Ibico, poeta greco di Reggio del VI secolo a. C., di famiglia
aristocratica, ha vissuto alla corte di Policrate (o del padre di lui, Eace)
a Samo, finché questi venne ucciso dai persiani nel 522. Il poeta viaggiò così per la
Magna Grecia in cerca d'altre corti. Ibico lo inseriamo in questo nostro lavoro in
quanto si formò alla famosa scuola poetica di Stesicoro,
ottenendo così un quadro più completo dell'opera andata perduta del grande maestro del
verso lirico, del quale il tempo ci priva di quasi tutta la sua produzione.
Dai frammenti trovati possiamo ritenerlo anche un esperto artigiano di strumenti
musicali.
Secondo la leggenda, la sua morte - seppure avvenuta in tarda età - avvenne per mano
di ladroni; gli autori quindi vennero scoperti per l'intervento di uno stormo di gru che
condusse alla scoperta dei responsabili. Forse tale leggenda nasce per l'analogia tra il
nome del poeta ed il nome di una specie di gru.
Le sue composizioni poetiche celebrative - ne restano 100
frammenti di poesie, tra i quali un lungo encomio al figlio di Policrate - secondo gli
antichi compilatori erano riunite in sette libri; si trattava di carmi lirici di contenuto
eroico (encomii) e poesie d'amore sopratutto in lode della bellezza degli efebi. Cicerone
lo lodò considerandolo poeta d'amore più ardente degli altri poeti della Sicilia e della
Magna Grecia .
Ateneo così lo cita:
"Ma quest'ultimo strumento (la Lira fenicia, o sambuca; n.d.A.) Neanthes
di Cizico, nel libro primo dei suoi Annali, dice che fu ideato da Ibico, il
famoso poeta di Reggio; così come Anacreonte inventò il 'barbiton' (strumento dalle
molte corde; n.d.A.)". (175; d, e).
"E' inutile tale supplica, per niente uguale a quella declamata da Ibico:
'Eurialo, favorito dalle Grazie dagli occhi azzurri (...), amore delle bionde Muse, te
innalzarono tra fiori di rosa Cipride e Péito'". (564; f).
Ecco come lo vede invece Ateneo, dal suo punto di osservazione culinario:
"Alcmano pure asserisce che gli dei 'mangiano nettare', ed anche Saffo: 'qui
rimase una coppa per miscelare ambrosia, piena, mentre Ermes afferrò la brocca per
servire gli dei'. Comunque Omero sapeva che il nettare era solo una bevanda divina; ed
abbiamo Ibico che afferma, esagerandone le doti, che l'ambrosia è nove volte più dolce
del miele, quando dice che il miele è la nona parte in dolcezza dell'ambrosia".
(39, b; op. cit.).
E lo stesso non sa se attribuire il poema I Giochi a Ibico od a Stesicoro:
" (...) Stesicoro o Ibico, nel poema intitolato I Giochi, ha detto che i regali
vennero portati alle donne, 'dolci al sesamo, cereali, dolci di olio e miele, altre buone
paste e miele giallo'" (172, d).
Ed ancora frammenti:
"Ed Ibico di Reggio, similmente, scoppia in lagrime ed esclama con forza:
'Solo in primavera crescono le mele cotogne, ed
i melograni, da fiotti innaffiati
nell'inviolato giardino delle vergini Ninfee
ed i gonfi frutti d'uva prosperano tra l'ombra
dei virgulti della vite;
ma non esiste alcuna stagione per me, se
ogni amore giace spento; tutto in fiamme,
simile a Borea tracia in
scintillanti lampi; egli, nella mia fanciullezza
ha scagliato l'amore da Cipride,
verso me, incrollabile; con bruciante
follia ha tenuto il mio cuore sotto crudele dominio'. (601, b)
E' una terza versione, stavolta letta dalla fonte egizia, della Violenza di Eros.
Anche Ibico morì per azione di rozza mano, ucciso dai quei malviventi che, in preda a
chissà quale febbre o debolezza - nelle capacità di apprendere nuove cognizioni che
vanno sommate agli istinti che pur ogni uomo ha - non riescono a vivere razionalmente, non
scorgendo in altri l'unicità della vita che pur in essi stessi agisce. |