamola condurre qui.
I guardiani aprirono la prigione e la trovarono vuota. Quella donna dovea essere scappata pel buco della serratura!
- Ed ora che fare?
E la Cecina, dal suo palazzo del pancione:
- Datemi da mangiare! Datemi da bere!
Il popolo intanto mormorava per le tasse; giacché per riempire quel pancione del Re, ce ne volea della roba! E bisognava pagare.
Il Re fece un bando:
- Chi gli cavava la Cecina dallo stomaco, diventava principe reale e avrebbe avuto quattrini quanti ne voleva!
Ma i banditori andarono attorno inutilmente. E come la Cecina cresceva, per quanto poco crescesse, il pancione del Re si gonfiava e pareva dovesse scoppiare da un momento all'altro.
Il Re la pregava:
- Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
- Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da mangiare.
- Cecina bella, vieni fuori, ti faccio Regina!
- Maestà, sto bene qui dentro. Datemi da bere.
Se non fosse stato il timore della morte, il Re si sarebbe spaccato il pancione colle proprie mani.
E il popolo che brontolava:
- Re pancione ingoiava tutto! Lavoravano per Re pancione!
Come se Re pancione ci avesse avuto il suo piacere! Lo sapeva soltanto lui, quello che pativa, con la Cecina dentro che comandava a bacchetta e voleva essere ubbidita!
Finalmente un giorno ricomparve la vecchia:
- Ah, vecchia scellerata! Cavami fuori la tua Cecina, o guai a te!
- Maestà, son venuta a posta coi miei dottori.
E i suoi dottori erano due uccellacci più grossi di un tacchino, con un becco lungo un braccio e forte come l'acciaio.
- Maestà, - disse la vecchia - dovete stendervi a pancia all'aria in mezzo a una pianura.
Il Re, che era ingrassato da non poter più fare neppure un passo, comandò:
- Ruzzolatemi.
E il popolo cominciò a ruzzolarlo come una botte, per le scale e per le vie; e, dalla fatica, sudavano.
Arrivati nella pianura, e messo il Re a pancia all'aria, uno degli uccellacci gli diè una beccata sul pancione e, che ne schizzò fuori? Uno zampillo di vino schietto, tutto il vino che Sua Maestà aveva bevuto in tanti anni.
La gente riempiva botti, botticini, caratelli, tini, barili, fiaschi, boccali; non c'erano vasi che bastassero. Pareva di essere alla vendemmia. Tutti cioncavano e si ubriacavano.
E il pancione del Re si sgonfiò un poco.
Allora l'altro uccellaccio gli diè la sua beccata, ed ecco rigurgitar fuori tutto il ben di Dio mangiato dal Re in tanti anni; maccheroni, salsicciotti, polli arrosto, bistecche, pasticcini, frutta, insomma ogni cosa. La gente non sapeva più dove riporli. Tutti mangiarono a crepapancia, come fosse di carnovale.
E il pancione del Re sgonfiò un altro poco.
Allora il Re disse:
- Cecina bella, vien fuori; ti faccio Regina!
La Cecina affacciò la testa da uno dei buchi, e ridendo rispose:
- Eccomi qua.
E il Re tornò com'era prima.
Si sposarono; ma il Re, con quella cosina alta una spanna, che era una moglie per chiasso, si credette libero di tornare a divertirsi colla caccia, e stava fuori intere settimane.
La Cecina piangeva:
- Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re per questo lamentìo, non la poteva soffrire.
Andò da una Strega e le disse:
- Che cosa debbo fare per levarmi di torno la Cecina?
- Maestà,
Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Mangiarla gli repugnava; pure, tornato a casa disse alla Cecina:
- Domani ti condurrò a caccia, e ti divertirai.
Voleva condurla in mezzo ai boschi, dove non potesse vederlo nessuno. Ma la Cecina rispose:
- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Grazie, Maestà!
Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re rimase stupito:
- Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
- Maestà, quando la Cecina sarà addormentata, tagliatele una ciocca di capelli e portatemela qui.
Però, quella sera, la Cecina non avea voglia di andare a letto.
- Cecina, vieni a dormire.
- Più tardi, Maestà; per ora non ho sonno.
Il Re aspettò, aspettò, e si addormentò lui per il primo. La mattina, svegliatosi, vide che la Cecina era già levata.
- Cecina, non hai dormito?
- Chi si guarda si salva. Grazie, Maestà.
- Ah, poverina me!
Son Regina senza Re!
Il Re rimase stupito:
- Come lo sapeva?
Tornò dalla Strega e le raccontò la cosa.
- Maestà, invitate re Corvo; appena la vedrà, ne farà un sol boccone.
Venne re Corvo:
- Cra! Cra! Cra! Cra!
E come vide la Cecina, alta una spanna, cra! cra! ne fece un boccone.
- Mille grazie, re Corvo. Ora potete andar via.
- Cra! Cra! Cra! Ma prima di andar via, debbo mangiarti gli occhi.
E con due beccate gli cavò gli occhi.
Il povero Re piangeva sangue:
- La Cecina morta, e lui senz'occhi! Ah, Cecina mia!
Passato un po' di tempo, ricomparve la solita vecchia. Era la Fata comare della Reginotta di Spagna.
- Maestà, non vi affliggete. La Cecina è viva, e i vostri occhi son riposti in buon luogo; son nella gobba della Reginotta di Spagna.
Il Re si trascinò fino al palazzo reale, dove questa abitava, e cominciò a gridare pietosamente, dietro al portone:
- Ah, Reginotta! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta, dalla finestra, rispondeva:
- Sposare una gobbina! No, mai!
- Perdonatemi, Reginotta; e rendetemi gli occhi!
La Reginotta dalla finestra rispondeva:
- Spellarla, lessarla,
O arrosto mangiarla.
Allora il Re capì che la Reginotta di Spagna e la Cecina erano una sola persona; e si mise a gridare più forte:
- Ah, Reginotta! Ah, Cecina mia! Rendetemi gli occhi.
La Reginotta scese giù e gli disse:
- Ecco gli occhi.
Il Re la guardò sbalordito. La Reginotta non era più gobba e somigliava precisamente alla Cecina, benché fosse di giusta statura.
Così fu perdonato, e da lì a poco la sposò.
Lei, per ricordo, volle sempre essere chiamata Cecina.
Vissero lieti e contenti.
E a noi si allegano i denti.
C'era una volta un Re che credeva d'aver raccolto nel suo palazzo tutte le cose più rare del mondo.
Un giorno venne un forestiere, e chiese di vederle. Osservò minutamente ogni cosa e poi disse:
- Maestà, vi manca il meglio.
- Che cosa mi manca?
- L'albero che parla.
Infatti, tra quelle rarità, l'albero che parlava non c'era.
Con questa pulce nell'orecchio, il Re non dormì più. Mandò corrieri per tutto il mondo in cerca dell'albero che parlava. Ma i corrieri tornarono colle mani vuote.
Il Re si credette canzonato da quel forestiere, e ordinò d'arrestarlo.
- Maestà, se i vostri corrieri han cercato male, che colpa ne ho io? Cerchino meglio.
- E tu l'hai veduto, coi tuoi occhi, l'albero che parla?
- L'ho veduto con questi occhi e l'ho sentito con queste orecchie.
- Dove?
- Non me ne rammento più.
- E che cosa diceva?
- Diceva "aspettare e non venire è una cosa da morire".
Era dunque vero! Il Re spedì di bel nuovo i suoi corrieri. Passa un anno, e questi ritornano da capo colle mani vuote.
Allora, sdegnato, ordinò che al forestiere si tagliasse la testa.
- Maestà, se i vostri corrieri han cercato male, che colpa ne ho io? Cerchino meglio.
Questa insistenza lo colpì. Chiamati i suoi ministri, disse che voleva andar lui in persona alla ricerca dell'albero che parlava.
Finché non lo avesse nel suo palazzo, non si terrebbe per Re.
E partì, travestito.
Cammina, cammina, dopo molti giorni la notte lo colse in una vallata dove non c'era anima viva. Sdraiossi per terra e stava per addormentarsi, quand'ecco una voce che pareva piangesse:
- Aspettare e non venire è una cosa da morire!
Si scosse e tese l'orecchio. Se l'era sognato?
- Aspettare e non venire è una cosa da morire!
Non se l'era sognato! E domandò subito:
- Chi sei tu?
Non rispondeva nessuno. Ma le parole erano, precise, quelle dell'albero che parlava.
- Chi sei tu?
Non rispondeva nessuno. La mattina, come aggiornò, vide lì vicino un bell'albero coi rami pendenti fino a terra:
- Doveva esser quello.
E per accertarsene, stese la mano e strappò due foglie.
- Ahi! Perché mi strappi?
Il Re, con tutto il suo gran coraggio, rimase atterrito.
- Chi sei tu? Se sei anima battezzata, rispondi, in nome di Dio!
- Son la figliuola del Re di Spagna.
- E in che modo ti trovi lì?
- Vidi una fontana limpida come il cristallo, e pensai di lavarmi. Tocca appena quell'acqua, rimasi incantata.
- Che posso fare per liberarti?
- Bisogna aver la fatatura e giurare di sposarmi.
- Questo lo giuro subito, e la fatatura saprò procurarmela, dovessi andare in capo al mondo. Ma tu, perché non mi rispondevi la notte scorsa?
- C'era la Strega... Sta' zitto, allontanati; sento la Strega che ritorna. Se per disgrazia ti trovasse, incanterebbe anche te.
Il Re corse a nascondersi dietro un muricciolo, e vide arrivar la Strega a cavallo del manico di una granata.
- Con chi hai tu parlato?
- Col vento dell'aria.
- Veggo qui delle pedate.
- Son forse le vostre.
- Ah! Son le mie?
La strega afferrava una mazza di ferro e:
- Di dove vieni? Vengo dal mulino.
- Basta, per carità! Non lo farò più!
- Ah! Son le mie?
E:
- Di dove vieni? Vengo dal mulino.
Il Re, angustiato, si persuase che era inutile il seguitare a star lì; bisognava procurarsi la fatatura. E tornò addietro.
Ma sbagliò strada. Quando s'accorse d'essersi smarrito in un gran bosco e non trovava più la via, pensò di montare in cima a un albero per passarvi la notte; altrimenti, le bestie feroci n'avrebbero fatto un boccone.
Ed ecco, a mezzanotte, un rumore assordante per tutto il bosco. Era un Orco che tornava a casa coi suoi cento mastini, che gli latravano dietro.
- Oh, che buon odore di carne cristiana!
L'Orco si fermò a piè dell'albero, e cominciò ad annusar l'aria:
- Oh, che buon odore!
Il Re aveva i brividi mentre i mastini frugavano latrando, fra le macchie, e raspando il suolo dove fiutavan le pedate. Ma per sua buona sorte era buio fitto; e l'Orco, cercato inutilmente per un po' di tempo, andava via chiamandosi dietro i mastini.
- Té! Té!
Quando fu giorno, il Re, che tremava ancora dalla paura, scese da quell'albero e cominciò ad inoltrarsi cautamente. Incontrò una bella ragazza.
- Bella ragazza, per carità, additatemi la via. Sono un viandante smarrito.
- Ah, povero a te! Dove tu sei capitato! Fra poco ripasserà mio padre e ti mangerà vivo, poverino!
Infatti si sentivano i latrati dei mastini dell'Orco e la voce di lui che se li chiamava dietro:
- Té! Té!
- Questa volta sono morto! - pensò il Re.
- Vien qua, - disse la ragazza - bùttati carponi. Io mi sederò sulla tua schiena, e la mia gonna ti coprirà. Non fiatare!
L'Orco, vista la figliuola, si fermò.
- Che fai lì?
- Mi riposo.
- Oh, che buon odore di carne cristiana!
- Passava un ragazzino, e ne feci un bocconcino.
- Brava! E le ossa?
- Se le rosicchiarono i cani.
L'Orco non cessava d'annusar l'aria.
- Oh, che buon odore!
- Se volete arrivare alla marina, non indugiate per via.
Partito che fu l'Orco, il Re raccontò alla ragazza, per filo e per segno, tutta la sua storia.
Maestà, se volete sposarmi, la fatatura ve la darei io.
La ragazza era una bellezza; il Re l'avrebbe sposata volentieri.
- Ahimè, bella ragazza! Ho impegnato la parola.
- È la mia cattiva sorte! Ma non importa.
Lo condusse a casa, prese un barattolo e gli strofinò il petto con una pomata di suo padre. Il Re fu fatato.
- Ed ora, bella ragazza, dovreste prestarmi una scure.
- Eccola.
- Che cosa è quest'unto?
- È l'olio della cote dove è stata affilata.
Colla fatatura, ci volle un batter d'occhi per tornare al luogo dove trovavasi l'albero che parlava.
La Strega non c'era, e l'albero gli disse:
- Bada! Dentro il tronco c'è nascosto il mio cuore. Quando dovrai abbattermi non dar retta alla Strega. Se ti dirà di dar i colpi in su, e tu dàlli in giù. Se ti dirà di darli in giù, e tu dàlli in su; altrimenti m'ammazzeresti. Alla Stregaccia poi bisognerà spiccarle la testa con un sol colpo, o saresti spacciato; neppure la fatatura ti salverebbe.
Venne la Strega.
- Che cerchi da queste parti?
- Cerco un albero per far del carbone, e stavo osservando questo qui.
- Ti farebbe comodo? Te lo regalo, a patto che per atterrarlo tu dia colpi dove ti dirò io.
- Va bene.
Il Re brandì la scure, che tagliava meglio d'un rasoio e domandò:
- Dove?
- Qui.
E lui, invece, diè lì.
- Ho sbagliato. Da capo. Dove?
- Lì.
E lui, invece, diè qui.
- Ho sbagliato. Da capo.
Intanto non trovava il verso di assestare il colpo alla Strega: essa stava guardinga. Il Re fece:
- Oooh!
- Che vedi?
- Una stella.
- Di giorno? E impossibile.
- Lassù, diritto a quel ramo: guardate!
E mentre la Strega gli voltava le spalle per guardare diritto a quel ramo, lui le menò il colpo e le staccò, di netto, la testa.
Rotta così la malìa, dal tronco dell'albero uscì fuori una donzella, che non poteva esser guardata fissa, tanto era bella!
Il Re, contentissimo, tornò insieme con lei al palazzo reale, e ordinò che si preparassero subito magnifiche feste per gli sponsali.
Arrivato quel giorno, mentre le dame di corte abbigliavano da sposa la Regina, s'accorsero, con gran meraviglia, che avea le carni dure come il legno. Una di esse volò dal Re:
- Maestà, la Regina ha le carni dure come il legno!
- Possibile?
Il Re e i ministri andarono ad osservare. La cosa era sorprendente. Alla vista parevano carni da ingannare chiunque; a toccarle, era legno! Lei intanto parlava e si muoveva. I ministri dissero che il Re non poteva sposare una bambola, quantunque essa parlasse e si muovesse; e contromandaron le feste.
- Qui c'è un altro incanto! - pensò il Re, che si ricordò dell'unto della scure.
Prese un pezzetto di carne e lo tagliuzzò con questa. Aveva indovinato! I pezzettini, alla vista, parevan carne da ingannare chiunque; a toccarli, eran legno. Il tradimento gliel'aveva fatto la figliuola dell'Orco, per gelosia.
Il Re disse ai ministri:
- Vado e torno.
E si trovò nel bosco, dove aveva incontrato quella ragazza.
- Maestà, da queste parti? Che buon vento vi mena?
- Son venuto apposta per te.
La figlia dell'Orco non volea credergli:
- Parola di Re, che siete venuto apposta per me?
- Parola di Re!
Ed era vero; ma lei s'immaginava per le nozze.
Si presero a braccetto ed entrarono in casa.
- Questa è la scure che tu mi prestasti.
Nel porgergliela, il Re fece in maniera di ferirla in una mano.
- Ah, Maestà, che avete fatto! Son diventata di legno!
Il Re si fingeva afflittissimo di quell'accidente:
- E non si può rimediare?
- Aprite quell'armadio, prendete quel barattolo, ungetemi tutta coll'olio che è lì dentro, e sarò subito guarita.
Il Re prese il barattolo:
- Aspetta che io torni!
Lei capì e si messe a urlare:
- Tradimento! Tradimento!
E gli scatenò dietro i cento mastini di suo padre. Ma sì!... il Re era sparito. Con quell'olio le carni della Regina tornarono subito morbide, e si poterono celebrare le nozze.
Furono fatte feste reali per otto giorni, e a noialtri non dettero neppure un corno.
C'era una volta un sarto, che aveva tre figliuole, una più bella dell'altra. Sua moglie era morta da un pezzo, e lui si stillava il cervello per riuscire a maritarle. Le ragazze non avevano dote, e senza dote un marito è un po' difficile a trovarsi.
Un giorno questo povero padre pensò d'andarsene in una pianura e chiamare la Sorte:
- Sorte, o Sorte!
Gli apparve una vecchia, colla conocchia e col fuso:
- Perché mi hai tu chiamata?
- Ti ho chiamata per le mie figliuole.
- Menale qui ad una ad una; si sceglieranno la sorte colle loro mani.
Il buon uomo, tornato a casa tutto contento, disse alle figliuole:
- La vostra fortuna è trovata!
E raccontò ogni cosa. Allora la maggiore si fece avanti, ringalluzzita:
- La prima scelta tocca a me. Sceglierò il meglio!
Il giorno dopo, padre e figliuola si avviarono per quella pianura:
- Sorte, o Sorte!
Gli apparve una vecchia, colla conocchia e col fuso:
- Perché m'hai tu chiamata?
- Ecco la mia figliuola maggiore.
La vecchia cavò di tasca tre anelli, uno d'oro, uno d'argento, uno di ferro e li mise sulla palma della mano:
- Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
Naturalmente prese l'anello d'oro.
- Maestà, vi saluto!
La vecchia le fece un inchino e sparì.
Tornati a casa, la sorella maggiore, pavoneggiandosi, disse alle altre due:
- Diventerò Regina! E voi reggerete lo strascico del manto reale!
Il giorno dopo andò col padre l'altra figlia.
Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso, e cavò di tasca due anelli, uno d'argento ed uno di ferro:
- Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
E, s'intende, prese quello d'argento.
- Principessa vi saluto!
La vecchia le fece un inchino e sparì.
Tornata a casa, quella disse alla maggiore:
- Se tu sarai Regina, io sarò Principessa!
E tutt'e due si diedero a canzonare la sorella minore:
- Che volete? Chi tardi arriva male alloggia. Dovea venire al mondo prima.
Lei zitta.
Il giorno dopo andò col padre la figliuola minore.
Comparve la vecchia colla conocchia e col fuso e cavò di tasca, come la prima volta, tre anelli, uno d'oro, uno d'argento e uno di ferro:
- Scegli, e Dio t'aiuti!
- Questo qui.
Con gran rabbia di suo padre, avea preso quello di ferro.
La vecchia non le disse nulla, e sparì.
Per la strada il sarto continuò a brontolare:
- Perché non quello d'oro?
- Il Signore m'ispirò così.
Le due sorelle, curiose, vennero ad incontrarla per le scale.
- Facci vedere! Facci vedere!
Come videro l'anello di ferro, si contorcevano dalle risa e la canzonavano. Saputo poi che lo avea scelto fra uno d'oro e uno d'argento, per grulla la presero e per grulla la lasciarono.
E lei, zitta.
Intanto si sparse la voce che le tre belle figliuole del sarto avevano gli anelli della buona sorte. Il Re del Portogallo dovea prender moglie e venne a vederle. Rimase ammaliato dalla maggiore:
- Siate Regina del Portogallo!
La sposò con grandi feste e la menò via.
Poco dopo venne un Principe. Rimase ammaliato dalla seconda.
- Siate Principessa!
La sposò con grandi feste e la menò via.
Restava l'ultima. Non la chiedeva nessuno.
Un giorno, finalmente, si presentò un pecoraio:
- Volete darmi questa figliuola?
Il sarto, che ne aveva una Regina ed una Principessa, era montato in superbia e rispose:
- Il pecoraio, scusate, noi per ora ce l'abbiamo.
Stava per passare un altr'anno. La minore restava sempre in casa, e il padre non faceva altro che brontolare giorno e notte:
- Le stava bene, stupidona! Sarebbe rimasta in un canto, con quel suo anello di ferro.
E all'anno appunto, tornò a presentarsi il pecoraio:
- Volete darmi quella figliuola?
- Prendila - rispose il sarto. - Non si merita altro!
Si sposarono, senza feste e senza nulla, e la menò via.
Allora il sarto disse:
- Voglio andar a visitare la mia figliuola Regina.
La trovò che piangeva.
- Che cos'hai, figliuola mia?
- Sono disgraziata! Il Re vorrebbe un figliuolo, ed io non posso farne. I figliuoli li dà Dio.
- Ma l'anello della buona fortuna non giova a nulla?
- Non giova a nulla. Il Re mi ha detto: "Se fra un anno non avrò un figliuolo, guai a te!". Son certa, babbo mio, che mi farà tagliar la testa.
Quel povero padre, come potea rimediare? E partì per far visita alla figliuola Principessa. La trovò che piangeva.
- Che cos'hai, figliuola mia?
- Sono disgraziata! Tutti i figliuoli che faccio mi muoiono dopo due giorni.
- E l'anello della buona fortuna non giova a nulla?
- Non giova a nulla. Il Principe mi ha detto: "Se questo che hai nel seno morrà anche lui, guai a te!". Son certa, babbo mio, che mi farà scacciar di casa!
Quel povero padre che potea farci? E partì.
Per via gli nacque il pensiero d'andar a vedere l'altra figliuola, quella del pecoraio. Ma aveva vergogna di presentarsi. Si travestì da mercante, prese con sé quattro ninnoli da vendere e, cammina, cammina, arrivò finalmente in quelle contrade lontane.
Vide un magnifico palazzo stralucente, e domandò a chi appartenesse.
- È il palazzo del re Sole.
Mentre stava lì a guardare, stupito, sentì chiamarsi da una finestra:
- Mercante, se portate bella roba, montate su. La Regina vuol comprare.
Montò su, e chi era mai la Regina? La sua figliuola minore, la moglie del pecoraio. Quello rimase di sasso; non potea neppure aprir le cassette degli oggetti da vendere.
- Vi sentite male, poverino? - gli disse la Regina.
- Figliuola mia, sono tuo padre! E ti chiedo perdono!
Lei, che l'aveva riconosciuto, non permise che le si gettasse ai piedi, e lo ricevé tra le braccia:
- Siate il ben venuto! Ho dimenticato ogni cosa. Mangiate e bevete, ma prima di sera andate via. Se re Sole vi trovasse, rimarreste incenerito.
Dopo che quello ebbe mangiato e bevuto, la figliuola gli disse:
- Questi doni son per voi. Questa nocciuola è per la sorella maggiore: questa boccettina di acqua per l'altra. La nocciuola, dee inghiottirsela col guscio; l'acqua, dee berne una stilla al giorno, non più. E che badino, babbo!
Quando le due sorelle intesero la bella fortuna toccata alla minore e videro quella sorta di regali che loro inviava, arsero d'invidia e di dispetto:
- Si beffava di loro con quella nocciuola e con quell'acqua!
La maggiore buttò la nocciuola in terra, e la pestò col calcagno. La nocciuola schizzò sangue. C'era dentro un bambino piccino piccino: lei gli aveva schiacciata la testa!
Il Re, visto quell'atto di superbia e il bambino schiacciato:
- Olà! - gridò - levatemela d'innanzi; mozzatele il capo!
E, senza pietà né misericordia, la fece mettere a morte.
L'altra, nello stesso tempo, avea cavato il turacciolo alla boccetta e, affacciatasi a una finestra, n'avea versata tutta l'acqua.
Sotto la finestra passavano dei ragazzi che trascinavano un gatto morto. L'acqua cadde su questo, e il gatto risuscitò.
- Ah, scellerata! - urlò il Principe. - Hai tolto la sorte ai nostri figliuoli!
E in quel momento di furore, la strangolò colle sue mani.
Il babbo tornò dalla figliuola minore, e raccontò, piangendo, quelle disgrazie.
- Babbo mio, mangiate e bevete, e prima di sera andate via. Se re Sole vi trovasse, rimarreste incenerito. Appena avrò buone notizie, vi manderò a chiamare.
La sera tornò re Sole, e lei gli domandò:
- Maestà, che cosa avete visto nel vostro viaggio?
- Ho visto tagliar la testa a una Regina e strangolare una Principessa. Se lo meritavano.
- Ah, Maestà, eran le mie sorelle! Ma voi potete risuscitarle; non mi negate questa grazia!
- Vedremo! - rispose re Sole.
Il giorno dopo, appena fu giunto nel luogo dov'era seppellita la Regina, picchiò sulla fossa e disse:
- Tu che stai sotto terra,
Mi manda la tua sorella;
Se dal buio volessi uscire,
Del mal fatto ti déi pentire.
- Rispondo a mia sorella:
Sto bene sotto terra.
Dio gli dia male e malanno!
Vo' la nuova avanti l'anno!
- Resta lì, donnaccia infame!
E il re Sole continuò il suo viaggio. Arrivato dov'era stata sepolta la Principessa, picchiò sulla fossa e disse:
- Tu che stai sotto terra,
Mi manda la tua sorella;
Se vuoi tornare da morte a vita,
Del mal fatto sii pentita!
- Rispondo a mia sorella:
Sto bene sotto terra.
Male occulto o mal palese,
Vo' la nuova avanti un mese!
Resta lì, donnaccia infame!
Re Sole continuò il suo viaggio, e quelle due sorelle se le mangiarono i vermi.
Stretta è la foglia, larga è la via.
Dite la vostra, ché ho detto la mia.
C'era una volta un Re molto giovane, che voleva prender moglie, ma voleva sposare la più bella ragazza del mondo.
- E se non è di sangue reale? - gli domandarono i ministri.
- Non me n'importa nulla.
- Allora sappiate, Maestà, che la più bella ragazza del mondo è la figliuola di un ciaba. Ma il popolo, che è maligno, potrebbe chiamarla: la regina Ciabatta... Maestà, non sta bene: rifletteteci meglio.
Il Re rispose:
- La figliuola del ciaba è la più bella ragazza del mondo? La figliuola del ciaba sarà dunque mia sposa e Regina. Andrò a vederla senza farmi conoscere; partirò domani.
Ordinò che gli si sellasse uno dei suoi cavalli, e, accompagnato da un solo servitore, s'incamminò per quel paese, dove il ciaba abitava.
Per via incontrarono una vecchia che domandava l'elemosina:
- Fate la carità! Fate la carità!
Il Re non se ne dava per inteso.
La vecchina arrancava dietro il cavallo.
- Fate la carità! Fate la carità!
Il cavallo del Re s'adombrò, e urtò la vecchina che cadde per terra.
Il Re, senza punto curarsene, tirò innanzi; ma il servitore, impietosito, scese da cavallo, la sollevò, e visto che non s'era fatta nulla di male, cavò di tasca le poche monete che aveva e gliele mise in mano:
- Vecchina mia, non ho altro.
- Grazie, figliuolo; si vede il buon cuore. Accetta in ricambio questo anellino e portalo al dito; sarà la tua fortuna.
Arrivati in quel paese, il Re accompagnato dal servitore passò e ripassò davanti la bottega del ciaba, finché non gli riuscì di vedere la bella ragazza, che era la più bella del mondo. Rimase abbagliato!
E, senza por tempo in mezzo, disse al ciaba:
- Io sono il Re: vo' la tua figliuola per moglie.
- Maestà, c'è un intoppo. La mia figliuola ha una malìa: chi le parlerà la prima volta e le farà provare una puntura al dito mignolo, quello dovrà essere il suo sposo. Possiamo provare.
Il Re a questa notizia rimase un po' turbato; ma poi pensò:
- Se questa malìa è la sua buona sorte, costei dev'essere destinata a sposare un regnante.
E tutto allegro, disse al ciaba:
- Proviamo.
Il ciaba chiamò la figliuola, senza dirle del Re; e come questi se la vide dinanzi, restò più abbagliato di prima.
- Buon giorno, bella ragazza.
- Buon giorno, signore.
Lei non sapeva nulla della malìa. Suo padre, che sarebbe stato felice di vederla Regina, le domandò:
- Non ti senti nulla?
- Nulla. Che cosa dovrei sentirmi?
Il povero Re, gli parve di morire a quella risposta. E stava per andarsene zitto zitto; quando il servitore, ch'era rimasto in un canto, credette opportuno di dire sottovoce alla ragazza:
- Badate, è Sua Maestà!
- Ahi! Ahi! Ahi!
La ragazza si sentiva un'atroce puntura al dito mignolo, e scoteva la mano:
- Ahi! Ahi! Ahi!
Figuriamoci il viso del Re, come capì che quella ragazza, la più bella del mondo, era destinata a quel tanghero del suo servitore!
Prese in disparte il ciaba e gli disse:
- Lascia fare a me; la tua figliuola sarà Regina.
Tornato al palazzo reale, chiamò il servitore:
- Prima che tu sposi la figliuola del ciaba, devi rendermi un servigio: mi fido soltanto di te. Portami questa lettera al Re di Spagna, e attendi la risposta; ma nessuno deve sapere dove tu vada e perché.
- Maestà, sarà fatto.
Prese la lettera e partì.
A metà di strada incontrò quella vecchina:
- Dove vai, figliuolo mio?
- Dove mi portan le gambe.
- Ah, poverino! Tu non sai quel che ti aspetta. Quella lettera è un tradimento! Se tu la presenti al Re, sarai subito ammazzato. Portagli questa, invece: farà un altro effetto.
Allora lui prese la lettera della vecchina, e quella del Re la buttò via. Ringraziò e proseguì il viaggio.
Era già passato un anno, e non si era saputo più nuova di lui.
Il Re tornò dal ciaba, e disse alla ragazza:
- Quell'uomo dev'essere morto: è già passato un anno e non si sa nuova di lui. Il meglio che possiamo fare è lo sposarci noialtri.
- Maestà, come voi volete.
Il Re fece i preparativi delle nozze, e quando fu quel giorno, andò insieme coi ministri a rilevare la sposa con la carrozza di gala.
In casa del ciaba trovarono una granata ritta in mezzo alla stanza, e il Re disse ai ministri:
- Ecco Sua Maestà la Regina!
I ministri, stupefatti, si guardarono in viso senza osar di rispondere.
- Maestà, è una granata!
Il Re in quella granata ci vedeva la figliuola del ciaba, la più bella ragazza del mondo; e, presala pel manico (lui credeva di prenderla per la mano) la portò in carrozza e cominciò a dirle tante belle cose.
I ministri erano costernati e si sussurravano nell'orecchio:
- Che disgrazia! Il Re è ammattito! Il Re è ammattito!
Però, prima di arrivare in città, dove il popolo aspettava l'entrata della Regina, si fecero coraggio; e uno di loro gli disse:
- Maestà, perdonate!... Ma questa qui è una granata!
Il Re montò sulle furie; la prese per un'offesa alla Regina. Fece fermar la carrozza e ordinò ai soldati che legassero quell'impertinente alla coda di un cavallo, e così lo trascinassero fino al palazzo reale.
Gli altri, vista la mala parata, stettero zitti. E il Re, giunto al palazzo reale, si affacciò alla finestra per mostrare al popolo la Regina:
- Ecco la vostra Regina!
Non avea finito di dirlo, che gli cadde come una benda dagli occhi e si vide lì, colla granata in mano, mentre tutto il popolo rideva, perché Sua Maestà pareva proprio uno spazzino.
Con chi prendersela? La colpa era della sua cattiva stella, e di quella malìa della ragazza!
Ma intanto s'incaponiva di più nel volerla per moglie.
Il servitore tornò sano e salvo, colmo di regali.
- Che rispose il Re di Spagna?
- Maestà, il Re di Spagna rispose:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
Il Re fece finta di esserne contento, ma chiamò un Mago e gli raccontò ogni cosa:
- Come va questa faccenda?
- Maestà, la faccenda è piana. Quell'uomo possiede l'anello incantato della fata Regina, e finché lo avrà al dito, non vi sbarazzerete di lui. Bisogna trovare un'astuzia per portargli via quell'anello: la forza non vale.
Pensa e ripensa, un giorno il Re, visto che il suo servitore era tutto sudato dal gran lavorare che aveva fatto:
- Vien qua, - gli disse - vo' darti un bicchiere del mio vino; te lo meriti.
Quel vino era conciato coll'oppio, e il pover'uomo non l'ebbe bevuto, che cadde in un profondissimo sonno.
Sua Maestà gli cavò l'anello dal dito, se lo mise nel suo, e così andò a presentarsi alla figliuola del ciaba:
- Buon giorno, bella ragazza!
- Ahi! Ahi! Ahi!
La ragazza sentiva un'atroce puntura al dito mignolo e scuoteva la mano!
- Ahi! Ahi! Ahi!
Ora la cosa andava bene, e il Re ordinò di bel nuovo i preparativi per le nozze. E quando fu quel giorno, andò a rilevare la sposa colla carrozza di gala.
Giunti al palazzo reale, disse alla Regina:
- Maestà, questo è il vostro appartamento.
Ma, poco dopo, quando il Re volle andare a vederla, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscio e vedeva scritto sui muri:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
La Regina veniva ai ricevimenti di corte, veniva nella sala da pranzo dove c'erano molti invitati; poi si ritirava nel suo appartamento.
Il Re voleva andare a vederla; ma, gira di qua, gira di là, non trovava mai l'uscio e vedeva sempre scritto sui muri:
Fai, fai, fai,
Non l'hai avuta e non l'avrai.
Si disperava, ma non diceva nulla a nessuno; non volea sentirsi canzonare.
Quel pover'uomo del servitore, dopo un sonno di due giorni, appena aperti gli occhi, si era subito accorto che gli era stato rubato l'anello, ed era uscito dal palazzo reale, piangendo la sua sventura.
Fuori le porte della città avea trovato la vecchina:
- Ah, vecchina mia! Mi han rubato l'anello.
- Non ti disperare, non è nulla. Quando il Re avrà sposato, appena la Regina sarà entrata nel suo appartamento, pianta questo chiodo sulla soglia dell'uscio e vedrai.
Perciò il Re non trovava mai l'uscio, quando voleva entrare nelle stanze della Regina. C'era quel chiodo piantato lì, che glielo impediva.
Il Re scoppiava dalla rabbia. Fece chiamare novamente il Mago, e gli raccontò in segreto ogni cosa.
- Come va questa faccenda?
- Maestà, la faccenda è piana. Quell'uomo ha avuto un chiodo incantato dalla fata Regina, e l'ha piantato sulla soglia. E questa volta, Maestà, non c'è astuzia che valga: rimarrete un marito senza moglie.
- Ma che offesa ho io fatto a codesta fata Regina? Non la conosco neppur di vista!
- No, Maestà. Vi rammentate d'una vecchina che vi domandò l'elemosina il giorno che voi andavate la prima volta dal ciaba? Vi ricordate che la urtaste col cavallo e cadde per terra?
- Sì.
- Era lei, la fata Regina.
Il Re dovette persuadersi che era inutile lottare con una Fata, e si rassegnò a sposare una bella ragazza, sì, ma non la più bella del mondo. Sposò la Reginotta di Francia.
Il servitore sposò la figliuola del ciaba; e il Re gli diè una ricca dote e lo fece intendente di casa reale.
Re e servitore ebbero molti figliuoli:
E noi restiamo da cetriuoli.
Illustrazione di Julia Martha Aguilar FigueroaC'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figliuola bruttissima e contraffatta nella persona, e non se ne davano pace.
La tenevan rinchiusa, sola sola, in una camera appartata e, un giorno il Re, un giorno la Regina, le portavan da mangiare in una cesta. Quando erano lì, sfogavansi a piangere.
- Figliuola sventurata! Sei nata Regina, e non puoi godere della tua sorte!
Diventata grande, a sedici anni, lei disse al padre:
- Maestà, perché tenermi rinchiusa qui? Lasciatemi andar pel mondo. Il cuore mi presagisce che troverò la mia fortuna.
Il Re non voleva acconsentire:
- Dove sarebbe andata, così sola e inesperta? Era impossibile!
- Lasciatemi andare, o m'ammazzo!
A questa minaccia disperata, il Re non seppe resistere:
- Figliuola mia, parti pure!
La diè quattrini a sufficienza, e una notte, mentre tutti nel palazzo reale dormivano, la Reginotta si messe in via. Cammina, cammina, arrivò in una campagna. Il sole, al meriggio, scottava; e lei riparossi sotto un albero. Di lì a poco ecco un lamentìo:
- Ahi! Ahi! Ahi!
Lei, dalla paura, si voltò di qua e di là, ma non vide nessuno.
- Ahi! Ahi! Ahi!
Allora, fattasi coraggio, avvicinossi a quel punto d'onde il lamento partiva, e tra l'erba scoperse una lucertolina, che agitava il moncherino della coda e nicchiava a quel modo.
- Che cosa è stato, lucertolina?
- Mi hanno rotto la coda e non ritrovo il pezzettino. O, se tu me lo trovassi, ti farei un gran regalo.
La Reginotta, impietosita, si dié a frugare: e fruga e rifruga in mezzo a quell'erbe, finalmente eccolo lì!
- Grazie, ragazza mia. Pel tuo regalo, scava qui sotto.
Scavato un tantino, la Reginotta tirò fuori una cipolla poco più grossa d'una nocciuola.
- Che cosa debbo farne?
- Tienla cara. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta se la mise in tasca.
Strada facendo, incontrò una povera vecchia con un sacco di grano sulle spalle. A un tratto si rompe il sacco, e tutto il grano le va per terra. La vecchia cominciò a pelarsi dalla stizza.
- Non è nulla disse la Reginotta. Ve lo raccatterò io.
- Ah, i chicchi son contati! Se ne mancasse uno solo, mio marito mi ammazzerebbe!
E la Reginotta, con una santa pazienza, glielo raccattò tutto, chicco per chicco, senza che ne mancasse uno solo.
- Grazie, buona. figliuola; non posso darti altro che questo.
E le dette un coltellino da due soldi, di quelli col manico di ferro.
- Che cosa volete che ne faccia?
- Tienlo caro. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta se lo mise in tasca.
Cammina, cammina, arrivò all'orlo d'un fosso profondo. Sentiva un belato tremolante. Guardò e vide laggiù una capretta:
- Capretta, che cosa è stato?
- Son cascata nel fosso e mi son rotta una gamba.
Scese laggiù, la prese in collo, e poi la fasciò così bene con un fazzoletto, che quella, alla meglio, zoppicando, poté camminare.
- Grazie, ragazza. Che darti? Il mio sonaglino.
- Che cosa vuoi me ne faccia?
- Tienlo caro. Un giorno, forse, ti servirà.
La Reginotta le staccò dal collare il sonaglino e se lo mise in tasca, insieme con la cipolletta e il coltellino da due soldi.
Cammina, cammina, una sera capitò presso una fattoria fuori di mano.
- Anime cristiane, datemi alloggio per questa notte!
La padrona pareva una buona donna, e si misero a ragionare in cucina, mentre la pentola bolliva.
- Chi siete? Dove andate?
La Reginotta cominciò a raccontarle la sua storia.
- Zitta, zitta, chiacchierona! Zitta, zitta!
Era la pentola che brontolava; ma la sentiva lei sola.
Non le diè retta e continuò un altro pochino, fino al punto della sua partenza del palazzo reale.
- Zitta, zitta, chiacchierona! Zitta, zitta!
Era la pentola che brontolava; ma la sentiva lei sola. Rimase colpita; e si fermò.
- E dopo? - domandò la donna.
- Eccomi qui.
Quando giunse il marito, quella donna gli riferì minutamente ogni cosa.
- Sai che ho pensato, marito mio? Noi abbiamo una figliuola che è un sole: conduciamola dal Re. Gli diremo che è la sua figliuola, resa così bella da una Fata. La Reginotta la chiuderemo nel granaio e ve la lasceremo morire.
- Ma il Re come potrà crederlo?
- Ci ho tutti i segnali.
Così fecero. Nel mezzo della notte, afferrarono la povera Reginotta, la chiusero in un granaio, e il giorno dopo condussero la loro figliuola al palazzo reale.
Il Re e la Regina, sentita quella storia della Fata, rimanevano ancora incerti. Allora la ragazza, indettata, disse:
- Maestà, non vi ricordate di quando venivate nella mia camera colla cesta, e poi vi mettevate a dire piangendo: "Figliuola sventurata, sei nata Regina e non puoi godere della tua sorte"?
Il Re e la Regina rimasero. Quelle parole non potea saperle nessun altro, che la loro figliuola! Abbracciarono la ragazza, e bandirono feste reali.
Ai due che l'avean condotta regalarono un monte di monete d'oro.
Intanto la povera Reginotta, dopo essersi per tre giorni stemperata in lagrime, cominciò a sentire anche fame. Chiamò più volte, domandando per carità almeno un tozzo di pan duro!
Non accorreva anima viva. Allora rammentossi della cipolletta:
- Poteva ingannare un po' lo stomaco!
E la cavò di tasca.
- Comanda! Comanda!
- Da mangiare!
Ed ecco pietanze fumanti, tovagliuolo, posata, coltello, bottiglia e bicchiere.
Terminato di mangiare, ogni cosa sparì.
Cavò di tasca il coltellino.
- Comanda! Comanda!
- Spacca quell'uscio per legna.
E, in un attimo, l'uscio fu ridotto un mucchio di legna.
Cava di tasca il sonaglino e si mette a suonarlo. Ed ecco una mandria di capre, che non poteva contarsi.
- Comanda! Comanda!
- Pascolate per questi campi, finché ci sia un filo d'erba.
E in un minuto i seminati, le vigne, gli alberi di quella fattoria eran distrutti.
La Reginotta partì e arrivò in una città, dove c'era un Re che avea l'unico suo figliuolo gravemente ammalato. Tutti i medici del mondo, i più dotti, i più valenti, non n'avean saputo conoscere la malattia. Dicevano ch'era matto: ma egli ragionava benissimo. Aveva soltanto dei capricci, e dimagrava, dimagrava a segno che era ridotto una lanterna.
Un giorno il Reuccio trovossi affacciato a una finestra del palazzo reale, e vide passar la Reginotta.
- Oh! Com'è brutta! La voglio qui! La voglio qui!
Il Re la fece chiamare:
- Ragazza, vorresti entrare a servizio?
- Maestà, volentieri.
- Dovresti servire il Reuccio.
E si mise a servire il Reuccio.
- Bruttona, fai questo! Bruttona, fai quello.
Il Reuccio non la comandava altrimenti: volea perfino che rigovernasse i piatti.
Una volta al Reuccio gli venne la voglia dei bacelli; ed era d'autunno! Dove andare a pescarli?
- Bacelli! Bacelli!
Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quei bacelli a peso d'oro.
La Reginotta rammentossi della cipolletta e la cavò di tasca.
- Comanda! Comanda!
- Un bel piatto di bacelli!
Ed ecco un bel piatto di bacelli.
Il Reuccio se li mangiò con gran gusto, e dopo disse:
- Mi sento meglio!
Un'altra volta gli venne voglia d'un pasticcio di lumache. Ma non era la stagione.
- Pasticcino di lumache! Pasticcino di lumache!
Non diceva altro, e rifiutava di mangiare. Il Re avrebbe pagato quelle lumache a peso d'oro.
La Reginotta corse di bel nuovo alla cipolletta.
- Comanda! Comanda!
- Un pasticcino di lumache!
Il Reuccio se lo mangiò con gran gusto, e dopo disse:
- Mi sento assai meglio.
Infatti, s'era rimesso un po' in carne.
Un'altra volta finalmente gli venne la voglia delle polpettine di rondine. Non era la stagione. Dove andare a pescarle?
- Polpettine di rondine! Polpettine di rondine!
Il Re quelle rondini le avrebbe pagate a peso d'oro.
La Reginotta, al solito, cavò di tasca la cipolletta.
- Comanda! Comanda!
- Polpettine di rondine!
Il Reuccio se le mangiò con gran gusto e dopo disse:
- Sto benissimo.
Era diventato fresco come una rosa: non si rammentava neppure d'essere stato malato. E, un giorno, vista la Reginotta:
- Oh, come è brutta! - esclamò. - Ma chi è costei? Cacciatela via!
La Reginotta andò via piangendo:
- La sua stella voleva così!
E incontrò la vecchia, quella del grano.
- Che cosa è accaduto, figliuola?
In poche parole le raccontò l'accaduto.
- Sta' allegra, figliuola mia! Ti aiuterò io. Vieni con me.
E la condusse davanti a una grotta.
- Ascolta: lì dentro c'è la fontana della bellezza. Chi può tuffarvisi a un tratto, diventa bella quanto il sole. Ed ora, bada bene: questa grotta ha quattro stanze. Nella prima c'è un drago: buttagli in gola la cipolletta, e ti lascerà passare. Nella seconda c'è un gigante tutto coperto d'acciaio, con una mazza di ferro brandita: mostragli la lama del coltellino, e ti lascerà passare. Nella terza c'è un leone affamato: appena ti viene incontro, scuoti il sonaglino: non ti toccherà neppur esso. Ma non bisogna aver paura; se no, addio; sei spacciata. Nella quarta stanza c'è la fontana. Appena entrata lì, senza esitare un momento, tùffati dentro l'acqua con tutte le vesti.
La Reginotta entrò. Ed ecco il drago con tanto di bocca, che stendeva il collo per inghiottirsela. Gli butta in gola la cipolletta, e quello si ritira, si attorciglia chetamente, e si mette a dormire.
Lei passa oltre. Ed ecco il gigante tutto coperto d'acciaio, che si slancia incontro brandendo la mazza, cacciando terribili urli. Gli mostra la lama del coltellino, e il gigante va a rannicchiarsi in un canto.
La Reginotta passa oltre nella terza stanza. Ed ecco il leone, colle fauci spalancate, colla coda rizzata che faceva tremar l'aria. Lei scuote il sonaglino e sbuca un branco di capre. Il leone si slancia su di esse, le sbrana e se le divora.
E lei passa oltre. Vede la fontana, e vi si tuffa dentro con tutte le vesti. Si sentì diventar un'altra: lei stessa non si riconosceva. Da che il mondo è mondo, non s'era mai vista una bellezza pari a quella.
Tornò nella città, dov'era il Reuccio, e prese a pigione una casa dirimpetto al palazzo reale.
Il Reuccio rimase sbalordito:
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza! Se fosse sangue reale, la prenderei per moglie.
Il Re, che voleva bene al figliuolo quanto alla pupilla degli occhi suoi, mandò subito un ministro a domandarle se mai fosse di sangue reale.
- Sono. Ma se il Reuccio mi vuole, dovrà farmi tre regali.
- Che regali dovrebbe fare?
- La cresta del gallo d'oro, la pelle del re Moro, il pesce senza fiele. Gli do tempo tre anni. Se no, non mi può avere.
Il Reuccio partì alla ricerca del gallo d'oro, che si trovava in certi boschi pieni di animali feroci. E c'era un gran pericolo: chi lo sentiva cantare, moriva. Dopo mille fatiche e mille stenti, una mattina il Reuccio scoperse il gallo d'oro appollaiato su d'un albero. Tirargli e ammazzarlo fu tutt'una. E tornò trionfante.
- Va bene - disse la Reginotta. - Mettetelo lì. Aspetto la pelle del re Moro.
Il re Moro era terribile. Con lui, fin allora non ce n'avea potuto nessun guerriero. Il Reuccio mandò a sfidarlo: ne voleva la pelle.
- Venga a prendersela.
Si combatterono colle spade, e il re Moro lo aveva conciato così bene, che il Reuccio grondava sangue da tutte le parti.
Ma in un punto questi ebbe l'agio d'assestargli un colpo al cuore.
- Son morto!
Il Reuccio lo scorticò con diligenza e portò la pelle alla Reginotta.
- Va bene: mettetela là. Aspetto il pesce senza fiele.
Questo era più difficile. Fra tante migliaia di pesci va a pescare per l'appunto quello lì! Eppure bisognava pescarlo.
Prese canna, lenza ed amo, e se n'andò in riva al mare.
Stette mesi e mesi: tempo perduto! E a compire i tre anni restavano intanto soli otto giorni!
L'ultimo giorno, tirò fuori un pesciolino di meschina apparenza. La fortuna lo aveva aiutato: era il pesce senza fiele.
- Va bene - disse la Reginotta; - mettetelo lì. Ora si mandi dal Re mio padre. Senza il suo consenso, non voglio sposarmi.
Spedirono un ambasciatore, ma l'ambasciatore tornò presto:
- Quello dice che siamo matti. La sua figliuola l'ha lì, chi volesse vederla.
- Dunque tu ci hai corbellati!
E la misero in prigione.
Le rimaneva in tasca il sonaglino. Disperata, si diè a sonarlo furiosamente.
Accorse la capretta.
- Ah, capretta, capretta! Guarda a che sono arrivata! Non ho che te, per aiutarmi.
- Prendi quest'erba, masticala bene e trattienila in bocca.
E intanto che masticava, la Reginotta ritornava bruttissima e contraffatta nella persona come una volta.
- Per ritornar bella, ti basterà sputarla fuori. Ora zitta, e vienmi dietro.
Uscirono di prigione senza che le guardie e i carcerieri se n'accorgessero, e la Reginotta in quattro salti andò a presentarsi ai suoi genitori.
Come la videro, il Re e la Regina capiron subito l'inganno. E sentito il tradimento di quel marito e quella moglie, li mandarono ad arrestare e, insieme con la loro figliuola, li fecero buttare in prigione.
La Reginotta sputò fuori l'erba e ridiventò bellissima.
Da che il mondo è mondo non si era mai vista una bellezza pari a quella!
Fu mandato a chiamare il Reuccio, si sposarono, e vissero fino a vecchi felici e contenti.
C'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figliuola più bella della luna e del sole, e le volevano bene come alla pupilla degli occhi.
Un giorno venne uno, e disse al Re:
- Maestà, passavo pel bosco qui vicino, e incontrai l'Uomo selvaggio. Mi disse: "Vai dal Re, e digli che voglio la Reginotta per moglie. Se non l'avrò qui fra tre giorni, guai a lui!".
Il Re, sentendo questo, fu molto costernato e radunò il Consiglio di corona:
- Che cosa doveva fare? L'Uomo selvaggio era terribile: poteva devastare tutto il regno.
- Maestà, - disse uno dei ministri - cerchiamo una bella ragazza, vestiamola come la Reginotta e mandiamola lì: l'Uomo selvaggio sarà contento.
Trovarono una ragazza bella come la Reginotta, le fecero indossare uno dei più ricchi abiti di lei, e la mandarono nel bosco. Dovea dire che lei era la figlia del Re.
Il giorno appresso quella ragazza tornò indietro.
- Che cosa è stato?
- Maestà, trovai l'Uomo selvaggio, e mi domandò: "Chi sei?". "Sono la Reginotta." "Lasciami vedere." Mi sbottonò la manica del braccio sinistro e urlò: "Non è vero! La Reginotta" dice "ha una voglia in quel braccio!" e mi ha rimandato. Se fra due giorni non avrà lì la sposa, guai a voi!
Il Re non sapeva che cosa fare, e radunò di bel nuovo il Consiglio di corona:
- L'Uomo selvaggio sa che la Reginotta ha una voglia nel braccio sinistro; è impossibile ingannarlo.
- Maestà, - disse il ministro - cerchiamo un'altra ragazza, chiamiamo un pittore che le dipinga una voglia simile a quella della Reginotta, vestiamola con uno dei suoi vestiti, e mandiamola lì. Questa volta l'Uomo selvaggio non avrà da ridire.
Trovarono un'altra bella ragazza, le fecero dipingere una voglia sul braccio, simile a quella della Reginotta, l'abbigliarono con uno dei più ricchi abiti di lei e la mandarono nel bosco. Doveva dire che lei era la figlia del Re.
Ma, il giorno appresso, quella ragazza tornò indietro.
- Che cosa è stato?
- Maestà, trovai l'Uomo selvaggio e mi domandò: "Chi sei?". "Sono la Reginotta." "Lasciami vedere." Mi osservò tra i capelli e urlò: "Non è vero! La Reginotta" dice "ha tre capelli bianchi sulla nuca". Se domani la sposa non sarà lì, guai a voi.
Il povero Re e la povera Regina avrebbero battuto il capo nel muro.
- Dunque dovean buttare quella gioia di figliuola in braccio all'Uomo selvaggio?
- Maestà, - dissero i ministri - facciamo un ultimo tentativo. Cerchiamo un'altra ragazza. Il pittore le dipingerà la voglia sul braccio, le tingerà di bianco tre capelli sulla nuca; poi le metteremo indosso uno dei vestiti della Reginotta e la manderemo lì. Questa volta l'Uomo selvaggio non avrà più da ridire.
Ma il giorno appresso ecco quella ragazza che torna indietro anch'essa.
- Che cosa è stato?
- Maestà, trovai l'Uomo selvaggio e mi domandò: "Chi sei?". "Sono la Reginotta." "Lasciami vedere." Mi osservò il braccio sinistro: "Va bene!". Mi osservò tra i capelli, sulla nuca: "Va bene!". Poi prese un paio di scarpine ricamate e mi ordinò: "Calza queste qui". E siccome i miei piedi non c'entravano, urlò: "Non è vero!". E mi ha rimandato dicendo: "Guai! Guai!".
Allora i ministri:
- Maestà, ora succede certamente un disastro! Per la salvezza del regno, bisogna sacrificare la Reginotta!
Il Re non sapeva rassegnarsi: avrebbe dato anche il sangue delle sue vene invece della figliuola! Ma il destino voleva così, e bisognava piegare il capo.
La Reginotta si mostrava più coraggiosa di tutti: infine l'Uomo selvaggio non l'avrebbe mangiata!
Indossò l'abito da sposa, e accompagnata dal Re, dalla Regina, dalla corte e da un popolo immenso, tra pianti ed urli strazianti, s'avviò verso il bosco.
Arrivata lì, abbracciò il Re e la Regina confortandoli che sarebbe tornata a vederli, e sparì tra gli alberi e le macchie folte. Non si seppe più nuova di lei né dell'Uomo selvaggio.
Passato un anno, un mese e un giorno, arriva a corte un forestiero, che chiede di parlare col Re. Era un nanetto alto due spanne, gobbo e sbilenco, con un naso che pareva un becco di barbagianni e certi occhietti piccini piccini. Il Re non aveva voglia di ridere; ma come vide quello sgorbio non seppe frenarsi.
- Che cosa voleva?
- Maestà, - disse il Nano - vengo a farvi una proposta. Se mi darete mezzo regno e la Reginotta per moglie, io andrò a liberarla dalle mani dell'Uomo selvaggio.
- Magari! - rispose il Re. - Non mezzo, caro amico, ma ti darei il regno intiero.
- Parola di Re non si ritira.
- Parola di Re!
Il Nano partì.
E non era trascorsa una settimana, che il Re riceveva un avviso:
"Domani, allo spuntar del sole, si trovasse presso il bosco, colla Regina, con la corte e con tutto il popolo, per far festa alla sua figliuola, che ritornava!".
Il Re e la Regina non osavano credere: dubitavano che quello sgorbio si facesse beffa di loro: pure andarono. E allo spuntar del sole, ecco il Nanetto gobbo e sbilenco, che conduceva per mano la Reginotta vestita da sposa, come quando era entrata nel bosco per l'Uomo selvaggio.
Figuriamoci che allegrezza!
Le feste e i banchetti non ebbero a finir più. Ma di nozze non se ne parlava, e della metà del regno nemmeno.
Il Re, ora che aveva lì la figliuola, e che l'Uomo selvaggio era stato ucciso dal Nano, non intendeva più saperne di mantener la sua parola. Il Nano, di quando in quando, gli domandava:
- Maestà, e le mie nozze?
Ma quello cambiava discorso: da quell'orecchio non ci sentiva.
- Maestà, e la mia metà del regno?
Ma quello cambiava discorso: da quell'altro non ci sentiva neppure.
- Bella parola di Re! - gli disse il Nano una volta.
- Ah, nanaccio impertinente!
E il Re gli tirò un calcio alla schiena, che lo fece saltare dalla finestra.
- Doveva esser morto!
Andarono a vedere in istrada; ma il Nano non c'era più. Si era rizzato di terra, si era ripulito il vestitino, ed era andato via, lesto lesto, come se nulla fosse stato.
- Buon viaggio! - disse il Re tutto contento.
Ma la Reginotta, da quel giorno in poi, diventò di malumore; non diceva una parola, non rideva più, andava perdendo il colorito.
- Che cosa ti senti, figliuola mia?
- Maestà, non mi sento nulla; ma... chi dà la sua parola la dovrebbe mantenere.
- Come? Lei dunque voleva quel Nano gobbo e sbilenco?
- Non intendevo dir questo; ma... chi dà la sua parola la dovrebbe mantenere.
Anche la Regina non viveva tranquilla:
- Quel Nano era potente: aveva vinto l'Uomo selvaggio; doveva tramare qualche brutta vendetta!
Il Re rispondeva con una spallucciata:
- Se quello sgorbio gli veniva un'altra volta dinanzi!
Ma la Reginotta ripeteva:
- Chi dà la sua parola, la dovrebbe mantenere!
Intanto essendosi sparsa la notizia che la Reginotta era stata liberata dalle mani dell'Uomo selvaggio, il Reuccio del Portogallo mandò a domandarla per moglie.
La Reginotta non disse né di sì, né di no; ma il Re e la Regina non vedevano l'ora di celebrare le nozze.
Il Reuccio di Portogallo si mise in viaggio, e per via incontrò un uomo, che conduceva un gran carro con su un cavallo di bronzo, che pareva proprio vivo.
- O quell'uomo, dove lo portate cotesto cavallo di bronzo?
- Lo porto a vendere.
Il Reuccio lo comprò e ne fece un regalo a suo suocero.
Il giorno delle nozze era vicino. La gente accorreva in folla nel giardino del Re, dove il cavallo di bronzo era stato collocato su un magnifico piedistallo. Restarono tutti meravigliati:
- Par proprio vivo! Par di sentirlo nitrire!
Scese a vederlo anche il Re con la corte; e tutti:
- Par proprio vivo! Par di sentirlo nitrire!
Solo la Reginotta non diceva nulla.
Il Reuccio, stupito, le domandò:
- Reginotta, non vi piace?
- Mi piace tanto, - rispose lei - che sento una gran voglia di cavalcarlo.
Fecero portare una scala, e la Reginotta montò sul cavallo di bronzo. Gli tastava il ciuffo, gli accarezzava il collo, lo spronava leggermente col tacco; e intanto diceva scherzando:
- Cavallo, mio cavallo,
Salta dal piedistallo;
Non metter piede in fallo,
Cavallo, mio cavallo.
Non ebbe finito di dir così, che il cavallo di bronzo si scosse, agitò la criniera, dette fuori un nitrito, e via con un salto per l'aria. In un batter d'occhio cavallo e Reginotta non si videro più.
Tutti erano atterriti; non osavano fiatare. Ma in mezzo a quel silenzio scoppia a un tratto una risatina, una risatina di canzonatura!
- Ah! Ah! Ah!
Il Re guardò, e vide il Nano che si contorceva dalle risa con quella sua gobbetta e quelle sue gambine sbilenche. Capì subito che quel cavallo fatato era opera del Nano.
- Ah! Nano, nanuccio - gli disse pentito; - se tu mi rendi la mia figliuola, essa sarà tua sposa, con mezzo regno per dote.
Il Nano continuava a contorcersi dalle risa:
- Ah! Ah! Ah!
E a vedergli fare a quel modo, tutta quella gente ch'era lì, cominciarono a ridere anch'essi, e poi perfino la Regina:
- Ah! Ah! Ah!
Si tenevano i fianchi, non ne potevano più. Soltanto quel povero Re rimase così afflitto e scornato, che faceva pietà.
- Ah! Nano, nanino bello; se tu mi rendi la mia figliuola, essa sarà tua sposa con mezzo regno per dote.
- Maestà, se dite per davvero, - rispose il Nano - prima dovete riprendervi quel che mi deste l'altra volta.
- Che cosa ti diedi?
- Un bel calcio nella schiena.
Il Re esitava: avea vergogna di ricevere un calcio in quel posto, davanti al popolo e la corte. Ma l'amore della figliuola gli fece dire di sì.
Si rivoltò colle spalle al Nano e stette ad aspettare la pedata: però il Nano volle mostrarsi più generoso di lui; e invece di menargli il calcio, disse:
- Cavallo, mio cavallo,
Non metter piede in fallo;
Torna sul piedistallo,
Cavallo, mio cavallo.
In un batter d'occhio, cavallo e Reginotta furono lì.
Allora il Nano disse al Re:
- Maestà, datemi un pugno sulla gobba! Non abbiate paura.
Il Re gli diede un pugno sulla gobba e questa sparì.
- Maestà, datemi una tiratina alle gambe! Non abbiate paura!
Il Re gli diede una tiratina alle gambine, e queste, di bòtto, si raddrizzarono.
- Maestà, afferratemi bene, la Regina per le braccia e voi pei piedi, e tiratemi forte.
Il Re e la Regina lo afferrarono l'uno pei piedi, l'altra per le braccia, e tira, tira, tira, il Nano, da nano che era, diventò un bel giovine di alta statura.
Il Reuccio del Portogallo si persuase ch'era di troppo e disse:
- Datemi almeno quel cavallo: farò la strada più presto.
Montò sul cavallo di bronzo, e dette le parole fatate, in un colpo sparì.
La Reginotta e il Nano (lo chiamarono sempre così) furono moglie e marito.
E noi restiamo a leccarci le dita.
C'era una volta una vecchia che campava di elemosina, e tutto quello che buscava, lo divideva esattamente: metà lei, metà la sua gallina.
Ogni giorno, all'alba, la gallina si metteva a schiamazzare; avea fatto l'uovo. La vecchia lo vendeva un soldo, e si comprava un soldo di pane. La crosta la sminuzzava a quella, la midolla se la mangiava lei: poi andava attorno per l'elemosina.
Ma venne una mal'annata. Un giorno la vecchina tornò a casa senza nulla.
- Ah, gallettina mia! Oggi resteremo a gozzo vuoto.
- Pazienza ci vuole! Mangeremo domani.
Il giorno appresso, sul far dell'alba, la gallina si mise a schiamazzare. Invece d'un uovo, ne aveva fatti due, uno bianco e l'altro nero.
La vecchia andò fuori per venderli. Quello bianco lo vendé subito; quello nero, nessuno voleva credere che fosse uovo di gallina. La vecchina comprò il solito soldo di pane, e tornò a casa:
- Ah, gallinetta mia! L'uovo nero non lo vuol nessuno.
- Portatelo al Re.
La vecchia lo portò al Re.
- Che uovo è questo?
- Maestà, di gallina.
- Quanto lo fai?
- Maestà, quello che il cuore v'ispira.
- Datele cento lire.
La vecchina, con quelle cento lire, si credette più ricca di Sua Maestà.
Giusto in quei giorni la Regina avea posta una gallina, e alle uova messe a covare aggiunse anche quello. Ma la chioccia non lo covò.
Il Re fece chiamare la vecchia:
- Quell'uovo era barlaccio.
- Maestà, non può essere; la gallina l'avea fatto lo stesso giorno.
- Eppure non è nato.
- Bisognava lo covasse la Regina.
La cosa parve strana. Ma la Regina, curiosa, disse:
- Lo coverò io.
E se lo mise in seno. Dopo ventidue giorni, sentì rompersi il guscio. Venne fuori un pulcino bianco ch'era una bellezza.
- Maestà, Maestà! Fatemi la zuppa col vino.
E pigolava.
- Sei galletto o pollastra?
- Maestà, son galletto.
- Canta.
- Chicchirichì!
Era proprio galletto. E diventò il divertimento di tutta la corte. Ma più cresceva e più si faceva impertinente. A tavola beccava nei piatti del Re e della Regina; razzolava, come se nulla fosse, nei piatti dei Ministri, che non osavano dirgli sciò per rispetto del Re; girava di qua e di là per tutte le stanze del palazzo reale, s'appollaiava dovunque, e insudiciava e riempiva ogni cosa di pollìna. E poi tutto il giorno:
- Chicchirichì! Chicchirichì!
Rintronava le orecchie. La gente del palazzo reale non ne poteva più.
Un giorno la Regina s'era fatta un vestito nuovo ch'era una meraviglia, ed era costato un sacco di quattrini. Prima che lo indossasse, va il galletto e glielo insudicia.
La Regina montò sulle furie:
- Sporco galletto! Per questa volta passi. Un'altra volta te la farò vedere io!
E ordinò alla sarta un altro vestito più ricco di quello. La sarta ci si messe con impegno; figuriamoci che vestito!... Ma prima che la Regina lo indossasse, va il galletto e glielo insudicia.
La Regina perdé il lume degli occhi:
- Sporco galletto! Ora ti concio io. Chiamatemi il cuoco.
Il cuoco si presentò.
- Mi si faccia con cotesto galletto una buona tazza di brodo.
In cucina gli tirarono il collo e lo messero a lessare. Appena la pentola diè il primo bollore:
- Chicchirichì!
Il galletto era scappato fuori, come se non gli avessero mai tirato il collo e non lo avessero mai pelato e abbrustolito.
Il cuoco corse dalla Regina:
- Maestà, il galletto è risuscitato!
La cosa era troppo strana, e il galletto diventò prezioso. Tutti lo guardavano con rispetto; qualcuno anche con un po' di paura. Ed esso se n'abusava. A tavola beccava peggio di prima, nei piatti del Re e della Regina; razzolava, come se nulla fosse, nei piatti dei Ministri che non osavano dirgli sciò per rispetto del Re; s'appollaiava dovunque, insudiciava perfino il soglio reale e lo riempiva di pollìna. E poi, notte e giorno: chicchirichì! chicchirichì! Rintronava gli orecchi. E il popolo imprecava a denti stretti:
- Accidempoli al galletto e a chi lo fa allevare!
Un giorno Sua Maestà dovea scrivere a un altro Re. Prese carta, penna e calamaio, fece la lettera e la lasciò sul tavolino ad asciugare. Va il galletto e gliela insudicia, proprio dov'era la firma.
- Sporco galletto! Per questa volta passi. Un'altra volta te la farò vedere io!
Il Re scrisse di bel nuovo la lettera, e la lasciò sul tavolino ad asciugare. Va il galletto, e gliela insudicia, proprio dov'era la firma.
Il Re perdé il lume degli occhi:
- Sporco galletto! Ora ti concio io! Chiamatemi il cuoco.
Il cuoco si presentò.
- Mi si faccia arrosto pel pranzo.
In cucina gli tirarono il collo e lo infilzarono nello spiedo.
Quando fu l'ora del pranzo, il cuoco lo servì in tavola. Sua Maestà cominciò a dividerlo, a chi un'ala, a chi una coscia, a chi un po' di petto, a chi il codione: serbò per sé il collo e la testa colla cresta e coi bargigli.
Avea terminato appena di mangiare, che dal fondo del suo stomaco sente scoppiare:
- Chicchirichì!
Fu una costernazione generale. Chiamarono tosto i medici di corte.
Bisognerebbe spaccar la pancia del Re; ma chi ci si mette?
E il galletto, di tanto in tanto, dal fondo dello stomaco di Sua Maestà, dava la voce:
- Chicchirichì!
- Chiamatemi la vecchia - disse il Re.
Appunto essa veniva a domandar l'elemosina al palazzo reale, e la condussero su.
- Strega del diavolo! Che malìa hai tu fatta a quell'uovo? Ho mangiato la testa del galletto, ed esso mi canta dentro lo stomaco. Se non me ne liberi, tienti per morta!
- Maestà, datemi un giorno di tempo.
E tornò subito a casa:
- Ah, gallettina mia! Sono stata chiamata dal Re: "Ho mangiato la testa del galletto, ed esso mi canta dentro lo stomaco". Se non lo libero, sarò morta!
- Vecchia mia, questo è nulla. Domani prenderai un po' di becchime, tornerai dal Re e farai: billi! billi! Sentendo la tua voce, il galletto verrà fuori.
E così fu.
La cosa era troppo strana. Il galletto diventò famoso, e tornò a fare peggio di prima.
Una mattina, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' una gallina.
- E diamogli una gallina!
Il giorno appresso, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' un'altra gallina.
- E diamogli un'altra gallina!
Insomma, ne volle due dozzine.
Un'altra mattina, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' gli sproni d'oro.
E sproni d'oro siano!
Il galletto, ch'era diventato un bel gallo, con quegli sproni d'oro si pavoneggiava attorno, beccando questo e quello.
Un'altra volta, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' la cresta doppia d'oro.
- E cresta doppia d'oro sia!
Il Re cominciava a stufarsi; ma il gallo, con quegli sproni d'oro e quella cresta doppia d'oro, si pavoneggiava attorno, beccando questo e quello.
Finalmente un'altra mattina, avanti l'alba:
- Chicchirichì! Maestà, vo' mezzo regno; ho corona al par di voi!
Al Re scappò la pazienza:
- Levatemelo di torno, questo gallaccio impertinente!
Ma come fare? Ammazzarlo era inutile; risuscitava sempre. Portarlo lontano non concludeva nulla: sarebbe tornato. Prenderlo colle buone era peggio; rispondeva canzonando: - Chicchirichì! Il Re, disperato, mandò a chiamare la vecchia:
- Se non mi liberi del gallo, ti fo mozzare la testa!
- Maestà, datemi un giorno di tempo.
E tornò subito a casa:
- Ah, gallinetta mia! Sono stata chiamata dal Re: "Se non mi liberi del gallo, ti fo mozzare la testa". Che debbo rispondere?
- Rispondi: "Maestà, voi non avete figliuoli; adottatelo per figliuolo, si cheterà".
Il Re, messo colle spalle al muro, risolvette di adottarlo. Ma giovò poco.
Con tutte quelle galline, il palazzo reale era diventato un pollaio. Il Re, la Regina, i Ministri, le dame di corte, i servitori, tutti si sentivan pieni di pollìna dalla testa ai piedi, e non potevano reggere. E poi, schiamazzate di qua, chicchiriate di là; aveano il capo come un cestone.
Il popolo imprecava a denti stretti:
- Accidempoli al gallo, alle galline e a che li fa allevare!
- Senti, strega - disse il Re. - Se fra un giorno non mi spazzi gallo e galline, pagherai con la tua testa.
- Maestà, qui ci vuole la fata Morgana; mandatela a chiamare.
Il Re mandò a chiamare la fata Morgana. La Fata rispose:
- Chi vuole vada, chi non vuole mandi.
E il Re dovette andarci egli stesso in persona.
- Maestà, finché quel gallo non sarà diventato un uomo al pari di voi, non avrete mai pace.
- Ma che cosa ci vuole, perché diventi un uomo al pari di me?
- Ci vuol tre sorta di becchime. Fate tre solchi colle vostre mani, e spargete queste tre sementi. Mietete, trebbiate, senza mescolare il grano, e poi dite:
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E spargerete per terra questo grano qui. Quando non ne rimarrà più un chicco:
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E spargerete per terra quest'altro grano. Quando non ne rimarrà più un chicco:
Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E spargerete per terra l'ultimo grano.
Il Re s'ingegnò di far tutto a puntino. Quando fu il momento:
- Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E una metà delle galline morì.
- Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
E il resto delle galline morì.
- Billi, billi!
Chi gli piace se ne pigli!
Il gallo si mise a beccare lui solo, e appena beccato l'ultimo grano, si ritirò, s'allungò, chicchirichì! Si scosse le penne d'addosso e diventò un giovane alto e bello. Di gallo gli eran rimasti soltanto la cresta e gli sproni. Ma non importava.
Il Re disse al popolo:
- Non ho figliuoli, e questo qui sarà il Reuccio. Rispettatelo per tale.
- Viva il Reuccio! Viva il Reuccio!
Ma, sottovoce, dicevano:
- Staremo a vedere. Chi gallo nasce dee chicchiriare.
Il Reuccio, dopo parecchi mesi, diventò malinconico. Voleva star solo, non parlava con nessuno.
- Che cosa avete, figliuolo mio?
- Maestà, nulla.
Non lo voleva dire, provava rossore, ma sentiva una gran voglia di far chicchirichì!
Chiamarono i medici di corte; chiamarono anche quelli fuori del regno, i più valenti. Non ci capivano niente.
- Forse il Reuccio voleva moglie?
- Non voleva moglie.
- Ma dunque che cosa voleva? Qualunque cosa avesse voluto, gli sarebbe stata concessa.
- Vorrei... fare chicchirichì!
Bisognò permetterglielo: e si sfogò tutta la giornata.
Allora gli tagliarono la cresta, e quella voglia non la ebbe più.
E il popolo:
- Staremo a vedere! Chi da gallina nasce convien che razzoli.
Dopo parecchi mesi il Reuccio tornò ad essere malinconico. Voleva star solo, non parlava con nessuno.
- Che cosa avete, figliuolo mio?
- Maestà, nulla.
Non lo voleva dire, provava rossore, ma sentiva una gran voglia d'uscir fuori a razzolare.
Tornarono a chiamare i dottori, ma non ci capivano niente.
- Forse il Reuccio voleva moglie?
- Non voleva moglie.
- Ma dunque che cosa voleva? Qualunque cosa avesse chiesta, gli sarebbe stata concessa.
- Vorrei... uscir fuori a razzolare!
E bisognò permetterglielo.
Allora gli strapparono gli sproni, e quella voglia non la ebbe più.
Venne il tempo di dargli moglie:
- Vi piacerebbe, figliuolo mio, la Reginotta di Spagna?
- Maestà, dovendo sposare,... vorrei sposare una pollastra!
Si era dunque sempre daccapo?
Il Re quel giorno avea le paturne. Tira fuori la sciabola e gli taglia la testa.
Ma, invece di sangue d'uomo, gli uscì fuori sangue di pollo.
Si presentò allora la vecchina:
- Maestà, ecco, è finita.
Gli riappiccicò il capo collo sputo, e il Reuccio tornò vivo.
Ora ch'era un uomo davvero stette tranquillo, e di lì a poco si sposò colla Reginotta di Spagna. Poi diventarono Re e Regina, e fecero un po' di bene.
E la fiaba finisce.
C'era una volta un Re e una Regina, che avevano una figlia unica, e le volevano più bene che alla pupilla de' loro occhi.
Mandò il Re di Francia per domandarla in sposa.
Il Re e la Regina, che non sapeano staccarsi dalla figliuola, risposero:
- È ancora bambina.
Un anno dopo, mandò il Re di Spagna.
Quelli si scusarono allo stesso modo:
- È ancora bambina.
Ma i due regnanti se l'ebbero a male. Si misero d'accordo e chiamarono un Mago:
- Devi farci un incanto per la figlia del Re, il peggiore incanto che ci sia.
- Fra un mese l'avrete.
Passato il mese, il Mago si presentò:
- Ecco qui. Regalatele questo anello; quando lo avrà portato in dito per ventiquattr'ore, ne vedrete l'effetto.
Regalarglielo non potevano, perché s'eran già guastati coi parenti di lei. Come fare?
- Ci penserò io.
Il Re di Spagna si travestì da gioielliere, e aperse una bottega dirimpetto al palazzo reale.
La Regina volea comprar delle gioie e lo mandò a chiamare.
Quello andò, e in uno scatolino a parte ci avea l'anello.
Dopo che la Regina ebbe comprato parecchie cose, domandò alla figliuola:
- O tu, non vuoi nulla?
- Non c'è niente di bello - rispose la Reginotta.
- Ci ho qui un anello raro; le piacerà.
E il finto gioielliere mostrò l'anello incantato.
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza! Quanto lo fate?
- Reginotta, non ha prezzo, ma prenderò quel che vorrete.
Gli diedero una gran somma e quello andò via.
La Reginotta s'era messo in dito l'anello e lo ammirava ogni momento:
- Oh, che bellezza! Oh, che bellezza!
Ma dopo ventiquattr'ore (era di sera):
- Ahi! Ahi! Ahi!
Accorsero il Re, la Regina, le dame di corte, coi lumi in mano.
- Scostatevi! Scostatevi! Son diventata di stoppa.
Infatti la povera Reginotta avea le carni tutte di stoppa.
Il Re e la Regina erano proprio inconsolabili. Radunarono il Consiglio della Corona.
- Che cosa poteva farsi?
- Maestà, fate un bando: Chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re.
E i banditori partirono per tutto il regno, con tamburi e trombette.
- Chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re!
In una città c'era un giovinotto, figlio d'un ciabattino. Un giorno, vedendo che in casa sua si moriva di fame, disse a suo padre:
- Babbo, datemi la santa benedizione: vo' andare a cercar fortuna pel mondo.
- Il cielo ti benedica, figliuolo mio!
E il giovinotto si mise in viaggio.
Uscito pei campi, in una viottola incontrò una frotta di ragazzi che, urlando, tiravan sassate a un rospo per ammazzarlo.
- Che male vi ha fatto? È anch'esso creatura di Dio: lasciatelo stare.
Vedendo che quei ragazzacci non smettevano, saltò in mezzo ad essi, diè uno scapaccione a questo, un pugno a quello, e li sbandò: il rospo ebbe agio di ficcarsi in un buco.
Cammina, cammina, il giovinotto incontrò i banditori che, a suon di tamburi e di trombette, andavan gridando:
- Chi guarisce la Reginotta, sarà genero del Re.
- Che male ha la Reginotta?
- È diventata di stoppa.
Salutò e continuò per la sua strada, finché non gli annottò in una pianura. Guardava attorno per vedere di trovar un posto dove riposarsi: si volta, e scorge al suo fianco una bella signora. Trasalì.
- Non aver paura: sono una Fata, e son venuta per ringraziarti.
- Ringraziarmi di che?
- Tu m'hai salvato la vita. Il mio destino è questo: di giorno son rospo, di notte son Fata. Ai tuoi comandi!
- Buona Fata, c'è la Reginotta ch'è diventata di stoppa, e chi la guarisce sarà genero del Re. Insegnatemi il rimedio: mi basterà.
- Prendi in mano questa spada e vai avanti, vai avanti. Arriverai in un bosco tutto pieno di serpenti e di animali feroci. Non lasciarti impaurire: vai sempre avanti, fino al palazzo del Mago. Quando sarai giunto lì, picchia tre volte al portone...
Insomma gli disse minutamente come dovea fare:
- Se avrai bisogno di me, vieni a trovarmi.
Il giovinotto la ringraziò, e si mise in cammino. Cammina. cammina, si trovò dentro il bosco, fra gli animali feroci. Era uno spavento! Urlavano, digrignavano i denti, spalancavano le bocche; ma quello sempre avanti, senza curarsene. Finalmente giunse al palazzo del Mago, e picchiò tre volte al portone.
- Temerario, temerario! Che cosa vieni a fare fin qui?
- Se tu sei Mago davvero, devi batterti con me.
Il Mago s'infuriò e venne fuori armato fino ai denti: ma, come gli vide in mano quella spada, urlò:
- Povero me!
E si buttò ginocchioni:
- Salvami almeno la vita!
- Sciogli l'incanto della Reginotta, e avrai salva la vita.
Il Mago trasse di tasca un anello, e gli disse:
- Prendi; va' a metterglielo nel dito mignolo della mano sinistra e l'incanto sarà disfatto.
Il giovanotto, tutto contento, si presenta al Re:
- Maestà, è vero che chi guarisce la Reginotta sarà genero del Re?
- Vero, verissimo.
- Allora son pronto a guarirla.
Chiamaron la Reginotta, e tutti quelli della corte gli s'affollarono attorno; ma le avea appena messo in dito l'anello, che la Reginotta divampò, tutta una fiamma! Fu un urlo. Nella confusione, il giovanotto poté scappare, e non si fermò finché non giunse dove gli era apparsa la Fata:
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la disgrazia.
- Ti sei lasciato canzonare! Tieni questo pugnale e ritorna dal Mago: vedrai che questa volta non si farà beffa di te.
E gli disse minutamente come dovea regolarsi.
Il giovinotto andò subito, e picchiò tre volte al portone.
- Temerario, temerario! Che cosa vieni a fare fin qui?
- Se tu sei Mago davvero, devi batterti con me.
Il Mago s'infuriò e venne fuori, armato fino ai denti. Ma come gli vide in mano quel pugnale, si buttò ginocchioni:
- Salvami almeno la vita!
- Mago scellerato, ti sei fatto beffa di me! Ora starai lì incatenato, finché l'incanto non sia rotto.
Lo legò bene, piantò il pugnale in terra, e vi attaccò la catena. Il Mago non poteva muoversi.
- Sei più potente, lo veggo! Torna dalla Reginotta, cavale di dito l'anello del gioielliere e l'incanto sarà disfatto.
Il giovinotto non avea viso di presentarsi al Re; ma saputo che la Reginotta se l'era cavata con poche scottature, perché tutti quei della corte aveano spento le fiamme, si fece coraggio e si presentò:
- Maestà, perdonate; la colpa non fu mia; fu del Mago traditore. Ora è un'altra cosa. Caviamo di dito alla Reginotta quell'anello del gioielliere, e l'incanto sarà disfatto.
Così fu. La Reginotta diventò nuovamente di carne, ma pareva un tronco: non avea lingua, né occhi, né orecchi; era rovinata dalle fiamme. E se lui non la guariva intieramente, non potea diventar genero del Re.
Partì e andò in quella pianura dove gli era apparsa la Fata:
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la disgrazia.
- Ti sei lasciato canzonare!
E gli disse, minutamente, come dovea regolarsi.
Il giovanotto tornò dal Mago:
- Mago scellerato, ti sei fatto beffa di me! Lingua per lingua, occhio per occhio!
- Per carità, lasciami stare! Vai dalle mie sorelle, che stanno un po' più in là. Devi fare così e così.
Cammina, cammina, arriva in una campagna dove c'era un palazzo simile a quello del Mago. Picchiò al portone.
- Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Cornino d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me?
- Vuole un pezzettino di panno rosso; gli si è bucato il mantello.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra un pezzettino di panno rosso, tagliato a foggia di lingua.
Andò avanti, e arrivò a piè d'una montagna dove, a mezza costa, c'era un palazzo simile a quello del Mago. Picchiò al portone.
- Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Manina d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello. Che cosa vuole da me?
- Vuole due grani di lenti per la minestra.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra due grani di lenti, involtati in un pezzettino di carta.
Andò avanti, e arrivò in una valle, dove c'era un altro palazzo simile a quello del Mago. Picchiò al portone.
- Chi sei? Chi cerchi?
- Cerco Piedino d'oro.
- Capisco: ti manda mio fratello! Che cosa vuole da me?
- Vuole due lumachine per mangiarsele a cena.
- Che seccatura! Prendi qua.
E gli buttò dalla finestra le lumachine richieste.
Il giovanotto tornò dal Mago:
- Ho portato ogni cosa.
Il Mago gli disse come doveva fare, e il giovanotto stava per andarsene:
- Mi lasci qui incatenato?
- Lo meriteresti, ma ti sciolgo. Se mi hai ingannato, guai a te!
Il giovane si presentò al palazzo reale e si fece condurre dalla Reginotta.
Le aperse la bocca, vi mise dentro quel pezzettino di panno rosso, e la Reginotta ebbe la lingua. Ma le prime parole che disse furon contro di lui:
- Miserabile ciabattino! Via di qua! Via di qua!
Il povero giovane rimase confuso:
- Questa è opera del Mago!
Senza curarsene, prese i due semi di lenti, con un po' di saliva glieli applicò sulle pupille spente, e la Reginotta ebbe la vista. Ma appena lo guardò, si coprì gli occhi colle mani:
- Dio, com'è brutto! Com'è brutto!
Il povero giovane rimase:
- Questa è opera del Mago!
Ma, senza curarsene, prese i gusci delle lumachine che aveva già vuotati, e con un po' di saliva glieli applicò bellamente dov'era il posto degli orecchi: la Reginotta ebbe gli orecchi.
Il giovane si rivolse al Re e disse:
- Maestà, son vostro genero.
Come intese quella voce, la Reginotta cominciò a urlare:
- Mi ha detto: Strega! Mi ha detto: Strega!
Il povero giovane, a questa nuova uscita, sbalordì:
- È opera del Mago!
- E tornò dalla Fata.
- Fata, dove sei?
- Ai tuoi comandi.
Le narrò la sua disgrazia.
La Fata sorrise e gli domandò:
- Le hai tu tolto di dito l'altro anello del Mago?
- Mi pare di no.
- Vai a vedere; sarà questo.
Come la Reginotta ebbe tolto di dito quell'altro anello, tornò gentile e tranquilla.
Allora il Re le disse:
- Questi è il tuo sposo.
La Reginotta e il giovanotto si abbracciarono alla presenza di tutti, e pochi giorni dopo furono celebrate le nozze.
E furono marito e moglie;
E a lui il frutto e a noi le foglie.
C'era una volta un Re e una Regina. La Regina era incinta.
Un giorno passò una di quelle zingare che van dicendo la buona ventura, e il Re la fece chiamare:
- Che partorirà la Regina?
- Maestà, un serpente.
Quelli trasecolarono.
- E che dovevano farne? Ammazzarlo appena nato? Allevarlo?
- Dovevano allevarlo.
La povera Regina dette in un pianto dirotto:
- Chi avrebbe allattato una bestia così schifosa? Lei sarebbe morta dal terrore! E poi, se le mordeva il seno?
- Maestà, non abbiate paura. Avrà un dente soltanto, un dente d'oro.
Infatti la Regina partorì un bel serpentello verde-nero, che subito, appena nato, sguizzò di mano alla levatrice, attaccossi alla poppa della mamma e si mise a poppare.
Quando fu addormentato, il Re gli aperse la bocca e vide che avea davvero un dente soltanto, un dente d'oro. Però, siccome non voleva che quella loro disgrazia si risapesse, fece dire che la Regina avea partorito una bella bimba, ed era stata chiamata Serpentina.
Serpentina cresceva rapidamente, e quando apriva la bocca, il suo dente d'oro straluccicava.
Un giorno ripassò quella zingara, e il Re la fece chiamare:
- Dimmi la ventura di Serpentina.
- Buona o cattiva, Maestà?
- Buona o cattiva.
La zingara prese in mano la coda di Serpentina e si messe ad osservarla attentamente. Scrollava la testa.
- Zingara, che cosa vedi da farti scrollare la testa?
- Maestà, veggo guai!
- E non c'è rimedio?
- Maestà, bisognerebbe interrogare una più sapiente di me: la Fata gobba.
- O dove trovare questa Fata gobba?
- Prendete del pane e del vino per otto giorni e camminate sempre diritto, badiamo! Senza voltarvi in dietro. All'ottavo giorno vi troverete avanti a una grotta: la Fata gobba abita lì.
- Va bene, - disse il Re - partirò domani.
Prese le provviste per otto giorni, e si mise in cammino. Quando fu a mezza strada:
- Maestà! Maestà!
Stava per voltarsi, ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto.
Un altro giorno, ecco dietro a lui un urlo di creatura umana:
- Ahi! M'ammazzano! Ahi!
Il Re si fermò, irresoluto; quel grido strappava l'anima!... E stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione, e tirò diritto.
Un altro giorno, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo.
- Bada! Bada!
Spaventato, stava per voltarsi; ma si ricordò della raccomandazione della zingara, e tirò diritto.
Giunto davanti alla grotta, cominciò a chiamare:
- Fata gobba! Fata gobba!
- Gobbo sarai te! - rispose una voce.
E il povero Re, sentitosi un po' di peso sulle spalle, si tastò. Gli era proprio spuntata la gobba.
- Ed ora che fare? Come tornare indietro con quella mostruosità?
Risolse di tornar di notte, perché nessuno lo vedesse. La Regina, accortasi di quel gonfiore sulle spalle, gli domandò:
- Maestà, che portate addosso?
- Porto la mia disgrazia!
E raccontò com'era andata.
La Regina risolse di tentar lei:
- Fra loro donne si sarebbero intese meglio.
Fece le sue provviste di pane e vino per otto giorni, e partì.
A metà strada:
- Maestà! Maestà!
Lei, sbadatamente, si volta, e si trova tornata al punto d'onde era partita.
- Pazienza! Ricomincerò.
La seconda volta, più in là di mezza strada, ecco alle sue spalle un gran rumore, come di cavalli che corrano di galoppo:
- Bada! Bada!
Presa dallo spavento, si volta, e si trova di nuovo al punto d'onde era partita.
Allora, da scaltra, disse al Re:
- Maestà, turatemi le orecchie col cotone e versatevi su della cera. Così non sentirò nulla, e potrò arrivare dalla Fata gobba: altrimenti non ci sarà verso.
Il Re le turò le orecchie a quel modo, e lei partì.
Giunta davanti la grotta, si sturò le orecchie, e picchiò. Picchia, ripicchia, non rispondeva nessuno. Lei non voleva chiamare, e dava all'uscio col bastone, a due mani.
- Chi è? - urlò finalmente una voce - Chi cercate?
- Son io: cerco la Fata.
- Quale Fata? Delle Fate ce n'è tante!
- La Fata gobba.
Le scappò di bocca.
- Gobba sarai tu!
La Regina si tastò subito le spalle. Le era proprio spuntata la gobba.
Tornò di notte, per non esser veduta; e il Re, prima di ogni cosa, le guardò dietro.
- Maestà, che portate addosso?
- Porto la mia disgrazia!
E raccontò com'era andata.
- E tutto questo per Serpentina! Schiacciamogli la testa! La mala fortuna ci vien per lei.
Il Re non sapea risolversi:
- Non era sangue loro?
- Farò di mio capo - disse fra sé la Regina.
E, di nascosto al Re, chiamò una guardia di palazzo:
- Prendi questa cassettina e vattene in un bosco. Quando sarai lì, farai una catasta di legna, ve la metterai su e darai fuoco. Finché non sia consumata, non dovrai tornare indietro.
- Maestà, sarà fatto.
Intanto il Re ordinava gli si chiamasse la zingara:
- Dimmi la ventura di Serpentina.
- Buona o cattiva, Maestà?
- Buona o cattiva.
- Maestà, Serpentina corre pericolo di morte:
E se muore Serpentina,
Tutto il regno va in rovina.
- Che pericolo può correre nelle stanze reali?
- Maestà, non è più lì.
Quando il Re apprese quello che sua moglie avea fatto, cominciò a strapparsi i capelli:
- La loro rovina era compiuta. Ah! Povera Serpentina, dove tu sei?
E una voce lontana, lontana:
- Maestà, sono nel bosco.
- E che tu fai?
- Sento strani rumori.
Il Re ordinò:
- Mi si selli il miglior cavallo della mia scuderia!
Montò a cavallo e via, come un fulmine, per la strada del bosco. Di tanto in tanto si fermava:
- Serpentina, dove tu sei?
- Maestà, in mezzo al bosco.
Ora la voce era più vicina.
- E che tu fai?
- Maestà, ho troppo caldo.
Il Re conficcava gli sproni nei fianchi del cavallo: avrebbe voluto che volasse. Ma quando fu in mezzo al bosco, vide una gran fiamma:
- Serpentina, dove tu sei?
- Maestà, in mezzo al bosco.
La voce era vicinissima.
- E che tu fai?
- Pelle nuova, Maestà!
Il Re corse alla catasta in fiamme, e senza curar di scottarsi, tirò la cassettina fuori della brace. L'aperse in fretta e furia, e vide scappar fuori una ragazza di belle forme; se non che avea la pelle tutta squamosa, come quella d'un serpente.
- Troppa fretta, Maestà! Ora non potrò più maritarmi!
Serpentina non avea avuto il tempo di far pelle nuova. E dava in un dirotto pianto; era inconsolabile:
- Lasciatemi qui sola. Anderò dalla Fata gobba.
Non potendola persuadere altrimenti, il Re l'abbandonò in mezzo al bosco e tornò al palazzo reale.
Ma Serpentina, gira di qua, gira di là, non trovava l'uscita. Vide uno scarafaggio:
- Scarafaggio, bel scarafaggio! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
- Non la conosco.
E tirò via.
Più in là, vide un topolino:
- Topolino, bel topolino! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
- Non la conosco.
E tirò via.
Più in là ancora, vide un usignuolo in cima a un albero:
- Usignuolo, bell'usignuolo! Se mi conduci dalla Fata gobba, ti faccio un magnifico regalo.
- Mi dispiace, ma non posso. Aspetto la bella dal dente d'oro che deve passare di qui.
- Usignuolo, bell'usignuolo! Sono io la bella dal dente d'oro.
E mostrò il dente.
- O Reginotta mia! Son tant'anni che t'aspetto.
L'usignuolo divenne, tutt'a un tratto, il più bel giovane che si fosse mai visto, la prese per mano e la condusse fuor del bosco.
Giunti davanti alla grotta, il bel giovane picchiò.
- Chi siete?
- Son io e Serpentina.
- Chi volete?
- La Fata regina.
La grotta si spalancò, e si vide il gran palazzo della Fata gobba; ma bisognava dirle Fata regina; se no, se l'avea a male.
- Ben venuta, figliuola mia! T'aspettavo da un pezzo. Questo giovine è figlio d'un regnante. Una Maga gli aveva fatto l'incantesimo, e per romperlo ci voleva la ragazza dal dente d'oro. Ora dovrete sposarvi.
La Reginotta, con quella pelle squamosa, era un orrore. La Fata gobba cominciò a strusciarla da capo a piedi, e in poco d'ora la mondò, in guisa che non pareva più lei. Era così bella, che abbagliava.
La Regina, come intese che Serpentina stava per tornare, montò sulle furie:
- Se vien lei, partirò io! È la nostra cattiva sorte!
Ma, saputo che quella recava l'unguento da far sparire le gobbe, le andò incontro col Re e con tutta la corte. Fecero grandi feste, e vissero tutti felici e contenti.
E noi citrulli ci nettiamo i denti.
C'era una volta una povera donna rimasta vedova con un figliolino al petto. Era di cattiva salute, e con quel bimbo da allattare poteva lavorare pochino. Faceva dei piccoli servigi alle vicine, e così lei e la sua creatura non morivano di fame.
Quel figliolino era bello come il sole; e la sua mamma, ogni mattina, dopo averlo rifasciato, lavato e pettinato, un po' per buon augurio, un po' per chiasso, soleva dirgli:
- Bimbo mio, tu sarai barone!
Bimbo mio, tu sarai duca!
Bimbo mio, tu sarai principe!
Bimbo mio, tu sarai Re!
E ogni volta che lei gli diceva: tu sarai Re, il bimbo accennava di sì colla testina, come se avesse capito.
Un giorno si trovò a passare proprio il Re, e sentito: Bimbo mio, tu sarai Re, la prese in mala parte, perché non aveva avuto ancora figliuoli e ne era accorato assai.
- Comarina, - le disse - non vi arrischiate più a dire così, o guai a voi!
La povera donna, dalla paura, non disse più nulla. Però quel figliolino, ora che la sua mamma stava zitta, ogni mattina, appena rifasciato, lavato e pettinato, si metteva a piangere e strillare.
Lei gli ripeteva:
- Bimbo mio, tu sarai barone!... Tu sarai duca!... Tu sarai principe!...
Ma il bimbo non si chetava. Talché una volta, per prova, tornò a dirgli sottovoce:
- Bimbo mio, tu sarai Re!
Il bimbo accennò di sì colla testina, come se avesse capito, e non strillò più.
Allora la povera donna si persuase che quel figliolino doveva avere una gran fortuna; e temendo la collera del Re, già pensava di mutar paese.
Intanto, poiché il figliuolo era spoppato, quando le capitava di fare qualche servizio, pregava una vicina:
- Comare, tenetemi d'occhio il bambino; vado e torno in due minuti.
Un giorno le accadde di tardare. La vicina era seccata di tenere in braccio quel cattivello che piangeva perché voleva la mamma. In quel punto comparve un cenciaiolo:
- Cenci, donnine, cenci!
- Lo volete questo cencio qui?
- Se ci si combina, lo prendo.
- Ve lo do per un soldo.
Il cenciaiuolo le tolse il bimbo di braccio e le mise in mano un soldo bucato.
A quella scena lei e le altre vicine presenti ridevano: il cenciaiuolo in questo mentre svoltava la cantonata e spariva. Corri, cerca, chiama... L'avete più visto?
Figuriamoci che pianto, quella povera mamma, quando apprese la sua disgrazia!
Corse subito dal Re:
- Giustizia, Maestà!... Mi han rapito il bambino!
- Bimbo mio, tu sarai Re! - le rispose il Re facendole il verso, per canzonarla.
E la mandò via, tutto contento che quel malaugurio per la sua discendenza fosse sparito.
Gli occhi della povera donna parevano un fiume. Andava attorno tutta la giornata, fermando la gente:
- Buona gente, incontraste per caso il cenciaiuolo che mi ha rubato il mio bambino?
Le persone, che non ne sapevano nulla, la prendevano per matta e le ridevano in viso.
Quel giorno della disgrazia, la vicina le aveva dato il soldo bucato messole in mano dal cenciaiuolo; ma la povera donna, dalla gran rabbia che aveva, lo buttò via.
La mattina dopo, apre un cassetto... il soldo bucato era lì.
- Soldaccio maledetto! Non ti voglio neppur vedere!
E lo buttò nuovamente via dalla finestra.
Ma la mattina dopo, torna ad aprire quel cassetto e che vede? Il soldo bucato.
Richiuse il cassetto con stizza.
- Fossero almeno dieci lire...! Mi comprerei uno straccio di veste!
Non avea finito di dirlo, che sentì lì dentro un suono di soldi rimescolati. Stupita, riapre. Pareva che il soldo avesse figliato. Oltre a quello, c'erano lì tanti soldi, da fare giusto dieci lire.
Da allora in poi, quando avea bisogno di denaro, le bastava che dicesse:
- Soldino mio, vo' cento lire, vo' mille lire!
Le cento lire, le mille lire erano subito lì.
La buona donna non si teneva questa fortuna per sé sola; faceva spesso la carità a tutte le persone bisognose al par di lei, ed era già diventata una benedizione del cielo.
Ma quel bene lei lo faceva sempre col pensiero al figliolino perduto:
- Che le importava di tanta fortuna, senza il suo figliolino? E sperava sempre che, un giorno o l'altro, il cielo l'avrebbe consolata.
In quel tempo il Re ebbe il capriccio di comprarsi un magnifico cavallo. Conchiuso il negozio, andò per prendere il denaro dallo scrigno ove solea tenerlo riposto, e si accorse che mancava una bella somma.
Appostò lì due guardie per acchiappare il ladro; e, passati alquanti giorni, tornò a guardare: mancava un'altra bella somma!
Si mise in agguato lui stesso; cominciava a sospettare dei suoi Ministri.
Una mattina, ecco una voce nell'aria, lontana, lontana:
- Soldino mio, vo' mille lire!
E, subito, un rimescolìo nello scrigno, come se qualcuno vi prendesse quattrini a manate.
Apre in fretta in fretta... Le mille lire mancavano, ma lì dentro non c'era nessuno!
- Come andava questa faccenda?
Il Re ci perdeva la testa.
Però, benché fosse un po' avaro, gli dispiaceva di più dover morire senza figliuoli. Se la prendeva colla Regina, come se la colpa fosse stata di lei, e la maltrattava:
- Non era buona a fargli un figliuolo, neppure di terra cotta!
La Regina, indispettita, gli fece colle sue mani un bel puttino di terra cotta.
- Ecco, se era buona!
Tutti accorrevano al palazzo reale per vedere quel puttino di terra cotta, che era una meraviglia, e vi andò anche quella povera donna.
- Oh Dio! È tutto il mio bambino!... Ma non era così che ti volevo Re, figliolino mio!
E si mise a piangere.
Il Re, a quelle parole, montò in furore. Diè un calcio al puttino di terra cotta e lo ridusse in mille pezzi.
Alla povera donna parve di vedersi squarciare sotto gli occhi il figliolino perduto. Ma che poteva dire a Sua Maestà? Dovette ingozzare anche quell'amarezza, e tornarsene a casa zitta zitta.
Intanto nello scrigno del Re i quattrini continuavano a mancare; e sempre quella voce nell'aria, lontana lontana:
- Soldino mio, vo' cento lire, vo' mille lire!
E quanti diceva la voce, tanti il Re ne sentiva prendere dalla mano del ladro invisibile.
Il Re mise le sue spie per scoprire di chi fosse quella voce: e un giorno le spie gli condussero dinanzi ammanettata la donna del bambino rubato:
Era lei che aveva detto: "Soldino mio, vo' cento lire!".
Il Re non volle neppure ascoltare la povera donna, che voleva raccontargli come stesse la cosa, e la fece gettare in un fondo di carcere.
Ma da quel giorno egli non ebbe più pace.
Voleva andare a letto? E gli strappavano le coperte:
- Maestà, non si dorme!
Chi era? Non si vedeva nessuno.
Si sedeva a tavola per mangiare? E gli portavano via il piatto:
- Maestà, non si mangia!
Chi era? Non si vedeva nessuno.
Se durava un altro po', il Re moriva d'inedia. Perciò mandò a consultare un vecchio Mago.
Il Mago (che poi era quel cenciaiuolo che avea rapito il bambino per proteggerlo) rispose soltanto:
- Bimbo mio, tu sarai Re!
Visto che il destino era quello, e non volendo morire d'inedia, il Re cominciò dallo scarcerare la povera donna, e tornò a mandare dal Mago:
- Come rintracciare il bimbo? Lo avea rapito un cenciaiuolo e non se ne sapeva più notizia.
Il Mago rispose:
- Raccatti i cocci di quel puttino di terra cotta e li saldi insieme collo sputo.
Il Re, sebbene di mala voglia, raccattò i cocci del puttino e li saldò collo sputo.
- Ed ora?
- Ed ora - rispose il Mago - prepari una bella festa e faccia così e così.
Il Re fece dei grandi preparativi, poi, secondo le istruzioni del Mago, mandò a chiamare la mamma del bimbo a palazzo reale e la fece sedere a lato della Regina.
Il puttino di terra cotta bello e saldato si vedeva collocato nel mezzo del salone e, attorno attorno, ministri, principi, cavalieri in gran gala che aspettavano.
Quando fu l'ora, s'intese nella via:
- Cenci, donnine, cenci!
A questo grido il puttino di terra cotta scoppiò, e ne usci fuori un bel giovinotto fra un gran rovesciarsi di monete, che ruzzolavano da tutte le parti.
Il Re, contento anche perché riacquistava tutti i suoi quattrini, voleva abbracciarlo come un figliuolo; ma quello corse prima dalla sua mamma e non sapeva staccarsela dal petto:
- Bimbo mio, tu sarai Re!
Ed era già Reuccio, poiché il Re lo adottava!
Qui entrò una guardia e disse:
- Maestà, c'è di là un cenciaiuolo; rivuole il suo soldo bucato.
Il Re non ne sapeva nulla; ma la povera donna rispose subito:
- Eccolo qui.
Sentita la storia di quel soldo, il Re pensò ch'era meglio tenerselo per sé. Andò di là, bucò un altro soldo e diede questo in cambio di quello al cenciaiuolo.
Ma gliene incolse male.
La prima volta che disse:
- Soldino mio, vo' mille lire!
Invece di mille lire furono mille nerbate, che lo conciarono per le feste, tanto che morì.
- Bimbo mio, tu sarai Re!
E si era avverato.
Stretta è la foglia, larga è la via,
Dite la vostra, ché ho detto la mia.
C'era una volta un contadino che aveva un campicello tutto sassi, e largo quanto la palma della mano. Vi era rizzato un pagliaio e viveva lì, da un anno all'altro, zappando, seminando, sarchiando, insomma facendo tutti i lavori campestri.
Nelle ore di riposo cavava di tasca un zufolo e, tì, tìriti, tì, si divertiva a fare una sonatina, sempre la stessa; poi riprendeva il lavoro.
Intanto quel campicello sassoso gli fruttava più di un podere. Se i vicini raccoglievano venti, e lui raccoglieva cento, per lo meno. I vicini si rodevano. Una volta quel campicello non lo avrebbero accettato neanche in regalo: da che lo aveva lui, non sapevan che cosa fare per strapparglielo di mano.
- Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C'è chi li pagherebbe tre volte più della stima.
- Questi sassi son per me:
Non li cederei neppure al Re.
- Compare, volete disfarvi di questi quattro sassi? C'è chi li pagherebbe dieci volte più della stima.
- Questi sassi son per me:
Non li cederei neppure al Re.
Una volta, per caso, passò di lì anche il Re, accompagnato dai ministri. Vedendo quel campicello, che pareva un giardino, coi seminati verdi e vegeti, mentre quelli dei campi attorno somigliavano a setole di spazzola, gialli, stenti, si fermò, colpito dalla meraviglia e disse ai ministri:
- È proprio una bellezza! Lo comprerei volentieri.
- Maestà, non si vende. Il padrone di esso è un uomo strano. Risponde a tutti:
- Questi sassi son per me:
Non li cederei neppure al Re.
- Oh! Voglio vederlo.
E fece chiamare il contadino.
- È vero che questo campicello tu non lo cederesti neppure al Re?
- Sua Maestà ha tanti poderi! Che se ne farebbe dei miei sassi?
- Ma se lui li volesse?
- Se lui li volesse?
- Questi sassi son per me:
Non li cederei neppure al Re.
Il Re fece finta di non aversela avuta a male, e la notte dopo mandò cento guardie a scalpicciare, zitte zitte, quel seminato, da non lasciar ritto neanche un filo d'erba.
La mattina, il contadino esce fuor del pagliaio, e che vede? Uno spettacolo! E tutti i vicini che stavano a guardare, con gusto, quantunque si mostrassero addolorati.
- Ah, compare, compare! Se voi aveste venduto quei quattro sassi, ora questa disgrazia non vi sarebbe accaduta.
Ma quegli zitto, dinoccolato, come se non dicessero a lui.
Quando i vicini furono andati pei fatti loro, cavò di tasca lo zufolo, e tì, tìriti, tì, il seminato cominciava a rizzarsi; tì, tìriti, tì, il seminato si rizzava come se nulla fosse stato.
Il Re, sicuro del fatto suo, lo aveva mandato a chiamare:
- C'è qualcuno che ti vuol male. So che la notte scorsa ti han mezzo distrutto il seminato. Vendi a me quei quattro sassi. La gente, quando saprà che son miei, li guarderà da lontano.
- Maestà, non è vero nulla. Il mio seminato è più bello di prima.
Il Re si morse il labbro:
- Dunque i suoi ordini non erano stati eseguiti!
E se la prese coi Ministri. Ma appena questi gli riferirono che le povere guardie, dal gran scalpicciare di quella nottata, non si poteano neppur muovere, il Re rimase!
- Quest'altra notte, ad ora tarda, si mandi lì tutto l'armento.
La mattina, il contadino esce fuori dal pagliaio, e che vede? Uno spettacolo: il terreno brucato raso!
I vicini:
- Ah, compare, compare! Se voi aveste venduto quei quattro sassi, questa nuova disgrazia non vi sarebbe accaduta.
E quegli zitto, dinoccolato, come se non dicessero a lui.
Quando i vicini furono andati via pei fatti loro, cavava di tasca lo zufolo, e tì, tìriti, tì, il seminato ripullulava; e tì, tìriti, tì, il seminato era bell'e cresciuto come se nulla fosse stato.
Il Re, questa volta, era sicuro di aver buono in mano. Volea vederlo, quell'uomo! Chi sa che grugno!
E appena l'ebbe alla sua presenza:
- C'è qualcuno che ti vuol male. So che la notte scorsa ti hanno, a dirittura, distrutto ogni cosa. Vendi a me quei quattro sassi. La gente, quando saprà che sono miei, li guarderà da lontano.
- Maestà, non è vero nulla. Il mio seminato è più bello di prima.
Il Re si morse il labbro:
- Dunque i suoi ordini non erano stati eseguiti!
E se la prese coi Ministri. Ma quando questi gli riferirono che tutto l'armento, dal gran mangime di quella nottata, avean le pance che gli scoppiavano e che metà eran già morti di ripienezza, il Re rimase!
- Qui c'è un mistero! Bisogna scoprirlo. Vi do tempo tre giorni.
Col Re non si scherzava. I Ministri cominciarono dal grattarsi il capo, e, pensa e ripensa, uno di essi propose di andare, la notte, ad appostarsi dietro il pagliaio di quel maledetto contadino e star lì fino all'alba. Chi sa? Qualcosa avrebbero visto.
- Benone!
Andarono; e siccome nel pagliaio c'erano parecchie fessure, si misero a spiare attraverso a queste.
Il Re non avea potuto chiuder occhio pensando all'accaduto: e la mattina, di buon'ora, fece chiamare i ministri.
- Maestà, oh! Che abbiamo visto! Che abbiamo visto!
- Che cosa avete mai visto?
- Quel contadino ha uno zufolo, e appena si mette a sonarlo, tì, tìriti, tì, il suo pagliaio, di botto, diventa una reggia.
- E poi?
- E poi vien fuori una ragazza più bella della luna e del sole, e lui, tì, tìriti, tì, la fa ballare con quella sonata; e dopo le dice:
Bella figliuola, se il Re ti vuole,
Dee star sette anni alla pioggia e al sole.
E se sette anni alla pioggia e al sole non sta,
Bella figliuola, il Re non ti avrà.
- E poi?
- E poi smette di sonare e quella reggia, di botto, ridiventa pagliaio.
- Glieli darò io la pioggia e il sole! - disse il Re, toccato sul vivo. - Ma prima vediamo codesto miracolo di bellezza!
E andò la notte dopo, accompagnato dai Ministri.
Ed ecco il contadino cava di tasca il suo zufolo, e tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventa una reggia; e tì, tìriti, tì, compare la ragazza e si mette a ballare. A quella vista il Re ammattì:
- Oh, che bellezza! Dovrà esser mia! Dovrà esser mia!
E, senza metter tempo in mezzo, picchia all'uscio a più riprese.
Il contadino cessò di suonare; di botto la reggia ridivenne pagliaio, ma di aprire non se ne parlò neppure: e il Re, che bruciava dall'impazienza, dovette tornarsene a palazzo. Prima che albeggiasse, spedì un corriere a spron battuto:
- Lo voleva il Re, subito subito.
Il contadino andò a presentarsi:
- Sua Maestà che cosa comandava?
- Comando e voglio la tua figliuola per sposa. Lei diventerà Regina e tu Ministro di palazzo reale.
- Maestà, c'è una condizione:
Chi vuole la mia figliuola
Dee star sette anni alla pioggia e al sole;
E se sette anni alla pioggia e al sole non sta,
Fosse chi fosse, non l'otterrà.
Il Re avrebbe voluto darglieli lui la pioggia e il sole! Ma c'era di mezzo la ragazza. Si strinse nelle spalle e rispose:
- Starò sette anni alla pioggia e al sole.
Lasciò il governo ai Ministri, per tutto il tempo che sarebbe stato assente, e andò ad abitare col contadino, scottandosi la pelle al solleone e restando sotto la pioggia anche quando veniva giù a catinelle.
Dopo poco tempo, povero Re, non si riconosceva più; parea fatto di terra cotta, colla pelle bruciata a quel modo. Ma avea un compenso. Di tanto in tanto, la notte, il contadino cavava di tasca lo zufolo, e prima di sonare, gli diceva:
- Maestà, rammentatevi bene:
Chi tocca stronca,
Chi parla falla!
E tì, tìriti, tì, di botto il pagliaio diventava una reggia; e tì, tìriti, tì, compariva la ragazza più bella della luna e del sole.
Il Re se la divorava cogli occhi, mentre quella ballava. Dovea fare proprio un grande sforzo per non slanciarsi ad abbracciarla e non dirle: "Sarai Regina!". La passione lo conteneva.
Eran passati sei anni, sei mesi e sei giorni. Il Re, dalla contentezza, si fregava le mani.
Fra poco quella ragazza più bella della luna e del sole sarebbe stata sua sposa! E lui se ne tornerebbe al palazzo reale, Re come prima e più beato di prima!
Ma la sua disgrazia volle che una notte il contadino cavasse di tasca lo zufolo, e si mettesse a sonare senza ripetergli:
- Maestà, rammentatevi: chi tocca stronca, chi parla falla.
Quando, tì, tìriti, tì... apparve la ragazza più bella della luna e del sole, e si messe a ballare, il Re non seppe più frenarsi, le corse incontro e l'abbracciò, gridando:
- Sarai Regina! Sarai Regina!
Fu un lampo. E, invece della ragazza, che cosa si trovò fra le braccia? Un ceppo bitorzoluto!
- Maestà, ve l'avevo pur detto io:
Chi tocca stronca,
Chi parla falla!
Il Re pareva di sasso:
- Bisognava ricominciare?
- Bisognava ricominciare!
E ricominciò.
Si abbrustoliva al sole:
- Sole, bel sole
Patisco per amore!
Si lasciava conciare dalla pioggia.
- Pioggia, pioggia bella,
Patisco per la donzella!
E quando il contadino cavava di tasca lo zufolo e, tì, tìriti, tì, la ragazza ricompariva e si metteva a ballare, lui se la divorava cogli occhi, da un cantuccio, zitto e cheto come l'olio. Non se la sentiva di ricominciare.
Eran passati novamente sei anni, sei mesi e sei giorni, e il Re, dalla contentezza, già si fregava le mani.
Ma la sua disgrazia volle che una notte il contadino cavasse di tasca lo zufolo e, tì, tìriti, tì, comparisse la ragazza e si mettesse a ballare come non aveva ballato mai, con una grazia, con una sveltezza! Il povero Re non poté più frenarsi e le corse incontro e l'abbracciò:
- Sarai Regina! Sarai Regina!
E che cosa si trovò fra le braccia? Un ceppo bitorzoluto.
- Ah, Maestà, Maestà!
Chi tocca stronca,
Chi parla falla!
Il Re pareva di sasso:
- Bisognava ricominciare?
- Bisognava ricominciare!
E ricominciò:
- Sole, bel sole,
Patisco per amore;
Pioggia, pioggia bella,
Patisco per la donzella!
Questa volta però stette bene in guardia, e ai sette anni fissati ebbe finalmente la ragazza, più bella della luna e del sole. Non gli parea neppur vero! Intanto che cosa era accaduto? Era accaduto che i suoi Ministri e il popolo ritenendolo per matto, si erano dimenticati di lui e avevan dato, da parecchi anni, la corona reale a un suo parente.
Il Re, infatti, si presenta al palazzo reale colla sposa sotto braccio e i soldati di sentinella:
- Non si passa! Non si passa!
- Sono il Re! Chiamate i miei Ministri!
Che Ministri? I vecchi eran morti e quelli del nuovo Re lo lasciavano cantare.
Si rivolge al popolo:
- Come? Non riconoscete il vostro Re?
Il popolo gli ride in faccia e non gli dà retta.
Disperato, ritorna al campicello, dal contadino. Dov'era il pagliaio, vede, con sorpresa, un palazzo che pareva una reggia. Monta le scale, e invece del contadino, gli viene incontro un bel vecchio con tanto di barba bianca: era il gran mago Sabino.
- Non ti scoraggiare! - gli disse questi.
E lo prese per mano, e lo condusse in una magnifica stanza, dove c'era un catino pieno di acqua. Il Gran Mago afferra quel catino e glielo riversa sulla testa, e il Re, da un po' invecchiato che già era, rinverdisce, a un tratto, di vent'anni.
Allora il vecchio:
- Affàcciati a quella finestra, suona questo zufolo e vedrai.
Il Re si affaccia, si mette a sonare, tì, tìriti, tì, ed ecco un esercito armato di tutto punto, fitto come la nebbia, su pei colli e per la pianura. Intimata la guerra, mentre i soldati combattevano lui, in cima a un poggio, sonava tì, tìriti, tì, senza cessare finché la battaglia non fu vinta.
Tornò a palazzo reale vittorioso e trionfante, perdonò a tutti, e all'occasione dei suoi sponsali diè un mese di feste per tutto il regno.
E presto ebbe un erede;
E noi scalzi d'un piede.
C'era una volta un Re e una Regina. La Regina partorì e fece una bambina più bella del sole. Insuperbita di questa figliolina così bella, spesso diceva:
- Neppur le Fate potrebbero farne un'altra come questa.
Ma una mattina, va per levarla di culla e la trova contraffatta, con una testa di rospo.
- Oh Dio, che orrore!
Benché fosse figlia unica e le volesse un gran bene, quella testa di rospo le facea schifo, e non volle più allattarla.
Il Re, angustiato, disse a un servitore:
- Prendila e portala giù; mettila fra i cagnolini figliati dalla cagna. Però se morisse, sarebbe meglio per lei!
Non morì. La cagna, tre, quattro volte il giorno tralasciava di dar latte ai cagnolini, e porgeva le poppe a Testa-di-rospo. La leccava, la ripuliva, la scalducciava tenendosela accosto, e non permetteva che alcuno stendesse la mano a toccarla.
Quando il Re e la Regina scendevano giù per vedere, la cagna ringhiava, mostrava i denti; e un giorno che la Regina fece atto di voler riprendere la figliuola, le saltò addosso e le morse mani e gambe.
Testa-di-rospo nel canile prosperava. Quando crebbe, non volle più lasciarlo. Durante la giornata abitava su nelle stanze reali; pranzava a tavola col Re, colla Regina, con tutta la corte, e prima di toccar le pietanze, metteva da parte i meglio bocconi; poi ne riempiva il grembiule e scendeva giù, nel canile.
- Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi!
La notte dormiva lì, con mamma cagna. Non c'era mai stato verso di indurla a dormire nel suo letto.
La Regina, sentendole ripetere ogni giorno: - Mamma cagna, mangiate; la mia vera mamma siete voi! -, cominciò a odiarla terribilmente, come se non fosse stata sua figliuola.
E una volta disse al Re:
- Maestà, no, costei non è la nostra figliuola. Ce la scambiarono quand'era in culla. Che ne facciamo di questo mostro? Io direi di farla ammazzare.
Il Re non ebbe animo di commettere questa crudeltà:
- Mostro o non mostro, è una creatura di Dio.
Talché la Regina giurò di disfarsene in segreto.
E che pensò? Pensò di dar ad intendere al Re che era nuovamente gravida e, quando fu l'ora, gli fece presentare una bambina nata di fresco, che lei aveva fatto comprare a peso d'oro in un altro paese.
Il Re fu molto contento; e alla bambina mise nome Gigliolina; perché era bianca come un giglio.
Allora la Regina gli disse:
- Ora che abbiamo quest'altra figliuola, che ne facciamo di quel mostro? Io direi di farla ammazzare.
Per amore di quest'altra figliuola, il Re, benché a malincuore acconsentì.
Ma come andarono per prendere Testa-di-rospo e farla ammazzare, sulla soglia del canile trovarono mamma cagna, che abbaiava e ringhiava mostrando i denti.
E Testa-di-rospo non voleva uscir fuori.
- Perché non vieni fuori?
- Perché mi farete ammazzare.
- E chi ti ha detto questo?
- Me l'ha detto mamma cagna.
La Regina, maliziosa, voleva indurla colle buone:
- Non è vero, sciocchina. Vieni su, vieni a vedere che bella sorellina ti è nata.
- Sorellina non me n'è nata,
A peso d'oro fu comprata.
Mamma cagna, mamma cagna,
Siete voi la vera mamma.
- Che significa? - domandò il Re.
- O che gli date retta? Testa-di-rospo parla da bestia.
Ma il Re disse:
- Chi tocca Testa-di-rospo l'ha da fare con me. Mostro o non mostro, è una creatura di Dio. Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima.
La Regina, arrabbiata per lo smacco, che pensò? Pensò di ricorrere ad una Strega:
- Fammi due vestiti compagni, tutti oro e diamanti; ma uno dev'essere incantato: deve bruciare addosso a chi se lo mette.
- Fra un anno li avrete.
In questo mentre la Regina fingeva di voler bene egualmente alle due figliuole; anzi, se comprava un balocco, un ninnolo per la Gigliolina, ne comprava uno più bello per Testa-di-rospo.
La Gigliolina, vedendo il regalo più bello, si metteva a strillare:
- Quello lì lo voglio io!
E Testa-di-rospo glielo dava.
Passato l'anno, la Regina tornò alla Strega.
- Maestà, i vestiti sono pronti; ma badate di non scambiarli. Per non sbagliare in questo incantato ci ho messo un diamante di più.
- Ho capito.
Chiamò le due figliuole e disse:
- Ecco due bei vestiti; provateveli subito, per vedere se vanno bene. Questo è il tuo, Testa-di-rospo.
Ma la Gigliolina, contati i diamanti e visto che in quello di Testa-di-rospo ce n'era uno di più, comincia a strillare:
- Quello lì lo voglio io!
La Regina non permise che lo toccasse.
Intanto la Gigliolina continuava a strillare, e pestare coi piedi:
- Quello lì lo voglio io! Quello lì lo voglio io!
Accorse il Re e disse:
- Non ti persuadi che quello è un po' più grande? Provalo, e vedrai.
E stava per infilarglielo.
- No, Maestà - disse Testa-di-rospo.
Vestito bello, fatto da poco,
Vestito nuovo fatto di fuoco,
Mamma cagna, mamma cagna,
Siete voi la vera mamma.
- Che significa? - domandò il Re.
- O che gli date retta. Testa-di-rospo parla da bestia.
Ma il Re disse:
- Chi fa danno a Testa-di-rospo, fa il proprio danno. Lei è la vera Reginotta, perché nata la prima.
La Regina, arrabbiata per quest'altro smacco, non sapeva più che inventare.
E la sua rabbia si accrebbe quando vide arrivare a corte il Reuccio del Portogallo, che andava cercando una principessa reale per moglie.
La Regina disse al Re:
- Almeno facciamogli vedere tutte e due le figliuole; così sceglierà.
Il Re, per contentarla, rispose:
- Sia pure.
Il Reuccio voleva visitare le principesse negli appartamenti ov'esse abitavano; e la Regina lo condusse prima nel magnifico appartamento della Gigliolina. La Gigliolina, vestita cogli abiti più sfarzosi, sfolgorava come una stella.
Il Reuccio disse:
- È mai possibile che l'altra principessa sia bella quanto questa? Andiamo a vederla. Ma dove andiamo?
- Nel canile. L'altra abita nel canile.
Il Reuccio, stupito, scese giù insieme col Re e con la Regina, e trovò Testa-di-rospo nel canile:
- Reuccio, entrate voi solo; c'è posto soltanto per uno.
Il Reuccio entrò, e Testa-di-rospo chiuse lo sportello.
Mamma cagna si accovacciò lì dietro, ringhiando.
Aspetta un'ora, aspetta due, il Reuccio non compariva. La Regina, sopra tutti, era impaziente pel ritardo:
- Chi sa che brutto scherzo Testa-di-rospo stava per farle!
Il brutto scherzo fu che il Reuccio, uscito dal canile, disse al Re:
- Maestà, vi chieggo la mano di Testa-di-rospo.
La Regina non rinveniva dallo sbalordimento:
- Ma che cosa avete fatto tante ore lì dentro?
- Ho visitato tutto il palazzo. Di fronte al palazzo di Testa-di-rospo, il palazzo reale sembrerebbe una stalla.
Il Re e la Regina si guardarono, meravigliati.
- Reuccio, dite davvero?
- Dico davvero.
La Regina dovette inghiottire quest'altra pillola amara, e che pensò? Pensò di accertarsi coi suoi occhi di quello che il Reuccio aveva detto:
- Testa-di-rospo, vorrei vedere il tuo palazzo.
- Maestà, quel canile lo chiamate palazzo?
- Testa-di-rospo, una notte vorrei dormire con te.
- Chiedetene il permesso a mamma cagna: è lei la padrona.
La Regina andò a trovare mamma cagna:
- Mamma cagna, vorrei visitare il vostro palazzo.
- Bau! Bau!
- Che cosa dice?
- Dice di sì.
- Mamma cagna, una notte vorrei dormire con Testa-di-rospo.
- Bau! Bau!
- Che cosa dice?
- Dice di sì.
La Regina, per entrare nel canile, dovette quasi piegarsi in due.
- Ed è questo il tuo gran palazzo?
- Questo: non ve lo dicevo?
La Regina, indispettita, uscì fuori brontolando contro il Reuccio, che le avea dato ad intendere tante sciocchezze; e appena fuori, cominciò a sentire per tutto il corpo un brulichio e un brucìo insoffribile. Era, da capo a piedi, ripiena di pulci; e, siccome montava a corsa le scale e scoteva le vesti, ne seminava per terra cataste che annerivano il pavimento.
Così per le stanze del palazzo; ma più scoteva e più gliene brulicavano addosso e se la rodevano viva viva.
In un momento, Re, ministri, dame di corte, gente di palazzo, tutti si videro assaliti da quelle bestiole affamate, che davano morsi da portar via la pelle; e tutti urlavano:
- Accidempoli alla Regina che volle entrare nel canile!
Il Re corse subito da Testa-di-rospo:
- Figliuola mia, dàcci aiuto!
- Mamma cagna, dategli aiuto!
Mamma cagna si mise a girellare per le stanze:
- Bau, bau! Bau, bau!
E sentendola abbaiare, tutte le pulci saltavano addosso a lei.
La Regina non si stimò castigata abbastanza e insistette:
- Testa-di-rospo, questa notte vengo a dormire con te.
- Maestà, in un giaciglio!
- Per una volta, potrò provare.
Si acconciò alla meglio, e finse di dormire.
- In quel canile ci doveva essere un mistero; voleva scoprirlo.
Verso mezzanotte, sentì un romore come di un crollo di muro. Aprì gli occhi, e rimase abbagliata.
Avea davanti una fila di stanze, così ricche e così splendide, che quelle del palazzo reale, in confronto, sarebbero parse vere stalle; e Testa-di-rospo che dormiva, in fondo, sopra un letto lavorato d'oro e di pietre preziose, con cortinaggi di seta e lenzuola bianche più della spuma.
E non aveva più quella schifosa testa di rospo; ma era così bella, che, al paragone, la Gigliolina, bella e bianca come un giglio, sarebbe parsa proprio una megera.
Accecata dal furore, la Regina pensò:
- Ora entro, e mentre dorme, la strozzo colle mie mani.
Ma il muro si richiuse a un tratto, e lei vi batté la faccia e si ammaccò il naso.
Senza aspettare che facesse giorno, tornò su in camera.
Sentiva nelle carni un brucìo, un gonfiore!... Stende una mano, e si scorge che, da capo a piedi, era piena di zecche.
Si sveglia il Re: è pieno di zecche anche lui.
Si svegliano i ministri, le dame di corte, insomma tutte le persone del palazzo reale; son tutti, da capo a piedi, pieni di zecche; e, dal prurito e dal dolore, non possono reggere:
- Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!
Il Re corse di nuovo da Testa-di-rospo.
- Figliuola mia, dàcci aiuto!
- Mamma cagna, dategli aiuto!
Mamma cagna, Bau, bau! No, no! Non ne vuol sapere.
- Figliuola mia, dàcci aiuto!
Che aiuto poteva dargli? Mamma cagna rispondeva sempre:
- Bau, bau! No, no!
Intanto tornava il Reuccio per sposare Testa-di-rospo.
Tutti erano occupati a tagliar le zecche, colle forbici, perché strappare non si potevano; facevano più male. E più ne tagliavano e più ne rimaneva da tagliare:
- Accidempoli alla Regina, che volle dormire nel canile!
Allora il Re montò in furore. Afferrò la Regina pel collo, e disse:
- Trista femmina, che cosa hai tu fatto, da attirarci addosso tanti guai?
La Regina non ne poteva più e confessò ogni cosa: che avea detto come le Fate non potrebbero farne una pari; che avea comprato quella bambina a peso di oro; che avea fatto fare il vestito incantato per bruciare viva Testa-di-rospo.
- Ora son proprio pentita, e domando perdono alla Fata!
Disse appena così, che alla Reginotta cadde giù quella schifosa testa di rospo, e la Gigliolina si trovò vestita come una figliuola di contadini, qual era. La Reginotta splendeva come il sole, sicché, per guardarla, bisognava mettersi una mano agli occhi. Le zecche erano sparite, e non se ne vedeva neppure il segno.
Il Reuccio di Portogallo e la Reginotta si sposarono; e se ne stettero e se la godettero e a noialtri nulla dettero.
C'era una volta un Re, che più non viveva tranquillo, dal giorno in cui una vecchia indovina gli aveva detto:
- Maestà, ascoltate bene:
Topolino non vuol ricotta;
vuol sposare la Reginotta;
E se il Re non gliela dà,
Topolino lo ammazzerà.
Il Re consultò subito i suoi ministri; ed uno di loro disse:
- Maestà, è mai possibile che un topolino voglia sposare la Reginotta? Io credo che quella donna si sia beffata di voi.
Ma gli altri non furono dello stesso parere.
- Per evitare la disgrazia, bisogna distruggere tutti i topi del regno, mentre la Reginotta trovasi ancora nelle fasce.
Perciò il Re messe fuori un decreto:
- Pena la vita a chi non teneva uno o più gatti, secondo che avesse casa o palazzo. Chi ammazzava cento topi diventava barone.
Il Re diè l'esempio egli il primo; e il palazzo reale fu pieno di gatti, tenuti assai meglio dei cortigiani e anche dei ministri. Inoltre, a tutti gli usci venivano appostate guardie con una granata in mano, invece di sciabola, che dovevano gridare all'armi appena visto un topo.
Sulle prime, con quella caccia ai topi per diventare barone, fu uno spasso per tutto il regno.
Il Re, ogni volta che gli portavano al palazzo un centinaio di topi uccisi, traeva un respiro dal profondo del petto.
- Voi siete barone!
- Che mi vale, Maestà, l'esser barone, se non ho da mangiare? - disse una volta un contadino, che, invece di cento, ne aveva portati un mezzo migliaio.
- È giusto - rispose il Re.
E gli fece un bel regalo.
Saputasi la cosa, tutti quelli che accorrevano al palazzo reale, ripetevano la stessa storia:
- Che mi vale, Maestà, l'esser barone, se non ho da mangiare?
Ma il Re, ch'era un po' tirchio, si seccò presto a dover far tanti regali; e all'ultimo rispose:
- Il decreto dice soltanto: sarete baroni.
E il popolo ne fu scontento; molto più che, con tutti quei gatti per la casa, i quali miagolavano da mattina a sera, si viveva una vitaccia d'inferno. Ma Sua Maestà ordinava così; era forza ubbidirgli!
Da lì a qualche anno, non si trovava un topo in tutto il regno, neppure a pagarlo un milione.
Il Re già cominciava a rassicurarsi; e siccome la Reginotta era cresciuta, egli pensava di darle marito. Parecchi Principi l'avevano chiesta. Ma la Reginotta, quasi lo facesse a posta, a ogni domanda di matrimonio, rispondeva:
- Maestà, chiedo un altr'anno di tempo.
Intanto era accaduto questo: in un paesotto del regno, nascosto fra le montagne, una povera donna aveva partorito un bambino mostruoso, col viso d'uomo e il resto del corpo di vero topolino, con le sue zampine e con la sua codina.
Al vederlo, la mamma e la levatrice rimasero trasecolate: e la levatrice, che provava ribrezzo a toccare quel mostricino, aveva consigliato di soffocarlo.
La mamma non n'ebbe il cuore, e pregò:
- Non ne fiatare con anima viva, comare!
Infatti nessuno ne seppe nulla; e il bambino crebbe vegeto e vispo da quel topolino ch'egli era. Camminava su due gambe, come un uomo; solamente la mamma lo vestiva in maniera, che del suo corpo non si potesse vedere altro che il volto. Alle zampine anteriori gli metteva sempre i guanti.
Gli aveva posto nome Beppe, e così lo chiamavano tutti; ma quando non c'era nessuno, ella, per tenerezza, lo chiamava Topolino.
- Topolino, fa' questo; Topolino, fa' quest'altro!
E Topolino non le dava mai il menomo dispiacere, e faceva questo e faceva quello.
- Dio t'aiuterà, Topolino!
E un giorno Topolino disse:
- Mamma, voglio fare il soldato.
La poveretta che gli voleva bene, piangendo rispose:
- Ed io, come rimango sola sola? Ora sono vecchia, e non posso più lavorare.
- Vi lascerò la mia coda. Quando avrete bisogno di qualcosa, direte:
Codina, codina
Servi la tua mammina!
Ed essa vi servirà, come se fossi io stesso in persona. Se non v'ubbidirà, vorrà dire che in quel momento io corro un gran pericolo. Allora, lasciatevi guidare da essa e venite a trovarmi.
Così fece, e partì. Quella coda era fatata.
Al Re era stata mossa guerra da un altro Re, offeso dal rifiuto della Reginotta. Uscito, con tutto l'esercito a combattere, in ogni battaglia ne toccava.
Mutava generali, chiamava nuova gente sotto le armi, veniva alle mani, faceva prodezze straordinarie, ma rimaneva vinto sempre; e una volta poté salvarsi, scappando sul suo cavallo a rotta di collo.
Si presentò Topolino, ch'era alla guerra anche lui:
- Maestà, se mi date il comando in capo, vi faccio uscire vittorioso.
- E tu chi sei?
- Mi chiamo Niente-con-Nulla; ma non vuol dire. Mettetemi alla prova.
- Niente-con-Nulla sia comandante!
I generali dell'esercito credettero che Sua Maestà fosse ammattito:
- Affidare il comando in capo a quel cosino, ch'era davvero Niente-con-Nulla!
Non rinvenivano dallo stupore. Ma quando fu l'ora della battaglia, Topolino impartì gli ordini, fece sonare le trombe, e in un batter d'occhio l'esercito nemico fu spazzato via.
- Viva Niente-con-Nulla! Viva Niente-con-Nulla.
Non si sentiva acclamare altro. Nessuno più gridava: "Viva il Re!", tanto che Sua Maestà cominciò a esserne seccato, e pensava di levarsi di torno Niente-con-Nulla, che ci mancava poco non contasse più di lui.
- Come fare per levarselo di torno? Occorreva un pretesto.
Il pretesto lo trovò una mattina, che la Reginotta venne a dirgli:
- Maestà, volete ch'io sposi? Datemi Niente-con-Nulla per marito.
Il Re montò sulle furie. Ma, per far la cosa zitto e queto, deliberò di sbarazzarsi di Niente-con-Nulla per mezzo del veleno.
Invitatolo a pranzo, verso la fine gli fece porre davanti un piatto d'oro con su una torta di ricotta avvelenata.
- Questo piatto è per voi solo, per farvi onore. Niente-con-Nulla, mangiate.
Ma Niente-con-Nulla, levatosi da tavola e fatto un inchino a Sua Maestà, rispose:
- Topolino non vuol ricotta;
Vuol sposare la Reginotta!
E andò via.
Il Re e i Ministri rimasero strabiliati:
- Giacché Topolino è lui, - disse un Ministro - facciamolo arrestare, rinchiudiamolo in una stanza con tutti i gatti del palazzo reale, e così sarà divorato vivo vivo.
Lo fecero arrestare, lo spogliarono, lo rinchiusero in uno stanzone insieme con un centinaio di gatti affamati, e stettero ad aspettare. Quando riapersero la stanza, Topolino non c'era più. E i gatti si leccavano i baffi, come se avessero desinato saporitamente.
Il Re, dalla contentezza, ordinò una festa di ballo.
Va per indossare il manto reale, e lo trova interamente rosicchiato dai topi. I generali, le dame di corte, gl'invitati, nel momento d'abbigliarsi per la festa, tutti avevano trovato le loro uniformi e gli abiti rosicchiati dai topi!
Ma questo non fu nulla. I Ministri portavano al Re i decreti da firmare; e, il giorno dopo, le carte trovavansi rosicchiate proprio dov'era la firma. A poco a poco, nel palazzo reale, delle materasse, delle lenzuola, delle coperte, della biancheria, degli arnesi, dei mobili non rimase più intatto un solo capo; pareva che un esercito di topi fosse stato a divertirvisi coi suoi dentini distruttori. Né valeva il rinnovare ogni cosa; quello che oggi compravano, domani era bell'e rosicchiato.
Centinaia di gatti, intanto, passeggiavano su e giù per le stanze, miagolando, o si stendevano al sole facendo le fusa. Soltanto i vestiti e i mobili della Reginotta non erano rosi.
Il Re, i Ministri, tutta la corte non sapevano dove dare il capo.
- Questa è opera di Topolino!
- Maestà, - disse il Ministro che aveva suggerito di far divorare Topolino dai gatti - si costruisca una gran trappola, che abbia l'aspetto della camera della Reginotta, e cerchisi un Mago capace di fare una bambola grande al naturale, somigliantissima a lei, con un congegno da poter chiamare: "Topolino! Topolino!" con lo stesso tono della voce di lei. Sono sicuro che Topolino cascherà nell'inganno. Quando l'avremo in mano penseremo al da farsi.
L'idea parve eccellente. Senza che ne trapelasse nulla, i magnagni di corte costruirono una trappola, che simulava la camera della Reginotta; e un famoso Mago fece una bambola grande al naturale, da scambiarsi colla Reginotta in carne e ossa, e che diceva: "Topolino! Topolino!" con lo stesso tono della voce di questa. Collocarono la trappola nel giardino reale, ed aspettarono fino alla dimane.
Tutta la notte, il congegno della bambola chiamò: "Topolino! Topolino!". Ma chi sa dove lucevano gli occhi di Topolino in quel punto?
Per sei notti l'inganno non giovò. Alla settima, il povero Topolino, lusingato dalla somiglianza, era accorso alla trappola e c'era rimasto.
Figuriamoci il tripudio del Re e dei Ministri, la mattina quando lo trovarono acquattato in un cantuccio presso la bambola!
- Rosicchia, Topolino! Sposa la Reginotta, Topolino!
Lo beffeggiavano senza pietà; e Topolino, acquattato nel suo cantuccio, li guardava e non rispondeva nulla.
Giusto in quel giorno, la sua mamma, avendo bisogno d'un servigio, aveva detto:
- Codina, codina,
Servi la tua mammina!
Ma la codina non si era mossa.
- Ah, codina, codina! - esclamò quella mamma desolata: - Topolino è in pericolo; andiamo a soccorrerlo, presto!
E si avviarono, la codina avanti, e lei dietro, finché non giunsero alla capitale del regno e non entrarono nel giardino reale, mischiati alla folla che accorreva per la curiosità di osservare Topolino dentro la trappola. Quel giorno Topolino doveva esser bruciato. La trappola era stata unta tutta d'olio e di grasso; s'aspettava il Re e la corte per appiccargli fuoco.
La codina spiccò un salto e andò ad appiccicarsi al codone di Topolino.
- Topolino ha la coda! Lascia vedere la coda, Topolino!
E Topolino, che si era subito ringalluzzato, si voltava compiacente e dimenava la coda come se non avesse capito la condanna che gli stava sul capo. La gente rideva e batteva le mani. Ora che Topolino era cascato in disgrazia, nessuno più si rammentava del bene ch'egli aveva fatto, quando si chiamava Niente-con-Nulla: il mondo è così! Al suono delle trombe, ecco il Re e i Ministri e la corte, tutti vestiti in gran gala, preceduti dal carnefice, con una torcia accesa in pugno. La Reginotta era rimasta al palazzo.
Il Re, per scherno, allora disse:
- Topolino, prima di morire, che grazia chiedi?
E Topolino, senza scomporsi, rispose:
- Maestà:
Topolino non vuol ricotta;
Vuol sposare la Reginotta;
E se il Re non gliela dà.
Topolino lo ammazzerà.
E si lisciava la coda.
- Date fuoco! - ordinò il Re inviperito.
Ma non appena il carnefice ebbe accostata la torcia alla trappola, ecco che insieme con la trappola scoppia in fiamme il trono reale. Le vampe avvolsero il Re e i Ministri, che non trovarono scampo.
La gente fuggiva, atterrita; ma Topolino, trasformato in bellissimo giovane, usciva fuori sano e salvo.
Agli urli, alle strida, accorse subito la Reginotta; e, visto il disastro, si mise a piangere:
- Topolino, se mi vuoi bene, risuscita mio padre!
Topolino esitava. Allora si fece avanti sua madre:
- Topolino, te ne prego anch'io, risuscita il Re!
Poteva dire di no alla mamma e alla sua cara Reginotta?
Toccò colle mani il cadavere mezzo carbonizzato del Re, e lo fece risuscitare. Ma il Re era diventato un altro. Domandò umilmente perdono del male che gli aveva fatto, e conchiuse:
- Giacché questo è il volere di Dio, sposatevi e siate felici!
Il popolo fece grandi feste. Dei Ministri bruciati nessuno si diè pensiero.
C'era una volta un povero diavolo, che aveva fatto tutti i mestieri e non era riuscito in nessuno.
Un giorno gli venne l'idea di andare attorno, a raccontare fiabe ai bambini. Gli pareva un mestiere facile, da divertircisi anche lui. Perciò si mise in viaggio, e la prima città che incontrò, cominciò a gridare per le vie:
- Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentir le fiabe?
I bambini accorsero da tutte le parti, e gli fecero ressa attorno. Lui cominciò:
- C'era una volta un Re e una Regina, che non avevano figliuoli, e facevano voti e pellegrinaggi...
- To'! Questa la sappiamo a mente, - dissero i bambini - è la fiaba della Bella addormentata nel bosco. Un'altra! Un'altra!
- Ve ne dirò un'altra.
E cominciò:
- C'era una volta una bambina, che aveva la mamma matta e la nonna più matta di lei. La nonna le fece un cappuccetto rosso...
- To'! Questa la sappiamo a mente: è la fiaba di Cappuccetto rosso.
- Un'altra! Un'altra!
Quel povero diavolo, un po' seccato, cominciò da capo:
- C'era una volta un signore che aveva una figliuola. Gli era morta la moglie e ne aveva presa un'altra, vedova con due figlie...
- To'! È la fiaba di Cenerentola. Sappiamo a mente anche questa.
E visto che era buono a raccontare soltanto fiabe vecchie, i bambini gli voltarono le spalle e lo piantarono come un grullo.
Partì e andò in un'altra città. E, appena arrivato, si messe a gridare per le vie:
- Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe?
I bambini accorsero da tutte le parti e gli fecero ressa attorno. Ma non cominciava una fiaba, che quelli non urlassero tosto:
- La sappiamo! La sappiamo!
E visto che era buono a raccontare soltanto fiabe vecchie, gli voltarono le spalle e lo piantarono come un grullo.
Quando ebbe provato più volte e sempre con lo stesso cattivo successo, quel povero diavolo si perdette d'animo, e non sapeva più dove dare di capo.
Angustiato, si mise a camminare senza sapere dove lo portassero i piedi, e si trovò in mezzo a un bosco.
Sopravvenuta la notte, si stese sull'erba, sotto un albero, per dormire; ma non poté chiuder occhio: aveva una gran paura. Gli pareva che le piante, collo stormire delle fronde, parlassero sotto voce fra loro; gli pareva che le bestie e gli uccelli notturni, con quei loro strani gridi e canti, tramassero qualche cosa contro di lui.
Il cuore gli batteva forte nel petto, e non vedeva l'ora che fosse giorno.
Alla mezzanotte in punto, che vede? Vede una gran luce pel bosco, e da ogni pianta sbucava gente che rideva, che cantava, che ballava; e intanto da tutte le parti venivano rizzate prestamente tante bellissime tende e tavole piene di cose non mai viste, che luccicavano più dell'oro. S'accòrse di essere capitato in mezzo alla fiera delle Fate; si fece coraggio e si levò. Avea pensato:
- Le Fate debbono vendere anche delle belle fiabe, nuove di zecca: vo' veder di comprarle.
E accostatosi a una che vendeva roba sotto una ricca tenda là vicino, le disse:
- Ci avete fiabe nuove?
- Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme.
Poco persuaso di questa risposta, andò da un'altra Fata che teneva in mostra sulla tavola e nei barattoli tante bellissime cose, che la prima non aveva:
- Ci avete fiabe nuove?
- Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme.
E due!
Girò attorno un altro pezzo, osservando qua e là; e come vide una tenda, che gli parve la più ricca di tutte, si accostò alla Fata venditrice e le domandò timidamente:
- Ci avete fiabe nuove?
- Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme.
E tre!
Vedendolo rimasto male, quella Fata gli disse:
- Sapete, quell'uomo, che dovreste voi fare? Dovreste andare dal mago Tre-Pi che n'ha pieni i magazzini.
- E dove si trova cotesto mago Tre-Pi?
- Lontan lontano, fra' suoi boschi di aranci.
Prima dell'alba, la fiera finì. Le Fate, le tende, ogni cosa disparve; e quel povero diavolo si trovò solo in mezzo al bosco, e non sapeva se fosse stato sveglio o pure avesse sognato.
Cammina, cammina, incontrò un viandante:
- Compare, sapreste dirmi dove sono i boschi di aranci del mago Tre-Pi?
- Andate avanti, sempre avanti.
Cammina, cammina, incontrò una vecchia:
- Comare, sapreste dirmi dove sono i boschi di aranci del mago Tre Pi?
- Andate avanti, sempre avanti.
Non si arrivava mai!
Finalmente, ecco i boschi di aranci. Ma c'erano i muri attorno, e si doveva entrare da un piccolo cancello guardato da un mastino.
- Chi cerchi da questa parte? - gli domandò il mastino.
- Cerco il mago Tre-Pi.
- È fuori: aspetta.
Ed ecco, sul tardi, il mago Tre-Pi, nero come il pepe, con una barbona nera e certi occhi neri che schizzavano fuoco.
- Ah, buon mago Tre-Pi, dovreste farmi un favore!
- Parla, che cosa vuoi?
- Vorrei delle fiabe nuove. Voi, che ne avete dei magazzini, dovreste darmene qualcuna.
- Fiabe nuove non ce n'è più: se n'è perduto il seme. Di quelle che ho io tu non sapresti che fartene. E poi, servono a me, per conservarle imbalsamate. Vuoi vederle?
E lo condusse dentro, nei magazzini.
C'erano tutte le fiabe del mondo, situate nei cassetti fatti a posta, classate e numerate; e il mago Tre-Pi gli guardava sempre le mani, per paura che quello non gliene portasse via qualcuna.
- Ma non c'è proprio verso di poterne trovare delle nuove?
- Le nuove, - rispose il mago - forse le sa una vecchia Fata, fata Fantasia: ma non vuol dirle a nessuno. Vive sola in una grotta, e bisognerebbe andarci in compagnia della Bella addormentata nel bosco, di Cappuccetto rosso, di Cenerentola, di Pelosina, di Pulcettino e simil gente. Prova; però ti dico che è fatica sprecata.
- Non importa; proverò.
Tornò addietro e andò dalla Bella addormentata nel bosco:
- O Bella addormentata, vi prego, venite con me.
- Volentieri.
- O Cappuccetto rosso, ti prego, vieni con me.
- Volentieri.
- O buona Cenerentola, ti prego, vieni con me.
- Volentieri.
Insomma li radunò tutti, e si misero in via. Quelli sapevano il posto della grotta dove la vecchia Fata viveva rinchiusa, e ve lo condussero facilmente. Picchiarono all'uscio.
- Chi siete?
- Siamo noi.
Fata Fantasia li riconobbe alla voce, e venne ad aprire.
- Che cosa volete? E chi è costui? Temerario, come osi di venire da me!
E voleva scacciarlo via.
Quelli la rabbonirono e le esposero il motivo della loro venuta:
- Questo povero disgraziato ha tentato tutti i mestieri e non è riuscito in nessuno. Si era anche messo a fare il racconta-fiabe; ma i bambini, che già sanno a mente le nostre storie, ora vorrebbero delle fiabe nuove, e non gli prestano attenzione. Bella fata Fantasia, aiutatelo voi!
- Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme.
- Bella fata Fantasia, aiutatemi voi!
Sentendosi pregare colle lagrime agli occhi, fata Fantasia s'intenerì:
- Vado e vengo.
Rientrò nella grotta, e dopo un pezzetto, ricomparve col grembiule ricolmo:
- Tieni; con questa roba forse ti riescirà.
E gli diede una stiacciata, un'arancia d'oro, un ranocchino, una serpicina, un uovo nero, tre anelli, insomma tante cose strane.
- Che debbo farne?
- Portali teco e vedrai.
Ringraziò, tutto contento, accompagnò quegli altri alle case loro e, la prima città che incontrò, si messe a gridare per la via:
- Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe?
I bambini accorsero da tutte le parti e gli fecero ressa attorno.
Lui prese la stiacciata in mano e cominciò:
- C'era una volta...
Non sapeva neppure una parola di quel che dovea raccontare; ma, aperta la bocca, la fiaba gli usciva filata, come se l'avesse saputa a mente da gran tempo. E fu la fiaba di Spera di sole.
La fiaba piacque ai bambini:
- Un'altra! Un'altra!
E quello, preso a caso uno dei regali della Fata, che portava seco in una borsa, cominciò:
- C'era una volta...
Non sapeva neppure una parola di quel che dovea raccontare; ma, aperta la bocca, la fiaba gli usciva filata, come se l'avesse saputa a mente da gran tempo.
E raccontò la fiaba di Ranocchino, porgi il ditino.
La fiaba piacque ai bambini:
- Un'altra! Un'altra!
E così di seguito; ne raccontò più di una dozzina, e lui ci si divertiva più dei bambini.
Poi andò in un'altra città:
- Fiabe, bambini, fiabe! Chi vuol sentire le fiabe?
E ricominciò da capo. I bambini contentissimi.
Ma, infine, erano sempre quelle: Spera di sole, Ranocchino, Cecina, Il cavallo di bronzo, Serpentina, Testa-di-rospo... Sicché, all'ultimo, i bambini si seccarono, e appena cominciava:
"C'era una volta..." lo interrompevano:
- La sappiamo, la sappiamo a mente!
Che cosa farne di quelle fiabe, ora che i bambini non volevano più sentirle, perché le sapevano tutte a mente?
Pensò di regalarle al mago Tre-Pi, per metterle nei cassetti, colle altre fiabe imbalsamate.
E andò a trovarlo.
Al cancello c'era il solito mastino:
- Chi cerchi da queste parti?
- Cerco il mago Tre-Pi.
- È fuori: aspetta.
Sul tardi, ecco il mago Tre-Pi, nero come il pepe, col suo barbone nero e quei suoi occhi neri che schizzavano fuoco:
- Sei tornato di nuovo? Che vuoi da me?
- Nulla, buon Mago; vengo anzi a farvi un regalo. Queste son fiabe nuove e nei vostri cassetti non ce le avete. Ora che tutti i bambini le sanno a mente, ho pensato di regalarvele per metterle insieme colle altre imbalsamate.
- Ah, sciocco! Sciocco! - rispose il Mago. - Non vedi che cosa hai in mano?
Il racconta-fiabe guardò: aveva in mano un pugno di mosche!
E tornò addietro scornato, e di fiabe non ne volle più sapere.
Perciò si conchiude:
- Fiabe nuove non ce n'è più; se n'è perduto il seme!
Come e perché, cari bambini, lo saprete facilmente quando sarete più grandi.
A Carluccio Ottino
I patti erano questi:
io dovevo scrivere una bella fiaba, dicevi; tu dovevi stamparla, in una magnifica edizione, coi quattrini delle tue strenne.
Povero editorino mio! Hai tribolato un anno, come gli editori grandi, per aver in mano il manoscritto.
Mi ero incaponito a volerti regalare una fiaba proprio nuova di zecca, e non ci riuscivo. C'è voluto un anno per persuadermi che le fiabe, pari ai poemi e alle tragedie, non è possibile rifarle. Perciò ho tentato, alla meglio, di ricorrere alla memoria.
Quand'ero bimbo, nelle giornatacce d'inverno, la Mamma mandava a chiamare in casa nostra la moglie d'un ciabattino famosa per raccontar fiabe. Son tornato addietro, a quegli anni, a quelle giornatacce d'inverno, quando ci stringevamo tutti, fratellini e sorelline, attorno il gran braciere di rame rosso che il babbo, buon'anima! si teneva fra le gambe; e, intanto che la zia Angiola, filando in piedi, raccontava, senza mai stancarsi, le sue storie meravigliose, stavamo cheti come l'olio, a bocca aperta, incantati per ore ed ore.
È una di quelle questa qui che io ti ripeto, ahimè non così bene come la zia Angiola la raccontava!
In ogni modo, ecco adempita la mia promessa: meglio tardi che mai. Adempisci ora tu, per la tua facile parte d'editorino di nove anni.
Tante cose alla tua buona Mamma e al tuo Babbo, e un bacio per te del Tuo aff.mo Luigi Capuana
Milano, 16 novembre 1881
C'era una volta un Re e una Regina che avevano una figliuola più bella della luna e del sole.
Un giorno, dopo il pranzo, il Re disse alla Regina:
- Maestà, guardate qui, tra i capelli. Sento qualche cosa che mi morde.
La Regina osservò, scostando i capelli colle dita, e trovò un pidocchio che era uno stupore. Stava per ischiacciarlo.
- No - disse il Re. - Proviamo d'allevarlo.
E misero il pidocchio in uno scatolino piccino piccino.
Gli davan da mangiare ogni giorno, e quello cresceva e ingrassava. Presto dovettero levarlo via di lì perché non ci capiva più, così grosso s'era fatto. Il Re, curioso di vedere fin dove sarebbe arrivato, lo trattava bene, e insieme alla Regina, andava tutti i giorni ad osservarlo in quella stanza del palazzo reale dove lo tenevano nascosto. Il pidocchio cresceva, cresceva. Furon costretti a levarlo via anche da quell'altro scatolino; era più grosso d'un pugno: si stentava a riconoscere che fosse un pidocchio. Insomma, cresci, cresci, diventò quanto una gallina e poteva appena muoversi, dalla gran ciccia che avea addosso.
Allora il Re lo ammazzò, lo scorticò e ne conciò la pelle. E fece un bando:
- Chi indovina che pelle di animale sia questa, avrà la Reginotta mia figliuola in isposa. Chi non sa indovinarlo, gli si taglia la testa.
La Reginotta era angustiata.
- Che marito le sarebbe toccato in sorte?
E piangeva. Ma il Re voleva così e bisognava ubbidire!
Accorsero parecchie persone da tutti i punti del regno. Chi disse la pelle essere d'un animale, chi d'un altro; ed ebbero, senza misericordia, tagliate le teste.
Si provarono altri. L'idea di sposar la Reginotta era una gran tentazione, e pareva cosa facile il conoscere una pelle d'animale. Però, quand'erano lì, rimanevano. E il Re, senza misericordia, gli faceva tagliare le teste.
Finalmente, ecco un bel giovane.
- Peccato! Verrà fatta la festa anche a lui!
Tutti ne aveano compassione vedendolo così giovane e così bello. Perfino il Re gli disse di pensarci due volte prima d'esporsi al cimento. Ma quegli, ostinato, entrava nella sala dov'era esposta la pelle.
- È pelle di pidocchio!
- Bravo! - gli disse il Re. - Tu sposerai la Reginotta.
L'abbracciò, lo ritenne a pranzo e ordinò feste per tutto il regno.
La Reginotta era contenta. Lo sposo, giovane e bello, pareva anche d'alto lignaggio.
- Chi sei? - gli domandò il Re a tavola.
- Son carne battezzata e ho sangue reale nelle vene.
- E dov'è il tuo paese?
- Il mio paese? È lontano, lontano. Per andarvi ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno.
La Reginotta sgomentossi.
Il Re e la Regina piangevano, pensando che la loro figliuola doveva vivere in quel paese lontano, lontano, che per andarvi ci si metteva un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno. Ma parola di Re non va indietro.
E fatte le nozze, la Reginotta e il bel giovane, con un gran seguito, si misero in viaggio. Centinaia di carri e di cavalli portavano la dote di lei, tutta in gioie e quattrini, e il corredo e i magnifici regali ricevuti dal Re e dalla Regina.
Cammina, cammina, cammina, non arrivavano mai!
- Dov'è il tuo paese?
- Dietro quelle montagne.
Oltrepassaron le montagne e non s'arrivava ancora!
- Dov'è il tuo paese?
- Più in là di quelle foreste.
Oltrepassaron le foreste e non s'arrivava ancora!
- Dov'è il tuo paese?
- In fondo a quella pianura.
Traversarono la pianura e non si arrivava ancora!
La Reginotta intanto non si dava pace. Pensava al babbo e alla mamma che non avrebbe più riveduti.
Quel paese, così lontano lontano che non ci s'arrivava mai, le metteva un grande sgomento.
- Vuoi tu fare in fretta? - le disse lo sposo.
- Sì.
- Ti prenderò in collo e vedrai.
E la Reginotta lo lasciò fare. E non gli si è attaccata al collo colle braccia, che il bel giovane si trasforma in un Orco, alto, grosso, peloso, dagli occhi di brace, con certe zanne e certe granfie!...
- Ah, Vergine santa! Ah, mamma mia!
La Reginotta avea chiuso gli occhi, si sentiva come portar via da un vento furioso.
L'Orco, nella sua corsa, faceva rintronar le vallate e le montagne:
- Auhiii! Auhiii!
Pareva un terremoto dovunque passasse, pareva un tempesta.
Quando la Reginotta aperse gli occhi, capì che era già arrivata nel castello dell'Orco suo sposo.
Si sentì stringere il cuore.
Il castello era tutto circondato da mura così alte che si vedeva a mala pena un po' di cielo. Stanzoni freddi e bui; catenacci dappertutto; dappertutto ceffi di guardie che avrebbero messo spavento anche al più coraggioso del mondo.
- Che fare? Bisognava rassegnarsi!
L'Orco le usava grandi riguardi. La mattina andava via per la caccia e tornava la sera carico di preda. La Reginotta riconosceva quell'alito a dieci miglia di distanza. La preda consisteva sempre in poveri cristiani, parte uccisi, parte vivi, che l'Orco poi divorava mezzo crudi, uno a colazione, uno a pranzo, uno a cena. Per la Reginotta invece portava pietanze squisite, pasticcini, torte, dolciumi di ogni sorta.
- Mangia! Hai paura?
- No.
- Mangia dunque!
- Non ho appetito.
- Mangia!!...
E bisognava mangiare, perché l'Orco s'offendeva del rifiuto e digrignava i denti.
- Bevi! Hai paura?
- No.
- Bevi dunque!
- Non ho sete.
- Bevi!!...
E bisognava bere, perché l'Orco s'offendeva del rifiuto e digrignava i denti.
Ma torniamo al Re e alla Regina.
Un giorno, dopo che il vincitore e la Reginotta eran partiti, arrivò un giovinetto: voleva, anche lui, tentar la prova della pelle.
- Troppo tardi, bel giovinetto! La prova fu vinta.
- E da chi, Sacra Maestà?
- Da uno che abita un paese così lontano, che per andarci ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno.
- È un Orco! Ahimè, la Reginotta è alle mani d'un Orco!
Figuriamoci il dolore del Re, della Regina e di tutta la corte a questa brutta notizia!
Il giovinetto andò via lamentandosi che la sua cattiva sorte lo avesse fatto arrivare troppo tardi. Era innamorato della Reginotta soltanto perché gli avevano detto che era più bella della luna e del sole; ed ora, pensando che lei si trovava alle mani di quella bestiaccia, provava un dolore di morte.
E camminava, senza saper dove andasse: i suoi occhi parevano due fontane.
Giunto in una pianura, stanco del cammino fatto, si sedette sopra un sasso, continuando a rammaricarsi.
Passava una vecchia con un fastello di legna sulle spalle.
- Che hai bel giovinetto?
- Che volete che abbia, vecchiarella mia?
E narrò il tristo caso della Reginotta e dell'Orco.
La vecchia non rispose nulla e riprese il cammino col suo fastello sulle spalle.
- Voi siete stanca, povera donna - disse il giovinetto. - Date a me cotesto fastello. Faremo strada insieme.
- Grazie, figliuolo!
Il giovinetto si caricò il fastello e riprese la via insieme alla vecchia. Quel fastello era pesante.
- Nonna, la vostra abitazione è molto lontana di qui?
- Un albero che balla e un uccellin che parla; appena gli avremo incontrati e saremo giunti a casa mia.
Il fastello aumentava di peso. Il giovinetto stentava a reggerlo, sudava, ansava. E intanto il sole era tramontato; faceva già scuro.
- Nonna, la vostra abitazione è molto lontana di qui?
- Un albero che balla e un uccellin che parla; appena gli avremo incontrati e saremo giunti a casa mia.
Era notte; ci si vedeva poco. Ed ecco pel prato un albero che andava saltelloni e pareva ballasse, come se fosse stato una persona viva.
- Hai fatto buona guardia, ora basta - gli disse la vecchia.
E l'albero cessò di saltellare. Il giovinetto si era fermato, stupito.
- Avanti, figliuolo; c'è ancora qualche tratto.
Intanto il fastello aumentava di peso.
Il giovinetto non ne poteva più!
Stava per maledire l'ora e il punto che lui avea fatto quella carità a quella vecchia, quand'ecco uno sbattere di ali.
Era l'uccellino che parlava.
- Bene arrivata la mammina mia! Bene arrivato chi viene con lei!
Il giovinetto, dalla paura, cominciò a tremare.
- Siamo giunti - disse la vecchia.
Ed entrarono in casa.
Quello si tolse di spalla il fastello, ch'era ridiventato leggiero, e lo posò accanto al focolare.
Allora la vecchia prendeva due ramicelli di legna, accendeva il fuoco, preparava la minestra; poi stendeva la tovaglia e metteva i piatti sulla tavola.
E quando tutto fu pronto:
- Cricrì, cricrì, cricrì!
L'uccellino diventava una bella ragazza.
Si misero a mangiare.
Il giovinetto aveva ribrezzo di toccar le pietanze; temeva non fossero incantate.
- Dove vai, giovinetto, così sperso pel mondo? Se tu volessi fermarti qui, ti darei le mie ricchezze e questa bella figliuola in isposa.
- Ah, nonna mia, lasciatemi andare! Cerco la Reginotta del mio cuore e vo' trovarla, ad ogni costo. Se non la troverò monaco mi farò.
- Poverino! Ma tu non sai la via del paese dell'Orco. È lontano, lontano! Per andarvi ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno!
- Che importa? La mia vita è della Reginotta; se morrò per lei, tanto meglio! Datemi un cantuccio per dormire, e domani svegliatemi all'alba; vo' mettermi in cammino.
La vecchia lo condusse in una cameretta così bella da star bene anche in una reggia. Ma il giovinetto non poteva dormire. Pensava alla sua Reginotta e a quell'Orco, si svoltava di qua e di là fra le lenzuola e sospirava.
- Cricrì, cricrì, cricrì!
Entrava in camera l'uccellino e subito diventava una bella ragazza, quella di poco prima.
- Perché non dormi, giovinetto? Perché sospiri?
- Penso alla Reginotta del mio cuore e non posso chiuder occhio.
- Prendi me. Sono bella, sono ricca, sono di sangue reale. Dove vorresti trovare una fortuna migliore?
- Ah, ragazza mia, lasciatemi andare! La mia sorte vuol così.
- Cricrì! Cricrì! Cricrì!
La bella ragazza ritornava uccellino.
- Strappa una penna da questa coda, strappa due penne da queste ali. Nei momenti di gran pericolo, prendine una in mano e comanda. Sarai ubbidito.
Il giovinetto esitava:
- Poteva essere un tranello!
Ma quello, di nuovo:
- Strappa una penna da questa coda, strappa due penne da queste ali. Nei momenti di gran pericolo, prendine una in mano e comanda. Sarai ubbidito.
- Allora!... - disse il giovinetto.
E, rassicurato, gli strappò quelle penne dalla coda e dalle ali e se le mise in serbo nelle tasche.
La notte era lunga e lui non poteva conciliar sonno. Pensava alla sua Reginotta e a quell'Orco, si rivoltava di qua e di là fra le lenzuola e sospirava.
Entrò in camera la vecchia.
- Perché non dormi, giovinetto? Perché sospiri?
- Penso alla Reginotta del mio cuore e non posso chiuder occhio.
- Sposa la mia figliuola. È bella, è straricca, è di sangue reale.
- Ah, nonna, lasciatemi andare! La mia sorte vuol così.
- Tu sei un cuore fedele! Prendi questa nocciuola. Nei momenti di gran pericolo schiacciala fra i denti e comanda. Sarai ubbidito.
All'alba il giovinetto partì.
Cammina, cammina, giorno e notte, arrivava in mezzo a una foresta dove non c'era un segno di strada. Alberi di qua, alberi di là, macchie, siepi, spine. Non poteva più andare né avanti, né indietro.
- Ah!... Questo è il paese dell'Orco! - esclamava ad un tratto.
Provò una grande allegrezza. Prese in mano quella penna della coda dell'uccellin che parlava, e:
- Penna mia, penna mia, presto, aprimi la via!
Il bosco s'aperse. Ed ecco una strada larga, diritta, che non finiva mai. Più lui s'inoltrava e più la strada s'allungava. Il giovinetto avea terminato il pane e l'acqua portati con sé; e lì non c'era acqua, non c'era frutta, nulla! Cominciava già a provare tutti gli strazii della fame. Intanto annottava; una notte senza stelle, buio come in gola; e si sentivano pel bosco gli urli dei lupi affamati...
- Questa volta è finita. I lupi mi divoreranno!
Ma ecco laggiù, in fondo, in fondo, un lumicino che si vedeva e non si vedeva.
Il giovinetto si fece coraggio, raccolse le sue forze e tirò innanzi. Il lumicino restava sempre in fondo, che si vedeva e non si vedeva. Finalmente, come Dio volle, il poverino giunse dove quel lume luccicava dalla fessura d'un uscio, e picchiò.
Non rispose nessuno.
Lui tornava a picchiare.
- Aprite, anime cristiane! Ricoveratemi per questa notte!
Ma non riceveva risposta.
- Era dunque arrivato in terra di pagani?
E picchiava di nuovo, questa volta più forte.
- Chi sei?
Quella vocina fioca fioca veniva di cima della casa.
- Sono un viandante smarrito. Fate la carità, in nome di Dio! Ricoveratemi per questa notte!
- Zitto, non rifiatare, se ti è cara la vita! Aspetta che io ti cali giù le treccie dei miei capelli e afferrati ad esse.
Il giovinetto s'afferrava a quelle treccie venute giù, e si sentiva tirar in alto come una secchia. Un braccio l'aiutava ad entrare per la finestra, e lui si trovava faccia a faccia con una bella donzella, che lo guardava sorpresa.
- Come sei venuto fin qui? Ci si mette un anno, un mese e un giorno, e chi ci arriva non fa più ritorno!
- Ah! Dunque si trovava nel castello dell'Orco! E quella donzella era la sua amata Reginotta!
Si mise a piangere dalla contentezza.
E quando disse chi era e come e perché venuto, piansero insieme.
Ma già stava per aggiornare. Il castello rintronava degli urli dell'Orco che si preparava ad andar a caccia. La Reginotta fece nascondere il giovinetto in un armadio e finse di ricamare.
L'Orco diè un calcio all'uscio. E appena entrato nella camera, cominciava a fiutare intorno intorno.
- Perché fiutate?
- Mucci, mucci, sento odor di cristianucci!
- Andate là! Avete fatto colazione or ora e n'avete piene le narici.
L'Orco s'acchetava e partiva per la sua caccia:
- Auhiii! Auhiii!
- Fuggiamo - disse il giovinetto appena l'Orco fu partito.
- Ah, poveri a noi! Di qui non s'esce. Potessimo anche uscirne, non sapremmo ritrovare la strada in mezzo al bosco che per cento miglia circonda il castello.
Allora il giovinetto ricorreva all'altra penna dell'uccellin che parlava.
- Penna mia, penna mia, tutti e due portaci via!
E di botto si sentirono come presi in collo, per aria, e, in men che non si dica, si ritrovarono ben oltre le cento miglia dal bosco.
Camminarono a piedi per tutta la giornata; e quando furono stanchi, veduto un pagliaio abbandonato, andarono a ricoverarsi lì e s'addormentarono saporitamente.
La mattina di buon'ora, ripresero il cammino.
Ma dopo un pezzetto, ecco da lontano un rumore sordo sordo, che s'avvicinava crescendo:
- Auhiii! Auhiii!
Era l'Orco che li inseguiva!
Affrettarono il passo, anzi si misero a correre; ma l'Orco gli aveva già scoperti da lontano e gli veniva addosso più lesto del vento.
Il giovinetto prese in mano l'ultima penna dell'uccellin che parlava e:
- Penna, pennina, lei fontana ed io anguilla!
L'Orco s'arrestò, stupito di non più vederli.
La fontana, limpida come il cristallo, gorgogliava allato della strada, e l'anguilla guizzava nell'acqua dimenando la coda.
L'Orco ebbe il sospetto che si fossero trasmutati l'una in fontana e l'altro in anguilla.
- Fontana, ti berrò! Anguilla, ti prenderò!
Ma, bevi, bevi, quella fontana era sempre allo stesso punto, e quell'anguilla gli sguizzava sempre di mano.
L'Orco s'era già pieno lo stomaco d'acqua, ne avea fino alla gola. Non poteva più articolar la mano, tanto s'era stancato.
Si riposava un momento e poi daccapo:
- Fontana, ti berrò! Anguilla, ti prenderò!
E tornava a bere, sforzandosi.
E cercava di afferrare quella maledetta anguilla che gli sguizzava sempre di mano. Finalmente buttossi per terra, morto dalla fatica, oppresso da quel peso dello stomaco, e subito s'addormentò.
La Reginotta e il suo compagno, visto che l'Orco dormiva, ripresero la strada.
Avevano camminato tutta la notte e metà del giorno appresso, quand'ecco nuovamente:
- Auhiii! Auhiii!
L'Orco gli inseguiva, più furioso di prima.
- Ferma! Ferma!
Pareva che tuonasse.
La povera Reginotta si perdette d'animo e svenne. L'Orco era a pochi passi; già arrotava i dentacci:
- Auhiii! Auhiii!
Allora il giovinetto schiacciò la nocciuola.
- Nocciuola, nocciuola, trasmutaci in roccia e in farfalla che vola!
E l'Orco si trovò davanti a una roccia scoscesa e brulla, che s'alzava a picco sulla campagna.
Una magnifica farfalla svolazzava qua e là colle sue ali dorate e andava, di tanto in tanto, a posarsi su quella.
L'Orco ebbe il sospetto che si fossero trasmutati l'uno in roccia e l'altra in farfalla.
- Roccia, t'atterrerò! Farfalla, t'acchiapperò!
E si diè a scalzare la roccia, scavando la terra colle ugne; ma non riusciva a spostare nemmeno un sassolino.
Avea le mani tutte scorticate, le ugne tutte rotte; e scavava, scavava. Poi lasciava di scavare e dava la caccia alla farfalla. Ma quella volava in alto e non si lasciava acchiappare.
Morto dalla fatica, sdraiossi per terra, sotto la roccia, e si addormentò.
A un tratto la roccia gli si lasciava cader addosso tutta d'un pezzo.
- Auhiii! Auhiii! - urlava l'Orco, dando gli ultimi tratti.
Così la Reginotta e il suo compagno poterono rimettersi in viaggio tranquilli, e finalmente arrivarono ai confini del loro paese.
Quando il Re e la Regina ricevettero la notizia del loro prossimo arrivo, bandirono feste per tutto il regno.
Uscirono ad incontrarli fuori le porte della città con tutta la corte e un immenso popolo dietro, e ordinarono subito i preparativi per le nuove nozze della Reginotta col suo liberatore.
Ma lui disse:
- Debbo fare un viaggio. Se fra otto giorni non sarò ritornato, piangetemi per morto.
La Reginotta si disperava:
- Anderai dopo, sposo mio!
- Anderete dopo, figliuolo mio!
Ma la Reginotta, il Re, la Regina non riuscirono a persuaderlo.
Partì, e si trovò nella pianura deserta dove avea incontrato quella vecchia.
Aspettava un pochino, ed ecco la vecchia, anche questa volta col suo fastello di legna sulle spalle.
- Mi riconoscete, vecchiarella mia?
- Si, figliuolo, ti riconosco. O che vieni a fare da queste parti?
- Ve lo dirò dopo; datemi intanto il vostro fastello. Faremo strada insieme.
Questa volta il fastello era leggiero leggiero.
- Son venuto per ringraziarvi e per invitarvi alle mie nozze.
- Bravo figliuolo che tu sei!
E, detto questo, la vecchia si trasfigurava. Era diventata una bellissima signora, risplendente più d'una stella, con una verga d'oro nel pugno.
Sorrise e sparì.
Allora lui comprese che quella era una Fata. Ritornò, tutt'allegro, al palazzo reale, e la stessa sera vennero celebrate le nozze.
Così furono marito e moglie:
e lui ebbe il frutto e noi le foglie.