CAPITOLO XV SI NARRA LA DISGRAZIATA AVVENTURA DI DON CHISCIOTTE CON CERTI IMBESTIALITI IANGUESI. Lasciò scritto il savio Cide Hamete Ben-Engeli che quando don Chisciotte si divise dagli ospiti suoi e dagli altri tutti che furono presenti alla sepoltura di Grisostomo, egli ed il suo scudiere s'internarono nel bosco medesimo in cui videro entrare Marcella, e dopo averla ben due ore per ogni dove cercata senza poterla rinvenire, si trovarono in un prato di molle erbetta, sul quale scorreva un ruscello fresco e piacevole tanto, che loro fu forza di trattenersi colà nelle ore del mezzogiorno.
Alla seconda bastonata Sancio precipitò, e dopo lui don Chisciotte, né gli valse destrezza o coraggio; e manco male ch'egli cadde appié di Ronzinante, il quale non s'era per anche rizzato: dal che si vede che brutta riuscita fanno le stanghe in mani villane e arrabbiate. Accorgendosi i Ianguesi della brutal opera da loro commessa caricaron le bestie colla grande celerità, e proseguirono la loro strada lasciando i due venturieri al partito più tristo che dir si possa. Il primo a risentirsi fu Sancio Pancia, che trovandosi vicino al suo signore, con voce ammalata e dogliosa gli disse: «Signor don Chisciotte! ahi signor don Chisciotte! Che vuoi tu, Sancio fratello mio? rispondeva don Chisciotte con voce parimenti debole e addolorata. Bramerei, se fosse possibile, disse Sancio Pancia, che vossignoria mi desse due sorsi di quella bibita di Fleo Blas se ne ha qui alla mano che potrebbe forse essere tanto buona per le ossa peste come per le ferite. Ah tapino di me! se qui l'avessi, che ci mancherebbe adesso per guarire? rispose don Chisciotte. Io ti giuro, o Sancio in parola di cavaliere errante, che non passeranno due giorni, se altrimenti non dispone la sorte, che ne avrò in abbondanza, o ch'io non potrò più valermi delle mie mani. E quando crede vossignoria, replicò Sancio Pancia, che potremo valerci dei piedi? Altro non so dirti, rispose il macinato cavaliere, se non che non saprei stabilire il numero dei giorni; ma debbo ascrivere ogni cosa a mia colpa; perché io non dovea metter mano alla spada contro uomini che non erano cavalieri al pari di me. Tengo per fermo che in pena d'aver contravvenuto alle leggi della cavalleria, abbia permesso il nume delle battaglie che mi arrivasse un tale castigo; ma ora tu devi, fratello Sancio, stare avvertito su ciò che sono per dirti, perché è così importante per la salute di entrambi. Quando il torto ci sarà fatto da simigliante canaglia, non aspettarti mai ch'io metta mano alla spada contro di loro, perché nol farò in modo alcuno, ma impugna la tua spada, e gastigali a tuo talento; e se poi sopraggiungessero cavalieri in loro aiuto e difesa, allora accorrerò io, e li offenderò con ogni mia possa, che già avrai veduto mille segni e per mille esperienze fin dove s'estende il valore di questo forte mio braccio.» (Egli era prosontuoso per la vittoria riportata sopra il valente Biscaino). A Sancio non piacque veramente il consiglio del suo padrone e perciò non si astenne da replicare: «Signore, io son uomo pacifico, riposato, prudente, e so dissimulare qualunque ingiuria, poiché ho moglie e figliuoli da mantenere e da educare; e d'ora innanzi sia per sempre avvisata la signoria vostra a cui non posso far comando, che non porrò mano alla spada per verun modo né contro a villano né contro a cavaliere; e giuro al cielo, che da qui in avanti perdono quante offese mi furono o mi saranno fatte e quelle che già ricevetti e che sarò per ricevere da persona alta o bassa, ricca o povera, cittadina o plebea, senza eccettuare stato e condizione di sorta alcuna.»
Ciò ti dico affinché tu non creda che per essere noi rimasti fracassati e malconci nella passata scaramuccia, ci sia stato usato un affronto; perché le arme che avevano con loro quegli uomini, e colle quali ci han macinati, erano alla fin fine le loro stanghe, e nessuno, ch'io mi ricordi, avea stocco, spada o pugnale. A me non diedero tempo di fare tanti esami, rispose Sancio, perché ebbi appena posto mano alla mia tizona, ed essi mi sventolarono le spalle coi loro bastoni per modo che mi levarono la vista dagli occhi e la forza dai piedi, e mi stramazzarono qui dove sono tuttora, e dove non mi dà alcun fastidio il pensare se fu affronto o no l'essere bastonato, bensì il dolore delle percosse che mi restano tanto stampate nella memoria quanto nelle spalle. Hai con tutto questo da sapere, fratello Pancia, replicò don Chisciotte, che non v'è reminiscenza la quale non venga cancellata dal tempo, né dolore a cui la morte non metta fine. E qual maggiore sventura, replicò Pancia, di quella che ha bisogno del tempo per essere cancellata dalla memoria, o della morte per esser tolta? Se la presente nostra disgrazia fosse di quelle che si guariscono con qualche poco di empiastro, non vi saria tanto male; ma io vado pensando che non basteranno gli empiastri di un intiero spedale al nostro risanamento. Non ti affliggere per questo, ma tenta, Sancio mio, di vincere la sventura, ch'io pure farò lo stesso; e vediamo intanto come sta Ronzinante; che, a quanto mi sembra, non toccò al poveretto la parte minore di questa nostra disavventura. Di lui non mi meraviglio rispose Sancio, essendo egli pure cavaliere errante mi meraviglio bene che il mio asino l'abbia scappata colle costole sane, quando noi l'abbiamo finita colle costole rotte. La ventura lascia sempre un uscio aperto al rimedio nelle disgrazie, disse don Chisciotte; e voglio con ciò inferire che questa bestiuola potrà per ora fare le veci di Ronzinante, portandomi di qua fino a qualche castello dove curare le mie ferite. Né io mi recherò a disonore l'usare di tale cavalcatura, avendo letto che quel buon vecchio Sileno, aio e pedagogo del giovane Dio della letizia, quando entrò nella città delle cento porte se n'andava a proprio talento, cavalcando un bellissimo asino. Sarà vero, disse Sancio, ch'egli se n'andasse come dice vossignoria, ma passa una gran differenza dal cavalcare un asino allo starvi sopra come un sacco di cenci.» E don Chisciotte: Le ferite che si ricevono nelle battaglie recano più onore che vergogna; perciò amico Pancia, non replicar oltre, ma, come ti ho detto poc'anzi, alzati il meglio che puoi, stendimi nella maniera che ti sembra più acconcia attraverso del tuo giumento, e partiamci da questo luogo prima che ci colga la notte, e ci vengano ad assassinare in questo deserto. Eppure io intesi dire da vostra signoria, replicò Pancia, che è proprio de' cavalieri erranti il dormire in boscaglie e in deserti per la maggior parte dell'anno, e che se lo recano a gran ventura. Ciò avviene, disse don Chisciotte, quando non possono fare diversamente, o quando sono innamorati: e questo è tanto vero, che vi fu un cavaliere il quale se ne stette sopra una balza esposto alla sferza del sole, all'ombra, ed alle inclemenze del cielo per due anni interi senza saputa della sua signora: ed uno di questi fu Amadigi quando facendosi chiamare Beltenebro, si mise a stare nella balza di Pegnapobre, non so se ott'anni od otto mesi, che di ciò non mi sovviene precisamente; fatto sta ch'egli vi dimorò, facendo la penitenza di non so quale rabbuffo avuto dalla signora Oriana. Ma lasciamo questo da parte, ed allestisci il giumento e Ronzinante, prima che altro ci avvenga di male. Non ci mancherebbe altro, soggiunse Sancio; e prorompendo con trenta ahi, con sessanta sospiri, e con cento e venti invettive ed imprecazioni contro chi a tale lo aveva condotto, si alzò, ma rimase alla metà dell'impresa gobbo gobbo, come un arco turchesco, senza che gli potesse riuscire mai di raddrizzarsi bene. Ad onta di tanto travaglio mise all'ordine il suo asino, ch'era sviato alquanto mercé la rovinosa libertà di quel giorno. Fece pure che si levasse Ronzinante, il quale se avesse avuto lingua per querelarsi non avrebbe risparmiato sicuramente né Sancio né il suo padrone.
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