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L'AMICO POETA
Tornato alcuni anni fa, dopo tanto tempo, al mio paese, fu mio primo
pensiero andare a trovare l'amico più caro: Giacomo. Egli abitava
ancora nella sua antica casa, testimone delle nostre monellerie di
dodicenni e delle nostre malinconie di sedicenni.
Era sera. Sulla terrazza giungeva il profumo che una lieve brezza
veniva di tanto in tanto a rubare a una pianta di gelsomino arrampicata
sul muro. Quel profumo mi distraeva, ma Giacomo continuava a parlare, a
far domande: egli aveva ritrovato l'amico del periodo migliore della
vita, l'amico a cui aveva confidato i suoi sogni e che non gli aveva
nascosto i suoi: bisognava dunque dirgli tutto, chiedergli tutto.
Appogiatici, mentre si fumava una sigaretta, sul parapetto della
terrazza, la conversazione sembrò spegnersi definitivamente e l'ultima
parola pronunciata, sebbene ancor viva nelle orecchie di entrambi,
sembrava divenire sempre più piccola, più isolata, più restia a farsi
seguire da altre parole.
Ma Giacomo che, a differenza di me, non era naufragato in pensieri
nebulosi, che forse non guardava le luci delle «lampare» fare del mare
lo specchio del cielo stellato e non poteva immaginare quanto quello
spettacolo mi staccasse dall'oggi e riesumasse la mia infanzia, cercava
ad ogni costo di riallacciare discorso.
Sentivo i suoi occhi guardarmi ed infine compresi che egli aveva
qualcosa, qualche grossa cosa da dirmi. Lo guardai, sorrideva
impacciato.
- Ascolta - mi disse e la voce gli tremava un poco - tu ancora.....
scrivi versi tu ancora?
Rividi un me e un Giacomo di tanti anni fa, seduti sulle panche della
scuola. Egli mi porgeva un quaderno tutto lindo, tutto pieno di versi ed
io tiravo fuori dalle tasche un foglio gualcito: in una facciata c'era
una traduzione latina ma nell'altra c'erano versi. Versi, voce e pianto
dei cuori adolescenti, versi, primi sogni primi amori primi sospiri,
versi, tessuto della vita a sedici anni.
- No - risposi - cosa vuoi, mi sono,inaridito ormai, la vita.... e
tu?
- Io? io continuo, ho sempre continuato.
E così dicendo mi trascinò alla sua scrivania ed estrasse un
quaderno. Tutto lindo, tutto pieno di versi, copiati con calligrafia
chiara, regolare. Nella copertina c'era un disegnino, lieve, lo si
sarebbe detto tracciato da mano femminile: una falce e un martello.
Voleva esprimere la fede politica del poeta o era un simbolo del
contenuto sociale dei versi? Non so, perché non capii nulla di ciò che
Giacomo incominciò, senza tante storie, a leggermi.
Pensavo semplicemente a quella falce e martello disegnati con tanta
precisa e delicata eleganza, il simbolo di un'idea che agitava l'Europa
da più di cento anni, un'espressione di dinamismo, di forza - deleteria
o costruttiva non importa, ma forza, veementemente - ridotto in sottile
ornamento, in grazioso arabesco, in molle voluta «rococò». C'era
tutta la tragedia del povero Giacomo: disoccupato e in gravi
difficoltà, richiamato perciò dalla vita a una realtà dai precisi ed
aspri contorni, restava ugualmente ancorato a sogni che hanno le vaghe e
inquiete spirali del fumo, a speranze che la vita, alzandosi lentamente
sulle nebbie del mattino, disperde purtroppo in una sfacciata, cruda
veridicità.
Ma nella sua tragedia stava la sua grandezza: la sua disperata
volontà di restare se stesso. La voce di Giacomo continuava a
martellare i suoi ritmi e a me (distratto, come distratta e sorda è la
società moderna di fronte alla poesia) sembravano parole che,
contorcendosi in un'informe disposizione, si inseguissero, si
accavallassero senza senso.
Un senso invece sembravano avere le folate di profumo di gelsomino,
che penetravano nella stanza di tanto in tanto e mi dicevano che
quell'epoca della vita intessuta di sogni e di nebbie, di fumo e di
speranze, quell'epoca che non può andare oltre un determinato limite,
senza sformarsi, senza perdere i suoi contorni cari al nostro cuore,
senza ridurre la vita in una poltiglia informe, può tuttavia restare in
un angolino del nostro intimo e riempire le pause fra le nostre
quotidiane attività.
- Ti è piaciuta? - chiese Giacomo, interrompendo i miei pensieri.
- Ah, sì, sì, indubbiamente, c'è la ricerca di un mondo nuovo, lo
sforzo di trovare una via originale e mai battuta...
Mi vergognai delle mie menzogne e non seppi continuare, aggiunsi
solo:
- Ma hai già pubblicato qualcuna delle tue poesie?
Giacomo tacque un po'.
- Forse le pubblicherò, forse no, che importa? Ma continuerò lo
stesso, perché sento che è il mio destino, il mio avvenire... o, se
vuoi, la mia condanna.
Rincasando pensavo a me stesso. Mi parve di comprendere perché la
mia vita mi appariva spesso come un pesante carro da trainare, perché
il mio lavoro mi stancasse tanto: m'ero sempre negato e continuavo a
negarmi quel riprender fiato che deriva soltanto dal dedicarsi a
un'attività che non abbia scopi pratici e materiali, inutile e perciò
pura; m'ero sempre vietato e continuavo imperterrito a vietarmi
l'ossigeno che solo può darci il ricercare in noi stessi quel tanto di
sogni giovanili che, sia pure come ruderi, l'anima nostra serba
gelosamente in sé.
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