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Don Chisciotte, tomo primo, capitolo quarantuno

Don Chisciotte della Mancia
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CAPITOLO XLI

SI RACCONTANO ALTRI AVVENIMENTI SUCCEDUTI NELL'OSTERIA,
E MOLTE COSE DEGNE DI ESSERE RIFERITE.

CAPITOLO XLI

A queste parole, già tacendo lo schiavo, don Fernando soggiunse: — La singolarità e la novità dei vostri successi agguagliano il merito della esposizione dell'importante racconto, in cui tutto è peregrino e raro, e pieno di avvenimenti che recano maraviglia, e tengono sospesi gli animi di chi li ascolta; ed è sì grande il piacere da noi provato, che quando bene dovesse coglierci il nuovo giorno mentre dura la narrazione, avremmo nondimeno piacere che la ricominciasse.» Ciò detto, don Fernando e gli altri tutti offerirongli la loro servitù in tutto quello che potessero; e ciò con parole e dichiarazioni sì amorevoli e veritiere che il capitano ne attestò la più sincera e viva gratitudine. Gli offerse don Fernando, qualora gli fosse piaciuto di accompagnarsi a lui, che avrebbe impegnato il marchese suo fratello ad essere il padrino al battesimo di Zoraida, ed oltracciò che si toglieva egli a proprio carico di rimandarlo al proprio paese colla decenza dovuta alla sua persona. Tutto fu dallo schiavo aggradito, senza però accettare alcuna di tante liberali offerte.

Sopraggiunse la notte, ed allorché si fece oscura arrivò all'osteria un cocchio unitamente ad alcuni uomini a cavallo. Chiesero alloggio, ma rispose l'ostessa che non eravi nell'osteria un palmo solo di luogo disoccupato. — Comunque sia, disse uno di quelli che stavano a cavallo, e ch'era già entrato, debb'esservi alloggio pel signor giudice ch'è qui con noi.» Si turbò l'ostessa a tal nome, e disse: — Signore, dovete sapere che non ho letti: se ne porta seco qualcuno sua signoria, il signor giudice (che sarà facil cosa che l'abbia) entri alla buon'ora, che per lo comodo di sua signoria cederemo mio marito ed io la nostra camera. — Sia pur così» rispose lo scudiere. In questo mentre era già uscito del cocchio un uomo, che dall'abito che portava lasciò conoscere l'ufficio e la carica che sosteneva; perché la sua lunga zimarra con maniche gonfie indicava essere egli un giudice, come il suo servitore avea detto. Conduceva per mano una giovane che pareva dell'età intorno di sedici anni, vestita da viaggio, e sì galante, sì vigorosa, sì leggiadra che fece ammirarsi da tutti. Se non si fossero trovate colà Dorotea, Lucinda e Zoraida, sarebbesi detto che difficilmente poteva vedersi bellezza eguale a quella di questa nuova straniera.

Trovossi presente don Chisciotte all'entrare del giovane, e della giovane e non li vide appena che disse: «Può la signoria vostra avanzarsi con sicurezza e passeggiare a sua voglia per questo castello, perché quantunque angusto e male in ordine, non sarà mai che siavi ristrettezza o disagioso sito nel mondo che non faccia luogo alle armi e alle lettere; e molto maggiormente se le armi e le lettere sieno guidate dalla bellezza, come ora lo sono per mezzo della signoria vostra in questa vezzosa donzella, cui debbono non pure aprirsi e spalancarsi i castelli, ma ritirarsi le rupi e dividersi ed abbassarsi le montagne per farle degna accoglienza. Entri, io ripeto, la signoria vostra in questo paradiso, che qui troverà stelle e soli che accompagneranno quel cielo che la signoria vostra seco conduce: troverà quivi l'arme al loro apice di perfezione, e la bellezza negli estremi del vero merito.»

Restò trasognato il giudice al ragionamento di don Chisciotte, e si mise ad esaminarlo di proposito, maravigliandosi non meno delle sue parole che della sua figura. Senza aprir bocca, tornò ad esaminarlo di nuovo, quando gli comparvero innanzi Lucinda, Dorotea e Zoraida, tratte colà dall'avere sentito dall'ostessa l'arrivo degli ospiti e della leggiadra donzella che avevano curiosità di vedere e di accogliere. Don Fernando, Cardenio e il curato fecero a essa giovane un'accoglienza ancor più compita e cortese. Il signor giudice entrò confuso sì per quello che vedeva, come per quello che sentiva dire: ed intanto le dive dell'osteria davano la benvenuta alla vezzosa ragazza. In fine conobbe il giudice molto bene che distinte e nobili dovevan essere le persone che là si trovavano; ma la disposizione, la faccia e gli arnesi di don Chisciotte lo avrebbero fatto dare in pazzia. Dopo di avere egli ricambiate le comuni e cortesi offerte da esso lui praticate, e fatto esame degli agi che offerire potesse quell'albergo, si decise a ciò che già prima era stato disposto, cioè a lasciare che le donne tutte si raccogliessero nel camerone, e che gli uomini se ne stessero al difuori, come in atto di far loro la guardia. Fu molto pago il giudice, che sua figliuola (ch'era la donzella) dimorasse con quelle signore, al che condiscese essa pur volentieri; e valendosi dell'angusto letto dell'oste, e della metà di quello che seco recava il giudice, si accomodarono tutti in quella notte meglio che avessero immaginato.

Lo schiavo, che nell'osservare il giudice si sentì battere fortemente il cuore, presentendo che fosse quegli il fratello suo, domandò ad uno dei servi che lo accompagnavano, come si chiamasse e di qual paese foss'egli. Il servitore rispose che chiamavasi dottore Giovanni Perez di Viedma, che avea sentito dire essere una terra delle montagne di Leone. Col fondamento di questa informazione, e di ciò che veduto aveva, terminò lo schiavo di persuadersi che quegli fosse quel suo fratello che per consiglio del padre doveva avere battuta la strada delle lettere. Baldanzoso e contento chiamò a parte don Fernando, Cardenio e il curato, e raccontò loro il fatto, assicurandoli che quel giudice doveva esser il fratel suo. Il servo avendogli anche detto che passava giudice alle Indie nel tribunale del Messico, e seppe inoltre che quella ragazza era sua figlia, nel cui parto era morta la madre, ch'egli era ricco per essergli rimasta la dote della moglie per la sopravvivenza della figliuola. Chiese tosto consiglio sulla maniera di aversegli a discoprire a fine di assicurarsi prima se, fattosi conoscere, fosse per essere rifiutato come povero, od accolto con buon viso come fratello. «Lasciatene il pensiero a me, disse il curato, che non mi cade neppur in pensiero che non dobbiate, signor capitano, essere il bene accolto; tanto più che il merito e la prudenza nel fratello vostro tralucono col non averci qua dato alcun segno di tracotanza o d'ingratitudine, o di non saper valutare come ben si conviene gli scherzi della fortuna. — Con tutto ciò, soggiunse il capitano, non vorrei darmegli a conoscere così all'improvviso, ma bene a rilento. — V'ho già detto, rispose il curato, ch'io lo disporrò in modo che ne resteremo soddisfatti.

Era frattanto la cena in ordine, e tutti si assisero a tavola, ad eccezione dello schiavo e delle vezzose donne che cenarono nella loro camera. Il curato rivoltosi al giudice, si mise a dirgli: — Ebbi, o signor giudice, a conoscere un tale che portava lo stesso nome di vossignoria a Costantinopoli, dove trovavasi schiavo da alcuni anni addietro, ed era uno dei più valorosi soldati e capitani che vantasse la fanteria spagnuola; ma in pari al merito ed al valore egli aveva la sfortuna.

— E come, signor mio, domandò il giudice, come chiamavasi egli?

— Ruy Perez di Viedma, rispose il curato; ed era nativo di un paese delle montagne di Leone. Mi raccontò egli quanto avvenne col padre e coi suoi fratelli, che in verità se non lo avessi conosciuto per uomo veritiero, avrei tenuta la sua narrazione nel numero di quelle che si fanno dalle vecchie al fuoco nella stagione d'inverno. Ci fece credere che suo padre avendo tre figli avea divisa fra loro la sua facoltà accompagnandola con consigli migliori di quelli di Catone, e vi so dire che quello che scelse il partito dell'armi si portò valorosamente cotanto, che senz'altro mezzo, fuorché quello del proprio merito, giunse in pochi anni al grado di capitano di fanteria, e doveva esser presto maestro di campo. Ma là dove aveva tutta la ragione di giudicar favorevole la fortuna, quivi gli si mostrò appunto nemica; poiché perdette la libertà nella giornata fortunatissima in cui venne da tanti ricuperata, e ciò fu nella battaglia di Lepanto, come io la perdei alla Goletta. Dopo differenti successi ci trovammo compagni in Costantinopoli; e di là passò egli in Algeri dove mi è noto che gli accadde uno dei più strani casi che sieno avvenuti nel mondo.»

Qui proseguì il curato la istoria, e raccontò brevemente al giudice quello che con Zoraida era accaduto al fratello di lui. Teneva il giudice gli orecchi tesi, e prestava tanta attenzione, quanta non ne aveva forse mai dimostrata nell'esercizio della sua carica. Il curato dipinse al vivo quel punto in cui furono dai Francesi spogliati i cristiani, che trovavansi nella barca, e la povertà a cui erano ridotti la vezzosa Mora ed il suo camerata, aggiungendo che non sapeva quale ne fosse poi stato il destino, cioè se fossero giunti in Ispagna, o se i Francesi li avessero condotti in Francia.

Quanto si narrava dal curato era tutto inteso dal capitano, che stava poco da loro discosto, e notava i movimenti tutti di suo fratello; il quale vedendo già che il curato era giunto al termine del suo racconto, dopo un sospiro esclamò:

— Ah signore, voi non sapete di quale importanza sono per me le cose che raccontaste; esse mi costringono a spargere quelle lagrime che contro ogni mia voglia mi vedete cadere dagli occhi! Quel capitano sì valoroso da voi menzionato debb'essere stato mio fratello maggiore, il quale come più gagliardo, e di pensieri più elevati di me e di un altro mio fratello minore, scelse l'onorato e degno esercizio delle armi, che fu una delle due strade proposteci da nostro padre, come appunto vi disse il vostro camerata, nella verace sua storia. Io ho seguitato il cammino delle lettere per mezzo delle quali, col favore del Cielo, e mercé la mia diligenza, sono salito al grado in cui mi vedete. Mio fratello minore trovasi al Perù tanto ricco che ha non pure pagata la parte toccatagli, ma di più ha somministrato a mio padre con che soddisfare la sua liberalità; ed io pure soccorso da lui, mi trovai nel caso di sostenermi con decoro e con fasto, e di farmi onore cogli studi fino a giungere al posto ora da me occupato. Vive tuttavia mio padre, non altro desideroso che di aver contezza del suo figliuolo maggiore, e dimanda a Dio con incessanti preghiere che la morte non arrivi a chiudergli gli occhi se prima non rivegga quelli del suo figliuolo; il quale mi maraviglio, come, essendo fornito di sì buon senno, siasi dimenticato di dare ragguaglio a suo padre delle sue tribolazioni e disavventure; che se fossero state note o ad esso o ad alcuno di noi, non avrebbe avuto bisogno di aspettare il miracolo della canna per ottener il suo riscatto. Quello che ora mi angustia si è la difficoltà di sapere se i pirati francesi gli abbiano ridonata la libertà o lo abbiano ucciso per nascondere il furto da loro commesso: e tutto questo sarà cagione ch'io non prosegua più il mio viaggio con quell'animo lieto con cui l'ho intrapreso, ma immerso nella malinconia e nella tristezza. O mio buon fratello, e chi sa mai dove ti trovi adesso! oh come mi affretterei a raggiungerti e a liberarti dai tuoi affanni ancorché ne avessi a patire io altrettanti! Chi sarà mai che rechi al nostro vecchio genitore la novella che tu sei vivo? Se pur ti trovassi nelle più segrete carceri di Barberia, trarre te ne saprebbero le sue ricchezze, le mie e quelle del fratel nostro. Ah bella e generosa Zoraida, chi potrà compensare degnamente i benefizi da te impartiti a quell'infelice? Perché non poss'io trovarmi presente al rinascere della tua bell'anima e a quelle nozze che avrebbero recato a noi il più alto contento?»

In queste ed in simiglianti espressioni disfogavasi il giudice, pieno di tanta compassione per le nuove ricevute di suo fratello, che tutti gli astanti lo accompagnavano colla commozione inspirata dal suo cordoglio. Vedendo allora il curato proceder ogni cosa a seconda delle loro brame, non volle tenerlo più a lungo in pena, ma levatosi di tavola, entrò dove stava Zoraida, e, presala per mano uscì fuori accompagnato da Lucinda, Dorotea e dalla figlia del giudice. Stava aspettando il capitano per vedere ciò che divisasse di fare il curato, e questi, presolo per l'altra mano, se ne ritornò con ambidue dove trovavasi il giudice unitamente agli altri cavalieri, e disse: «Cessi, mio signor giudice, il vostro pianto, e gioisca il cuor vostro quanto mai sa bramar di gioire, poiché avete dinanzi il vostro buon fratello e la vostra buona cognata. Questi che vi presento è il capitano Viedma, e questa è la bella e virtuosa Mora che tanto lo ha beneficato. I francesi dei quali vi ho detto, lo ridussero alla povertà che vedete e con ciò aprirono libero campo alla generosità del vostro bel cuore.»

Corse il capitano ad abbracciare il fratello, il quale da prima con ambe le mani lo allontanò un poco da sé per meglio raffigurarlo e rassicurarsi, ma quando si riconobbero si strinsero al seno, e si baciarono spargendo pianto sì tenero di allegrezza che la maggior parte dei circostanti ne fu indicibilmente commossa. Credo che sia molto più agevole pensare che scrivere ciò che si dissero ambidue i fratelli, ed i sentimenti che dispiegaronsi a vicenda. Domandaronsi l'un l'altro con ansiosa curiosità ogni passato successo, e fecero vedere nella pienezza sua la leale e perfetta amicizia dei due buoni fratelli ed amici, Zoraida fu lodata e festeggiata dal giudice, il quale offerse loro di entrare a parte di ogni suo avere, e volle che Zoraida ricevesse gli abbracciamenti di sua figliuola. La bella cristiana e la vezzosissima Mora confusero le loro lagrime con quelle di tutti gli astanti.

Stavasene attento a tutto ciò don Chisciotte senza proferir parola, considerando sì straordinari successi, e tutti attribuendoli alle chimere della errante cavalleria. Concertarono finalmente che il capitano e la bella Mora si recassero col fratello a Siviglia per consolar il padre coll'aspetto del suo caro figliuolo, e per affrettare quanto fosse possibile le nozze e il battesimo di Zoraida. Era necessaria tanta sollecitudine, non potendo il giudice intralasciare il suo viaggio; anzi gli bisognava imprenderlo fra un mese colla flotta che facea vela da Siviglia per la nuova Spagna; e gli sarebbe stato di troppo discapito il perdere quella opportunità. In fine ognuno rimase lieto e contento; ed essendo allora oltrepassata la mezzanotte, si risolsero di ritirarsi e di riposare per poche ore. Don Chisciotte si offerse di fare la guardia al castello per impedire che qualche gigante o qualche malvagio incantatore venisse ad assalirli, invidioso del gran tesoro di bellezze che ivi si richiudevano. Queglino che lo conoscevano gli attestarono il loro gradimento, e diedero contezza al giudice dello strano umore di don Chisciotte, di che rise anche egli.

Il solo Sancio Pancia si disperava che tanto s'indugiasse l'andar a letto, e fu egli l'unico che si adagiò meglio di ogni altro coricandosi sopra i fornimenti del suo asino, che tanto gli costarono come si dirà più avanti. Ritiratesi dunque le signore nella loro stanza, ed accomodatisi gli altri alla meglio, don Chisciotte uscì dell'osteria per far sentinella al castello siccome aveva promesso. Avvenne poi che, già essendo vicina a comparire l'alba, giunse all'orecchio delle donne una voce sì intonata e sì armoniosa che le obbligò tutte a prestarle attenzione, e Dorotea specialmente che era svegliata e presso cui stavasene donna Chiara di Viedma, la figlia del giudice. Nessuno potea indovinare chi fosse la persona che cantava sì bene, ed era una voce sola senza accompagnamento di stromento alcuno. Sembrava talora che cantasse nel cortile, altra volta nella stalla. In tale incertezza venne Cardenio alla porta della camera, e disse: — Chi non dorme ascolti che sentirà la voce di un vetturino, il quale canta in modo che fa stupore. — Noi lo udiamo già, o signore, rispose Dorotea.» Con questo, Cardenio partì, e stando Dorotea ad ascoltare intese che la canzone era questa:

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