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La Costituzione e le vicende politico-istituzionali italiane dal 1946 al 1994
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capitolo 3

Capitolo 2

Le idee e i contenuti della Costituzione

2.1. Il compromesso costituzionale
2.2. L'idea e i contenuti di ispirazione democratica
2.3. L'idea e i contenuti di ispirazione liberale
2.4. L'idea e i contenuti di ispirazione socialista
2.5. L'idea e i contenuti ispirati dal cattolicesimo sociale

2.1. Il compromesso costituzionale

La Costituzione repubblicana è composta da 139 articoli dei quali i primi dodici riguardano i Principi fondamentali. I successivi quarantadue articoli costituiscono la prima parte dedicata ai Diritti e doveri dei cittadini, a sua volta suddivisa in quattro titoli: rapporti civili; rapporti etico-sociali; rapporti economici; rapporti politici. I rimanenti ottantacinque articoli rappresentano la seconda parte che disciplina l'Ordinamento della Repubblica, nelle sue diverse articolazioni, a cui corrispondono altri sei distinti titoli: il Parlamento; il Presidente della Repubblica; il Governo; la Magistratura; le Regioni, le Province, i Comuni; Garanzie costituzionali. Infine, la Costituzione si chiude con le Disposizioni transitorie e finali contenute in diciotto articoli [uno schema completo della Costituzione della Repubblica italiana è contenuto in Appendice II; tale schema potrà essere consultato per seguire meglio l'esposizione del contenuto della Costituzione stessa].

La maggior parte di questi articoli fu approvata con larghissime maggioranze, ma il loro contenuto è il frutto dell'incontro di idee e valori dei partiti presenti all'interno dell'Assemblea Costituente, spesso diversi, tuttavia uniti dal comune sentire della lotta antifascista e dalla ferma volontà di dare all'Italia una Costituzione che traducesse in precise disposizioni le speranze e le attese per un profondo mutamento dello Stato e della società.

La Costituzione italiana nasce dalla confluenza di diversi principi ispiratori: all'idea democratica di base, si uniscono i valori dell'antica tradizione liberale italiana, quelli propri del socialismo dei partiti della sinistra e infine quelli della dottrina sociale della Chiesa a cui si ispirava la Democrazia Cristiana.

Il risultato che ne conseguì venne definito da molti un compromesso costituzionale, il che non deve però erroneamente richiamare una soluzione deleteria o di basso profilo. Al contrario, esso rappresentò il desiderio di edificare un impianto costituzionale in cui ogni Costituente cercò di dare il meglio della sua concezione e in cui la maggior parte degli italiani potesse identificarsi.

La Costituzione repubblicana non nacque quindi dalla preponderanza di una parte politica sulle altre, ma da un aperto e fecondo incontro ideale, da un'intesa che doveva servire come guida alle variabili maggioranze parlamentari e di Governo che, domani, diversamente interpretandola, avrebbero dovuto poi tradurla in provvedimenti concreti.

D'altra parte è nella natura di tutte le Costituzioni democratiche di questo secolo, che scaturiscono da Assemblee Costituenti elette a suffragio universale e rappresentative di diverse aspirazioni e interessi, il loro affermarsi come patto sociale, punto di convergenza tra diverse forze politiche che affidano a questa legge fondamentale il compito di fissare quei principi in cui tutta una Nazione si possa riconoscere, a garanzia della loro legittimità e del loro rispetto effettivo.

A maggior ragione è comprensibile, e, se possibile, assume anche maggior valore, l'intesa che fu alla base della Costituzione italiana da parte di quelle forze politiche che, dopo la tragedia della dittatura e della guerra, volevano tradurre in norme i valori ideali della Resistenza e della lotta contro il nazifascismo che le avevano accomunate, nonostante le diverse matrici ideali che le animavano fossero il riflesso di una società non omogenea, spesso agitata da conflitti sociali, in cui sussistevano differenze profonde, fra le diverse classi e fra appartenenti alle stesse classi nel Nord e nel Sud.

Indice del capitolo corrente

2.2. L'idea e i contenuti di ispirazione democratica

L'idea base della Costituzione italiana è rappresentata dal valore che viene attribuito alla democrazia. L'art. 1 dichiara che "L'Italia è una Repubblica democratica..." in cui "La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".

Lo Statuto Albertino, al contrario, si apriva con l'enunciazione che il Re "...per grazia di Dio..." elargiva con "...affetto di padre...", la "...Legge Fondamentale, perpetua e irrevocabile della Monarchia...".

La fonte primaria di legittimazione del potere politico, nell'idea dello Statuto, era rappresentata dal Re e dalla sua dinastia che governavano per volere divino. Al contrario, la Costituzione repubblicana, facendo proprio il principio della dottrina democratica che si era affermato già con le Rivoluzioni borghesi del settecento, indica nel popolo la fonte primaria di legittimazione della sovranità, ribaltando l'antica concezione dello Stato.

Quest'ultimo non rappresenta più un'entità che domina dall'alto gli uomini, ma una forma di organizzazione che i cittadini creano con il loro consenso e nel loro interesse, in modo che l'obbedienza a questa volontà generale che nasce dal basso, come affermava il pensatore politico ginevrino Jean-Jacques Rousseau, sia in fondo obbedienza a se stessi.

Dall'altra parte, era ancora molto vivo il ricordo della dittatura e della lotta antifascista nella memoria di molti Costituenti. Il regime di Mussolini era fondato su un sistema di governo che escludeva la volontà del popolo e affidava, in modo arbitrario e incontrollato, al gruppo ristretto dei capi del Partito Nazionale Fascista e al Duce tutti gli strumenti del potere politico. Edificata la dittatura, essi gettarono l'Italia nel baratro della guerra e della sconfitta.

All'affermazione iniziale del primo articolo riguardo al carattere democratico del nuovo Stato, la Costituzione fa seguire gli strumenti concreti per renderlo effettivo con la previsione di quei diritti politici negati per gran parte del ventennio fascista.

Innanzi tutto c'è l'indicazione degli strumenti tipici della democrazia rappresentativa e, in primo luogo, il diritto di voto a suffragio universale sancito dall'art. 48 della Costituzione. Ogni cittadino che abbia raggiunto la maggiore età è chiamato periodicamente ad eleggere i suoi rappresentanti nelle assemblee elettive: i Deputati e Senatori alla Camera e al Senato, ma pure i Consiglieri regionali, provinciali e comunali e, da qualche anno, anche i Deputati al Parlamento europeo.

Il successivo articolo 49 indica lo strumento essenziale della democrazia rappresentativa come la concepirono i Costituenti che avevano subito le persecuzioni politiche della dittatura: "Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale".

L'unica limitazione prevista a questa libertà democratica è contenuta nella XII Disposizione transitoria e finale: "È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista".

Non si tratta di una disposizione in contrasto con il precedente art. 48, ma di una sua applicazione concreta: la libertà di costituire partiti esclude la possibilità di determinare la vita politica ricorrendo a metodi che non siano democratici; tutti gli italiani antifascisti ben conoscevano i metodi non democratici del ventennio per averli subiti sulla loro pelle, a volte anche a prezzo della loro stessa vita.

Ma cosa significa, in senso positivo, "con metodo democratico"? La democrazia è l'esercizio del potere politico con il consenso di chi quel potere deve subire, ma spesso le opinioni sono divergenti e si presenta un problema di scelta tra diverse alternative. Il "metodo democratico" impone che, in primo luogo, in tutte le assemblee elettive, debba prevalere la posizione che ha ottenuto il maggior numero di consensi, cioè quella che lascia insoddisfatto il minor numero di persone e a cui tutti, opposizione compresa, dovranno conformarsi.

In secondo luogo, però, "metodo democratico" significa anche che sia possibile a chiunque continuare a manifestare liberamente il proprio dissenso e che a ogni opinione diversa da quella prevalente sia data la possibilità di farsi conoscere e farsi valere.

"Metodo democratico" è quindi il rispetto da parte della minoranza delle decisioni della maggioranza, ma anche tutela da parte della maggioranza del diritto della minoranza di competere e operare con ogni mezzo legittimo per raccogliere su di sé un numero di consensi che domani le consenta di divenire essa stessa maggioranza, in una logica di alternanza alla guida del potere politico.

Ma i veri protagonisti chiamati a partecipare a questo gioco democratico sono i partiti politici di massa che, facendo da tramite tra società civile e Stato, sono chiamati a condurre il Paese.

I singoli individui, lasciati a loro stessi, avrebbero ben scarse capacità di conoscere e realizzare esigenze di carattere generale; ben maggiore diviene il loro peso quando essi si organizzano e fanno confluire il loro consenso nei partiti.

Questi ultimi, incanalando i diversi interessi emergenti in base ai loro programmi politici, rappresentano il principale strumento per fare valere le idee degli stessi singoli individui.

In Italia quasi tutti i partiti di massa nacquero e si affermarono tra la fine dell'ottocento e i primi decenni del novecento, per subire una forte battuta d'arresto sotto il regime fascista che, una volta consolidatosi, perseguì tutti i suoi oppositori, secondo la logica del partito unico alla guida dello Stato.

Ma, prima nella clandestinità e poi nel Comitato di Liberazione Nazionale e nella Resistenza, i partiti di massa riemersero con forza e condussero l'Italia fuori dall'esperienza fascista. Ad essi, per alcuni decenni e nonostante le degenerazioni determinatesi, il popolo italiano ha dato il suo consenso per il governo democratico del Paese.

Al ruolo che la storia italiana e la Costituzione attribuiscono ai partiti politici è in qualche modo legata la scelta dei Costituenti relativa alla forma di governo.

A una forma di governo presidenziale con un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo e a capo dello stesso Governo, i Costituenti preferirono un Governo di tipo parlamentare in cui il potere è in concreto nelle mani del partito o dei partiti che dispongono della maggioranza in Parlamento e che esprimono un Governo che ne deve sempre godere la fiducia (art. 94 Cost.).

Dall'altra parte, il Presidente della Repubblica, eletto ogni sette anni dal Parlamento, è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità della Nazione (art. 87 Cost.), ma con limitate funzioni attive nella gestione del potere politico, pur svolgendo un fondamentale compito di garante della Costituzione.

Sembrò opportuno ai Costituenti evitare, anche se non mancarono autorevoli pareri discordi, all'indomani della caduta del fascismo, l'istituzione di un potere eccessivamente personalizzato nella figura di un Presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo di cui si temevano le possibili degenerazioni autoritarie.

Si scelse, invece, di spostare l'asse centrale del potere politico, in linea con l'esperienza costituzionale italiana prefascista, sul Parlamento, organo collegiale e rappresentativo, attraverso i partiti di massa in esso presenti.

Accanto agli strumenti propri della democrazia rappresentativa o indiretta, l'Assemblea Costituente pensò bene di prevedere anche alcuni strumenti di democrazia diretta attraverso i quali il popolo avrebbe potuto esprimersi senza la mediazione dei partiti politici, se non altro per temperare e bilanciare il peso che ad essi veniva riservato.

L'art. 75 della Costituzione prevede che possa essere indetto un referendum abrogativo totale o parziale di una legge quando lo richiedano cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali, escludendo però da tale possibilità le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto e di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Si tratta, per la verità, di un potere, per così dire, negativo che spetta al popolo e con il quale esso si esprime con un sì o con un no su norme comunque già in vigore. All'opposto, l'art. 71 della Costituzione prevede un potere positivo riconosciuto al popolo: cinquantamila elettori possono presentare al Parlamento un progetto di legge redatto in articoli.

Ma mentre la vittoria dei sì ad un referendum abrogativo comporta l'automatica eliminazione dall'ordinamento giuridico delle norme che ne formano l'oggetto, non è affatto detto che il Parlamento approvi un'iniziativa legislativa popolare o l'approvi nei termini in cui è stata proposta.

Completano, infine, il quadro degli strumenti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione: il diritto di iniziativa e referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione (art. 123 Cost.); il diritto di ogni cittadino di rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità (art. 50 Cost.); la possibilità riconosciuta di ricorrere a referendum costituzionale quando ne facciano richiesta un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali per eventuali modifiche della Costituzione, che, pur essendo state approvate nella seconda votazione a maggioranza assoluta, non abbiano però ottenuto la maggioranza dei due terzi dei componenti le Camere (art. 138 Cost.); la possibilità di ricorrere a referendum per la fusione o la creazione di nuove Regioni, per lo spostamento di Comuni e Province da una Regione all'altra e per il mutamento delle circoscrizioni dei Comuni e delle Province (artt. 132 e 133 Cost.); il diritto di partecipare direttamente da parte dei cittadini all'amministrazione della giustizia (art. 102 Cost.) nel ruolo di giudici popolari, sorteggiati tra chi sia in possesso di determinati requisiti, nelle Corti d'Assise.

Indice del capitolo corrente

2.3. L'idea e i contenuti di ispirazione liberale

Una seconda componente ideale presente all'interno dell'Assemblea Costituente fu rappresentata dai valori dell'antica tradizione liberale italiana.

I liberali ottennero il 6,8% dei suffragi, ma nonostante questa modesta presenza numerica, i valori che essi rappresentavano si ritrovano affermati in modo consistente nella Carta costituzionale:

Alla base di tali valori c'è la convinzione che l'individuo, portatore di bisogni soggettivi, abbia un valore fondamentale.

In un ipotetico e primitivo stato di natura, come affermava il filosofo inglese John Locke, l'individuo, alla ricerca della soddisfazione dei suoi bisogni, dispone del diritto naturale di appropriarsi di tutte quelle cose che rappresentano il risultato del suo lavoro (diritto di proprietà) ed, eventualmente, anche del diritto naturale di scambiare con altri individui il frutto della sua attività (contratto).

Diritto di proprietà e contratti preesistono dunque a ogni umana istituzione quali possono essere lo Stato e le sue leggi. Però, Stato e leggi si rendono indispensabili al fine di garantire proprio quei diritti naturali e una pacifica convivenza fra gli individui, evitando che ognuno possa farsi giustizia da sé.

Emergono così chiaramente le due componenti proprie del pensiero politico liberale.

Da un lato l'idea del liberalismo politico, cioè la convinzione della necessità del ruolo minimo e limitato dello Stato che, contro ogni dispotismo, è chiamato a svolgere la funzione di arbitro tollerante e garante dei diritti naturali di tutti gli individui considerati liberi ed eguali, da cui scaturisce anche la concezione e tutta la cultura giuridica dello Stato di diritto e della separazione dei poteri, necessaria per evitare ogni tipo di sopruso da parte di chi esercita il potere.

Dall'altro lato l'idea del liberismo economico, cioè l'affermazione della libertà di ogni individuo ad essere affrancato da qualsiasi vincolo relativamente alla produzione, distribuzione e domanda dei beni economici. Il ruolo minimo e limitato dello Stato, da questa angolazione, significa, secondo i dettami della teoria economica classica e neoclassica, esaltazione della concorrenza e delle libere forze del mercato ritenute, da sole, in grado di determinare automaticamente il migliore assetto nei rapporti economici, secondo la nota formula del laissez-faire per la quale il perseguimento del proprio interesse individuale non può che determinare l'interesse e il maggior benessere di tutta la collettività.

Entrambe le idee, del liberalismo politico e del liberismo economico, sono in modo consistente presenti nella Costituzione italiana. In diretta antitesi al regime instaurato dal fascismo, i Costituenti sentirono la necessità di costruire qualcosa di diametralmente opposto, recuperando appieno dallo Statuto Albertino, e ampliandoli decisamente, tutti quei diritti civili soffocati dalla dittatura che aveva imposto agli individui discriminazioni ingiuste e arbitrarie.

In primo luogo, l'art. 2 della Costituzione enuncia solennemente che "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità..." e il successivo art. 3, "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali...".

I diritti naturali di "Tutti i cittadini... senza distinzione...", che la Costituzione preferisce definire come diritti inviolabili, vengono da essa "...riconosciuti...", cioè considerati come preesistenti all'ordinamento giuridico, comunque spettanti ad ogni uomo libero quale patrimonio naturale della sua personalità, conferendo ad essi un altissimo e profondo valore che nessun regime o modifica costituzionale potrà mai annullare.

La Costituzione inoltre "...garantisce..." questi diritti naturali, disciplinandoli in modo articolato, soprattutto a partire dal tit. I della prima parte, dedicato ai rapporti civili: la libertà personale, all'art. 13; l'inviolabilità del domicilio, all'art. 14; la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, all'art. 15; la libertà di circolazione e soggiorno, all'art. 16; la libertà di riunione, all'art. 17; la libertà di associazione, all'art. 18; la libertà di religione, agli artt. 19 e 20; la libertà di manifestare il proprio pensiero, all'art. 21.

A tutti questi si aggiungono ancora altri articoli e ognuno di essi sottolinea il carattere garantista tipico della concezione liberale che impone allo Stato un "non fare", una presenza "in negativo", minima e limitata nella società in cui debbono poter dispiegarsi liberamente le azioni e gli interessi individuali senza alcuna interferenza.

A garanzia di questi limiti del potere dello Stato, si ritrovano nella Costituzione italiana i due principi fondamentali tipici dello Stato liberale: da una parte l'affermazione dello Stato di diritto, dall'altra il principio della divisione dei poteri.

Lo Stato di diritto impone che le azioni dei pubblici poteri vengano sottoposte a norme giuridiche che consentano di tracciare preventivamente i confini della loro legittimità per evitare abusi arbitrari e incontrollati.

L'esistenza stessa della Costituzione ne è già un'affermazione, sia nella disciplina dei diritti degli individui nei confronti dello Stato, sia nella disciplina dell'organizzazione dei pubblici poteri contenuta nella seconda parte relativa all'Ordinamento della Repubblica; di essa si sottolinea l'importanza e il valore dell'enunciazione dell'art. 97 in cui il principio di legalità viene ribadito con riferimento specifico alla pubblica amministrazione: "I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione".

Il principio della divisione dei poteri parte dal presupposto che se tutti i poteri dello Stato fossero concentrati nelle mani di una sola autorità, si determinerebbe quella che il pensatore politico francese Montesquieu, suo primo teorizzatore, definiva tirannide e che in questo secolo si definisce dittatura.

Il potere legislativo di fare le leggi, il potere esecutivo di attuarle attraverso gli apparati amministrativi, il potere giudiziario di applicarle agli stessi apparati amministrativi, a tutte le autorità e agli individui se non le rispettano, risolvendo le controversie, devono essere, ciascuno nel proprio ambito, autonomi e indipendenti.

Se, come ai tempi dello Stato assoluto, chi pone in essere le norme si identifica con chi è chiamato ad eseguirle e controlla chi deve giudicare le controversie relative alla loro violazione, la conduzione del potere non potrà che essere arbitraria e incontrollata.

Non è una situazione molto dissimile da quella propria di ogni dittatura e, in particolare, del regime fascista: il governo di Mussolini, a capo dell'esecutivo, controllava sostanzialmente già dal 1925 l'Assemblea legislativa che nel 1939 venne anche formalmente soppressa e sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni e, siccome i giudici ordinari non davano sufficienti garanzie di fedeltà al regime, nel 1926 istituì anche il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, composto da giudici compiacenti e legati al fascismo, con il compito di giudicare i reati politici.

Parlamento, Governo e Magistratura, ma anche Presidente della Repubblica e Corte Costituzionale, vengono disciplinati nella seconda parte della Costituzione repubblicana che prevede per ciascuno ambiti di autonoma competenza ben precisi, con particolare attenzione all'autonomia e all'indipendenza dei giudici.

In una forma di governo parlamentare come quella delineata dalla Costituzione, in cui il Governo deve godere della fiducia del Parlamento, il problema dell'indipendenza dei poteri si pone soprattutto con riferimento alla Magistratura nei confronti del potere politico, rappresentato, appunto, dall'asse Parlamento-Governo.

Per evitare, come era accaduto nel periodo fascista, una strumentalizzazione del potere giudiziario da parte del potere politico, nel tit. IV della seconda parte della Costituzione dedicata alla Magistratura, vengono individuate una serie di garanzie a favore dell'indipendenza e autonomia dei giudici.

L'art. 104 recita solennemente che "La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere" e successivamente indica la maggiore garanzia di indipendenza e autonomia dei giudici prevedendo un organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della Magistratura, formato in maggioranza da giudici eletti dagli stessi magistrati. Ai sensi del successivo art. 105 ad esso competono le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari relativi ai magistrati medesimi, al fine di evitare indebiti condizionamenti da parte del potere politico.

Un'altra garanzia riguarda la figura del pubblico ministero, cioè di quel magistrato che promuove l'azione giudiziaria e la pubblica accusa; al fine di evitare qualsivoglia forma di condizionamento e addomesticamento da parte del potere politico, l'art. 107 della Costituzione all'ultimo comma stabilisce che "Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario" e il successivo art. 112 che "Il pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale".

La Costituzione tutela però anche l'uso persecutorio che del suo potere la Magistratura può fare nei confronti del potere politico.

Per quanto riguarda i parlamentari, attraverso la cosiddetta immunità parlamentare prevista dall'art. 68, anche nella nuova recente formulazione, in base al quale "I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni"; inoltre lo stesso articolo prevede specifiche autorizzazioni che i giudici devono richiedere allo stesso Parlamento in alcuni casi di restrizione delle libertà personali, qualora i parlamentari stessi commettano reati.

Per quanto riguarda invece i Ministri, attraverso la disposizione contenuta nell'art. 96, anche questa oggi in una formulazione diversa da quella originaria, che prevede da parte dei giudici la richiesta di autorizzazione a procedere al Senato e alla Camera per i reati commessi, dai Ministri stessi, nell'esercizio delle loro funzioni.

Oltre al riconoscimento normativo delle idee del liberalismo politico, la Costituzione italiana riconosce ampiamente i principi e le indicazioni del liberismo economico che, forse meno di altri, vennero toccati dalla tragica esperienza del fascismo.

Alla solenne dichiarazione dell'art. 41 della Costituzione "L'iniziativa economica privata è libera...", segue l'enunciazione dell'art. 42: "La proprietà è pubblica o privata. I beni appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto e di godimento...".

Viene così garantita la libertà economica, intesa come libertà di ogni individuo di essere proprietario dei beni, e in particolare dei beni economici, di acquistarli, di venderli, di goderne e di disporne, di commercializzarli, senza alcun vincolo; ma anche intesa come libertà di intraprendere iniziative imprenditoriali, cioè di investire, di produrre, di assumere e vendere forza lavoro; in poche parole, vengono garantite tutte quelle condizioni essenziali e necessarie all'esistenza e allo sviluppo di un capitalismo moderno.

L'economia di mercato richiede, secondo questa visione, una presenza minima e limitata dello Stato, nella convinzione e fiducia che gli individui siano i giudici migliori nel decidere l'allocazione delle risorse. Mossi da intenti edonistici e sospinti dalle libere forze della concorrenza e della domanda e dell'offerta di mercato, il loro libero agire riuscirà sempre a garantire il benessere della collettività.

Si vedrà presto però che accanto a questi principi la Costituzione ne enuncia altri che, all'opposto, profilano invece la necessità di un marcato intervento pubblico nell'economia.

In questa, come in altre parti della Costituzione, si delinea perciò un quadro obiettivamente ambiguo: da una parte si riconosce la libertà (di proprietà, di contratto, di impresa), dall'altra si prevedono penetranti limiti e obblighi.

Fu questo uno dei problemi più dibattuti all'interno dell'Assemblea Costituente, e mai definitivamente risolto. La soluzione concreta sull'effettivo ruolo che è venuto ad assumere lo Stato italiano rispetto alla società civile e all'economia è, per questa ragione, dipesa dalle forze politiche che hanno governato il Paese, di fatto facendo oscillare la presenza pubblica nella fascia centrale di due estremi: del liberismo e del non intervento assoluto da un lato e dell'interventismo e dello statalismo dall'altro.

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2.4. L'idea e i contenuti di ispirazione socialista

Il Partito Socialista e il Partito Comunista rappresentavano da soli circa il 40% dei seggi dell'Assemblea Costituente e il loro contributo fu determinante nella stesura di parti importantissime del testo costituzionale.

Nella sinistra italiana prevaleva già da allora, in contrapposizione alla tradizione marxista più ortodossa della dittatura del proletariato e della completa pianificazione dell'economia, la tesi della "democrazia progressiva", che comportava la piena accettazione degli ideali democratici e liberali.

Secondo la prospettiva di questi Costituenti, superata la drammatica esperienza del fascismo che forse più degli altri avevano subito, l'attuazione effettiva degli ideali democratici e liberali avrebbe potuto permettere la creazione delle migliori condizioni per la realizzazione dei principi di ispirazione socialista e l'emancipazione della classe operaia.

Questa impostazione trovò espressione in una concezione della libertà e dell'uguaglianza che era, però, ben diversa da quella liberale classica.

Il liberalismo impone una libertà e un'uguaglianza di tutti gli individui intese in senso strettamente formale: libertà come assenza di impedimenti da parte dello Stato che deve giocare un ruolo minimo e limitato nella società; uguaglianza come parità di trattamento davanti alla legge e assenza di discriminazioni o privilegi fra i cittadini. Principi solennemente accolti già a partire dall'art. 2 e dall'art. 3, primo comma, della Costituzione.

I sostenitori delle dottrine socialiste da sempre criticano questa concezione sostenendo che l'assenza di impedimenti o discriminazioni da parte dello Stato non garantisce da sola che tutti i cittadini siano veramente liberi ed eguali.

Molto spesso per esercitare effettivamente la libertà occorrono idonei mezzi economici che non tutti possiedono.

Per esempio, se lo Stato, garantendo la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), non vieta a nessuno di pubblicare libri o giornali, è possibile affermare che a tutti i cittadini viene formalmente riconosciuta la libertà di stampa; ma se non si posseggono i mezzi economici necessari per pubblicare libri o giornali, ecco che questa libertà viene di fatto vanificata.

Si pensi poi alle libertà di carattere economico, in cui tale contraddizione è ancora più evidente: a tutti viene riconosciuta la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) o il diritto di proprietà sui beni (art. 42 Cost.), ma solo a chi possiede i mezzi economici necessari è possibile esercitarle.

Allo stesso modo rimane una sterile affermazione astratta l'enunciazione dell'uguaglianza fra i sessi, le razze, le lingue, le religioni, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali (art. 3 Cost. primo comma), perché nella società tutti gli individui sono di fatto diversi e non c'è nulla di più ingiusto che trattare tutti allo stesso modo.

Si pensi, per esempio, ai lavoratori disoccupati; che giustizia sarebbe trattarli allo stesso modo degli altri lavoratori occupati? Se lo Stato non prevede interventi specifici di aiuto e di sostegno delle loro condizioni personali e delle loro famiglie e misure affinché al più presto vengano create le condizioni per garantire la piena occupazione, un eguale trattamento formale perpetuerebbe un'effettiva disuguaglianza sociale.

Se si pensa poi alle differenze che nella società, in generale, persistono tra i ricchi e i poveri, tra chi vive in condizioni agiate e chi vive nella miseria, l'affermazione della necessità di un eguale trattamento diviene l'affermazione di una disuguaglianza.

Il filosofo e uomo politico tedesco Karl Marx affermava che il vero regno della libertà e dell'uguaglianza si sarebbe realizzato qualora ogni individuo avesse potuto dare secondo le sue capacità e avesse potuto ricevere secondo i suoi bisogni.

In base a questa concezione, le prime vittime della libertà e dell'uguaglianza intese in senso formale sono proprio i lavoratori. La classe borghese utilizza i principi liberali al solo scopo di perpetuare la sua superiorità economica e sociale, basata su un rapporto di sfruttamento della classe lavoratrice, l'unico vero motore della produzione del valore. Con il suo lavoro si producono i beni e la ricchezza che tutta la società consuma e il profitto di cui si appropria il capitalista in virtù del fatto di essere proprietario dei mezzi di produzione.

È da queste considerazioni che nasce l'esigenza di una concezione nuova della libertà e dell'uguaglianza, intese non, o non solo, in senso formale, ma anche sostanziale.

Lo Stato non deve limitarsi a non intervenire o a trattare tutti allo stesso modo, ma al contrario deve assumere un ruolo attivo e positivo rendendo effettive, accessibili e praticabili per tutti le libertà, tutelando e proteggendo i cittadini più deboli e meno garantiti, che in un'economia di mercato sono principalmente i lavoratori.

Lo Stato, ancora, non viene più concepito come semplice arbitro e garante della pacifica convivenza, regolatore esterno delle attività economiche altrui, ma promotore esso stesso del benessere sociale e protagonista dello sviluppo economico, nella convinzione dell'incapacità del sistema di mercato di autoregolarsi perfettamente nell'interesse di tutti.

In questo modo viene attribuita ai pubblici poteri una funzione di intervento nella società civile e nell'economia del tutto estranea alla concezione liberale dello Statuto Albertino, con la creazione di una nuova categoria di diritti che si aggiungono ai diritti politici propri dell'ispirazione democratica e ai diritti civili propri dell'ispirazione liberale, che definiscono i contenuti della "democrazia progressiva": i diritti sociali.

Il riflesso di questa visione appare in primo luogo nel primo articolo della Costituzione: "L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro...". Con le parole "fondata sul lavoro" si vuole proprio sottolineare che uno dei compiti più importanti dello Stato dovrà essere quello di tutelare e valorizzare i lavoratori, in quanto classe economicamente più debole, attribuendo ad essi il posto che compete nella società, considerato l'importante contributo che da essi stessi deriva al suo sviluppo.

Ad esso fa seguito il successivo art. 3 che, dopo avere ribadito al prima comma il principio della già citata uguaglianza formale, al secondo comma dischiude chiaramente, più di ogni altro articolo, la prospettiva della "democrazia progressiva", della libertà e dell'uguaglianza sostanziali, dei diritti sociali: "È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese".

La libertà e l'uguaglianza dei cittadini rimarrebbero vacue affermazioni di principio se lo Stato non assumesse in prima persona il compito di riequilibrare la sproporzionata distribuzione dei mezzi economici, di rimuovere le grandi disparità sociali e culturali e le ingiustizie, come condizione imprescindibile per realizzare un'effettiva democrazia e partecipazione, in primo luogo dei lavoratori, all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Ad essi, ed in particolare ai disoccupati, è dedicato anche il successivo art. 4 che rappresenta già un primo impegno preciso lungo la via segnata dal precedente art. 3: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto...". In tal modo si impone allo Stato di intervenire nell'economia affinché tutti coloro che lo desiderino siano posti nelle condizioni di lavorare.

Altre e numerose sono le applicazioni del programma politico contenuto nell'art. 3, secondo comma, della Costituzione.

Nel tit. II della prima parte, dedicato ai rapporti etico-sociali, per esempio all'art. 32, viene riconosciuta la tutela della salute come compito dello Stato, fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e contemporaneamente si prevede anche la garanzia di cure gratuite agli indigenti.

Gli articoli 33 e 34 si riferiscono invece principalmente all'istruzione scolastica pubblica che deve essere garantita per tutti gli ordini e gradi, stabilendo che quella inferiore, impartita per almeno otto anni, sia obbligatoria e gratuita e che i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, abbiano diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi, rendendo effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze. Ad enti e privati viene riconosciuto il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, ma i Costituenti hanno voluto chiaramente specificare "...senza oneri per lo Stato".

Ancora più numerose sono le disposizioni di questo genere contenute nel tit. III della prima parte della Costituzione, dedicato ai rapporti economici. Tra le altre, l'art. 35, che impegna la Repubblica a tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni; l'art. 36, che stabilisce il diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa, nonché il diritto al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite; l'art. 37, che impone che alla donna lavoratrice siano estesi gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni del lavoratore, consentendole al contempo l'adempimento della sua essenziale funzione famigliare; l'art. 38, che elenca le previdenze delle quali possono giovarsi i lavoratori in caso di inabilità, infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia e disoccupazione involontaria, attraverso organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.

I successivi articoli 39 e 40 riguardano, rispettivamente, la libertà di organizzazione sindacale e il diritto di sciopero. I Costituenti della sinistra vollero, con queste disposizioni, tutelare maggiormente i lavoratori. Essi infatti erano reduci dall'esperienza della dittatura fascista che aveva trattato lo sciopero come un delitto e creato il sistema corporativo basato su una falsa rappresentazione delle forze economiche e sindacali che si volevano forzatamente ricondurre ad armonia nei "supremi interessi della produzione nazionale". I lavoratori rappresentano i contraenti deboli del rapporto di lavoro e meritano una tutela maggiore rispetto ai datori di lavoro, per i quali, per esempio, non viene previsto l'analogo diritto di serrata.

Nei rimanenti articoli del tit. III della prima parte della Costituzione, accanto all'affermazione dei principi propri del liberismo economico (la libertà di iniziativa economica, di proprietà e di contratto) vengono chiaramente indicate le direttive di intervento dello Stato nella sfera economica al fine di rendere effettive le libertà e l'uguaglianza dei cittadini, ponendoli al riparo dal primo di tutti i bisogni: il bisogno economico.

L'art. 41 proclama che l'iniziativa economica, pur essendo libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

L'art. 42, pur riconoscendo e garantendo la proprietà privata, dichiara che la legge ne determina i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e renderla accessibile a tutti.

L'art. 43 prevede la possibilità di esproprio a favore dello Stato, di enti pubblici, o comunità di lavoratori o di utenti, di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, fonti di energia o situazioni di monopolio.

L'art. 44 si riferisce agli obblighi e ai vincoli che la legge può imporre, al fine di stabilire equi rapporti sociali, alla proprietà terriera.

L'art. 45 valorizza la cooperazione e l'artigianato e impone alla Repubblica di promuoverne la tutela e lo sviluppo.

L'art. 46 prevede il diritto dei lavoratori a forme di cogestione delle aziende.

L'art. 47 impone alla Repubblica di incoraggiare e tutelare il risparmio e disciplinare, coordinare e controllare l'esercizio del credito.

Quello che viene profilato non è certo uno Stato di tipo socialista o pianificatore, ma si riconosce, in generale, la subordinazione degli interessi economici individuali agli interessi collettivi, nella convinzione che da sole le libere forze del mercato non siano in grado di soddisfarli appieno.

Regolare il mercato, sostenere l'occupazione, controllare il ciclo economico, divengono, anche secondo l'insegnamento dell'economista inglese John Maynard Keynes, compiti fondamentali dello Stato. Attraverso la politica monetaria e del credito, la politica fiscale e la politica della spesa pubblica, esso indirizza il comportamento delle imprese private, ma anche interviene in prima persona attraverso la gestione diretta di banche e industrie.

Pur mantenendo la sua natura capitalistica, il sistema viene così definito a "economia mista", intendendo con tale espressione un modo di produzione in cui l'attività economica privata conviva accanto a quella pubblica.

Stato interventista, Stato assistenziale, Stato sociale e Welfare State (Stato del benessere), sono espressioni equivalenti che definiscono questa diversa posizione dello Stato nei confronti della società civile e dell'economia rispetto alla concezione liberale, con la quale, come già ricordato, non è facile conciliarla. È stata la politica concreta dei decenni successivi a decretare la soluzione effettiva del ruolo dello Stato nell'Italia democratica.

Indice del capitolo corrente

2.5. L'idea e i contenuti ispirati dal cattolicesimo sociale

La Democrazia Cristiana, con il 35,2% dei voti, espresse il gruppo politico più numeroso presente all'interno dell'Assemblea Costituente. Esso, pur non rappresentando tutto il mondo cristiano italiano, si ispirava ai principi propri della dottrina sociale della Chiesa cattolica che profondamente connaturano varie parti della Costituzione.

Tale concezione, che trova il suo fondamento soprattutto in alcune Encicliche papali, ricerca una sorta di conciliazione e mediazione tra gli ideali liberali e gli ideali socialisti.

Del liberalismo accetta l'idea del valore della persona e dei suoi diritti civili fondamentali, in particolare della proprietà privata e degli altri diritti di carattere economico, come diritti naturali indispensabili allo sviluppo della personalità umana.

Aspira quindi alla più ampia diffusione di questi ultimi tra un numero sempre più elevato di individui, per esempio, attraverso la frantumazione dei grandi latifondi o attraverso forme di azionariato popolare.

Ma l'uso di questi diritti economici, per questa concezione, non può essere lasciato solamente all'arbitrio del mercato, alla lotta di tutti contro tutti, in nome dell'individualismo egoistico e del guadagno; ben presto i più forti prevarrebbero sui più deboli.

Il precetto evangelico della carità e della sensibilità verso chi soffre impone invece forme di intervento e di aiuto verso i più indifesi, affinché il sistema economico possa svilupparsi per il bene comune.

Il rifiuto dell'individualismo liberale e della cieca fiducia nelle leggi del mercato e nella sua capacità di autoregolarsi, porta a posizioni non molto dissimili da quelle proprie della visione socialista non ortodossa, con la quale il cattolicesimo sociale condivide, appunto, la necessità di proteggere e assistere le classi più deboli contro i soprusi dei potenti, rigettando tuttavia l'idea di uno Stato eccessivamente interventista e dirigista, benché fautore e promotore dei diritti sociali di tutela del cittadino.

La promozione e la valorizzazione nella società di comunità intermedie poste tra l'individuo e lo Stato, come la famiglia, la Chiesa stessa e le sue organizzazioni, le associazioni politiche, sindacali, assistenziali, di volontariato, la scuola e le altre istituzioni pubbliche locali, rappresentano, secondo questa visione, il tentativo di superare da un lato l'individualismo liberale e dall'altro lo statalismo socialista. Quelle comunità intermedie diventano le sedi privilegiate in cui si realizza la socializzazione dell'individuo e il valore supremo della solidarietà sociale.

Il primo richiamo della Costituzione italiana ai valori peculiari del cattolicesimo sociale, a parte quelli condivisi dalle concezioni democratica, liberale e socialista, di cui già si è trattato, e che è quasi totalmente assente nella visione liberale dello Statuto Albertino, è contenuto nell'art. 2. In questo articolo, dopo avere ribadito che la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, si sottolinea che tali diritti si riferiscono tanto al singolo, quanto alle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità: i diritti inviolabili del cittadino non riguardano solamente i rapporti tra individuo e Stato, ma anche quelle forme di aggregazione sociale che si collocano tra il singolo e il potere politico centrale e che in tal modo si intendono promuovere.

Nella seconda parte dello stesso art. 2 si afferma e anticipa un principio innovativo e di fondamentale importanza della Costituzione: "La Repubblica... richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale". Il principio di solidarietà viene concepito non come scelta libera e volontaria, ma come vero e proprio dovere giuridico.

Si ritrova un corollario del principio della solidarietà sociale anche al secondo comma dell'art. 4, che recita: "Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale della società". Ognuno deve collaborare allo sviluppo e al benessere della società in cui vive per poterne godere anche i vantaggi.

Sia il tema delle formazioni sociali, sia quello della solidarietà, vengono sviluppati in parecchie disposizioni costituzionali successive.

In primo luogo, l'art. 5 della Costituzione, che si riferisce alla struttura organizzativa dello Stato: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento".

Pur ribadendo il carattere unitario dello Stato italiano, viene valorizzata l'idea di corpi intermedi tra la comunità locale e lo Stato centrale, sia nelle forme del decentramento dei servizi statali che nelle forme dell'autonomismo locale. Ad esso è dedicato l'intero tit. V della seconda parte della Costituzione, intitolato "Le Regioni, le Province, i Comuni", che definisce lo Stato italiano come uno Stato di tipo regionale.

Il Regno d'Italia, fin dalla nascita, si caratterizzò per un forte accentramento del potere; pur presentandosi nel territorio italiano anche una notevole varietà di condizioni sociali ed economiche, la classe liberale moderata dell'epoca preferì imporre la cosiddetta "piemontesizzazione" a tutta l'Italia, nel timore che il riconoscimento di forme di autonomo governo locale potesse sia favorire forze ad essa ostili, sia disgregare quell'unità così faticosamente raggiunta.

D'altra parte il centralismo venne ulteriormente rafforzato durante il regime fascista che eliminò qualsiasi pur modesta forma di partecipazione locale, imponendo, per esempio, la scelta del podestà, oggi sostituito dal Sindaco, direttamente ad opera del Governo.

Con la sconfitta del fascismo e la conquista della democrazia, il salto di qualità fu notevole. Attraverso le Regioni, le Province e i Comuni, viene riconosciuto il diritto delle comunità locali di eleggere propri rappresentanti in questi enti territoriali competenti ad amministrare gli interessi locali in modo diversificato e più vicino alle reali esigenze dei cittadini, meglio di quanto possa fare un'autorità centralizzata.

Non per questo, comunque, in particolare le Regioni, alle quali viene anche riconosciuta un'autonoma potestà legislativa per talune materie, possono considerarsi dei piccoli Stati sovrani come negli ordinamenti federali: la Repubblica italiana rimane "...una e indivisibile...", prima fonte della sovranità.

Il successivo art. 7 della Costituzione si occupa della formazione sociale più rilevante per il mondo cattolico: la Chiesa cattolica e i suoi rapporti con lo Stato. Si tratta di una questione antica e delicata a cui l'Assemblea Costituente dedicò un lungo e approfondito dibattito riconoscendo, infine, che lo Stato e la Chiesa cattolica fossero, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani e che i loro rapporti venissero regolati dai Patti Lateranensi.

I Patti Lateranensi furono sottoscritti originariamente da Mussolini, salutato dal mondo cattolico come l'uomo della provvidenza, e dal card. Pacelli l'11 febbraio 1929, e posero fine a un lungo dissidio fra Stato e Chiesa cattolica in Italia sulla scelta confessionale o laica del modello che doveva regolare i loro rapporti.

Tuttavia, già lo Statuto Albertino prevedeva un modello di Stato di tipo sostanzialmente confessionale; al primo articolo la religione cattolica veniva considerata la sola religione dello Stato, che esso si impegnava a proteggere e tutelare in particolare, mentre gli altri culti erano semplicemente tollerati.

Lo Stato laico, all'opposto, avrebbe dovuto realizzare una completa separazione tra lo Stato stesso e tutte le chiese e religioni, senza trattare nessuna di esse in modo privilegiato.

Come è noto, invece, i Patti Lateranensi, pur rivisti e rimodernati nel 1984, prevedono ancora oggi residui di confessionalismo non irrilevanti, tra i quali: l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche da parte di insegnanti scelti dalla Curia, ma pagati dallo Stato; il riconoscimento ai fini civili da parte dello Stato del matrimonio celebrato con rito cattolico; una serie di trattamenti fiscali privilegiati e forme specifiche di finanziamento statale.

Tuttavia, nella logica dello Stato laico, è pur vero che l'art. 8 della Costituzione repubblicana ribadisce che "Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge", ma quasi nessun vantaggio particolare è previsto nei loro confronti.

Un'altra formazione sociale estremamente importante per la concezione del cattolicesimo sociale è rappresentata dalla famiglia a cui la Costituzione dedica ben tre articoli del tit. II della prima parte intitolato ai rapporti etico-sociali.

L'art. 29 riconosce la famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, precisando, conformemente al principio di uguaglianza tra i sessi enunciato all'art. 3, che esso sia ordinato all'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

L'art. 30, tra l'altro, impone ai genitori il dovere-diritto di mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati al di fuori del matrimonio.

L'art. 31, al primo comma, allo scopo di agevolare e favorire la formazione della famiglia e l'adempimento dei suoi compiti, con particolare riguardo alle famiglie numerose, attribuisce alla Repubblica il compito di intervenire con misure economiche ed altre provvidenze; al secondo comma afferma, infine, che la Repubblica dovrà proteggere la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo.

Oltre agli organi decentrati dello Stato, agli enti pubblici territoriali, alla Chiesa cattolica e alla famiglia, la Costituzione prevede altre formazioni sociali in cui, secondo la visione cattolica, si possa realizzare la socializzazione dell'individuo e il valore della solidarietà, come le associazioni private, i partiti, i sindacati, la scuola (pubblica e privata), gli enti di assistenza e previdenza, a cui si è già accennato.

La solidarietà è anche un valore tutelato in sé nella Costituzione e solennemente enunciato negli artt. 2 e 4 secondo comma. Essa trova specifica applicazione in vari campi e in primo luogo in quello economico.

Come già ricordato per la loro rilevanza nel quadro dell'idea e dei contenuti di ispirazione socialista, da una parte l'art. 41 della Costituzione proclama che l'iniziativa economica, pure essendo libera, non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana e che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali; dall'altra parte, l'art. 42, pur riconoscendo e garantendo la proprietà privata, dichiara che la legge ne determina i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e, soprattutto, nell'ambito di questa visione di pensiero, allo scopo di renderla accessibile a tutti.

A tale ultima disposizione si ricollega anche quella successiva dell'art. 44 che, al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, con particolare riferimento alla proprietà terriera, affida alla legge il compito di imporre limiti alla sua estensione, promuovere ed imporre la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive, disporre provvedimenti a favore delle zone montane.

Anche l'art. 47, secondo comma, pare direttamente ispirato da questa concezione, enunciando che la Repubblica favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.

Ne emerge, complessivamente, la concezione di uno Stato solidale che interviene nell'economia affinché il mercato sia finalizzato al benessere comune, pur senza negare il riconoscimento del diritto di proprietà e degli altri diritti economici che, in certa misura, vengono valorizzati.

Infine, particolare importanza ed evidenza è riconosciuta, in un'ottica solidaristica, al dovere tributario.

L'art. 53, contenuto nel tit. IV della prima parte della Costituzione dedicato ai rapporti politici, fissa le basi della collaborazione sociale, del patto tra i cittadini e lo Stato che, attraverso la spesa pubblica finanziata da tutti, potrà garantire la sua presenza nella società civile e nell'economia, fornendo quegli interventi e quei servizi indispensabili in primo luogo per garantire un'esistenza dignitosa a tutti i cittadini.

Tale articolo recita: "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività".

Ogni cittadino non partecipa alla spesa pubblica in relazione al beneficio che ne trae, ammesso che fosse possibile quantificarlo esattamente, ma in relazione alla sua capacità di pagare, sulla base di criteri di progressività.

Si realizza così una gigantesca forma di solidarietà sociale e di aiuto reciproco, mediato dallo Stato: per il migliore benessere di tutti, chi possiede poco darà poco, chi possiede molto darà molto, in misura più che proporzionale e in modo che il sacrificio degli uni e degli altri sia uguale.

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