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SEMELE'
Apparteneva a una buona famiglia Semelè, a una buona famiglia
piccolo-borghese. Da ragazzina aveva passato una disgrazia con un
mascalzone che l'aveva poi lasciata. Una delusione terribile. Ora si
avviava rassegnatamente a divenir zitella.
- Sei sciocca - le avevano detto le amiche, quando sfogava con loro
la sua antica pena d'amore - cosa vai rimuginando queste vecchie storie?
Invece di startene come una mummia piagnucolosa, perché non accetti la
corte del tale o del tal'altro?
Si decise finalmente Semelè ad accettare la corte di un tale, ma,
lei disgraziata, si trattava di Zeus. Anzianotto ormai (sulla
sessantina) ma sempre un bell'uomo, e poi nobile. Non glielo disse
quella cosaccia d'un barone che egli era già sposato.
Sì, aveva quasi trent'anni più di lei il barone, ma quel suo
sorriso così cordiale, aperto, quasi paterno... Essere la sua
mogliettina, vivere rannicchiata nelle sue braccia... E con queste
illusioni, Semelè accettò di incontrarsi ripetute volte col barone. Ne
rimase incinta.
Ma il matrimonio non venne. C'erano delle gravi difficoltà da
superare, spiegava lui. Ci doveva essere sotto un mistero, pensava lei.
Il mistero si chiamava donna Agata Giunone e un brutto giorno Semelè
lo seppe. Immaginate il pianto. Niente, niente, diceva Zeus, non doveva
preoccuparsi, egli aveva chiesto la separazione legale da quella peste
di moglie, anzi l'annullamento del matrimonio, perché neanche un figlio
aveva saputo darle quell'anima dannata. Sarebbero vissuti sempre
insieme.
Difatti Zeus piantò la moglie e se ne andò a stare con Semelè.
Giunone questa non la volle sopportare e un giorno li pescò che se
ne andavano a spasso a braccetto.
Ne nacque un putiferio. Le due donne si gridarono contro le peggiori
parole, mentre la gente faceva crocchio.
Semelè teneva Zeus stretto per il bavero della giacca, decisa a non
lasciarlo. Sentiva, in quel momento, riassumersi tutta la sua vita,
concentrarsi tutti i suoi anni monotoni e uguali in un unico istante
drammatico, cancellarsi la sua timidezza passata in un attimo di
coraggio e di sfrontata risolutezza.
Intanto Giunone continuava a tirare il marito, rabbiosamente, per un
braccio. La gente, questo mostro cinico e crudele, rideva.
Zeus cercava di far cessare lo scandalo, parlando ora all'una ora
all'altra, si mordeva le labbra, impotente.
Un'onda di indignazione si riversò nel cuore di Semelè per quella
miseria, per quel pusillanime atteggiamento di lui.
- Guardatelo - gridò fuori di sé alla gente che stava intorno -
guardatelo, è il barone don Giovanni Zuse, ma non è un barone, è un
coniglio, una cosa puzzolente!
Era il colmo. A Zeus sembrò, per la vergogna, che il suolo su cui
poggiava fosse improvvisamente ceduto. Ma si fece forza e ritrovò la
sua faccia di bronzo. Afferrò Semelè per un braccio e la trascinò
via, gridando all'altra:
- Vattene a casa tu, torno subito.
La tensione aveva prostrato Semelè. Non riusciva più ad afferrare
un pensiero, non sapeva più bene cosa era successo, né si chiedeva
cosa stava per succedere. Meccanicamente seguiva l'uomo che le stava
accanto. Era rientrata, dopo un momento di ribellione, nelle sue
naturali proporzioni di creatura destinata ad esser dominata. Non una
parola da parte di lui. Lo vide fermarsi dinanzi ad un grande portone.
- Entra.
- Dove andiamo? - fece lei ansiosamente.
- Entra - replicò Zeus.
Un ufficio, un uomo dai grandi baffi severi dietro una scrivania.
- Scusi, sono il barone Zuse.
- Prego, si accomodi. In che posso esserle utile?
- Signor questore - fece Zeus impassibile senza guardare Semelè -
questa donna non intende lasciarmi, mi fa delle scenate per la strada e
poco fa mi ha ingiuriato.
Semelè fu così rinchiusa in camera di sicurezza. Era giunta fin lì
con una serenità da ebete; tutto era avvenuto come in sogno, come in un
sogno che si sente esser tale e si segue impassibilmente anche se
ineluttabilmente. Poi si fece come una luce improvvisa dentro di lei,
una luce terribile. Quegli uomini, quel posto, il suo nome scritto su
quei registri!
Le sembrò di essere stata fulminata, incenerita per sempre e che
solo di lei fosse rimasto vivo ciò che le palpitava in seno.
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