L'Età felice, l'Età dell'Oro la sognavano anche i Greci, e poi i Romani
- O tempora o mores! - e poi tutti fino a noi e ai nostri genitori. Ogni età è invece
molto simile alla precedente se si bada a ciò che più conta: la esistenza del pater
familias, delle genti. Sognare a ritroso serve solo da scusa agli uomini dalla scarsa
volontà di agire bene nel presente di ogni vita. I millenni sono stratificazioni di
grandi e piccoli errori e ben fatte azioni, ora dopo ora. Qui si leggerà di uomini
coraggiosi, o 'leccapiedi', o vili, o divini come Caronda; oggi è lo stesso, ci siamo
tutti noi ed altri come noi ma con un qualcosa che ce li farà ricordare, e non è il solo
cognome, ma qualcosa di magico che cercheremo di ritrovare nel passato ed applicare nel
presente, se sapremo scegliere tra tutti gli esempi d'ogni forma e colore che il nostro
tempo, mai come oggi così abbondantemente, il pianeta dei tanti identici uomini ci dà.
Se anche noi diremo un giorno: " ai miei tempi facevamo" senza in effetti aver
fatto nulla di coscienzoso, non avremo vissuto affatto. Lo studio della storia, degli
originari stanziamenti delle varie etnie ha come strumento anche la Linguistica. Gli
Italici ci presentano nella prima Età del Ferro (IX - VII sec.) un quadro dialettale
composito: il latino, l'umbro, l'osco. In Sicilia i Siculi appartengono al ceppo
linguistico latino. Questa affinit- latino-sicula si spiega colle migrazioni degli
indoeuropei, giunti in Italia in due successive ondate: quella dei Latino-Siculi e quella
degli Osco-Umbri. Tale quadro migratorio diverrà più complesso cogli stanziamenti di
Greci ed Illirici, nel loro interagire colle popolazioni locali, quelle dei Sicani e degli
Elimi, che occupavano rispettivamente la parte orientale ed occidentale dell'isola. Ed
occorre tenere conto delle varianti dialettali della lingua greca, che hanno dato origine
a diverse applicazioni letterarie: eolico, ionico o attico (che si affermò nella
letteratura dei secoli V e IV a.C.), dorico (diviso in due varianti, nord-occidentale e
del Peloponneso, la lingua di Pindaro e Teocrito). Per motivi di studio la letteratura
della Magna Grecia e della Sicilia viene divisa in tre periodi: ellenico (dalle origini
fino al VI secolo a.C.), classico (V e IV secolo), ellenistico (III a.C. - V d.C.).
Un legame più antico però pare sia affiorato tra Sicilia e terre elleniche: nel 1950
l'archeologo Paolo Graziosi dell'Università di Firenze rinvenne in una grotta di Levanzo
(Isole Egadi) graffiti rappresentanti figure umane simili ad altri rinvenuti in grotte
spagnole e a Creta, Troia, e nelle isole Cicladi: tali "dipinti" si fanno
risalire ad almeno diecimila anni or sono. E cià ovviamente stordisce gli esperti che
avevano giàstabilito i periodi degli stanziamenti Sicani e Siculi. Le ricerche fruttuose
continuarono con la professoressa Marconi-Bovio nella grotta dell'Addaura e in quella di
Niscemi, nel Monte Pellegrino a Palermo: anche lì sono visibili figure stilizzate di
grande valore artistico. Chi erano tali uomini già con animo sensibile da artista?
Tucidide, la nostra principale fonte storica, scrisse che prima dei Sicani in Sicilia vi
abitavano i Lestrigoni ed i Ciclopi.
Ovviamente non esiste altro, a parte la professionalit- di storico di Tucidide: il mito
parla di un re sicano, Cocalo, figlio del ciclope Briareo. Si hanno invece più conferme
circa l'origine dei Sicani: secondo Tucidide, e concordi Diodoro e Filisto, i Sicani
provenivano dall'Iberia, da una terra spagnola ove scorre il fiume Sicano. Ma non c'è
piena certezza di questo: Timeo di Taormina (IV - III secolo a.C.) asserisce che i Sicani
erano un popolo autoctono, di agricoltori e con un re.
A margine poniamo la tesi che vuole i Sicani colonizzatori dell'isola di Malta
(J.D.Evans, I segreti dell'antica Malta, Il Saggiatore, Milano, 1961) per la presenza di
reperti in ceramica ed ornamenti in osso. In località maltese Borg in-Nadur si possono
osservare mura difensive simili a quelle edificate nei pressi di Noto (Monte Finocchitto).
La presenza sicana a Malta andrebbe collocata cronologicamente nel terzo millennio avanti
Cristo.
A far data dalla fine del IV secolo a. C. nascono opere scritte che rivelano
con certezza l'esistenza di una lingua comune greca. Le prime colonie vennero
fondate nella parte occidentale della "Sikelia" dai Fenici nell'XI e X secolo
a.C. (Solunto e Mozia) e i Greci fondarono la loro prima colonia (Naxos) nel 735 - 750
a.C. Dopo di Naxos venne occupata da coloni dori provenienti da Corinto - la vecchia Efira
fondata dal mitico Sisifo - Sùraka, centro siculo poi divenuto Siracusa (734 a.C.).
Protagonista di tale fondamentale fondazione è Archia, nobile corinziano della stirpe
degli Eraclidi e Bacchiardi; venne dal suo regno nel 734 a.C. sbarcando ad Ortigia, e
rimise in piedi un vecchio insediamento dandogli nome Siracosion, dal nome della palude
Siraca poco distante. In rapida successione nacquero i centri di Akrai (Palazzolo Acreide)
nel 664, Casmene nel 644, Camarina nel 598. Gela ("Immanisque Gela fluvii
cognomine dicta", che prese il nome dal fiume Gela, oggi Olivo) viene fondata
dai coloni di Rodi e Creta nel 689, che a sua volta fonda Agrigento IMG nel 581. La più occidentale delle
colonie greche sarà Selinunte, fondata nel 650 a. C., definita "palmosa" da
Virgilio ( En. 3, 705).
Come oggi subiamo il fascino della cultura e dello stile di vita generale dei forti
economicamente Stati Uniti d'America, così i potenti ed abili greci portarono in Sicilia
anche quanto di meglio l'ingegno umano aveva fino a quel momento prodotto. E non in pochi
credono che il livello culturale greco sia rimasto ancor oggi ineguagliato, mostrando
aspetti che spingono a ritenere esistente una cultura precedente che abbia posto le basi
di quella greca. Il clima culturale della Sicilia era talmente attraente che numerosi
grandi nomi della cultura vi soggiornarono: vedi le schede su Eschilo, Pindaro, ed il
reggino Ibico per esempio. Lo stesso Platone, pur con alterna fortuna, col primario
obbiettivo di formare a suo piacimento il giovanissimo Dionisio II, fu più volte in
Sicilia, subendo le angherie di un regime, quello tirannico dei due Dionisii, nel 388 nel
367 e nel 361 a. C.
Così ci riferisce direttamente Tucidide (6,2,4-5):
"Dall'Italia, dove abitavano, I Siculi, che fuggivano gli Opici, passarono in
Sicilia su delle zattere, come si può pensare e come anche si racconta, attraversando lo
stretto dopo aver aspettato il vento propizio; o forse impiegarono un qualche altro mezzo
di navigazione. Siculi ve ne sono ancora in Italia, anzi la regione fu appunto
chiamata Italia da Italo, un re dei Siculi che aveva questo nome".
La politica italiana contemporanea, colle sue liti e le sue trascuratezze, quanto è
lontana dalla nostra storia! Ma Tucidide ci riferisce ancor più, regalando all'isola una
nobiltà che davvero gli appartiene, superando l'estranearsi dal passato, le ignoranze
d'oggi:
"Dopo la presa di Troia alcuni Troiani fuggendo gli Achei giunsero in Sicilia
su barche e, abitando al confine dei Sicani, nel loro insieme furono chiamati Elimi; le
loro città erano Erice IMG ed Egesta IMG (Segesta). Li raggiunsero anche alcuni
Focesi provenienti sempre da Troia, in quel tempo gettati da una tempesta prima nella
Libia e poi in Sicilia". (6,2,3)
Sembra proprio di dover dare ragione a quanti dicono che a volte la Storia agisce
misteriosamente con criterio, anche indipendentemente dagli uomini che riescono a piegarla
per del tempo ai loro voleri. Il vento, quello stesso che nei secoli passati ha salvato il
Giappone dal potere navale mongolo (1281) e l'Inghilterra dalla Invincibile Armata
spagnola (1588) ha voluto che il glorioso e antico popolo dei troiani non sparisse per
mano di un altro grande e sapiente popolo.
Anche Dionisio d'Alicarnasso - che riferisce notizie di Ellenico - di concerto così si
eprime:
"Pertanto la stirpe dei Siculi così lasciò l'Italia, come racconta Ellenico
di Lesbo, nella terza generazione prima della guerra di Troia, essendo il ventesimo anno
del sacerdozio di Alcione in Argo. Egli tramanda che due spedizioni di Italici passarono
in Sicilia; la prima era quella degli Elimi che si dice fossero cacciati dagli Enotri;
quella che passò cinque anni dopo di questa era degli Ausoni, che fuggivano gli Iapigi, e
il loro re era Siculo, da cui presero nome e gli uomini e l'isola".
(1, 22, 3).
I rapporti con i Fenici iniziarono quasi bene, e furono di guerra in seguito,
specialmente quando Siracusa divenne la città guida della Sicilia greca e punto di
riferimento di tutta la Magna Grecia. Anche di ciò abbiamo la testimonianza di Tucidide:
"Anche i Fenici abitavano qua e là per tutta la Sicilia, dopo aver occupato i
promontori sul mare e le isolette vicino alla costa, per facilitare i rapporti commerciali
con i Siculi. Quando poi vennero d'oltre mare in gran numero i Greci, essi sgombrarono la
maggior parte del paese e si concentrarono a Mozia, Solunto e Panormo, vicino agli Elimi
dove abitarono, rassicurati dall'alleanza degli Elimi stessi e dal fatto che quel punto
della Sicilia distava pochissimo da Cartagine". (6, 2, 6). Ciò ha estraneato
Palermo dal grande gioco politico e culturale della Sicilia classica.
Le correnti commerciali che si instaurarono tra tali popolazioni ed i vari paesi
confinanti riguardarono anche movimenti di poeti, artisti, scultori e le loro produzioni,
anche su invito delle città dell'occidente greco. Alla fine del VI secolo la Sicilia è
una terra promessa che affascina gli Ellenici per tutto il V, IV e III secolo a. C. Il
merito per la fioritura di così innati e numerosi talenti letterari va anche ai fertili
giardini costituiti dalle corti di Siracusa e Agrigento.
Una storia avvolta dalla nebbia così ci è giunta. A Gela comandava Ippocrate (siamo
nel 498 a.C.) che inizia manovre di conquista con l'aiuto di due valorosi uomini:
Enesidamo, appartenente alla stirpe degli Emmenidi - forse il padre di Terone - e Gelone,
fratello di Gerone (figli di Dinomene, assieme a Polizelo).
Ippocrate vide occupata nel 552 dai siracusani Camarina, colonia ribelle di Siracusa,
riunificando i confini col popolo dei Geloi. Tali vicini vennero giudicati da Ippocrate
troppo pericolosi, e volendo prevenire futuri danni, li assalì ed ottenne una vittoria
importante, che comportò il possesso di Camarina, sul fiume Eloro. Alla sua morte, nel
492 circa, gli successe Gelone. L'altro grande della citt-, Enesidamo, giudicò utile
andarsene da Gela ad Agrigento, dove la sua famiglia aveva maggiori appoggi, cosicché il
di lui figlio, Terone, nel 488 prese il potere della città. Qualche anno dopo Gelone
potè mettere le mani su Siracusa, in quanto per dei contrasti interni al governo della
città, degli esuli gli diedero un decisivo appoggio. Si proclamò così signore di
Siracusa, lasciando Gela in possesso del fratello Gerone.
Si era intanto stabilito un legame tra Siracusa ed Agrigento, Gelone aveva preso in
moglie la figlia di Terone di Agrigento, Damarete. Con tale sostegno e una situazione
politica favorevole causata dal malvisto signore di Imera, Terillo, Terone conquistò
anche detta città. Terillo, esule, ricorse al signore di Reggio Anassilao, suo genero, ed
ai Cartaginesi, anche essi preoccupati della crescente potenza delle due città greche.
I Cartaginesi coi loro alleati di Reggio sbarcarono a Palermo, ma il forte esercito,
guidato da Amilcare, venne poi sconfitto da Terone e Gelone: e la vittoria di Imera (480
a.C.) venne immortalata dal poeta Simonide di Ceo nei versi:
"I figli di Deinomane, lo asserisco, Gelone e Gerone,
Polizelo e Trasibulo posero codesti tripodi,
dopo che sconfissero stirpi barbare, e agli Ellenici
diedero gran spinta per la loro libertà".
Gelone morì due anni dopo, nel 478, dando la reggenza di Siracusa a Gerone. E
all'altro fratello, Polizelo, diede in custodia il figlio cui aveva dato il nome del
nonno: Dinomene. Gelone espresse anche la volontà che Polizelo sposasse la cognata, ormai
vedova, Damarete (figlia del tiranno d'Agrigento). In seguito Gerone di Siracusa sposò
una nipote di Terone di Agrigento, perpetuando così la pace tra le due maggiori città
della Sicilia.
Grande prestigio diede poi Gerone alla sua città con la vittoria di Cuma contro gli
Etruschi nel 474 a.C. Dedusse nuove colonie alla città, come Ancona e la Corsica, e
un'altra vittoria sulla rivale Atene nel 413.
Tra le imprese di Gerone c'è anche il ripopolamento di Catania e di Nasso, con suoi
diecimila sudditi, espellendo gli abitanti originari dalla citt-, allo scopo di garantire
al figlio Deinomene un regno. Temeva infatti che la successione al trono di Siracusa non
sarebbe risultata agevole al figlio, ancora in tenera età: infatti Gerone morì nel 467,
ed ai tumulti popolari che seguirono, nella città si impose un governo democratico, così
come era avvenuto in altri centri della Sicilia.
Prima della sua morte Gerone si vide costretto a muovere guerra contro Agrigento, a
causa delle mire del figlio di Terone - il tiranno era morto nel 472 a.C.- Trasideo.
Non ebbero successo le reazioni dei Siculi, con Ducezio di Nea (Noto) e durante la
Guerra del Peloponneso (431 - 404 a.C.) al dominio crescente della politica greca. Ducezio
era nato nel 488 a.C. e col suo carisma diede forza al desiderio di rivolta per la diffusa
occupazione greca dell'isola; conquistò così dei centri (Agnone, Catania, Inessa nei
pressi di Mascali). La lega di siculi che fondò ebbe capitale in Paliké ( Palica),
presso Palagonia. Venne sconfitto ed esiliato a Corinto dai siracusani, dopo la battaglia
di Noma. Stessa sorte ebbe secoli dopo Dionisio II, tiranno di Siracusa.
La parola guerra è donna, e non solo nel caso dello scontro fratricida del
Peloponneso, iniziata nel 431 a.C. tra Atene e le alleate Sparta e Megara Nisea.
L'antefatto della disputa ci viene narrato da Ateneo di Naucrati
così:
"Persino Aspasia (l'amata da Pericle, che nel 430 verrà deposto e processato
come responsabile delle sfortune ateniesi; n.d.A.) la quale apparteneva al circolo
socratico, importava un grande numero di belle donne, e la Grecia si riempì delle sue
prostitute, come lo spiritoso Aristofane osserva di passaggio, quando riferisce delle
guerre del Peloponneso, che Pericle soffiò sul fuoco a causa del suo amore per Aspasia, e
per le donne a servizio che le erano state rubate dai Megaresi: - 'Alcuni giovanotti, resi
brilli da troppe partite a cottabos andarono a Megara e
rapirono una prostituta di nome Simetha; in seguito a ciò i Megaresi, in preda a fervore,
come nutriti con aglio (il cibo dei galli da combattimento; n.d.A.), rapirono per vendetta
due prostitute di Aspasia. E così iniziò la guerra che si propagò per tutta la Grecia,
causata da tre sgualdrine'". (Ateneo, I Deipnosofisti; 569, f; 570, a; a cura di
C.B. Gulick, Heinemann, Harvard Univ. Press).
In seguito gli Ateniesi riabilitarono Pericle, ridandogli il potere, ma questi visse
solo un altro anno, morendo di malattia.
Anche così Pericle è ricordato da millenni, la qual cosa ci urla di non limitarci a dare
il nostro democratico voto ad un tale per poi continuare, da distratti la nostra vita, coi
suoi affanni, come se quel tizio fosse nostro casto fratello.
" (...) Clearco nel primo libro delle sue Storie di Eros riferisce che:
"Riguardo ad Aspasia - non la più giovane, ma colei che fu contemporanea di Socrate
- sebbene (Pericle; n.d.A.) avesse acquisito una solida reputazione per sagacia e carisma
politico, non curò, egli, solo i suoi interessi nel trascinare la Grecia tra il ferro ed
il fuoco? Egli si rivelò infatti uomo sottomesso alle vicende d'Amore. Perché!'".
(Ateneo; 589; d, op.cit.). E quanto detto fino adesso viene confermato da Antistene
socratico e Stesimbroto di Thasos (589; e, f).
Il potere della città siciliana più potente lo ebbero, quindi, Dionisio I detto il
Vecchio e, poi, Dionisio il Giovane. Nel III secolo, dopo varie alternative di governo (si
ha l'intervento del condottiero corinziano Timoleonte), divenne
tiranno Agatocle nel 317. Questi si imparenta col re Pirro e conquista Corfù e Crotone,
ed alla sua morte nel 289 i suoi mercenari decidono di occupare Messina. Si avvicina così
l'anno 264 a.C.,un'altra fondamentale data della storia, con la salita al potere a
Siracusa di Gerone II Basileus, che addusse gli avvenimenti riportati nei cenni storici
della parte seguente, nel prossimo lavoro sulla Letteratura siciliana dell'età romana e
bizantina.
La letteratura greca.
Poggia su essa la cultura e l'arte non solo occidentale. Alessandro l'ebbe nel
cuore, e la portò grazie al suo forte braccio sin in India; Roma la stese per l'Europa, e
lì è rimasta adorata in quasi ogni secolo, da uomini pur diversi per aspirazioni,
formazione, bisogni dell'anima. L'arte greca insegna semplicemente equilibrio; con parole
banali in essa non si vede il dolore più atroce, né la risata più grossolana. E' solo
l'effetto del tempo che offusca le spigolosità umane, inducendoci a definire quegli
artisti divini? No. C'è una completezza in ogni descrizione di sentimento, su papiro o su
vaso; ogni frutto d'artista - diciamo bene oggi, sublimazione di pulsione? - è concluso
come possedesse una sua vita dal momento del parto: ed è vita perenne. Od almeno, questa
è l'unica, vera illusione che occorre all'uomo per ignorare l'assurdità persino dei
tramonti, della somma d'anni.
E' un caso che il contemporaneo studio della psiche si specchi senza originalità
in esempi vetusti: Edipo, Caino, Diana? O sono le nostre tante, alternative parole ai
vecchi traguardi, ad averci confuso oltremodo? Siamo fatti d'acqua per lo più.
"Ricordati che sei sempre un uomo"; "Ricordati che devi morire". Siamo
semplici come l'acqua che ci costituisce e complessi come fasci di nervi.
"Cambia, cerca altrove, comunque", ci viene detto oggi, e il muro dai
cocci aguzzi di bottiglia ove battiamo la testa è sempre lo stesso, ed è costantemente
duro, appena intaccato da teorie su teorie: coperte corte della mente irrequieta.
Gli uomini migliori dell'Età Classica disponevano di silenzio, tanto da sentire le
stelle suggerire ipotesi sulle loro leggi; perché in fondo il cuore umano è nato dallo
stesso ventre con le stelle, col mare, coll'istinto di far pittura e versi.
Vennero prima - per quel che vediamo voltandoci - i Micenei di Creta, e poi gli
Achei nel XIV secolo avanti Cristo. Si scriveva sull'argilla allora, e sono frasi
misteriose, coperte poi dall'avanzare dei Dori; e gli Achei dovettero emigrare, qui da
noi, in Sicilia; ed in Asia Minore, in Gallia, in Spagna. Da loro abbiamo i primi papiri
scritti, e si dice dalle mani di Orfeo ed altri mitici autori. Ma oltre il papiro la voce
dei cantori Aedi deliziava gli animi, e con i Rapsodi venivano tramandati per generazioni:
si gusta la prima poesia, definita aulica, di corte, legata al passato illustre dei più
ricchi e nobili. Omero era un aedo.
Dopo Omero si fa avanti Esiodo, che non narra di gesta altosonanti, ma di sé
stesso, della propria vita di pater familias, con ciò che comporta di ben noto a tutti, e
degli attriti col fratello Perse. Scrisse Opere e giorni, e Teogonia, di argomento
religioso e filosofico: una serie di tentativi di risposte in esametri sul mistero perenne
della creazione (X secolo a. C. circa).
Sorse poi la poesia lirica, che offriva oltre allo sforzo compositivo rimato anche
l'accompagnamento musicale, o la recitazione anche gestuale (poesia giambica, melica
monodica e corale, elegiaca). Caratteristica della composizione giambica è la
sfrontatezza delle argomentazioni, della licenziosità lessicale. La poesia melica
monodica di Saffo esteriorizza soggetti per lo più intimi. Corale è l'autore di liriche
che oltre allo strumento, cerca l'effetto suggestivo di voci corali, per le quali
componeva appositi versi, da alternare ai suoi nella esecuzione. Il ruolo sociale di
questa si può paragonare a quello delle esecuzioni durante le manifestazioni pubbliche,
tanto religiose che civili. La tematica dei versi da cantare si adattava, ovviamente, alla
manifestazione: vittorie in guerra, o sconfitte con canti funebri, esaltazioni del dio di
turno, del quale si celebrava la stagione, o lode per chi comandava la comunità al
momento (VII - V secolo a.C.).
Nel V secolo si afferma il teatro, con la nascita della tragedia, che in un certo
senso proviene dalla attività pubblica religiosa, con l'intenzione di raggiungere il
popolo tutto, con brame anche educative e di suggestione da chi esercita il potere
maggiore sulla collettività. La nascita del teatro moderno, quindici secoli dopo, deriva
dalla liturgia ecclesiastica svolta dentro le pareti della chiesa, e poi portata sul
sagrato antistante la stessa, con le prime riproduzioni sceniche basate su episodi
biblici.
Durante il Medioevo però agli occhi della gente, dai libri in circolazione era
scomparsa ogni traccia del teatro romano, erede del pure sepolto dramma greco. Col
Rinascimento, e la ripresa massiccia, alla moda, delle tematiche dei testi classici, gli
uomini di teatro accantonarono le argomentazioni religiose, per le 'nuove', suggestive
riscoperte storie dal sapore più libero, gaudente, verde di prati e stuzzicanti d'amore,
e ripresero le edificazioni di strutture apposite per ospitare le rappresentazioni. Sarà
Nietzsche a (ri)stabilire definitivamente il giusto equilibrio, usando l'acume del
filosofo (e l'ardore dei teutonici per le robe classiche) per evidenziare al pari della
più diffusa, l'immagine di un mondo ellenico pur zeppo di tormenti per la mancata
soluzione, attenuazione intellettiva alle pulsioni umane più sfrenate, ribaltate persino
nelle vicende delle deità.
Gli dei
Il sentimento religioso classico mostra spesso il suo carattere scanzonato ed
utilitarista; sembra che molti autori guardassero al complesso paradigma religioso e
mitico solo come vasta fonte di ispirazione poetica o letteraria; e l'uomo credente vedeva
rispecchiate le caratteristiche proprie, umane, e naturali del pianeta, in figure più
degne - o per lo meno immortali - di sé piccolo uomo. Non indicavano gli dei norme di
comportamento sul mero rispetto della dignità, del decoro, del valore. Semmai gli dei
potevano premiare un essere così dotato, che si mostrava con minori difetti di quanti la
mitologia assegnava loro. L'uomo era più solo con sé stesso, e l'uomo dotato di più
sublime materia grigia cercava una sua via, e degli allievi. Le feste religiose,
specialmente quelle notturne, ci appaiono come una soluzione al bisogno che l'uomo - nel
suo aspetto meno 'divino' - ha di sfogare gli istinti che in naturalmente in comune ha
cogli animali. E' l'istinto che procura piacere nella visione dei combattimenti dell'età
romana, che fa trascendere l'uomo soldato da ogni pietà pur innata durante le guerre.
Oggi, per mondiale vergogna, assistiamo da anni alla riconferma che nell'uomo eccitato
dalla febbre della guerra l'aggettivo dionisiaco è flebile termine; ci riferiamo a quanto
accade nelle terre oltre il mare Adriatico. Riprova che quanto accadde un po' prima di
cinquanta anni fa proprio tutto, e che qualcuno oggi vuol revisionare, è accaduto sul
serio. La tecnologia odierna, persino quella applicata all'esercizio della guerra, è
andata oltre, per maggiore sfogo di mercato, il livello medio di cultura umanistica
fornito all'essere umano. Ma anche questo se l'erano già raccontato a vicenda Albert
Einstein e Sigmud Freud. Diamoci da fare per cercare di andare avanti, chi vive adesso è
solamente ognuno di noi. E' una grossa responsabilità, non una ovvietà. Nella mitologia
Classica, ed in altre, le deità sorgono a specchio delle esigenze dell'animo umano.
Similmente le teorie freudiane - molto più che teorie - affidano ad un altro Ente, l'ES,
la responsabilità originale degli accadimenti emotivamente più importanti della vita
umana. Eppure la creazione di ciò che pare una costruzione mitica giustificatrice può al
contempo far trasparire una tendenza al divino dell'uomo, che istintivamente sente delle
colpe da inquadrare in contesti più universali anziché personali. Tale ambivalenza è
filtrata, nel corso del tempo, nel pure più elevato messaggio cristiano. |