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Platone (Aristocle) di Atene

Platone (Aristocle) di Atene
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Non è questo un saggio ove si posssono trovare vaste notizie sul pensiero e sulla vita del grande allievo di Socrate, e fondatore dell'Accademia. Seguendo il filo che ci siamo preposti, di raggruppare quanti più dati sul ruolo della terra di Sicilia nello svolgersi dell'irripetuto fenomeno culturale ellenico, ne parleremo limitatamente.

Egli nacque ad Atene nel 427 a.C., ed ebbe come primo maestro Cratilo; e nel 387 fondò l'Accademia, che sarebbe durata nove secoli. Rimase otto anni con Socrate, poi alla morte del grande maestro nel 399 partì da Atene soggiornando a Megara Nisea da Euclide, per poi recarsi in Egitto (tradizionali erano i contatti tra gli uomini di cultura Greci e gli Egizi, sin dai tempi storici di Talete) indi a Cirene, a Taranto (ove conobbe Archita, la cui amicizia, come vedremo, fu per lui vitale). Compì tre coraggiosi viaggi in Sicilia, invitato nel 388 da Dionisio I, e nel 367 e 361 da Dionisio II; non si possono questi definire inviti come quelli di cui godevano altri uomini illustri. Vedremo che si trattò anche di ricatti cui egli rispose con sprezzo del pericolo, in nome dell'amicizia e dei suoi ideali politici, nel desiderio di poter affermare la filosofia come forza capace di cangiare le linee politiche di un governo, o di governare essa stessa.

Tra i suoi discepoli viene citato Dione di Siracusa (Diogene Laerzio, III, 46); ed anche sul primo viaggio in Sicilia compiuto dal pensatore ed uomo d'azione ci notizia la stessa fonte. Abbiamo definito Platone coraggioso, ma è facile fare un lungo elenco di giuristi, filosofi o retori che hanno parlato con una sola lingua sia coi loro allievi, che coi concittadini o tiranni loro avversi.

"Tre volte navigò in Sicilia: la prima per vedere l'isola e i crateri, nel tempo in cui era tiranno Dionisio, figlio di Ermocrate, che lo costrinse ad entrare in rapporti con lui. Ma quando Platone conversando sulla tirannide affermò che il suo diritto del più forte aveva validità solo se fosse preminente anche in virtù, allora il tiranno si sentì offeso e, adirato, disse: 'Le tue parole sanno di rimbambimento senile' e Platone: 'Ma le tue sanno di tirannide'.
Lì per lì queste parole irritarono il tiranno al punto che ebbe volontà di sopprimerlo; e successivamente intervennero Dione ed Aristomene ed egli non attuò quel disegno, ma consegnò il filosofo allo spartano Pollide che era giunto in quel tempo quale ambasciatore, perché lo vendesse come schiavo. E quello lo condusse in Egina e lo vendeva. Allora Carmandro, figlio di Carmandride, lo condannò a morte secondo la legge in vigore presso di loro: che chi degli Ateniesi avesse posto piede nell'isola fosse messo a morte senza processo. Ed era egli stesso che aveva promulgato quella legge, come dice Favorino nella Storia Varia. Ci fu che disse - ma per celia - che era un filosofo chi aveva messo piede nell'isola: così lo prosciolsero.
Secondo altri, Platone fu condotto nell'assemblea ed era osservato, e non disse nemmeno una parola, pronto ad accettare qualsiasi verdetto: essi non decretarono la sua morte, ma decisero di venderlo come se fosse un prigioniero di guerra.
Anniceride di Cirene che si trovava per caso ad Egina lo riscatta per venti mine, secondo altri per trenta, e lo rimanda in Atene dagli amici, i quali subito gli inviarono il denaro, ma Anniceride lo rifiutò, opponendo che non essi solo erano degni di occuparsi di Platone. Altri affermano che anche Dione inviò il danaro, ma Anniceride non l'accettò, anzi comprò per Platone il piccolo giardino che è nell'Accademia".
(Diogene Laerzio; Vite dei filosofi; a cura di M. Gigante; op. cit.).

Tocca adesso narrare del secondo intervento di Platone nelle vicende politiche isolane. Egli vi giunse nell'anno della morte del vecchio Dionisio, forse informato della scialba vita di corte intrapresa dal figlio, con festini che duravano anche tre mesi difilati. Dione, forse nell'interesse sincero della città, si diede da fare perché l'amico Platone ritornasse, malgrado la prima brutta avventura, per far da precettore al neo sovrano. Così si esprime Diogene:

"Una seconda volta egli venne da Dionisio il Giovine, per chiedere terra ed uomini che vivessero a norma della sua costituzione: il tiranno promise ma non mantenne la sua promessa".

Anzi, Dione, per intervento interessato di nemici di corte (abbiamo letto qualcosa nelle pagine su Filisto) venne cacciato da Siracusa sotto gli occhi del filosofo. Il malcontento popolare crebbe per tale motivo, e Dionisio temette che Platone libero di vagare e parlare, potesse danneggiarlo ancorpiù.

"Dionigi poi fece passar tosto Platone alla rocca, divisato avendo di tenerlo quivi, sotto pretesto di affettuosa ospitalità, custodito onorevolmente, acciocché non navigasse insieme con Dione, ad esser testimonio dei torti al medesimo usati. Ora coll'andare del tempo e col trattare insieme, qual fiera che si ammansa e si accosta all'uomo, si assuefece Dionigi a tollerarne la conversazione e i ragionamenti a segno tale, che finalmente preso fu da un amore tirannico verso di esso, volendo esser egli il solo riamato da Platone e ammirato al di sopra di tutti gli altri, pronto a mettere in di lui mano gli affari e il dominio, purché non anteponesse l'amicizia di Dione alla sua.
Per Platone adunque era una disgrazia questa passione di Dionigi, il quale infuriava, come appunti gli amanti sciaurati per gelosia: e in breve spazio di tempo venne egli molte volte in rissa, e molte si rappacificò seco lui, usando pur le preghiere: e ansioso era oltre misura di ascoltare le di lui dottrine, e di aver parte negli ammaestramenti della filosofia, e insieme ne provava pure erubescenza per rispetto a quelli che nel distornavano, quasi avess'egli quindi a guastarsi. In questo mentre, insorta essendo non so qual guerra, Dionigi mandò via Platone, pattuito avendo prima con esso di richiamar Dione alla primavera: nel che mancò di parola; ma gli inviò per altro i proventi delle di lui possessioni, pregando Platone di volerlo avere per iscusato in quanto alla convenzione del tempo, trasgedita in grazia della guerra: perocché, fatta che si fosse la pace, richiamato avrebbe Dione subitamente; volendo in questo mezzo che lo stesso Dione si tenesse quieto, né sparlasse di lui appo i Greci: la qual volontà studiavasi Platone di far che fosse eseguita, e volto avendo Dione alla filosofia, intervenevalo nell'Accademia. (...) In progresso di tempo Dionigi, preso da gelosia e intimoritosi della benivoglienza che Dione s'acquistava appo i Greci, tralasciò di mandargli l' entrate, soprantender fece alle di lui facoltà i proprj suoi amministratori. Volendo poi distruggere quel cattivo concetto ch'egli avea presso i filosofi per cagion di Platone, buon numero ei raccolse di quelli che tenuti erano per eruditi, e ambiziosamente studiandosi nel disputare di superarli tutti, costretto era di servirsi malamente delle non bene intese dottrine di Platone; e cominciò di bel nuovo a desiderarlo, e condennava se stesso per non averne fatto uso quando presente lo avea, e non aver bene apprese tutte le belle cose da esso insegnate. E siccome tiranno sempre disordinato e violento nelle sue brame, e pronto a piegarsi ad ogni affetto, si mosse tosto con grand'impeto verso Platone; e movendo ogni macchina, indusse il Pittagorico Archita a richiamarlo, facendosegli mallevadore delle promesse: perocché col mezzo di Platone medesimo stretta erasi da prima fra loro amicizia e ospitalità".
(Plutarco; Vita di Dione; op. cit.)

L'odio che Dionisio provò a fasi alterne per l'esiliato Dione, col mancato invio delle sue rendite, e per i problemi che incontrava la famiglia di questi, a Siracusa, provocò un terzo viaggio dell'amico filosofo. Anche per i fatti che seguirono, e che stiamo per incontrare, viene da pensare all'atteggiamento del tiranno, dovuto ai suoi timori che Dione, in Atene, se sostenuto da amicizie importanti avrebbe potuto, come poi fece, attaccarlo per ottenere Siracusa e le sue colonie. Dionisio evidentemente, consigliato a corte da uomini come Filisto, riteneva Platone pericoloso ad Atene, e non imprigionato - pur se fu gesto estremo non previsto inizialmente - in Sicilia. Viene subito da pensare all'errore; cattiva fama avrebbe a lui certo portata una tale ingiustizia per tutta la Magna Grecia. Possiamo pensare che Dionisio non riusciva a trattenere le sue ire, pur se rivelandole avrebbe peggiorato la sua situazione. La sua vanità pare certa, a legger delle sue punzecchiature nei riguardi degli ospiti - come Aristippo - tirando in questione il potere datogli dalla sua ricchezza.

"Dopo le prime affettuose accoglienze cominciò Platone a voler trattare intorno a Dione: ma nel principio si andavano facendo in questo proposito delle dilazioni; e poi si venne a rimproveri e a disgusti, non palesi a quei di fuori, tenendoli Dionigi stesso nascosti, e procurando con altri buoni uffici ed onori usati a Platone di rimuoverlo dall'amore che portava a Dione. Né già Platone palesava tosto nei primi tempi la di lui perfidia e mendacità, ma tollerava e se n'infingeva.
Mentre avean eglino sì fatto animo l'un verso l'altro, e si credeano che le loro dissensioni occulte fossero a tutti, Elicone Ciziceno, uno degli amici intrinseci di Platone, predisse un'eclisse di sole; ed essendo questa seguita, siccome appunto avea egli predetto, il tiranno lo ammirò molto, e gli diede in dono un talento di argento. E Aristippo allora, scherzando verso gli altri filosofi, disse di aver ei pure a predir cosa incredibile; e pregandolo gli altri a volerla manifestare, lor disse: 'Predico adunque che in breve Platone e Dionigi saran nemici'.
( XII ) Finalmente poi Dionigi vendè le sostanze di Dione, e sen ritenne il danaro; e passar fece Platone, il quale menava sua vita in un orto ch'era intorno al palazzo, ad abitare fra i soldati mercenarj, che già da gran tempo l'odiavano e cercavano di ucciderlo, siccome quello che consigliava Dionigi a lasciar la tirannide e a viversi senza custodi. Trovandosi Platone in tal pericolo, Archita, quando ciò inteso ebbe, mandò subitamente ambasciadori ed una galea a trenta remi a domandare quel personaggio a Dionigi, ed a dirgli, come Platone portato erasi in Siracusa sulle promesse di sicurezza, che fatte aveagli Archita medesimo. (...) In questa maniera dicono essere stato rimandato Platone. Pure ciò che scrive Platone stesso non corrisponde gran fatto a questo racconto".
(...)
Archita adunque gli mandò Archedamo; e anche Dionigi mandògli e triremi ed ad amici che il pregassero di venire; e di più scrisse egli stesso apertamente che Dione ottenuto non avrebbe nulla di favorevole, se Platone non persuadevasi di portarsi in Sicilia, e che per contrario, se lasciato se ne fosse persuadere, tutto avrebbe ottenuto". (Plutarco;Vita di Dione;IX,X; op. cit.).

Diogene riporta il testo della lettera inviata da Archita al tiranno:

Archita saluta Dionisio.
Noi tutti amici di Platone ti abbiamo inviato Lamisco e Fotida col loro seguito per riprendere il filosofo secondo l'accordo da te stipulato.
Rettamente agirai, sol che ricordi quella premura con cui tu pregavi noi tutti perché Platone venisse da te. Tu cosa degna ritenesti fartelo amico ed offrirgli ogni garanzia ed in particolare la sua personale incolumità, sia che volesse restare sia che volesse partirsene. Ricordati anche di questo: in molto conto tu tenesti il suo arrivo presso di te e lo amavi a quel tempo come nessun altro di quelli che sono alla tua corte. Se è sorto qualche screzio, devi essere umano e restituirci incolume quell'uomo. Solo così, opererai il giusto e avrai gratitudine da parte nostra.

(Vite dei filosofi; op. cit.)

Il contenuto della lettera è espresso in maniera secca, essenziale; vi si legge la ferma decisione di mostrare al tiranno, evidentemente influenzabile, che l'ostaggio può contare su molte amicizie (anche militarmente pericolose, come Dione) ed fa risaltare tutte le responsabilità del sovrano, che ha voluto con sé Platone. Si vuole che Dionisio non rischi di passare per incostante ed incerto rispetto a scelte fatte in passato. Pare ottima lettera da inviare ad un ragazzo, contenente ordini velati da accennato ossequio.

Ma ragazzo o uomo che fosse, la sapienza di Platone, infuocata e sublimata dalla fine inaccetabile che era capitata al suo maestro, non bastò a vincere contro gli interessi di una corte che disponeva solo di largo coro. E la Sicilia non divenne quella 'Repubblica' da lui teorizzata, e sognata fino al punto di ideare un mondo favoloso, antichissimo:
"Sono dunque passati ben novemila anni da quando scoppiò la tremenda guerra che vide fronte a fronte i popoli che abitano al di qua delle Colonne d'Ercole e quelli che abitavano al di fuori di esse. Gli uni erano guidati da coloro che in quel tempo abitavano la nostra città, gli altri dai Re dell'Atlantide, potentissimi allora, dominatori di un paese più vasto che non la Libia (Africa Settentrionale, Egitto escluso, n.d.A.) e l'Asia (Minore, n.d.A.) messi insieme. Ora tale paese più non esiste perché sommerso da spaventosi cataclismi". (Crizia; 108, e; a cura di Antonio Belli, Società Ed. Dante Alighieri;1979).

Una semplice domanda; Platone il filosofo, l'uomo colto può aver immaginato l'esistenza di una terra, creando un ricordo inesistente -"Questo, O Socrate, in breve ciò che diceva il vecchio Crizia, per averlo udito da Solone" (Timeo, 25 d) - solo per sostenere le sue idee circa una forma di governo perciò applicabile anche tra i non barbari dell'Ellade?

Gli storici a ragione non si occupano di storie non suffragate dal sostegno di fonti a riscontro, documenti, ritrovamenti archeologici. Solone, dice ancora Platone, lesse di Atlantide su una incisione egizia. Ed il discorso potrebbe estendersi alle mete che via atlantico raggiunsero i Fenici - lungo la costa occidentale del continente africano - alla similitudine tra le costruzioni funebri egizie e le piramidi sud americane edificate dalle popolazioni locali in età detta precolombiana.

 

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