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LAVORARE: NON SA DIRE ALTRO IL NOSTRO TEMPO
Giunsi puntualmente a Roma il giorno del primo anniversario della
fine della guerra. Dovevo ritrovarmi con tre vecchi commilitoni.
L'appuntamento, fissato fin dai primi tempi del conflitto, prima di
dividerci, era stato un legare la nostra amicizia a un punto fermo, al
di là dell' odissea che attendeva ancora - nessuno poteva
dissimularselo -ognuno di noi.
- Vivi o morti, dobbiamo ritrovarci - ci si era detto con giovanile
baldanza.
Luogo convenuto per l'incontro era un caffè e varcandone la soglia
confesso che il cuore mi tumultuava. Ma il primo ad arrivare,
evidentemente, ero stato io. Mi sedetti ed ordinai qualcosa. Passò
un'ora, due: nessuno.
L'inutile attesa più che esasperarmi mi riempì di sgomento. Sapevo,
ero certo che, se vivi, ci saremmo stati tutti. Che era dunque accaduto?
Occorreva ad ogni costo avere loro notizie.
Seppi dopo un po' di tempo che Carlo e Paolo non erano più e che
Enrico era ammalato.
Mentre andavo a trovare Enrico, mi sembrava che le ombre degli altri
due mi seguissero. Cercavo in fondo alla mia memoria le loro voci,
perché dei perduti è forse la voce ciò che maggiormente si desidera
serbare. Quella di Carlo pareva mi giungesse fioca, spenta e mi parlava,
come allora, di poesia, di letteratura, pareva mi ripetesse dei versi: i
versi che non aveva potuto scrivere, che la morte aveva sigillato dentro
di lui. La voce di Paolo mi giungeva invece a sprazzi, allegra,
chiassosa. Si smorzava, poi si perdeva ancora.
Giunsi così da Enrico. Lo trovai seduto su una poltrona. Uno scialbo
raggio di sole veniva ad avvolgerlo di una luce malata. Attribuii a ciò
il pallore di Enrico e solo quando e gli si alzò per abbracciarmi,
compresi, nel vederlo vacillare e nello scorgere le mani e i polsi
bianchi come cera, che il mio povero amico, il futuro ingegnere di un
tempo, non era che la larva di una giovinezza perduta, un rifiuto
dell'immane Moloch: la guerra.
Avrei voluto che mi parlasse delle sue vicende, ma egli volle che gli
dicessi prima di me, di Carlo e di Paolo. In quanto a me presto fatto.
Narrai quel po' che sapevo di Carlo, caduto a Cefalonia, ed avrei voluto
sorvolare sul triste destino di Paolo. Ma Enrico insistette.
- Internato in Germania - dissi - Paolo aderì alla Repubblica
sociale e purtroppo...
Esitai. Enrico mi guardava intensamente. - Finì di mano italiana -
aggiunsi.
Chinò il capo, come colpito. Solo dopo un poco, come fra sé,
aggiunse:
- Nemici! Chi l'avrebbe mai pensato allora? Già, tu non lo sai: è
la vita di stenti fra i partigiani che mi ha ridotto così.
- Ma raccontami, Enrico, raccontami tutto.
Egli tossì.
- Se non ti senti però ...
- No, è niente - mi interruppe e cominciò a narrarmi le sue
peripezie.
- La malattia - concluse - certo covava da tempo in me. Dopo la fine
dei disagi, si manifestò chiaramente. Non so quanto tempo resisterò
ancora al male.
Mi sentii spezzare il cuore a quelle parole.
- Che orribile sorte ci attendeva! - dissi - Ci siamo lasciati
quattro giovani pieni di forza e di vita e ci troviamo: due ombre, un
malato e ...
- E?
- E un vecchio.
Mi guardò a lungo tristemente.
- Fai male a dir cosi. Davvero non ti immaginavo così stanco. E
perché poi? Sei sano: ma non capisci cosa significa? Tu solo sei
rimasto di noi. Devi continuarci, devi vivere per tutti noi. Ricordi?
avevamo un motto - oh niente di eccezionale! il solito motto di tutte le
comitive affiatate - «Tutti per uno e uno per tutti». Bene, non si
può mettere in pratica ormai che l'ultima parte di questa frase: uno
per tutti, tu per tutti noi. Noi l'abbiamo sognata la vita, tu dovrai
viverla. Sarai tutti noi.
- Io? Il più indeciso e incerto, il meno combattivo e volitivo di
noi quattro?
- Sì tu, proprio tu. Perché l'Italia è tua e di chi, come te, è
rimasto: perché voi avete il dovere di lavorare anche per chi non è
più tornato.
- Lavorare, lavorare: non sa dire altra parola il nostro tempo. Ma
noi siamo stanchi, non abbiamo voglia di nulla.
- Ascolta. Quelli che son caduti avevano qualcosa da dire, da fare,
da apportare nella vita della Patria e della società. I loro desideri,
le loro speranze, i loro sogni non devono andare del tutto dispersi. Voi
dovete raccoglierli. Essi guardano vivere chi ha combattuto al loro
fianco. Guardano, trepidano, si chiedono cosa vogliano questi vivi fare
dell'Italia. Tocca a voi ascoltare il loro grido, il loro ammonimento,
attuare i loro ideali. Anche tu devi dare all'Italia quello che i tuoi
amici caduti, il poeta, il giurista e l'ingegnere - perché in fondo
sono un caduto anch'io - non han potuto dare. Anche tu dunque devi
moltiplicare le tue forze e vivere quattro vite in una: uno per tutti!
Questo io sentivo di dirti a nome di tutt'e tre. Di tutt'e tre che non
siamo più.
- Perché, perché dici così?
- Ti prego, non vorresti che anche con te fossi costretto a dire o
finger di credere le solite pietose menzogne. Sono fra te e loro due io
ormai, sospeso, anzi più vicino a loro che a te. E' questione di poco,
credimi. Così, poiché andrò presto a portar notizie di te, voglio
parlare delle tue lotte e dei tuoi successi. 0 insuccessi, che è lo
stesso, perché il lottare è quel che conta. Dirò loro che non dovremo
rimpiangere la vita, perché qualcuno vive per noi.
Ma il mio cuore singhiozzando segretamente, ripeteva: - Sono stanco,
stanco, stanco.
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