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BREUS
Venne a trovarmi una sera, mentre stanco della monotonia della
giornata mi ero buttato sul letto con un libro di poesie del Pascoli in
mano, intento solo a sfogliare più che a leggere qualcosa.
Con un gesto rapido egli fermò la mia mano che voltava già pagina e
uscì immediatamente dalle righe. Era alto, magnifico, tutto vestito di
ferro e un enorme cimiero gli ondeggiava sull'elmo.
- Non son mai passato inosservato, messere - mi disse - dacché
Pascoli è Pascoli.
E incominciò a narrarmi la sua storia:
«Viveva con sua madre in Cornovaglia...».
- No - interruppi - so la tua storia, Breus, da tanto tempo, ed ho
sonno, scusami.
Si sollevò la visiera, mi guardò. Non sembrava offeso della mia
scortesia, anzi il suo sguardo era dolce, indulgente. Tenne a lungo gli
occhi su me, esplorando i miei lineamenti: cercava.
- Toh! - esclamò infine - dunque, dunque tu sei (chi l'avrebbe mai
detto?) quel dodicenne di tant'anni fa, che spesso si appoggiava sulle
mie ginocchia e piangeva, mentre accarezzandolo gli narravo la mia
storia, sempre la stessa e sempre bella?
- Ah, no, non ho dimenticato, credi - aggiunse dopo un po' - avevi
gli occhi rossi: li avevi stropicciati così tanto per asciugare le
lagrime! Proprio quel giorno avevi riportato quattro nella versione
latina; l'errore più grosso ti tormentava: «oboediebo» invece di «oboediam»
e non volevi ascoltare l'antipatica tiritera - l'avevi definita così la
mia vicenda - che il professore aveva comin-ciato a leggervi. Ma i miei
casi cominciarono a interessarti, la tua fantasia mi vide, mi sorrise e
mi porgesti la mano e il piccolo cuore commosso. Fu cosi che si divenne
buoni amici, mille volte dovetti narrarti la mia leggenda e quella volta
la poesia a memoria la recitasti bene.
Sorridevo a quei ricordi. Breus ricordava esattamente. Mi avvicinai,
gli strinsi la mano e gli chiesi di parlarmi ancora una volta di lui.
- Sarò breve, so che a una certa età le lunghe fiabe non piacciono
più. Anzi farò di meglio: in poche battute ti reciterò la scena.
E vidi allora Breus ridiventar fanciullo: era Morvàn, il Morvàn che
incontrato un cavaliere vuol sapere tutto da lui, cosa sia la lunga asta
pesante, cosa quel vestito di ferro, cosa quel lungo pendaglio di cui è
cinto; il Morvàn che frenetico abbandona la mamma e saltato su un
ronzino corre... a diventar cavaliere. E lo diventa: diventa Breus il
cavaliere dei cavalieri. Ma una punta di nostalgia gli pizzica, dopo
tant'anni, il cuore e un bel giorno torna al suo maniero: lo trova
vecchio, decrepito, ricoperto da tanta edera, con tanta ortica attorno.
Vedo Breus passare il ponte levatoio con passo incerto, esitante. Ma a
questo punto la mia percezione si confonde. Il colloquio di Breus con la
sorella, le lagrime dell'infelice e glorioso cavaliere, che non ha più
trovato la madre e che per questa gioia avrebbe dato in cambio tutte le
sue glorie, le ultime scene, in una parola, non oltrepassano la retina
dei miei occhi, non afferro più le parole, non le seguo.
Guardo invece il viso della fanciulla che parla col cavaliere.
M'avvicino e sento che tremo. Essa volge a me gli occhi, riconosco
quegli occhi, riconosco quello sguardo pieno di luce.
- No, grido soffocato dalla commozione, non è tua sorella questa,
Breus, è mia sorella, la mia infelice sorella perduta.
L'afferro. La chiamo, scuotendola, per nome. Lei sorride: è il suo
appena percettibile sorriso, enigmatico, soave. Ha un visino da bambina
ed è infatti una bambina di non più di dieci anni.
Mi prende per mano: - Giuochi con me? Lascia perdere quelle tue
spade, corazze, lance, hai messo la casa a soqquadro, la mamma ti
picchierà. Vieni a giuocare con me nel vigneto.
- Ma - voglio protestare - io non sono più...
Mi guardo: ho i pantaloni corti e la camicina tutta sbrindellata,
forse per la furia dei combattimenti sostenuti.
- Sì - dico - andiamo.
I frutti di un albero ci attirano. Ci arrampichiamo. Lei ride della
mia voracità. Ma all'improvviso un piede le vacilla, cade, sotto ci son
pietre, rovi. Io grido di spavento e mi precipito ad aiutarla.
Invano: essa giace supina, ma non è più la bimba di prima, è
invece la giovane donna, così come la morte la colse nel fiore degli
anni. La guardo: pare sorridere ancora il suo visino di cera, cui le
trecce raccolte attorno al capo fanno da aureola. Ma Breus si avvicina,
la prende sulle braccia e va.
- No, no!
Il grido mi soffoca, mi si strozza in gola. Mi sveglio. Accendo la
luce: sono ancora disteso sul letto, fuori delle coperte; il volume del
Pascoli giace a terra. Dei brividi di freddo mi cacciano sotto le
coperte, spengo, gli occhi però restano sbarrati nel buio e non posso
prender sonno; ripenso a Breus, causa di tutto.
No, mi ripeto, non tornare mai più, Breus. Tu mi riporti l'infanzia
ed essa non è più mia; poiché è murata, murata irrimediabilmente in
una tomba.
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