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ACI E GALATEA
Dovete sapere che Tano Polifemo, dopo quella disgrazia dell'occhio,
non aveva voluto più saperne di scendere verso la marina. E quando vi
scese fu per la sua seconda disgrazia.
I suoi conoscenti gli avevano messo, da un po' di tempo, una pulce in
testa: che bisognava si sposasse. Ma con chi? Così Tano finiva col
lasciare sempre il problema insoluto finché una volta, recatosi ad
Ognina, sentì avvenire qualcosa di nuovo dentro di lui.
Ad Ognina, gli avevano riferito, s'erano messi a fare all'«opera dei
pupi», invece della storia di Orlando e Rinaldo, certe storie di greci:
Ercole, Teseo, Achille. Era venuto dalla Grecia un abilissimo
burattinaio, un certo Euripide, e faceva anche la storia di Ulisse, quel
gran malandrino: che Ulisse era un eroe, un grand'uomo e che - oh! era
il colmo - aveva trovato un gigante monocolo e l'aveva fatto fesso e
accecato con un po' di vino.
Bisognava dunque andarci ad Ognina e dire a quella gentaglia riunita
al teatrino: «Fazzolettata di lumaconi cornuti...». Ah, lui lo sapeva
cosa ci avrebbe dovuto dire.
Ma nella piazza di Ognina, ingombra di reti distese ad asciugare e di
pescatori che le raccolgono, buttandosele con un gesto ritmico sulle
spalle, nemmeno l'ombra di un teatrino. Viaggio perso, pensa Polifemo,
ma tanto meglio! E indugia, da quel sentimentalone qual'è, a guardare
il tramonto, che ha fatto di quel seno di mare uno specchio di
vividissima luce. E non si accorge che s'è già fatta sera.
Le barche si dondolano pigramente sul risucchio delle ultime onde ed
il mare sembra addormentarsi in una dolce quiete di stelle. I pescatori
son venuti a sedersi sugli scogli, fumando la pipa, ed alcune ragazze
ritirano frettolosamente i panni rimasti fino allora sciorinati al sole.
Una di esse colpisce maggiormente l'attenzione di Polifemo. Egli
intravede nella penombra un corpicino flessuoso, grazioso. Si avvicina,
la fanciulla ha due occhioni neri di quelli che sconvolgono, è
straordinariamente bella.
Una scusa qualsiasi e la conversazione è allacciata. Essa dice di
chiamarsi Galatea e di essere orfana. Vive con una zia che la maltratta
e la fa lavorare come un'asina, non vede l'ora di potere andar via da
quell'inferno. Sulle labbra di Polifemo affiora già una proposta di
matrimonio; ma si limita a invitarla alla sua «masseria», dove
troverà lavoro e qualche pezzo di pane, con la grazia di Dio.
La fanciulla promette: verrà, ma non sa dire quando. E' così che
Polifemo vive i giorni più tormentosi della sua vita: l'ansia
moltiplica l'amore ed il suo amore moltiplica l'ansia. Guarda verso il
mare dalla sua collina. Che non abbia capito il posto Galatea? Eppure
glielo aveva spiegato così bene. E guarda ancora e sospira.
E un bel giorno Galatea arrivò. Aveva in braccio il suo fagotto e in
bocca un sorriso che sembrava lo scintillio del mare sotto il sole.
- Entrate, entrate - ripeteva Polifemo. La gioia non gli consentiva
di trovare altre parole.
Cominciarono i regali, le dolci parole, le preghiere. Inutile, quella
scellerata non ne voleva sentire.
Una sera sotto la luna, mentre lei stava seduta accanto al collo
della cisterna e i cani ululavano lontano, le si era accostato, l'aveva
baciata alla nuca. Lei era fuggita ridendo e quando Tano, raggiuntala,
l'aveva stretta fra le braccia, lei si era divincolata veloce e si era
chiusa nella sua stanza. Ma perché? egli aveva intenzioni serie,
l'avrebbe sposata, santo diavolone.
Passarono così tanti mesi e Tano cominciò a sospettare che qualcosa
dovesse esserci sotto. Stimolato da questo dubbio atroce, prese a
sorvegliare Galatea a spiarla in ogni ora del giorno e scoperse infine
che qualcosa c'era.
Galatea ogni mattina si recava a un lontano cancello che dava su una
stradicciola tutta sassi inerpicantesi per la collina. Un pecoraio
passava infatti puntualmente a quell'ora e vi sostava a scambiare due
parole con la bella figliola. Si chiamava Aci, biondo, dai lineamenti
maschi e nello stesso tempo delicati, alto, snello, era veramente il
giovane più bello di quelle contrade.
E l'amore era nato, limpido come i mattini di Sicilia, ardente come
certi suoi arroventati meriggi.
Ma una volta Polifemo era venuto al cancello:
- Galantuomo, fatemi il santo piacerone di scordarvi questa strada,
altrimenti dovrò insegnarvi a vivere.
Ed Aci aveva fatto cambiar percorso alle sue pecore.
Ma un giorno Galatea, che impazziva per lui, era scesa, all'insaputa
di Polifemo, alla casetta di Aci, verso quel pianoro perennemente
ridente di verde, dove un giorno una dolce città sarebbe sorta per
eternare il nome del bel pastore biondo.
Galatea non fece più ritorno.
- Dov'è, dov'è? - aveva gridato Polifemo alla massara, scuotendola
come un fuscello di paglia - Vi spacco l'anima, se non me lo dite.
Dapprima attese; poi decise di andarla a cercare. Andò in giro due
giorni e due notti: nulla. Quel puzzolente d'un pecoraio l'aveva rapita,
dunque. E lei sgualdrina... Ma gli avrebbe mangiato il fegato. Crudo,
crudo lo avrebbe mangiato. Così, almeno, sarebbe stato chiamato
antropofago a buon diritto.
Sfuriando così l'intero giorno e continuando a piangere la notte,
due settimane passarono. Il Ciclope riprese allora la sua
peregrinazione: tutta la Sicilia avrebbe esplorato, ma i due infami
dovevano cadere nelle sue mani.
E la malasorte sua e degli infelici amanti lo portò una notte in una
casetta dispersa fra gli ulivi e gli aranceti. Era stanco Tano, qui
forse avrebbe potuto trovare un po' di riposo.
- Aprite, buona gente.
Nulla. Altro che un tramestio, come di gente impaurita.
Aci e Galatea avevano infatti riconosciuto la terribile voce. Cercano
di svignarsela da una finestra, ma egli li ravvisa, li insegue, li
afferra ed essi gli cadono dinanzi in ginocchio. Polifemo, con l'unico
occhio fuori dall'orbita, afferra un enorme masso e li schiaccia. Li
schiaccia, poveri infelici.
Il sangue esce, esce da sotto quel masso, scorre... e Ovidio lo
scambiò addirittura per un fiume.
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