clic sul titolo per tornare alla copertina
POLIFEMO E ULISSE
Padrone di quella vasta estensione di terre che, scendendo da
Valverde giù giù per la cresta delle ultime pendici etnee fino a
Trezza e risalendo poi da Capomulini attraverso la Raitana, S. Filippo e
S. Anna, si ricongiungono ancora a Valverde, era, non so esattamente
quanti anni fa, un certo Polifemo, uomo di statura e robustezza
veramente eccezionali.
Polifemo non era che il cognome, ché di nome si chiamava Tano. Aveva
in verità anche il «pecco»: Ciclope, ma lui non se ne aveva a male se
glielo dicevano sul muso, perché sapeva che, dacché mondo era mondo,
il soprannome di tutti i suoi era stato appunto quello di Ciclopi.
In fatto di soprannomi, d'altra parte, non c'era da prendersela,
prima prima perché in quella zona ce l'avevano tutti e poi perché, in
fondo, il suo non era dei peggiori. C'erano certi «pecchi»... quello
del massaro Peppino, per esempio ... pensate: «'ntuppatu», che è
quanto dire: otturato e questo perché - ridete pure ma credeteci -
chissà se il nonno o il nonno del nonno di Peppino, un giorno, a furia
di mangiar fichidindia, era stato impossibilitato a rendere alla terra
quella quotidiana razione di concime, che ogni essere vivente deve alla
madre comune. Eh, i fichidindia li fanno questi scherzi. Così l'incauto
antenato di Peppino e tutti i suoi lontani discendenti avevano, da
questo ... intoppo, tratto il marchio, non d'infamia, ma indubbiamente
comico, che li avrebbe contraddistinti fino alla consumazione dei
secoli.
Di alcuni soprannomi era inutile cercare la spiegazione. Del suo, per
esempio. Che significato aveva o aveva avuto Ciclope? Ozioso
chiederselo. Egli era Ciclope e basta.
Tano Polifemo era un uomo aitante, quello, insomma, che suol dirsi un
bell'uomo e se non fosse stato per quell'accidente di occhio che gli
avevano cavato ... ah, la faccenda dell'occhio, ve la racconto subito.
Voi tutti avete sentito dire che Polifemo aveva un occhio solo. Un
momento, non facciamo confusioni: era rimasto con un solo occhio, dopo
che gliene avevano accecato uno. Eh, mi pare che se la matematica non è
una opinione.. .
Dunque, dovete, sapere che Tano scendeva spesso nei paesi della
marina per fare il mercato: comprava pecore, ne vendeva, ma sopratutto
vendeva lana, cacio e ricotta.
Così fu che un giorno scese a Trezza, perché vi si teneva un
importante mercato. Figuratevi che c'era persino gente forestiera.
Erano arrivate delle barcacce, si trattava di mercanti greci,
dicevano che volevano comprare pecore, pelli di pecore o che so io.
S'avvicinò a Polifemo uno di loro. Doveva essere il loro capo, lo
chiamavano Ulisse. Un po' a segni, un po' con qualche parola di
siciliano che spiccicava, il greco riuscì a fargli capire che voleva
comprare non so quanta lana e quanti quintali di cacio.
- Non c'è che da mettersi d'accordo sul prezzo - disse Tano -
venite, qua dalla 'gna Mara si beve del buon vino. Abbiamo la gola un
po' secca, vedrete che ci metteremo d'accordo meglio, davanti a una «cannata»
di vino.
Ulisse fece capire che avrebbe avuto piacere che venissero
all'osteria anche i suoi compagni e gli uomini di fatica che Polifemo
aveva con sé.
Tano non era tirchio. Da bere per tutti? Ma sì, andiamo. Giunti
all'osteria, come fu, come non fu, i suoi uomini di fatica al primo
bicchiere di vino cominciarono a barcollare e anche lui cominciò a
sentirsi girare la testa. Che era stato? Quei malandrini ci avevano
certamente messo una mistura nel loro vino.
Tano intuisce il colpo: mentre i suoi uomini cadono per terra
addormentati, vede quelli di Ulisse svignarsela. Ma non tutti, perché a
quattro di essi, fra cui lo stesso capo, egli sbarra il passo. Dà
un'occhiata fuori, verso il molo: quel branco di delinquenti che erano
riusciti ad uscire stavano rubandogli tutto e caricavano la roba nelle
barche.
- Ohè - grida Polifemo e vuole correre ad acciuffarne qualcuno per
il collo. Che se l'avesse preso, l'avrebbe strozzato con due dita,
l'avrebbe. Ma le gambe non lo reggono.
Allora ha un'idea spaventosa e geniale: sa la sua forza. Gli portano
via il frutto del suo lavoro di un anno? e va bene, ma quelli che sono
rimasti all'osteria non ne usciranno vivi.
Spranga l'uscio e comincia a far mulinare i tavoli dell'osteria. Due
greci ci restano sotto. Ma nell'enorme tafferuglio egli inciampa e cade
disteso come un torrione che crolli improvvisamente. Traballante
com'era, uno sgambetto di quel ladro e ciarlatano e impostore di Ulisse
era bastato.
E gli è addosso immediatamente il traditore e con un coltellaccio
acuminato, che teneva nascosto nella tasca dei pantaloni, cerca di
ucciderlo. Ma Polifemo gli agguanta il polso, mentre cerca di
divincolarsi dalla stretta. Con un colpo di reni riesce a sbalzare
Ulisse sotto di lui, ma è nel groviglio che la punta del coltellaccio
gli si conficca in un occhio.
Balza in piedi Polifemo, urlando per l'immane dolore e Ulisse,
prudentemente, se la dà a gambe.
Appena si rià un po' dal dolore, Tano corre alla marina e, come
attraverso un velo di sangue, intravede quei diavoli greci che si
allontanano già dalla riva.
Cosa, cosa fare per vendicarsi? C'erano tre enormi massi vicino al
mare: scogli infranti dalla furia delle onde. Con enorme sforzo Polifemo
li solleva e dalla punta del molo li scaglia contro le barche. Queste
traballano, gli sembra che una stia per affondare... poi il sangue gli
ottenebra ancora la vista...
Come se non bastasse quei becchi - che se non erano cornuti loro,
domani il sole non usciva, perché avevano certe mogli pronte a farsi
portar via dal primo venuto: venissero qui in Sicilia i Troiani a
cercarsi le donne, che gli avrebbero insegnato a cercarsele a Troia...
le troie - quei becchi dunque, tornati in Grecia, s'erano messi a
favoleggiare che in Sicilia c'era gente che mangiava gli uomini crudi e
che lui, Polifemo, aveva un solo occhio sulla fronte e glielo avevano
bruciato, dopo averlo fatto fesso con un po' di vino e un mucchio di
altre balle ancora.
E c'era persino uno - sapete, come quei pezzenti, quei cantastorie
che si vedono certe volte a Catania sotto gli archi della marina oppure
alla fiera, che con una chitarra scordata raccontano un sacco e una
sporta di minchionerie - un certo Mauro, Maro, Mero... anzi, no no,
Omero, che diceva: l'occhio grande come una finestra sulla fronte, il
Ciclope che era alto come un monte, il vino che lui non ne aveva mai
visto, gli uomini sotto il ventre delle pecore, l'antro, il palo
arroventato, la sua malanova… che impostore! Ah, se Ulisse gli fosse
capitato ancora sottomano! ma intanto i tre enormi massi, conficcatisi
in mare, divenuti «faraglioni», erano rimasti lì, davanti a Trezza, a
ricordare eternamente la sua immane sventura invendicata.
|