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Violante: seduta 23
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                         Pag. 851
AUDIZIONE DEL PREFETTO VINCENZO PARISI, CAPO DELLA
                         POLIZIA
        PRESIDENZA DEL PRESIDENTE LUCIANO VIOLANTE
                          INDICE
                                                        pag.
Audizione del prefetto Vincenzo Parisi, capo della
polizia:
Violante Luciano, Presidente ...................... 853, 861
                                     864, 869, 872, 873, 876
Ayala Giuseppe Maria ......................... 867, 868, 869
Bargone Antonio ........................................ 862
Biscardi Luigi ......................................... 861
Buttitta Antonino ................................. 861, 873
D'Amato Carlo ..................................... 871, 872
D'Amelio Saverio ....................................... 870
Ferrauto Romano ........................................ 866
Frasca Salvatore ....................................... 870
Matteoli Altero .............................. 863, 872, 873
Parisi Vincenzo, Capo della polizia .................... 853
                                                    864, 873
Scotti Vincenzo ................................... 866, 868
Tripodi Girolamo ....................................... 864
                         Pag. 852
ALLEGATI:
Allegato n. 1: Lettera del capo della polizia,
prefetto Parisi, al direttore de la Repubblica,
dottor Eugenio Scalfari ................................ III
Allegato n. 2: Profilo operativo del "pentitismo" ....... XI
Allegato n. 3: Evoluzione del fenomeno mafioso ......... XIX
Allegato n. 4: Profilo giudiziario di Salvatore Riina .. XLI
                         Pag. 853
La seduta comincia alle 9,5.
(La Commissione approva il processo verbale della
seduta precedente).
    Audizione del prefetto Vincenzo Parisi, capo della
                         polizia.
  PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione del
capo della polizia, prefetto Parisi, al quale do subito la
parola.
  VINCENZO PARISI, Capo della polizia. Signor
presidente, onorevoli senatori, onorevoli deputati, non si era
ancora attenuata l'eco dei numerosi, importanti successi
ottenuti dalle forze dell'ordine e dalla magistratura
nell'incessante lotta contro il potere mafioso e contro i
responsabili di tanti feroci delitti, quando organismi di
polizia giudiziaria e magistrati si sono trovati impegnati a
fondo in una vicenda assai delicata e complessa, quella che ha
visto l'arresto, il 24 dicembre dell'anno scorso, del dottor
Bruno Contrada, per l'addebito, di obiettiva particolare
gravità, di associazione di tipo mafioso.
   A questo riguardo, anzitutto, non posso non auspicare che
l'inchiesta proceda in tempi rapidi per l'intrinseca
importanza che essa riveste, per i riflessi che dal relativo
esito possono derivare alle istituzioni, per il notevole
clamore che l'episodio ha suscitato, assieme ai più disparati
interrogativi e perplessità presso l'opinione pubblica e nelle
sedi ufficiali.
   E' ovvio che, nella veste di responsabile della Polizia di
Stato, abbia posto per primo a me stesso l'interrogativo se,
come e quando un funzionario di polizia, pervenuto alla
qualifica di vertice della carriera dirigenziale, fosse potuto
giungere, dopo tanti anni di lavoro condotto "in trincea", di
rischi, di sacrifici, a tradire il giuramento di fedeltà alla
Repubblica e alle sue leggi prestato nel 1960.
   Mi sia consentito ammettere che la notizia dell'arresto mi
ha nello stesso tempo sorpreso e mortificato, soprattutto
pensando all'impatto psicologico dell'avvenimento, alle
inevitabili sue proiezioni sul versante della credibilità
degli operatori di polizia in generale e su quello peculiare
di quanti combattono la mafia, pagando prezzi altissimi nelle
varie strutture dell'amministrazione, in Sicilia come altrove.
   Ho ritenuto perciò doveroso presentarmi a questa
Commissione per offrire il massimo contributo di chiarezza.
L'autorità giudiziaria ha richiesto ed otterrà ogni possibile
ragguaglio e cooperazione che valgano a favorire la ricerca
del vero, rispettoso come sono delle prerogative della
magistratura.
   E' importante che il lavoro di approfondimento proceda
nella costanza dei rapporti fra amministrazione della pubblica
sicurezza, polizia giudiziaria e autorità giudiziaria, su una
linea di trasparenza completa, in piena armonia e fiducia
reciproca.
   Mi sembra che l'atto giudiziario e i suoi sviluppi sul
piano processuale rappresentino un'occasione, per un verso
ineludibile e per altro verso di estrema utilità, per
accertare la regolarità della condotta dell'investigatore, il
quale comunque ha agito in contesti differenziati,
                         Pag. 854
più o meno lontani nel tempo e in diverse posizioni di
responsabilità.
   In ogni caso, come hanno ritenuto di recepire gli stessi
estensori dell'ordinanza e come emerge peraltro dalle
acquisizioni dell'amministrazione centrale, il dottor
Contrada, nel periodo nel quale si inquadrano gli addebiti più
pesanti, si è posto come elemento di primo piano nella lotta
non solo alla delinquenza palermitana, mafiosa e comune, ma
anche - ricoprendo l'incarico di dirigente del nucleo
Criminalpol per la Sicilia occidentale - a quella delle
province di Agrigento, Caltanisetta, Enna e Trapani.
   Il funzionario, che era stato trasferito al SISDE nel
gennaio 1982, in quanto tale ha poi ricoperto l'incarico di
capo di gabinetto dell'alto commissario, prima con il prefetto
De Francesco (settembre 1982-aprile 1984), e successivamente,
fino al 31 dicembre 1985, con il prefetto Boccia. Lo stesso 31
dicembre 1985, egli venne da me, allora direttore del SISDE,
destinato, per motivi di sicurezza, a Roma, in compiti non
operativi. Ho lasciato il dottor Contrada in tale posizione
fino al 1^ febbraio 1987, data del mio congedo dal SISDE per
il passaggio all'attuale incarico.
   Premesso inoltre che, fino alla data del suo effettivo
ingresso nel SISDE, e cioè nel gennaio 1982, non avevo avuto
modo di conoscere, né di persona né per motivi di ufficio, il
dottor Contrada, rinvio per le valutazioni agli atti già
esibiti riguardanti il funzionario, che da un lato
rappresentano la base documentale di conoscenza del
dipartimento della pubblica sicurezza sul conto dello stesso e
dall'altro hanno costituito la base per i miei pregressi
interventi sull'argomento. Rinvio, altresì, al profilo
prodotto dal direttore del SISDE a codesta Commissione.
   Per quanto concerne i miei interventi - come precisato
nella mia lettera aperta del 29 dicembre 1992 al direttore del
quotidiano la Repubblica, dottor Eugenio, Scalfari, in
risposta a quesiti posti dall'onorevole Ayala - essi,
riconfermati integralmente, devono essere riguardati non sotto
la veste di aprioristica difesa in favore del funzionario,
bensì quale precisazione istituzionalmente dovuta dal vertice
della Polizia di Stato, in relazione alle conoscenze
documentali esistenti in quel momento, alla massima fiducia
posta nella magistratura procedente, al pieno convincimento
dell'estrema utilità dell'istituto del pentitismo (allegato
1).
   Istituto che non può essere accettato quale semplice
portato normativo letterale ma attentamente valutato caso per
caso per la particolare delicatezza e per le conseguenze
rilevanti che da esso discendono - sia in termini di civiltà
giuridica sia in relazione a sempre possibili distorsioni - e
per l'assoluta necessità, evidenziata da eminenti operatori
della giustizia, di utilizzare il fenomeno per esclusivi scopi
processuali, scevri da qualsiasi intendimento diverso da
quello del codice di procedura penale, stabilito per
l'individuazione certa della prova penale.
   In questo senso è l'auspicio pubblicamente espresso dal
procuratore generale presso la Corte suprema di cassazione,
dottor Vittorio Sgroi, nella recentissima relazione sulla
giustizia nell'anno 1992, per "una migliore disciplina del
fenomeno del pentitismo (salvo restando il problema della sua
oculata gestione, recentemente acuitosi per effetto di vicende
luttuose)". Come pure le recentissime pronunce della Corte di
cassazione che, in tema di doveroso riscontro delle asserzioni
dei pentiti, ha stabilito - quale preciso dovere giuridico per
l'accettazione della testimonianza de relato- che
"riscontro ad una dichiarazione possa essere altra
dichiarazione della stessa natura e di uguale contenuto,
sicché la convergenza del molteplice viene ad acquistare
quella consistenza di prova in grado di sorreggere una
pronuncia di condanna", con ciò sottolineando che l'identica
natura e l'eguale contenuto costituiscono requisiti
ineludibili e non modificabili.
   Sorge, a questo punto, spontanea una riflessione sul fatto
che in ambiente contaminato dalla mafia, e perciò stesso
infido e rischioso per polizia e magistratura
                         Pag. 855
 inquirente, esposte entrambe all'alea di essere
strumentalizzate, si potessero di norma ottenere solo
confidenze che non attingevano a livelli elevati dell'apparato
criminale, cosa che oggi, dopo la definizione del maxiprocesso
e il progressivo completamento del quadro delle norme sul
pentitismo, si presenta ben diversamente, con una linea di
dignità e di chiarezza di rapporti fra lo Stato e quanti si
determinano a collaborare con la giustizia. Elementi tutti che
hanno consentito di superare la limitatezza dei pregressi
corrispettivi per i confidenti e di approntare strumenti
sostanziali e processuali. Peraltro all'epoca non era ancora
stato introdotto il reato di associazione a delinquere di
stampo mafioso.
   Significativa, altresì, è la nuova normativa in materia di
lotta al traffico di stupefacenti che ha recepito nel nostro
ordinamento sistemi investigativi sperimentati in altri paesi,
come gli acquisti simulati, le consegne controllate eccetera.
   I criteri di lettura della "collaborazione informativa"
resa da soggetti già inseriti nelle organizzazioni di tipo
mafioso rappresentano, in verità, una tipologia di apporto di
conoscenza degli equilibri, delle strutture e delle dinamiche
criminali da sempre connaturata al complesso dell'azione di
polizia giudiziaria, trovando radice nel più semplice rapporto
dialettico-fiduciario, già in passato instaurato tra gli
investigatori e le cosiddette fonti confidenziali.
   Di certo l'utilizzazione, tra gli altri, di questo
strumento, pur sempre valido, in ordine alle diverse
fenomenologie delittuose, non poteva assumere valenza
significativamente determinante in contesti di malavita
tradizionalmente caratterizzati da ferrea omertà e dalla
poliedricità dei grandi interessi economici in gioco. Ne
derivava la necessità di rivedere il concetto stesso di
collaborazione, indirizzandolo verso il contributo che avrebbe
potuto essere reso da persone che, stabilmente incardinate nei
sodalizi mafiosi, fossero state realmente a conoscenza dei
fatti e dei rapporti di forza all'interno degli stessi.
   Illuminante al riguardo è risultata l'opzione
investigativa seguita da magistrati che, come il dottor
Falcone, ottennero per primi il pentimento di qualificati
personaggi del crimine mafioso.
   L'importanza di tale metodologia, corroborata dal
sacrificio, anche estremo, di giudici e di personale delle
forze dell'ordine nella ricerca degli elementi di riscontro,
così come sopra delineati, è dimostrata dai successi
conseguiti dalla risposta istituzionale, che hanno permesso di
squarciare il velo sull'organizzazione e sull'organigramma di
grandi famiglie mafiose agguerrite e sanguinarie, come quella
dei corleonesi, i cui esponenti sono stati perseguiti per
accertate responsabilità su molti fatti di sangue e
condizionamenti in settori amministrativi ed imprenditoriali.
   Del resto, la proficuità di questa scelta strategica, dopo
ampio dibattito in Parlamento, era già emersa, agli inizi
dello scorso decennio, con lo scopo di sconfiggere il
terrorismo.
   Non vi è dubbio che uno dei metodi vincenti nella lotta
contro il terrorismo e l'eversione sia stato costituito
proprio dalla collaborazione dei pentiti e dei dissociati, che
il legislatore ha incentivato ed agevolato per il tramite di
norme premiali consacrate nelle leggi 29 maggio 1982, n. 304,
e 18 febbraio 1987, n. 34.
   I positivi risultati conseguiti hanno fatto maturare la
consapevolezza della notevole versatilità degli istituti
giuridici predisposti, idonei ad essere utilizzati anche nel
quadro delle iniziative volte a contrastare le più gravi forme
di criminalità organizzata, rendendo contestualmente molto più
circoscritto il ricorso ai confidenti nel quadro di un
rapporto limitato al reciproco scambio: notizie-compenso in
denaro.
   Sulla scia di esperienze già condotte in altri paesi
industrializzati - basti pensare alla pluriennale esperienza
statunitense nel settore -, venne compiutamente definito, con
legge 15 novembre 1988, n. 486, il compito dei pubblici poteri
di "adottare o di far adottare tutte le misure occorrenti ad
assicurare l'incolumità
                         Pag. 856
 delle persone esposte a grave pericolo per effetto della
collaborazione fornita nell'ambito di indagini e di
procedimenti relativi ad attività criminali di stampo
mafioso".
   Tale attribuzione, affidata allora in via esclusiva ad una
struttura di tipo straordinario (l'Alto commissario antimafia)
sottintendeva, per ciò stesso, la sua natura di carattere
eccezionale, quasi che il ricorso a tale strumento - poi
istituzionalizzato - venisse, dal legislatore nel 1988,
considerato di portata sperimentale e transeunte.
   In linea pertanto con tale impostazione di base, la norma
che ho appena menzionato, nella sua rigida enunciazione
formale, non individuava ancora una più dettagliata
regolamentazione della materia né una più organica
articolazione delle attribuzioni ad esse correlate.
   La preziosa esperienza acquisita "sul campo" da magistrati
e operatori di polizia ha però spinto verso un sollecito
perfezionamento degli strumenti giuridici apprestati, nella
convinzione che un'efficiente tutela di quanti accettano di
collaborare con la giustizia, siano essi pentiti o testimoni,
costituisca un elemento pressoché indispensabile per
infliggere colpi forti alle organizzazioni di stampo mafioso.
   Con il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito
nella legge 15 marzo 1991, n. 82, la materia ha infine
ricevuto un'organica e sin qui compiuta disciplina sia sul
piano organico-strutturale che su quello funzionale e
programmatico. In tale prospettiva vanno menzionate le
disposizioni finalizzate a sollecitare, attraverso incentivi
di natura processuale e premiale, il pentimento e la
collaborazione dei reclusi (articolo 1 del decreto-legge del
1991, n.152, che ha provveduto a modificare ed integrare
talune norme dell'ordinamento penitenziario), anche sulla base
del reiterato concerto e del fattivo interessamento svolti sul
tema dal ministro dell'interno. In coerenza con le rilevanti
innovazioni normative messe a punto dal Parlamento su impulso
del Governo - ed in questa sede rammento le leggi istitutive
della DIA e della DNA - l'apparato amministrativo ha
provveduto a dotarsi degli strumenti giuridici e delle
infrastrutture indispensabili per una compiuta attuazione
della nuova strategia statuale.
   E' stata innanzitutto prevista, mutuandola dalle proficue
esperienze del Marshall Service statunitense,
l'introduzione di uno strumento di natura mista, per taluni
aspetti dispositivo, quindi provvedimentale, per altri
pattizio, poiché sottoposto, per la sua efficacia giuridica,
all'accettazione da parte del soggetto destinatario.
   Tale atto, denominato programma speciale, viene
deliberato, in presenza di particolare condizioni, da un
organo collegiale ad hoc, denominato commissione
centrale e presieduto da un sottosegretario di Stato.
   Con tale atto vengono particolarmente definite le misure
di protezione e di assistenza, attagliandole alla singola
fattispecie concreta, secondo l'entità della natura
dell'intervento che lo Stato si propone di assicurare ai
soggetti collaboranti con l'autorità giudiziaria e in
proporzione all'effettivo pericolo cui i medesimi risultano
esposti.
   Il decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, ha infine previsto
l'istituzione, per l'esecuzione di quanto definito in via
programmatica dal predetto collegio, di un servizio centrale
di protezione nell'ambito del dipartimento della pubblica
sicurezza, da affiancare all'ufficio, già in essere presso
l'Alto commissario antimafia, per l'espletamento dei compiti
già individuati dalla legge 15 novembre 1988, n. 486, sopra
richiamata.
   Il predetto servizio, operante presso la direzione
centrale Criminalpol, regolarmente costituito, svolge già -
con connotazione interforze - i complessi e delicati profili
operativi di protezione ed assistenza dei soggetti esposti a
rischio e dei loro familiari. Dispone, per l'anno in corso, di
un budget di 12 miliardi, la cui amministrazione - che
esercito con il vicedirettore generale della pubblica
sicurezza, direttore centrale della Criminalpol,
                         Pag. 857
 prefetto Luigi Rossi, all'uopo delegato - mi è affidata
quale direttore generale della pubblica sicurezza, con
l'obbligo di riferirne al ministro dell'interno.
   L'8 giugno 1992, con decreto-legge n. 306, convertito
nella legge 7 agosto 1992, n. 356, è stata infine disciplinata
per la prima volta un'ampia gamma di interventi a favore di
soggetti collaboranti in stato di detenzione, prevedendo - con
finalità estrinseche tutorie ma intrinsecamente premiali - la
concreta possibilità delle istituzioni di provvedere con
modalità di detenzione in luoghi diversi dagli istituti
penitenziari alle richieste avanzate a fronte di una più
esaustiva offerta di collaborazioni agli organi inquirenti.
   L'univoca volontà di attuare senza riserve il dettato
legislativo, nel tempo affinatosi, trova così indubbia
conferma non solo negli sforzi organizzativi e nel costante
impegno degli operatori di polizia, tesi a proteggere gli
ormai 286 collaboratori e gli 835 loro familiari, ma anche nel
ricercare e favorire condizioni di ulteriori rifiuti delle
pregresse logiche di protervia criminale.
   Ciò non toglie che esigenze di verità e di giustizia,
coniugate con l'imprescindibile salvaguardia delle
istituzioni, debbano indirizzare l'azione di noi tutti verso
una valutazione di quanto di volta in volta indicato dai
collaboratori della giustizia nei diversi profili dell'agire
dei sodalizi di tipo mafioso, mentre permane ormai
imprescindibile l'obbligo per tutti gli operatori di bandire
formule personalizzate di contatto e di gestione, realizzando
in tal modo nei pool investigativi, predisposti le
migliori sinergie, la tutela delle istituzioni, l'autotutela,
la difesa contro sempre possibili attacchi a singoli
funzionari.
   Non è in discussione pertanto l'attendibilità dello
strumento investigativo, di cui anzi sono tenace e convinto
assertore, in linea con le costanti ed oculate direttive del
titolare del dicastero e con quanto affermato dallo stesso
procuratore generale presso la Corte di cassazione. Anzi,
considero mio preciso dovere favorire il lavoro dei giudici
fornendo piena disponibilità alla raccolta degli elementi
conoscitivi da essi ritenuti necessari per l'accertamento dei
fatti e la compiuta valutazione delle fonti di prova raccolte.
In questo senso mi ero personalmente già espresso nella
riunione del 19 dicembre 1992 del Consiglio generale per la
lotta alla criminalità organizzata. In un allegato alla
relazione, che lascerò alla Commissione, è contenuto lo
stralcio del verbale in cui anticipavo, il 19 dicembre, il mio
pensiero su tali argomenti.
   Ero e rimango convinto assertore (come manifestato nella
mia lettera al quotidiano la Repubblica) dell'esigenza
di una più estesa utilizzazione della legislazione premiale
nei confronti di soggetti liberi o detenuti disposti ad
accrescere il bagaglio di conoscenze utili alla ricostruzione
delle attività delittuose del crimine organizzato; e della
garanzia tempestiva di ogni forma di protezione prevista, che
deve essere anche efficace e costante.
   Condivido anche le indicazioni importanti che su questo
delicato argomento hanno concordemente dato i compianti
giudici Falcone e Borsellino: sfruttamento cauto e
responsabile del pentitismo.
   Restando sul tema e per sottolinearne ancora la
complessità e delicatezza, desidero richiamare i ripetuti
interventi dei ministri dell'interno e della giustizia, e
quelli anche più volte da me effettuati, intesi a ricercare
forme sempre più ampie e rilevanti di collaborazione dei
pentiti.
   Del resto, un richiamo insistente ed esplicito in tale
direzione si è avuto pochi mesi addietro nel decreto-legge n.
306 del 1992, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356,
recante nuove disposizioni sulle misure di contrasto alla
criminalità mafiosa.
   L'estrema responsabilizzazione di coloro che sono chiamati
a trattare del pentitismo e dei pentiti mi induce ancora a
ricordare la relazione governativa al disegno di legge di
conversione del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, nella
parte in cui, a commento dell'articolo 16, si ricorda che "le
particolari e per larga
                         Pag. 858
misura eccezionali connotazioni della materia richiedono un
qualificato ed attento controllo politico sull'applicazione
della normativa in questione", controllo che veniva proposto
sotto forma di periodiche verifiche da parte del Comitato
parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza, per
poi concretizzarsi nella relazione semestrale al Parlamento a
cura del ministro dell'interno.
   Di qui un'ulteriore conferma, qualora se ne avvertisse la
necessità, che il pentitismo è stato e resta uno strumento
importante nel disegno legislativo della salvaguardia del
sistema democratico contro le pressioni eversive e
destabilizzanti che assunse il terrorismo negli anni settanta
e ottanta e contro gli effetti, del pari negativi, dello
stragismo mafioso, il quale, intrecciando in modo perverso
tattiche diversive, propagazione di notizie infondate e
distorte, una raffinata e sapiente commistione di elementi
reali, verosimili e falsi, potrebbe servirsi, quali veicoli
inconsapevoli, delle falsità di collaboratori autorevoli della
giustizia, perseguendo l'obiettivo di fuorviare magistratura e
forze dell'ordine.
   Si tratta di una sistematica ricorrente di tentativi di
condizionamento, anche non volutamente orientati verso
l'opinione pubblica, in forma incruenta ma non per questo meno
pericolosa, laddove la finalità ultima è quella di creare
disorientamento, addensare sospetti, instillare, fiducia e
paralizzare le istituzioni. Gravissimo quindi sarebbe il
pericolo di utilizzare in maniera distorta i collaboratori
della giustizia o, al limite, di non percepire pentimenti
strumentali. Soccorre il ricordo delle intossicazioni e dei
veleni di Palermo che, giovando obiettivamente alla mafia, non
hanno più volte risparmiato i magistrati e le forze di
polizia.
   Non è improbabile che in questa direzione il crimine
organizzato si muoverà sempre più spesso attivando le sue non
sottovalutabili energie. D'altro canto, le manovre mafiose di
delegittimazione ci inducono a moltiplicare gli sforzi per
impedire che esse si estendano fino a corrodere la credibilità
dei collaboratori di giustizia, quando le loro rivelazioni,
ben diversamente da quelle che una volta il confidente forniva
al singolo investigatore, sono passate all'attento vaglio di
più momenti di inchiesta e verifica, consolidandosi in un
ambito di garantita trasparenza giudiziaria.
   Il documento in allegato 2 riporta un'elaborazione
operativa dei risultati e delle incidenze dirompenti del
pentitismo nell'ambito delle cosche mafiose.
   Il documento in allegato 3 riporta una sintesi riferita
all'evoluzione del fenomeno mafioso che, partendo da qualche
cenno storico, si spinge ad esaminare l'ultimo ventennio, un
quadro di attualità più emergenti, la risposta dello Stato, la
moderna metodologia di prevenzione. Ciascuno di tali parametri
costituisce piattaforma e stimolo per considerazioni, spunti,
ammaestramenti di diversificato spessore e di forte rilevanza
ai fini di prevenzione e contrasto del fenomeno delinquenziale
in argomento, in una cornice che tiene in somma considerazione
la minaccia costituita dalla mafia e la potenza
dell'organizzazione criminale, mentre permane l'assoluta
certezza della sua non invincibilità.
   Tale argomento - già da me trattato nel corso della
conferenza svolta presso la scuola di polizia tributaria della
Guardia di finanza il 18 maggio 1988 - veniva racchiuso sin da
allora in taluni passaggi cardine che desidero ora ripetere in
quanto impalcature di linee concettuali di contrasto
sviluppate negli anni e sostegno ragionativo delle condotte
assunte.
   In particolare: "La criminalità organizzata incarna, dal
canto suo, la più significativa sintesi delinquenziale tra
elementi atavici dell'animo umano e acquisizioni culturali
moderne e ancora in piena evoluzione (da un lato la spinta al
profitto individuale e dall'altro la maturazione di una
filosofia d'impresa); sintesi informata dal principio di
coordinare e sfruttare sinergicamente le singole potenzialità.
La funzionalità operativa dell'organizzazione criminale è
rilevante perché consente alla mafia arricchimenti continui.
                         Pag. 859
 La stessa espansione del mercato della droga fornisce
considerevoli, enormi mezzi alle organizzazioni, così come la
mimesi che nasce dal confronto internazionale e dallo sbocco
che i mercati internazionali offrono in un mondo che ormai di
nazionale ha conservato ben poco. Tutto ciò conferisce oggi
alla criminalità organizzata una potenza senza precedenti, per
cui sarebbe certo illusorio da parte nostra non considerare
che essa è ancora molto forte, rinnovata nei quadri per le
lotte interne, con le quali tende ad assestarsi. La sua forza
si esprime in termini di violenza all'interno e all'esterno e
si avvale di metodi spietati, quali quelli della corruzione,
dell'intimidazione e del ricatto. Si tratta di
un'organizzazione ancora molto pericolosa. Allo Stato che
opera e procede con la forza che promana dalla puntuale
applicazione delle leggi e con il supporto delle forze
istituzionali si contrappone quindi un universo criminoso che
ben può essere definito 'antistato', assolutamente privo di
regole morali, portatore di incidenze e di interventi spietati
contro chi non si adegua al clima di violenza e di negazione
della dignità umana che lo caratterizza.
   Tale contrapposizione vede il mondo della delinquenza e
del crimine organizzato, il versante più criminoso,
attraversato orizzontalmente da chi utilizza i canali
dell'illecito, quali i traffici di droga e di armi e anche
talvolta le forze del terrorismo per perseguire vantaggi
prettamente utilitaristici nel campo delle attività illegali.
Si tende a ridurre ed a mantenere lo Stato in condizione di
debolezza, in perfetta antinomia con l'obiettivo del
terrorismo che si propone invece la disarticolazione
dell'apparato statuale con il fine ultimo di instaurare una
dittatura. In tale sostanziale antinomia dei fronti criminali
trovano forza e giocano con malvagità il proprio ruolo coloro
che tentano di strumentalizzare a propria utilità la forza
terroristica, ben consci peraltro dello spazio di agibilità da
concedere per mantenere intatte per loro stessi le grandi
opportunità che le libertà e le garanzie costituzionali
offrono a tutti i cittadini. Le forme di collaborazione
avviate stanno dimostrando la possibilità di pervenire allo
smantellamento delle organizzazioni criminose senza il ricorso
alla tecnica delle infiltrazioni che, pur nell'indubbia
suggestione, costituisce motivo di grande pericolo per
l'amministrazione che se ne avvale e anche strumento di
sospetto e fonte di grandi problemi per gli operatori". Questo
io sostenevo nel 1988.
   Sembrano di solare evidenza sia le linearità concettuali
poste a base delle metodologie di approccio per la soluzione
del problema, sia la complessità con la quale lo stesso si
pone in un quadro che si fa oggi ancor più acuto nella piena
considerazione attribuita negli ultimi anni al monolite Cosa
nostra quale principale nemico della società. E ciò in una
prospettiva che lo configurava e purtroppo lo configura quale
vero e proprio antistato, laddove non può essere sottaciuto
che la cattura di Riina Salvatore rappresenta il compendio di
un ciclo di iniziative investigative e giudiziarie di ampio
spessore, punto cruciale del vasto, coordinato, reale
contrasto alla mafia.
   Come ho già avuto modo di sottolineare anche
pubblicamente, l'operazione di cattura del Riina si presenta
con eccezionali parametri di professionalità e validità per i
carabinieri, che sono riusciti nell'impresa senza spargimenti
di sangue, con efficacia ed efficienza mirabili, con un
risultato che rende ampio onore a loro ed a tutte le forze
dell'ordine.
   Sembra lecito affermare, quindi, che un ciclo della storia
di Cosa nostra si è concluso con il tramonto di Luciano Liggio
e l'uscita di scena di personaggi come Michele Greco, Giuseppe
Madonia e lo stesso Salvatore Riina (il profilo giudiziario
del Riina viene proposto in allegato 4).
   E' in tale cornice che si è sviluppata, senza risparmio di
energie e sulla base delle precise linee direttive del signor
ministro dell'interno, la ricerca sistematica dei latitanti
per la quale, a prescindere dai probanti risultati finora
conseguiti, sono state impartite le rigorose
                         Pag. 860
direttive suddette, approvate dal Consiglio generale per la
lotta alla criminalità organizzata, per uno stretto, costante
coordinamento tra le forze di polizia sul piano informativo,
sorretto dall'utile collaborazione dei Servizi e dal
coinvolgimento per i singoli casi delle polizie straniere.
   Per il conseguimento di utili risultati sono state avviate
le necessarie verifiche delle posizioni dei ricercati in una
prospettiva di massima razionalità operativa ed aggiornate sul
piano organizzativo le strutture della Polizia di Stato
deputate all'assolvimento dello specifico compito.
   Considerando le capacità evolutive di ripresa della
specifica realtà criminale, alla quale certamente potranno
dare sostegno e aggiornati indirizzi operativi anche altri
pericolosi latitanti, sarà necessario considerare con la
massima attenzione l'assetto del sistema mafioso che si andrà
a determinare con il dopo Riina, nella sicura prospettiva da
parte dei successori di impegni più adeguati
all'organizzazione degli anni novanta, strettamente correlati
alle nuove dimensioni della criminalità internazionale, con
l'apertura a nuovi mercati in contesti territoriali
diversificati, come l'est europeo, nei quali i traffici di
droga e il riciclaggio costituiscono punti di particolare
rilevanza. Non sfuggono in quest'ultimo contesto gli
accertati, numerosi collegamenti esterni di Cosa nostra con
realtà delinquenziali internazionali, che vedono emergere
mafie di ogni tipo, presenti, oltre che nelle usuali
dislocazioni, anche in contesti finora meno pregnanti (Russia,
Turchia, Cina, Giappone, Australia e via dicendo).
   Ciò ovviamente comporta una più intensa e sistematica
attività di cooperazione internazionale nel solco dei circuiti
internazionali già consolidati, nella prospettiva di
contrapporre ad una mafia senza frontiere (oltre 5 mila
elementi inseriti in circa 200 sodalizi, cui si affiancano
aree di sostegno non certamente cristalline) una polizia senza
frontiere, capace di neutralizzare la produttività, le
relazioni, le minacce.
   Operando in tale prospettiva, saranno ampliate le
iniziative di sistemazione di altri funzionari, che si
aggiungeranno a quelli già presenti all'estero per il
collegamento nei paesi ritenuti di maggiore interesse ai fini
della lotta alla mafia.
   I presidi ottimali posti in essere da un impianto
legislativo rinnovato, promanante dall'impulso del Governo e
dalla sensibilità del Parlamento, hanno trovato ulteriore
potenzialità nelle illuminate direttive del ministro
dell'interno che, coniugando armonicamente le istanze
legislative, amministrative e operative, hanno costituito sia
la premessa indispensabile della posizione vigorosa assunta da
tutti gli apparati di tutela - a loro volta coinvolti in
larghe parti da suggerimenti tecnici utili alla
predisposizione delle novelle stesse - sia la condizione
irrinunciabile per l'adozione delle nuove tecniche, tattiche e
strategie di intervento.
   Intendo altresì rinnovare in questa sede la mia personale
gratitudine al signor ministro dell'interno per non aver mai
proceduto con ordini di accelerare o rallentare una cattura,
in un contesto di informazione a cose fatte a lui dovuta, che
non vuole certo indicare sfiducia, bensì l'adozione di criteri
di normale riservatezza, nel desiderio di non incolpare
genericamente, senza riscontri, e nella consapevolezza delle
elevate probabilità di non favorevole conclusione delle
tantissime operazioni programmate.
   Il periodo temporale che si apre dinanzi a tutti noi
prospetta parametri di elevata pericolosità, rafforzati da
incidenze negative interne ed esterne, tutte protese a rendere
ancora più gravi i tanti problemi che incombono sull'ordine e
sulla sicurezza pubblica.
   Di fronte a tali evenienze, emerge in piena rilevanza
l'assoluta necessità di provocare e accentuare ogni possibile
sinergia promanante dalla società e dalle istituzioni, per far
fronte ad un nemico illiberale e antidemocratico portato per
sua malvagia natura a corrompere il tessuto sociale,
insidiandone i gangli più vitali, con lo scopo precipuo di
intensificare la ricerca e la cattura dei latitanti,
                         Pag. 861
l'individuazione dei sodalizi criminali e la spoliazione dei
mafiosi dalle ricchezze illecite accumulate.
   Le forze dell'ordine, unitamente alla magistratura e a
tutti gli apparati di tutela, sono pronte ad affrontare
qualsiasi emergenza, forti dell'apporto individuale e
collettivo di ogni singola struttura e dei tantissimi, oscuri
servitori dello Stato che quotidianamente profondono - con
zelo, abnegazione e spirito di servizio - ogni loro risorsa in
favore dei cittadini e dello Stato per la tutela del sistema
costituzionale democratico e per rimuovere ogni ostacolo al
benessere e al progresso del paese.
  PRESIDENTE. Colgo l'occasione per ringraziare il
prefetto Parisi del contributo costante che gli organismi da
lui dipendenti forniscono al lavoro della nostra Commissione.
  LUIGI BISCARDI. La relazione del prefetto, pur lucida e
puntuale, esige tuttavia qualche chiarimento in taluni
passaggi importanti.
   Il primo riguarda la posizione di carriera di Contrada.
Personalmente ero convinto che fosse vicequestore, mentre oggi
apprendo che occupa una posizione di vertice nella carriera
dirigenziale; si è verificato sul punto
un'understatement. Credo che il prefetto Parisi abbia
parlato dell'attività svolta da Contrada come dirigente
generale, per cui vorrei ricevere un chiarimento al riguardo.
   Strettamente connesso è il secondo quesito, che investe la
posizione incerta dello stesso Contrada nel triennio
1985-1987, rispetto alla quale il prefetto Parisi ha parlato
di attività non operativa.
   Il terzo punto concerne i rapporti con le fonti
confidenziali. A questo riguardo, si pone l'esigenza di
chiarire un determinato passaggio. Il prefetto Parisi ha
rilevato che lo strumento delle fonti confidenziali è stato
utilizzato ricorrendo a rapporti individuali tra dirigenti o
funzionari della pubblica sicurezza e singoli elementi
appartenenti alla mafia. Oggi il prefetto Parisi ha
sottolineato la necessità di una utilizzazione collegiale di
tali rapporti. Vorrei sapere se in proposito vi sia un
riferimento preciso all'attività del dottor Contrada e
comunque all'attività di pubblica sicurezza svolta nel periodo
precedente.
   L'ultimo quesito che vorrei rivolgere al capo della
polizia è in relazione alla posizione generale emersa dalla
relazione del prefetto Parisi ed attiene al rapporto con la
mafia. Il prefetto ha parlato di Stato e antistato,
sottolineando l'esigenza per la mafia di uno Stato debole, cui
non può che contrapporsi uno Stato forte. In ordine a tale
scontro vi è un momento che vorremmo conoscere meglio - almeno
nelle sue implicazioni, nei suoi contorni non ben definiti -
perché è attinente al rapporto tra mondo politico e mafia, tra
organi politici e dello Stato e mafia. Si tratta di
un'esigenza che ritengo fondamentale per l'attività che la
nostra Commissione svolgerà nei prossimi mesi.
  ANTONINO BUTTITTA. Signor prefetto, lei ha giustamente
osservato che in questi ultimi anni il potere del sistema
mafioso si è accresciuto in conseguenza del diffondersi della
produzione e del commercio delle droghe. E' un'osservazione
assolutamente giusta e vera! Proprio tale fatto ha provocato
in me qualche sorpresa, giacché proprio in questa sede, a
seguito di una precisa domanda rivolta dal nostro presidente
ad uno dei responsabili delle strutture che hanno compiti di
vigilanza, è emerso che sul patrimonio di Riina non erano
state fatte indagini.
   Volendo ampliare il discorso, ho la sensazione che il
settore delle indagini patrimoniali, diversamente da quanto si
sarebbe dovuto fare, vista l'importanza che riveste, sia stato
trascurato.
   Ritengo che proprio perché il potere della mafia non è
soltanto simbolico ma reale, e in quanto tale connesso a
risorse di carattere finanziario, occorra intensificare
l'impegno in tema di indagini di tipo patrimoniale.
   Rimanendo nello stesso ambito, non posso non esprimere una
qualche sorpresa
                         Pag. 862
 per il fatto che - almeno per ciò che mi consta - non
esistono in atto indagini organiche e sistematiche sul sistema
bancario del sud, con connesse agenzie finanziarie, ed in
particolare sul sistema bancario siciliano. In questi ultimi
anni tale sistema ha visto lievitare strutture, agenzie
finanziarie e bancarie, le cui rapide fortune non possono non
suscitare qualche sorpresa. Ma analoga sorpresa debbo
manifestare in ordine al fatto che - sempre in base a quanto
mi consta - non siano state promosse indagini nel settore
alberghiero che, come è noto, costituisce uno dei settori in
cui la mafia è solita riciclare i propri capitali. Anche in
questo caso mi è parso di veder sorgere nel sud, in
particolare in Sicilia, strutture alberghiere molto
significative dal punto di vista dell'impegno finanziario, le
cui origini proprietarie ci sfuggono. Penso che in tale
direzione le forze dell'ordine dovrebbero porre una certa
attenzione.
   Lei, signor prefetto, invece di parlare di mafia, ha
giustamente parlato di mafie, rilevando cioè l'esistenza di
mafie esterne ai nostri confini, ma riferendosi - almeno credo
- anche alle articolazioni o disarticolazioni del sistema
mafioso interno. Infatti, anche per il nostro paese è
sbagliato parlare di mafia, essendo più giusto, corretto, vero
e realistico parlare di mafie. Però, tra tutte queste mafie un
qualche collegamento ci deve pur essere! E' molto probabile
che il collante possa essere costituito dalla massoneria.
Anche questo è un settore che, a parte le iniziative di un
magistrato ben noto, meriterebbe una certa attenzione da parte
vostra.
  ANTONIO BARGONE. Ringrazio il prefetto Parisi per la sua
relazione puntuale ed esauriente, con riferimento alla quale
mi limiterò a porre alcuni brevi quesiti.
   Dalla relazione del ministro Mancino sulla DIA risulta
come vi sia un cambio di strategia da parte di Cosa nostra e,
conseguentemente, un cambio di strategia anche da parte degli
organi preposti all'azione di contrasto alle organizzazioni
criminali. Tale cambio si spiegherebbe con il venir meno del
patto tra mafia e politica e tra mafia ed istituzioni.
   Il direttore del SISDE, prefetto Finocchiaro, ha
dichiarato che quella del SISDE era un'azione "a fisarmonica",
adattandosi al tipo di attacchi ricevuti. Tale dichiarazione
fa presumere l'esistenza di un patto, di una sorta di rapporto
negoziale con la mafia. Si tratta comunque di un punto che non
è stato ben chiarito né nel corso dell'audizione del prefetto
Finocchiaro né nella relazione di stamane. Vorrei sapere dal
capo della polizia Parisi se sia possibile acquisire qualche
ulteriore elemento al riguardo ed in particolare in ordine
all'esistenza o meno di determinate responsabilità; e se da
ciò siano derivati contrasti sulle attività e strategie da
seguire.
   Relativamente all'episodio concernente il dottor Contrada,
vorrei fosse chiarito se il clima ed il rapporto negoziale che
si sono venuti a determinare siano il frutto di questo patto.
Da qui deriverebbe poi la sorpresa per l'arresto del dottor
Contrada.
   Vorrei inoltre sapere se il fatto che in alcune interviste
il dottor Contrada sia stato definito "chiaccherato" non abbia
suscitato motivo di preoccupazione negli organi di polizia,
tenuto conto per altro che, oltre alle chiacchiere, c'era
anche qualche fatto circostanziato, come quello indicato, per
esempio, nella sentenza del dottor Falcone in ordine alla
vicenda riguardante il questore Immordino e il dottor
Contrada.
   Sempre con riferimento a tale episodio, lei, dottor
Parisi, ha affermato che allorquando il dottor Contrada venne
a trovarla, nel dicembre del 1985, al termine del suo rapporto
come capo di gabinetto dell'Alto commissario (prima De
Francesco e poi Boccia), chiese di non avere più incarichi
operativi e lei lo accontentò. Vorrei sapere per quale motivo
il dottor Contrada non voleva più ricevere incarichi operativi
e perché lei lo accontentò, tenendo conto tra l'altro che,
almeno da quanto risultava al ministero competente e al capo
della polizia, si trattava di un funzionario irreprensibile.
                         Pag. 863
   Vorrei altresì sapere se tale episodio si possa spiegare
alla luce di alcune affermazioni fatte qui dal ministro
Mancino, secondo cui un buon poliziotto deve essere capace di
penetrare nell'organizzazione criminale. Un'affermazione,
questa, che ha lasciato perplessa la Commissione e che non
credo trovi giustificazione, tenuto conto che le attività di
un poliziotto hanno confini molto precisi, diversi da quelli,
per esempio, di chi opera per il SISDE.
   Riallacciandomi al quesito che ho posto all'inizio del mio
intervento, rilevo che anche lei, dottor Parisi, ha parlato di
un ciclo concluso della storia di Cosa nostra. Vorrei sapere
se ciò possa essere correlato con l'analisi compiuta dal
ministro Mancino nel corso della sua relazione sulla DIA e con
l'affermazione fatta dal direttore del SISDE.
   Quanto al segretariato di polizia, il ministro Mancino ci
ha chiarito, in questa sede, la sua opinione in proposito.
   Ho ricordato quale sia stata la posizione del PDS nel
momento in cui si discuteva la legge istitutiva dell'Alto
commissario nonché la nostra proposta di sottoporlo alla
giurisdizione della Presidenza del Consiglio e non a quella
del Ministero dell'interno, consapevoli del fatto che ciò
avrebbe potuto consentire un vero coordinamento tra le forze
di polizia che, fin quando dipenderanno da ministeri diversi,
probabilmente incontreranno qualche difficoltà in più in
termini di coordinamento.
   Vorrei sapere cosa ne pensa di una soluzione di questo
genere, visto che la questione del coordinamento rimane sempre
sullo sfondo, rappresentando il problema dei problemi
relativamente all'azione di contrasto.
   L'ultimo punto riguarda i sequestri e le confische, a
proposito dei quali, fino ad un certo momento storico i dati
sono abbastanza sconfortanti. Vorrei sapere se le modifiche
legislative intervenute in questa direzione possano essere
utili per un'inversione di tendenza rispetto ad un'azione di
contrasto più incisiva in relazione ai patrimoni mafiosi e se
vi siano problemi di gestione di tali beni per i quali vi è
bisogno di qualche modifica legislativa.
  ALTERO MATTEOLI. Signor prefetto, non me ne voglia ma a
differenza del collega Bargone, non ho trovato né puntuale né
esauriente la sua relazione, che mi sembra impostata su linee
generali. Mi consenta pertanto di farle alcune domande.   Si è
parlato del patrimonio di Riina, un megagiro di miliardi, e
poi dalla televisione e dai giornali vediamo l'immagine di una
casa modesta, con i panni stesi ai terrazzi, dove vivono la
moglie ed i quattro figli; qualcuno ha parlato di 300 omicidi,
altri di 180, ma il minimo che è stato citato è di 100
omicidi. Abbiamo inoltre appreso che Riina viveva nel centro
di Palermo o che comunque non si era mai allontanato da
Palermo e dalla Sicilia. Lei ha parlato - ecco la mancanza di
puntualità e di completezza della sua relazione - dell'arresto
di Riina come di un compendio di efficienza, anche se pare che
egli vivesse da vent'anni in quella regione, anzi addirittura
nella stessa città. Lei è il capo della polizia: tutto qui
quello che ha da dire alla Commissione antimafia sull'arresto
e sulle cose che ho ricordato in relazione a Riina?
   Lei ha iniziato la sua relazione dicendo che non si era
ancora spento l'eco dei successi della polizia e della
magistratura quando è intervenuto l'arresto di Contrada.
Quello che è apparso agli occhi degli italiani non è stata una
difesa dovuta del capo della polizia nei confronti di un
funzionario che - lo abbiamo saputo stamane perché qualche
collega ci si è soffermato - aveva raggiunto i massimi vertici
(leggendo le carte, evidentemente per mia ignoranza, non avevo
capito che quel grado era di un determinato vertice, e vedo
che anche altri colleghi non lo avevano capito) ed in fin dei
conti era in attesa dei risultati delle indagini della
magistratura, ma ha significato qualcosa di più.
                         Pag. 864
   Mi permetto di rivolgere al prefetto Parisi una domanda
che ho già posto al ministro Mancino: quando il prefetto De
Francesco ha lasciato l'Alto commissariato, ha scritto una
nota tutta incentrata sull'elenco delle doti di Contrada,
circa il quale già intorno al 1982 si era, per così dire,
consumata qualche chiacchiera. Tale nota è una esaltazione del
funzionario Contrada, oggi dirigente: è usuale questo? De
Francesco si è comportato nello stesso modo per altri
dirigenti o funzionari, oppure si è limitato a farlo soltanto
nei confronti di Contrada? Ciò è estremamente importante per
capire come lo Stato in questi anni abbia affrontato l'azione
di contrasto alla mafia e con quali uomini. Certamente
Contrada può essere una vittima - lo auspico, soprattutto per
lo Stato italiano - ma una risposta ce la dovete dare! Ce la
deve dare il ministro, ce la deve dare lei perché, se
riteniamo, come mi sembra di capire, che prima di andarsene il
prefetto abbia voluto lasciare un documento in difesa di
questo dirigente nell'eventualità che gli fosse potuto
accadere qualcosa, allora questa è una iattura che spiega il
punto al quale siamo arrivati!
   L'ultima domanda che desidero rivolgerle riguarda l'uso
cauto e responsabile del pentitismo nell'ipotesi che tra 286
collaboratori della giustizia vi possano essere pentiti
strumentali (tutto questo è fisiologico e certamente non mi
scandalizza). Le norme che sono state varate, delle quali ha
parlato stamane (il decreto-legge n. 8 del gennaio 1991 e la
legge dell'agosto 1992, che prevede un servizio centrale di
protezione), ed i mezzi messi a disposizione dal Parlamento
sono sufficienti per gestire un numero di pentiti così alto,
con circa 885 familiari? Lei inoltre ha parlato di profili
interforze: in quale misura prestano servizio di protezione?
Vi sono interforze percentualmente uguali o vi sono degli
squilibri?
  PRESIDENTE. Colleghi, abbiamo l'esigenza di fare il
punto dei nostri lavori perché sia il Presidente Spadolini sia
il Presidente Napolitano hanno chiesto di concludere entro le
11,20 per imprescindibili impegni di Assemblea. Possiamo
pertanto proseguire nei nostri approfondimenti di carattere
politico, pregando il prefetto Parisi - come è già avvenuto
altre volte, per esempio con il ministro Martelli - di
tornare, compatibilmente con i suoi impegni, martedì prossimo
nel pomeriggio; diversamente dovremo stringere molto - forse
troppo, valutatelo voi - i tempi degli interventi.
  VINCENZO PARISI, Capo della polizia. Sarei
dell'avviso di rispondere in termini essenziali ed evitando di
far perdere troppo tempo alla Commissione alle domande che mi
sono state rivolte, prendendo nel contempo nota delle altre
questioni, alle quali potrò rispondere nel corso di un
successivo incontro.
  GIROLAMO TRIPODI. Ho ascoltato molto attentamente
l'esposizione del prefetto Parisi ma non ho trovato risposte
esaurienti, soprattutto in relazione al problema per il quale
abbiamo invitato il capo della polizia a partecipare alla
presente audizione. Il problema è quello dell'arresto del
questore Contrada, che configura una vicenda inquietante; e lo
è diventata ancor di più quando, al momento dell'arresto per
il reato di associazione mafiosa, egli ha rilasciato alla
stampa dichiarazioni che certamente hanno turbato la
stragrande maggioranza degli italiani. Quelle dichiarazioni
infatti sono state frettolose, intempestive e soprattutto
pericolose perché egli ha affermato che il dottor Contrada,
essendo un funzionario di grande fedeltà alle istituzioni,
certamente non avrebbe potuto incorrere in fatti così gravi di
collegamento con le cosche mafiose.
   In quel momento egli ha messo in discussione due questioni
di fondo. La prima è che sostanzialmente il provvedimento di
custodia cautelare ordinato dai magistrati era una decisione
infondata che, come tale, non doveva essere presa: questa è
stata l'impressione che abbiamo avuto. La seconda è una
modifica del
                         Pag. 865
giudizio sulla validità delle rivelazioni dei pentiti,
naturalmente con tutte le cautele circa l'esigenza di
riscontri per poterne stabilire la fondatezza: in quel
momento, nelle dichiarazioni del signor prefetto,
l'utilizzazione dei pentiti è stata messa in discussione. Il
prefetto Parisi attraverso la stampa ha risposto all'onorevole
Ayala cercando di fare alcune precisazioni, perché le prime
dichiarazioni all'opinione pubblica erano sembrate una difesa
d'ufficio di fronte al coinvolgimento di un esponente delle
forze dell'ordine; questo certamente è preoccupante, perché
non si vede come si possa giudicare valido a proposito di
certi personaggi il contributo di taluni collaboratori e
invece non valido a proposito di altre eventuali
responsabilità.
   Ritengo che su questa questione vada finalmente data una
risposta chiarificatrice, che spero sarà tale da correggere le
affermazioni cui prima mi sono riferito.
   Circa la vicenda del dottor Contrada si possono citare
ulteriori precedenti. Abbiamo ascoltato in merito il capo dei
SISDE, dottor Finocchiaro, ed il ministro competente, che ci
hanno detto delle riserve del questore Immordino sull'allora
commissario Contrada. Ed a conferma delle posizioni del
questore Immordino vi è stato anche il pronunciamento del
giudice Falcone.
   Perché allora si vuol dare oggi un giudizio non positivo
nei confronti di queste due persone che non sono più con noi e
quindi non possono rispondere? Per quanto riguarda Immordino,
come ha ricordato un collega, v'era stato anche un giudizio
del prefetto De Francesco, quando era Alto commissario per la
lotta alla mafia.
   Si tratta di elementi che gettano ombre inquietanti sulla
vicenda. Essi non contribuiscono alla ricerca della chiarezza
ed a fornire alla gente risposte in un momento in cui è molto
preoccupata per quanto avviene e per il rafforzamento delle
organizzazioni mafiose, soprattutto in quelle regioni in cui
il fenomeno è più radicato.
   Ritengo che, nonostante l'arresto di Riina, non si possa
certo dire che la mafia è stata sconfitta. Essa è ancora
presente e non solo in Sicilia! Questa mattina, dottor Parisi,
lei si è soffermato in particolare sulla presenza delle
organizzazioni criminali in Sicilia, parlando di cinquemila
aderenti alla mafia, appartenenti a duecento cosche (che lei
ha definito sodalizi), ma la mafia è presente anche in altre
zone del paese.
   Per queste ragioni mi attendo dal capo della polizia
precise risposte. Bisogna dire come stanno le cose anche in
riferimento a quanto riguarda il giudice Falcone ed il
questore Immordino.
   La vicenda Contrada non è l'unico fatto sul quale
riflettere. Qualche giorno fa il procuratore della Repubblica
di Firenze, dottor Vigna, ci ha detto, in relazione alla
scoperta del famoso autoparco di Milano, che numerosi
funzionari della Polizia di Stato e della Guardia di finanza
frequentavano quel posto, dove venivano consumati gravi
delitti e tessuti intrighi e losche operazioni anche in
collegamento con ambienti della massoneria.
   Non vi è dunque da scandalizzarsi di fronte a questi
fenomeni, che si sono verificati in numerose occasioni. Del
resto, anche per quanto riguarda i servizi segreti si sono
prodotte in passato molte deviazioni ed ancora rimangono
oscure alcune vicende di stragi verificatesi nel nostro paese.
   Un'ultima domanda riguarda una sua affermazione, dottor
Parisi. Lei ha parlato di Stato debole: ebbene, lo Stato è
debole, ma, a mio giudizio, è più proprio parlare di Stato
compromesso. Basti pensare al fatto che non si è riusciti ad
arrestare Riina per venti anni e che sono ancora latitanti
numerosi mafiosi in Calabria ed in altre regioni. Alcuni
latitanti sono stati catturati, ma molti sono ancora tali e
continuano a terrorizzare, ad organizzare delitti ed a
controllare il territorio.
   Non mi riferisco ad una compromissione delle forze
dell'ordine, ma al fatto che lo Stato non agiva nel suo
complesso contro la mafia. Per tale ragione, ritengo
                         Pag. 866
che la mafia non rappresenti un fenomeno antistato: essa
infatti controlla il territorio delle zone in cui opera e
decide tutto quanto vi avviene.
   Le confessioni dei pentiti, che abbiamo ascoltato o letto,
dimostrano che la mafia, anche attraverso i suoi rapporti con
la massoneria e con ambienti della pubblica amministrazione,
riesce a diventare Stato, e non è antistato, nelle zone in cui
opera. Essa tiene sotto controllo il potere economico e quello
amministrativo.
   Anche su questo argomento occorrono chiarimenti che
consentano di uscire da una visione molto vaga delle cose.
  VINCENZO SCOTTI. Credo sia superfluo ringraziare il
prefetto Parisi per il suo impegno e per la relazione svolta.
   Desidero rivolgergli tre quesiti. Il primo di essi
riguarda Contrada: non siamo i giudici chiamati a valutare il
comportamento di Contrada e quindi ad emettere una sentenza,
siamo tuttavia chiamati a fare una valutazione su un problema
estremamente delicato, circa il quale vorremmo conoscere il
giudizio del capo della polizia.
   In assenza di una specifica legislazione sui collaboratori
di giustizia e esistendo un regime di contatti personali e
diretti dei singoli funzionari con il mondo della criminalità,
con la mafia, al fine di ottenere informazioni e valutazioni
(si afferma: "penetrare dentro per conoscere e valutare e
quindi incriminare"), si sono prodotte di fatto in quegli anni
contiguità?
   Oggi cosa ha cambiato la nuova legislazione sui pentiti
dal punto di vista dell'operatività, del comportamento e
dell'atteggiamento delle forze dell'ordine nei confronti della
mafia?
   In questo contesto vorrei sapere qualcosa in più
sull'ambiente della questura di Palermo in quegli anni, viste
anche le divergenze e le contrapposizioni che esistevano tra
Contrada e altri funzionari. Ho anche chiesto di prendere
visione di tutta la relativa documentazione, per avere una
conoscenza complessiva della situazione. Mi interessa infatti
conoscere non soltanto il fatto specifico, sul quale indaga la
magistratura, ma quanto concerne i rapporti tra forze
dell'ordine e criminalità intervenuti in quegli anni, al fine
di individuare contiguità e conseguenze che ne possano essere
derivate e quindi le possibili occasioni di ricattabilità che
un sistema di tal genere consente alle confessioni dei
pentiti.
   La seconda domanda riguarda l'analisi che lei ha
effettuato, dottor Parisi, circa i pentiti, i patrimoni e la
ricerca dei latitanti. Nella sua qualità di responsabile della
pubblica sicurezza, come valuta oggi rispetto al passato gli
strumenti a disposizione delle forze di polizia? Il
cambiamento è frutto di questo insieme di strumenti o vi è
qualcosa d'altro?
   La terza domanda riguarda l'arresto di Riina. Come vede
sotto il profilo operativo l'evolversi della situazione in
relazione ai possibili contrasti interni alla mafia? Credo che
una valutazione dell'evoluzione dei fatti possa servire a
comprendere da dove viene fuori la cattura di Riina, al di là
della formale esposizione di come essa sia avvenuta.
  ROMANO FERRAUTO. I richiami alla stringatezza formulati
dal presidente sono sempre garbati: per quanto mi riguarda li
rispetto pienamente.
   Pongo al dottor Parisi due domande. La prima è correlata
ad un quesito del collega Scotti, relativo alle contiguità ed
ai possibili riflessi derivanti da certe situazioni.
   Dottor Parisi, poiché tutte le strutture, le associazioni
e gli enti organizzati dagli uomini subiscono o possono subire
le conseguenze dei comportamenti degli stessi e poiché ogni
struttura deve potersi salvaguardare, non è forse opportuno
pensare oggi ad una struttura interna di autotutela della più
generale struttura della polizia? Ad un organismo intelligente
che sappia dare ai comportamenti degli uomini motivazione e
giustificazione affinché la struttura stessa possa continuare
a sopravvivere? L'interrogativo posto dall'onorevole Scotti
poteva - forse -
                         Pag. 867
anche essere ampliato fino a comprendere tale conseguenza,
estremamente importante in questo momento.
   La seconda domanda concerne l'attività della Commissione,
la quale vuole collaborare con le varie commissioni antimafia
che si stanno costituendo negli altri paesi della CEE. Lei
stesso ha detto che esiste un coordinamento tra le forze di
polizia, e che una maggiore attenzione, rispetto al passato,
viene prestata non solo ad esso, ma anche all'attività di
prevenzione da parte delle forze di polizia europee nei
confronti del fenomeno e della criminalità di stampo mafioso.
   Vorrei sapere se dall'attività finora svolta emergano
indicazioni utili per la Commissione e per gli altri organismi
europei contro la mafia; mi interessa soprattutto sapere se
lei abbia notato che il fenomeno mafioso è più radicato di
prima o se si sta radicando in altri paesi europei. Mi chiedo
cioè se questa "mappatura" sia utile all'attività d'indagine
della Commissione, il cui panorama di riferimento è molto più
ampio di quello italiano.
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Ho colto nella relazione del
prefetto Parisi un'ulteriore precisazione sulla vicenda del
dottor Contrada, che è superfluo ribadire reputo anch'io
estremamente delicata e dolorosa; essa si è resa necessaria
perché le dichiarazioni a caldo del prefetto Parisi erano
parse a molti, forse al di là della sua stessa volontà, non
sufficientemente rispettose dell'autonomia della magistratura.
Facendomi interprete di questo disorientamento, avevo chiesto
un chiarimento, che egli tempestivamente, con grande
chiarezza, ci ha fornito oggi, tranquillizzandomi
maggiormente. Dunque, ci troviamo tutti d'accordo sul fatto
che, al di là della intrinseca piacevolezza o spiacevolezza
della vicenda, essa è comunque affidata all'esame dei
magistrati, dei quali dobbiamo attendere la decisione.
   Invece mi convince fino ad un certo punto - questo mio
commento si riferisce anche ad alcune osservazioni emerse nel
corso dell'audizione del ministro Mancino - la questione della
contiguità e necessità degli ufficiali di polizia giudiziaria;
tale questione, se riferita al caso del dottor Contrada (che
conosco da molti anni, per questo mi auguro che possa fare
valere le sue buone ragioni), mi ha lasciato sorpreso in
quella come in questa occasione.
   Poiché talune accuse hanno un preciso e grave contenuto,
il problema è stabilire in quale modo i giudici agiranno per
accertare la fondatezza o meno di tali accuse. Ove esse non
risultassero fondate, tutti tireremmo un sospiro di sollievo;
in caso contrario, il problema sarebbe un altro. Ma il
contenuto di quelle accuse non potrà mai essere inquadrato
nell'ambito della necessità e contiguità operativa
dell'ufficiale di polizia giudiziaria.
   Per molti anni ho lavorato a strettissimo contatto dei
vari corpi di polizia ed ho avuto anche rapporti di
affettuosissima e profonda amicizia con alcuni uomini,
soprattutto con Ninì Cassarà. So che esiste la necessità di
coltivare relazioni con i confidenti, cosa che per altro mi
veniva riferita; per esempio, come contropartita si poteva
offrire la concessione di una licenza di commercio ad un
congiunto che aveva difficoltà ad ottenerla o ad attendere i
tempi lunghi della burocrazia. Se ci muoviamo sul piano della
necessità di coltivare determinati rapporti, credo che nessuno
poi debba inorridire della loro esistenza, ma non possiamo
spingerci fino al punto di ammettere il contenuto di quelle
accuse. Quindi, stiamo attenti a non immaginare un'attività di
polizia giudiziaria soltanto di questa natura, svolta per
altro da persone dotate di grande serietà e zelo, dalle quali
ho imparato uno spirito di sacrificio che molte volte mi ha
lasciato sorpreso; non dico ciò soltanto perché è presente il
capo della polizia, ma perché è vero, come confermano,
purtroppo, i tragici epiloghi di alcune vite umane. Non
possiamo però immaginare che in quegli anni a Palermo, come in
qualunque altra città italiana, i comportamenti con quel tipo
di contenuto contestati al dottor Contrada fossero di
routine. Stiamo
                         Pag. 868
molto attenti a non commettere questo errore, perché faremmo
un torto alla polizia ed alla serietà degli uomini che
svolgono tale mestiere.
  VINCENZO SCOTTI. Questo è l'aspetto da chiarire, non in
riferimento alla vicenda del dottor Contrada, ma in generale;
il capo della polizia può dissipare un clima...
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Siccome la stessa situazione si è
creata durante l'audizione del ministro Mancino, chiarii in
quell'occasione, forse in modo più conciso di ora, che era
estremamente equivoco e pericoloso avventurarsi in questo tipo
di discorso, se collegato alla vicenda del dottor Contrada.
   Alcuni contenuti delle accuse sono gravissimi; ovviamente
speriamo che si rivelino infondati ma, ove dovessero trovare
conferma, quello non sarà mai il parametro di comportamento
ammissibile per un ufficiale di polizia giudiziaria. Né si può
immaginare che lo stesso parametro sia stato adottato da altri
ufficiali, sia pure per nobilissimi fini, perché questo
significherebbe arrecare un gravissimo torto alla polizia.
   Per quanto riguarda il problema del pentitismo, la
relazione del prefetto Parisi ribadisce ancora una volta ciò
che in fondo era scontato e che in una precedente audizione
gli chiesi di ribadire (personalmente la risposta la conosco
ormai da anni).
   Sull'utilità dei pentiti non vi è nulla da discutere,
sarebbe semmai auspicabile che ve ne fossero sempre di più,
anche se il loro numero, rispetto al passato, ci consente di
guardare con ottimismo al futuro.
   La relazione del prefetto Parisi ribadisce il problema
dell'utilizzazione di queste particolari fonti processuali,
problema che deve essere tutto spostato sulla professionalità
dei magistrati. So bene che richiamare esperienze personali è
spiacevole, però siccome da esse si traggono punti di
riferimento certi, essendo vicende vissute in prima persona,
devo ricordare il noto e sempre più citato episodio
Pellegriti; esso mi pare emblematico di quel rischio, insito
in qualunque vicenda di pentitismo, cui faceva riferimento il
prefetto Parisi. Ero presente, insieme a Giovanni Falcone,
all'interrogatorio di Pellegriti; non voglio esaltare la
professionalità del collega, perché non ne ha bisogno, né
tanto meno la mia, però dopo dieci minuti abbiamo capito che
quel personaggio ci prendeva in giro. Che poi abbia accusato
l'onorevole Lima di essere il mandante di gravissimi omicidi e
che tutto questo (viste le conseguenze legate a quel verbale,
che conteneva una contestazione di calunnia) abbia dato luogo
a strumentalizzazioni di tipo politico, questo è un altro
affare. E' sicuro invece che quando si tratta di magistrati di
una certa esperienza professionale e specifica si può riuscire
a portare i pentiti fuori strada; riconosco che non è facile
e, obiettivamente, i magistrati di Palermo, che conosco da
anni (con alcuni ho persino lavorato, ma non voglio
distribuire pagelle a nessuno), possono trovarsi in
difficoltà. A me pare, comunque, abbastanza inverosimile che
essi si trovino esposti al rischio di farsi portare per mano
da pentiti "strumentali" verso chi sa quali ignoti lidi.
   Vorrei ribadire che i pentiti coinvolti nel caso Contrada
sono soggetti che su altre vicende hanno dimostrato notevole
affidabilità; il che ovviamente non vuol dire che essi non
possano riferire moltissimi fatti veri insieme ad altri falsi:
si tratta di una cautela su cui, dal punto di vista
dell'approccio intellettuale, dobbiamo essere tutti d'accordo.
Penso, per esempio, a Buscetta, la cui affidabilità ha
addirittura superato il vaglio della Corte di cassazione;
anche buona parte dell'impianto generale del maxiprocesso si
fonda sulle sue dichiarazioni, su cui la Corte non ha rilevato
elementi contrari. Questi pentiti non offrono margini di
dubbio circa la loro inaffidabilità generica, ma è chiaro che
nel caso specifico devono essere controllati ed effettuati i
fondamentali riscontri.
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   In conclusione, siamo tutti d'accordo sia sull'opportunità
di utilizzare al massimo i pentiti sia sulla necessità che la
magistratura agisca con professionalità, prudenza e buon
senso.
   Vorrei conoscere l'opinione del prefetto Parisi sulla
situazione presente e futura, lasciando da parte il passato ed
i motivi per cui Riina è stato latitante per 23 anni.
  PRESIDENTE. Su questa questione vi è qualche intuizione.
  GIUSEPPE MARIA AYALA. Sì, ci sono.
   Poco fa, su una questione che adesso illustrerò, ho
scambiato qualche opinione con l'amico e prefetto Rosi;
premesso che non dispongo di una palla di vetro (anche se
l'avessi, non saprei leggervi dentro), mi interrogo sullo
scenario che si prospetterà dopo l'arresto di Riina. Insieme
alla soddisfazione per la cattura, sia pure tardiva, di questo
pericolosissimo criminale, lo scenario a mio avviso possibile
e che ritengo pericoloso, è il seguente: la progressiva
clandestinizzazione dell'organizzazione mafiosa, la tendenza
pronunciata a non compiere più alcun atto particolarmente
visibile dal punto di vista criminale e, quindi, una
conseguente maggiore difficoltà investigativa.
   Credo sia superfluo citare la situazione determinatasi
dopo la strage di Ciaculli del 1963, cui seguì all'interno
dell'organizzazione mafiosa una sorta di diaspora; essa entrò
in una fase di grande clandestinizzazione ed il compito dello
Stato diventò oggettivamente più difficile, al di là di una
certa volontà politica o meno. E' chiaro che quella situazione
non servì ad indebolire la mafia, che anzi trovò il modo di
ricostituirsi e rafforzarsi, fino al punto in cui, purtroppo
tragicamente, abbiamo dovuto prenderne atto.
   Mi chiedo se l'ipotesi dell'arresto di Riina, la sua
sconfitta come uomo, ma soprattutto la fine della sua
strategia fondata sul sangue, sul terrore e sull'attacco anche
diretto, se necessario, alle istituzioni dello Stato, possa
comportare la decisione di un cambiamento radicale di
strategia, finora caratterizzata da una forte visibilità
operativa e comportamentale dell'organizzazione. Mi chiedo
cioè se questa sconfitta possa essere tesaurizzata da quelle
menti raffinatissime (la citazione, nota, è di una persona che
di mafia se ne intendeva!), per cui dalla grande visibilità,
dall'aggressione, dalla consumazione di omicidi, intesi quasi
come strumenti ordinari per la gestione e l'incremento del
potere mafioso o la rimozione di ostacoli, si possa passare ad
una progressiva e quanto più forte sua clandestinizzazione.
   Su questa ipotesi vorrei conoscere l'orientamento del
prefetto Parisi, perchè se essa fosse vera comporterebbe
maggiori difficoltà d'indagine. Se il prefetto condivide
questo tipo di eventualità, vorrei sapere che genere di
risposta intenda dare dal punto di vista operativo.
   Non vi è dubbio che parlare di sconfitta della mafia -
credo siamo tutti d'accordo - sia un dato che appartiene al
mondo dei sogni; è vero invece che essa non vive una
situazione felice, attraversa un periodo di sbandamento.
   Sono per altro convinto che nell'associazione mafiosa vi
sia una sorta di duplice oggettivo indebolimento, di tipo
esterno ed interno. Infatti, dal punto di vista esterno, essa
vede venire meno alcuni tradizionali rapporti con "pezzi"
della polizia e delle istituzioni; dal punto di vista interno,
la pressione terroristica e dittatoriale di Riina ha
provocato, come avviene in ogni regime di potere analogo, la
ribellione ed il rifiuto. Tutto questo spiega l'elevato numero
dei pentiti, incoraggiati, peraltro, dalla legislazione
premiale adottata dallo Stato - anche se non possiamo
attribuire soltanto ad essa la proliferazione del fenomeno del
pentitismo. A mio avviso la causa è stata innanzitutto una
crisi oggettiva interna all'associazione mafiosa, che
ovviamente è stata favorita dalla positività di questa
normativa, anch'essa purtroppo tardiva.
   Infine, vorrei conoscere la valutazione del prefetto
Parisi, sicuramente la più qualificata, sull'attuale stato di
concretizzazione del famoso coordinamento di cui
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tanto si parla e che è indubbiamente necessario; in
particolare, vorrei che egli esprimesse il suo punto di vista
sulla figura del Segretario generale, cui ha fatto riferimento
anche il ministro Mancino.
   Un'ultima curiosità personale riguarda Piddu Madonia. Per
quelle che sono le mie modeste conoscenze sull'argomento,
Francesco Madonia, e la sua famiglia di San Lorenzo, può
essere indicato come un boss mafioso, ma Piddu Madonia cosa
c'entra? Vi sono forse delle novità rispetto alle mie
conoscenze, purtroppo datate da almeno due anni? Sono rimasto
molto meravigliato nell'apprendere che Piddu Madonia, che non
è parente dei Madonia di Palermo, è assurto al secondo posto
della scala gerarchica della mafia.
  SALVATORE FRASCA. Ringrazio innanzitutto il prefetto
Parisi per l'ampia ed interessante relazione svolta. Questo è
un momento in cui il popolo italiano si sente particolarmente
vicino e legato alle forze di polizia. Il prefetto sa che
nella storia del nostro paese non sempre il popolo si è
identificato con le forze dell'ordine; ora questa sorta di
iato si sta via via superando grazie ai risultati conseguiti
dalle stesse forze dell'ordine nel corso della lotta contro la
mafia e la criminalità organizzata.
   Per quanto riguarda l'arresto di Riina, di questo
contabile di impresa, così come si è qualificato, vorrei
chiederle se a suo giudizio si sia effettivamente concluso un
ciclo e, in caso affermativo, come pensa si possa
ristrutturare la mafia in Sicilia. Come si pongono le forze di
polizia di fronte ad una probabile ristrutturazione della
mafia in Sicilia?
   Come ben sappiamo, la mafia siciliana è la madre di tutte
le mafie e, come è stato osservato da qualche collega, essa è
purtroppo presente anche in Calabria. Al riguardo occorre dire
che sia il ministro dell'interno sia le forze dell'ordine
dovrebbero prestare maggiore attenzione al fenomedo dei
sequestri di persona. Lei certamente saprà, signor prefetto,
che ancora oggi cinque sequestrati sono nelle mani della
cosiddetta onorata società. Si può intensificare lo sforzo per
cercare di restituire queste persone alle proprie famiglie?
Vediamo se lo Stato è in grado di rispondere al grido
straziante di queste famiglie!
   Ritengo inoltre che la regione Calabria sia la zona ove le
indagini, soprattutto quelle riguardanti gli omicidi, non
sortiscono i risultati sperati. Nella mia zona di origine, la
piana di Sibari, collocata nella provincia di Cosenza, nel
corso degli ultimi due anni si sono registrati ben venti
omicidi tutti di stampo mafioso; esecuzioni spietate che ci
fanno pensare alla Chicago degli anni trenta. Cosa si può fare
perché si venga a capo di tutti questi delitti?
   Per quanto riguarda il caso Contrada, il prefetto Parisi
ci ha fornito un'occasione per far cessare una polemica. A
questo punto ritengo che si debba attendere le risultanze
delle indagini condotte dalla magistratura, evitando di
attuare quel principio di Kaifa di cui ho parlato altre volte
(in questa Commissione a volte traspare una cultura da me
definita bulgara) e secondo il quale è bene che un uomo muoia
per la salvezza del popolo. Non vorremmo che a pagare un duro
prezzo per cercare di tacitare una polemica velenosa
registratasi nei vari palazzi dello Stato a Palermo, a
cominciare da quello della giustizia - che mi sembra non ne
esca bene nonostante gli sforzi ed i sacrifici compiuti -
fosse un funzionario di polizia.
  SAVERIO D'AMELIO. Ringrazio anch'io il capo della
polizia per la sua relazione, che ci dà il quadro della
situazione e ci induce, come organo politico, a compiere
alcune riflessioni. Del resto, gli interventi dei colleghi che
mi hanno preceduto vanno proprio in questa direzione, grazie
agli stimoli ricevuti dal prefetto Parisi.
   Per quanto attiene allo scenario descritto dal capo della
polizia in ordine alle difficoltà che incontrano le forze
dell'ordine nel difficile rapporto con la mafia, soprattutto
nel momento della penetrazione, credo che la relazione
                         Pag. 871
svolta ci faccia escludere (almeno io sono portato ad
escluderlo) che si vada sempre e comunque verso rapporti che
possono essere confusi con la contiguità. Certo, il problema
rimane aperto ma proprio le difficoltà di penetrazione in quel
mondo impongono regole più serie. Quando il collega Ayala
parlava di parametri che devono essere ben definiti, dava un
valido suggerimento, anche se purtroppo non siamo in presenza
di un problema matematico al quale dare una soluzione certa.
Ecco perché i problemi vanno affrontati caso per caso: ciò che
conta è che non si arrivi mai a stabilire una sorta di
contiguità.
   Detto questo, vorrei rivolgere una domanda al prefetto
Parisi. Subito dopo il fermo di Riina, a Palermo si è fatta
circolare la voce secondo cui il covo del boss sarebbe stato
tenuto sotto controllo per diversi giorni, tanto che sarebbero
state acquisite registrazioni televisive di visite fattegli.
La notizia è stata subito smentita da un portavoce dell'Arma
dei carabinieri, però, come spesso capita, le notizie, vere o
false che siano, producono certi effetti nell'opinione
pubblica e noi, come organo politico, dobbiamo essere sempre
attenti e sensibili agli umori dell'opinione pubblica, non
certo per assecondarla sempre e comunque ma per cercare di
orientarla attraverso informazioni certe che devono essere
date soprattutto in questi momenti. Vorrei pertanto sapere dal
capo della polizia se sia a conoscenza delle indagini compiute
e cosa ci possa dire per conseguire l'obiettivo cui ho fatto
cenno, ossia quella serenità dell'opinione pubblica che deve
apprezzare sempre di più lo sforzo compiuto dalle forze
dell'ordine in operazioni tanto difficili.
  CARLO D'AMATO. Per quanto riguarda la vicenda Contrada,
non mi unisco a chi ritiene improvvido l'intervento del capo
della polizia. Lo dico con molta chiarezza, anche perché
ritengo che il responsabile di un'organizzazione non possa
esprimere giudizi se non sulla base degli atti di cui dispone.
Devo pertanto rilevare che dall'esame della documentazione in
nostro possesso non mi sembra emergano elementi tali da poter
ritenere (salvo diverso avviso della magistratura, ed il capo
della polizia è stato molto corretto nel dichiarare di volersi
rimettere a tale giudizio) il Contrada un possibile
sospettato.
   Probabilmente a qualcuno è sfuggito che taluni magistrati
che hanno operato nel campo della lotta alla mafia (mi
riferisco, in particolare, ad una nota scritta dal dottor
Falcone) hanno più volte sottolineato la capacità, l'impegno,
l'intelligenza, la fattiva collaborazione della Criminalpol di
Palermo nelle indagini relative a procedimenti penali
particolarmente gravi, facendo specifico riferimento al dottor
Contrada, dirigente della stessa Criminalpol siciliana.
   Queste considerazioni mi fanno ritenere che evidentemente
il massimo responsabile delle forze dell'ordine non può, allo
stato degli atti, che esprimere un giudizio quale quello che
ha espresso. Se emergeranno fatti nuovi di diversa natura,
allora la situazione muterà, tuttavia la cultura del sospetto
non può essere certo privilegiata. Facciamola propalare da
altri, lasciando alla magistratura il compito di svolgere le
indagini.
   Vorrei chiedere al prefetto Parisi come mai il questore di
Palermo Immordino, descritto in maniera particolarmente
negativa, abbia potuto per tanti anni mantenere incarichi di
alto livello fino, appunto, a dirigere la questura di Palermo.
Come è stato possibile che un uomo il quale aveva avuto una
serie di collusioni con la mafia (se sono veri i verbali
citati), che si era reso autore di un atto gravissimo, come
l'espunsione del nome di Sindona da un verbale redatto da
Contrada, grazie all'aiuto del dottor Impallomeni, anch'egli
sospeso dalla polizia perché appartenente alla P2 e poi
riammesso dallo stesso Immordino, abbia ricoperto nel corso
degli anni responsabilità di alto livello? La prassi è che
nelle zone cosiddette calde dovrebbero essere inviati
funzionari di un certo peso e di un
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certo livello, per cui non si capisce come si sia potuto
inviare Immordino a Palermo.
   Vorrei riallacciarmi per un momento ad una valutazione
fatta dall'onorevole Scotti, che mi sono permesso di
riprendere più volte, relativa al salto di qualità compiuto
dalle forze di polizia nel corso di questi anni, probabilmente
grazie alle leggi varate recentemente. In pratica, qual è il
giudizio del capo della polizia rispetto alle attività delle
questure e degli organi investigativi circa l'accumulazione di
ricchezza sviluppatasi in questi anni da parte di
organizzazioni mafiose e camorristiche? Penso a capitali e a
patrimoni che ascendono a centinaia se non a migliaia di
miliardi. Solo le leggi recentemente approvate hanno
determinato questo salto di qualità? Che tipo di rapporto si è
avuto nel corso di questi anni, prima dell'emanazione di
alcune leggi, tra gli apparati dello Stato e la magistratura,
per cui solo adesso in maniera incisiva si è potuto operare?
E' vero che prima non c'era l'inversione dell'onere della
prova, però, vivaddio, si sapeva che a Napoli Nuvoletta
accumulava miliardi, che in Sicilia c'erano mafiosi che
avevano patrimoni per centinaia di miliardi; si sapeva che i
Galasso a Poggio Marino o nella zona del Torrese avevano
patrimoni per decine e centinaia di miliardi. Com'è possibile
che non si sia potuti intervenire in questa direzione se non
nel momento in cui è stata approvata una legge che ha fornito
alla polizia e alla magistratura quei poteri?
   Il nuovo clima che si respira e che conclude una fase con
l'arresto di Riina rappresenta un salto complessivo di
cultura, di modo di agire della polizia, o è soltanto
susseguente all'approvazione di alcune leggi? Che tipo di
giudizio viene dato rispetto a quanto verificatosi in passato
e a valutazioni che hanno visto presenti ed impegnate le forze
di polizia?
   Come ultima considerazione, signor prefetto, vorrei
ricordare che in Parlamento si riportano sempre le opinioni
della gente. Noi per mesi, per anni abbiamo sentito dire che
Riina era il capo della mafia, il capo di Cosa nostra,
addirittura qualche pentito ha ritenuto che fosse il capo di
tutte le mafie, così com'è stato ricordato in questa sede. Le
immagini televisive di questo personaggio - forse perché i
mass media hanno abituato i cittadini a vedere i
responsabili mafiosi come manager di grande livello,
culturalmente preparati - fanno sorgere qualche perplessità.
Certamente ci saranno elementi tali da far ritenere, in attesa
che si concluda l'attività giudiziaria in corso, Riina capo di
tutte le mafie. Tuttavia, nel giudizio popolare si fa strada
l'immagine di un uomo dimesso, che oggi la radio ha definito
un ragioniere.
   Non si sono ancora concluse le indagini giudiziarie, e già
si diffonde tutta una serie di notizie.
  ALTERO MATTEOLI. Non dimentichiamoci che la condanna
all'ergastolo è già stata emessa.
  CARLO D'AMATO. Certamente. Tuttavia, vorrei conoscere il
giudizio del capo della polizia, anche perché sono convinto
che non ci siano errori in ordine a questa vicenda.
  PRESIDENTE. Vorrei avere due informazioni ed una
valutazione.
   Nel documento che ci ha inviato il capo della polizia,
contenente una relazione sulla vicenda Immordino-Contrada, si
fa riferimento ad un episodio che getterebbe una luce
particolare sul dottor Immordino.
   Questi, pur essendo funzionario di polizia, avrebbe
mantenuto la carica di segretario della sezione del partito
comunista italiano di Villalba ed in tale veste avrebbe
partecipato ad uno scontro tra seguaci di Li Causi e seguaci
di Vizzini (capo mafia del posto). L'unico scontro che
storicamente ricordi è quello che vide Li Causi oggetto di
colpi di arma da fuoco durante un suo comizio. Vorrei sapere
se si tratti di questo episodio o di altri e coglierne meglio
il significato.
                         Pag. 873
  ANTONINO BUTTITTA. Quanti anni avrebbe Immordino?
  PRESIDENTE. E' morto quattro o cinque anni fa.
  VINCENZO PARISI, Capo della polizia. Aveva circa
65 anni negli anni ottanta.
  PRESIDENTE. Un tale Ammendolito ha inviato alla
Commissione alcuni documenti; se il prefetto dispone di alcune
notizie, credo sia interesse della Commissione avere un quadro
più completo al riguardo.
   Infine, sono state poste due questioni strategiche: la
prima, sulla quale è tornato in particolare l'onorevole
Scotti, a noi interessa in particolar modo. In sostanza, si
tratta della strategia incentrata sulla figura del confidente
che è stata seguita dall'autorità di polizia nella fase
precedente alla legislazione di sostegno sui pentiti, sugli
infiltrati, sulle consegne controllate e così via.
   Tutti noi sappiamo che, mentre il confidente a Varese o a
Pinerolo poteva significare una certa cosa, a Castel Vetrano,
a Trapani o a Marsala aveva un altro significato. Quindi,
vorremmo capire se sia stato un problema di carenza di mezzi e
di strumenti giuridici a portare ad una relazione
eccessivamente stretta tra funzionari di polizia e capi mafia
o uomini del crimine.
   Lei ha parlato di pregressi corrispettivi per i confidenti
e ha detto che adesso le cose sono chiare, al contrario di
quanto accadeva prima. Nel pregresso corrispettivo quale tipo
di prestazione era compresa? C'era la licenza commerciale, il
voler chiudere un occhio su un comportamento, su una presenza
o su una latitanza (il tutto ovviamente lasciato alla
discrezionalità del funzionario, che di volta in volta poteva
ritenere più utile un certo comportamento al fine di
conseguire un risultato di maggior significato, in un'indagine
di più ampio respiro)?
   Evidentemente in questo contesto ciascuno rischiava di
porsi di fronte al problema con una sua personale visione;
c'era chi era più rigido, più mediatore, più negoziale e così
via.
   La seconda questione strategica riguarda il problema di
cosa adesso accadrà nell'ambito di Cosa nostra. Lei dice che
si è chiuso un ciclo. Tutti noi speriamo che questa sia
l'occasione buona per dare un colpo se non decisivo così duro
da bloccare definitivamente un processo di ricostituzione.
Vorremmo, quindi, sapere se vi siano le condizioni per andare
avanti con la necessaria durezza su questa strada ed infine
cosa sia possibile ed utile fare per evitare che si realizzi
una terza fase per la mafia.
   Non credo sia possibile una clandestinizzazione
organizzativa così come si verificò dopo il 1963 (strage di
Ciaculli); infatti, oggi la mafia gestisce una tale mole di
traffici nazionali ed internazionali che clandestinizzarsi
significherebbe perderli e venir meno al ruolo svolto fino ad
oggi. Una valutazione di queste vicende, data dal suo
osservatorio, ci aiuterebbe a lavorare con una massa di
informazioni maggiori rispetto a quelle di cui oggi
attualmente disponiamo.
  ALTERO MATTEOLI. A me pare poco dignitoso dare al
prefetto Parisi soltanto pochi minuti per rispondere alle
nostre numerose domande.
  PRESIDENTE. Per martedì prossimo è fissata una seduta
pomeridiana, che manteniamo nel nostro calendario dei lavori e
nella quale proseguiremo l'audizione del capo della polizia.
Probabilmente il prefetto Parisi vorrà utilizzare i pochi
minuti che restano a nostra disposizione per cominciare a dare
alcune risposte.
  VINCENZO PARISI, Capo della polizia. Evidentemente
cinque o sei minuti non sono sufficienti a rispondere. Intanto
ringrazio il presidente, il vicepresidente e i parlamentari
tutti per questa opportunità che mi si offre per dare un
contributo di conoscenza più aggiornato su tutte le vicende
che ci riguardano.
   La vicenda Contrada non mi vede in una posizione diversa
da quella iniziale,
                         Pag. 874
seppure qualche malinteso possa avere ingenerato dubbi sul
ruolo che volevo assumere, che non era né di supermagistrato
né di avvocato difensore. Il mio ruolo era strettamente
istituzionale e si inseriva in una logica pienamente aderente
con la conoscenza del curriculum del funzionario.
Ricordo che la documentazione relativa al dottor Contrada è
stata messa a disposizione della Commissione che ha potuto
verificarla, consultarla e rendersi conto, com'è stato
riconosciuto autorevolmente, del fatto che si tratta di una
documentazione ineccepibile. Preciso che si tratta di
documentazione non da me predisposta e le cui valutazioni non
sono da me ispirate.
   Il dottor Contrada aveva avuto da me soltanto quel blocco
di tipo operativo dal momento che ero stato io (e non lui) a
decidere il suo impiego in un'attività non operativa. Tale
iniziativa, presa il 31 dicembre 1985 e che valse per i
tredici mesi di mia successiva permanenza fino ad esaurimento
dell'incarico, fu adottata al solo scopo tuzioristico di
protezione del funzionario, che non era in una posizione di
sicurezza completa, piena, per lo stesso ufficio, nel momento
in cui vicende precedenti avevano creato quelli che a me
sembravano degli equivoci.
   Nella documentazione relativa al funzionario emergono
valutazioni di autorevoli personaggi quali il prefetto Rocco,
già vicecapo della polizia, del prefetto Zecca, funzionario di
grandissimo merito e prestigio, del prefetto De Vito, che
aveva svolto alcune ispezioni, spesso con riferimento a temi
che poi sarebbero stati riconsiderati nelle imputazioni
successive. Tale documentazione mi induceva a ritenere che
fosse per me doveroso ricordare il curriculum di questo
funzionario contro dichiarazioni che potevano essere state
fatte in perfetta buona fede da parte di pentiti, al di là di
ogni interesse personale.
   Prescindo dall'episodio relativo al dottor Contrada, che è
affidato al giudizio della magistratura, per cui non desidero
far alcuna valutazione. Quella del dottor Contrada è una
carriera pulita, svoltasi secondo le regole; non c'è niente di
anomalo in essa, come non c'è niente di anomalo nel redigere
una lettera di apprezzamento. Nel momento in cui il capo di un
ufficio si congeda, a fronte di un dipendente meritevole,
usualmente si comporta in un determinato modo; non c'è niente
di strano.
   Non vorrei assumere un ruolo di difensore che non mi
compete, tuttavia non possiamo esaminare la condotta operativa
di oggi non tenendo conto dei metodi operativi in vigore negli
anni settanta, ottanta e precedenti. Le leggi sul pentitismo
hanno consentito alle autorità di polizia di operare in
maniera lineare, trasparente e soprattutto pulita. I rapporti
precedenti (prescindo dal caso Contrada perché non vorrei
attribuirgli condotte di comportamento che non sono in grado
di giudicare, dal momento che non abbiamo mai lavorato insieme
nella polizia giudiziaria) erano usualmente equivoci; si
producevano rapporti apparenti di contiguità in cui spesso da
un lato il funzionario valorizzava la sua capacità di
acquisire il confidente, dall'altro quest'ultimo valorizzava
il fatto di essere riuscito ad "avvicinare" il funzionario di
polizia o altri. Naturalmente, nessuno dei due poteva dire
diversamente.
   Il funzionario era sicuramente proteso alla ricerca di un
informatore, ovviamente su temi limitati, perché in ambienti
di mafia spesso tutto era legato a piccole guerre tra piccole
mafie, per cui non si arrivava mai molto in alto.
   Il pentitismo ha mutato la situazione: chiara la posizione
del funzionario, come quella del magistrato che deve
contattarlo; chiara la posizione del pentito e del
collaboratore, i quali forniscono per iscritto le proprie
dichiarazioni, assumendosi le relative responsabilità, in un
ruolo di dignità e direi anche di piena aderenza alle
possibilità di intervento probatorio e di valutazione dei
riscontri successivi.
   In questo senso, è evidente che possono esservi situazioni
pregresse che tendiamo a valutare come se fossero attuali. Una
capacità di penetrazione bisogna averla ma oggi può esistere
limitatamente
                         Pag. 875
alla capacità di contattare persone in grado di collaborare e
di offrire contributi. Ogni attività che fosse portata a
diversi tipi di conclusione sarebbe negativa, perché
rischierebbe nuovamente di ingenerare equivoci. Il che non
toglie contatti limitati con informatori da retribuire con
denaro - solo con denaro -, evitando qualunque altro tipo di
compromesso e di compenso.
   Naturalmente, ciò è un fatto fondamentale. Siamo di fronte
ad una stagione nuova; d'altra parte - come chiarirò meglio
nel corso dell'audizione di martedì prossimo - il pentitismo
ha acquisito una sua grande dignità, la quale va tutelata
tenendo però conto del discrimine che bisogna porre in merito
a ciò che riferiscono il pentito o il collaboratore in ordine
a fatti direttamente vissuti o riportati de relato,
laddove possano essere anche ignari trasmettitori di
informazioni non fondate.
   Ancora un flash sulla stato della mafia dopo
l'arresto di Riina. Indubbiamente, ci troviamo di fronte al
rischio di un mutamento del panorama della mafia. E' forse
prematuro dire cosa accadrà, perché potremmo sbagliare. Anche
noi, per quanto riguarda Piddu Madonia restammo sorpresi, ma
vi sono rivelazioni - sempre stando ai pentiti - convergenti
ed univoche in questa direzione. Vi è una cupola con alcune
persone, vi è addirittura un quinto nome assolutamente inedito
e sul quale non abbiamo ancora le idee chiare.
   E' evidente, quindi, che ci troviamo di fronte ad un nuovo
ciclo essendosene chiuso un altro, un nuovo ciclo apertosi
anche perché la crisi della rotta balcanica ha spostato verso
l'est i traffici di droga. Dunque, l'epicentro delle attività
di mafia, relativamente ai traffici illeciti, si colloca verso
il centro-est europeo ed ha abbandonato o tende ad abbandonare
quelle che erano le capitali naturali, le quali vedevano
soprattutto la Sicilia come epicentro di questi movimenti,
come centro di raffinazione della droga. Tutto ciò lo
constatiamo dal fatto che numerosi mafiosi sono stati trovati
in Germania. I paradisi fiscali e bancari, le possibilità di
investimento agevolato che vi sono all'estero portano alla
periferizzazione della mafia, cioè ad una sorta di
clandestinizzazione della mafia che rispecchia
l'internazionalizzazione della mafia stessa.
   Cosa accadrà adesso? Quali sono i fatti veri? Cosa è
avvenuto all'interno della compagine mafiosa? Vi sarà o meno
uno scontro tra bande? Finora non è accaduto nulla. E'
possibile che una parte della trasformazione sia già avvenuta,
almeno a giudicare dal numero di latitanti che sono stati
trovati in Germania (abbiamo riempito più di un aereo per
riportarli in Italia). Indubbiamente, la situazione è cambiata
in maniera considerevole ed il rapporto della Commissione con
altre strutture internazionali si rivela sempre più utile.
   Ritornando al tema dell'autotutela, che è stato
sensibilmente affrontato, vorrei dire che esso ha
rappresentato una costante: nel periodo della mia direzione, i
provvedimenti di espulsione, di allontanamento e destituzione
sono stati così numerosi che lei non può neanche immaginarlo.
Così come non è stato taciuto nulla. Quando la magistratura
deve procedere a carico di qualcuno che ha delinquito, che si
è comportato male, ci trova al suo fianco. Non abbiamo nulla
di personale. Distinguiamo fra illeciti privati e illeciti
legati all'attività di lavoro. Nei primi, il personale è
abbandonato. Nei secondi, cioè quelli che riguardano
l'attività di istituto, abbiamo il dovere di intervenire, se
non altro per dimostrare all'intera polizia giudiziaria, da
noi dipendente, che in caso di problemi l'amministrazione non
l'abbandona. Poi, la magistratura e la giustizia fanno il loro
corso.
   La legislazione sui pentiti è adeguata, come per ora lo
sono i mezzi. Certo, in futuro questa espansione crescente
potrà determinare qualche necessità in più. Indubbiamente,
senza i provvedimenti legislativi non avremmo fatto tanti
progressi. Gli stessi interventi sui patrimoni sono maturati
perché la legislazione ha
                         Pag. 876
permesso l'intervento della Guardia di finanza (più
specificamente della polizia tributaria), mentre per le forze
dell'ordine nel loro insieme è stato necessario
professionalizzarle, prepararle. Inoltre, non è detto che non
sia in corso una serie di interventi sui patrimoni (una
premura costante non solo dei ministri dell'interno che si
sono succeduti ma anche nostra); si sta mettendo a fuoco un
programma per intervenire sui patrimoni, programma che non ha
escluso, neanche per il passato, attenzione per il patrimonio
di Riina.
   Concludo ribadendo la mia disponibilità a riferire
ulteriormente su argomenti così importanti la settimana
prossima.
  PRESIDENTE. Nel ringraziare il prefetto Parisi, resta
stabilito che la Commissione tornerà a riunirsi martedì
prossimo alle 15,30.
La seduta termina alle 11,30.
                          Pag. I
                         ALLEGATI
                         Pag. II
                         Pag. III
                      ALLEGATO N. 1
Lettera del Capo della polizia, prefetto Parisi, al direttore
de la Repubblica, dottor Scalfari.
                         Pag. IV
                          Pag. V
                     ...(omissis)...
                         Pag. VI
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                         Pag. VII
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                         Pag. IX
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                          Pag. X
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                         Pag. XI
                      ALLEGATO N. 2
           Profilo operativo del "pentitismo".
                         Pag. XII
                        Pag. XIII
                     ...(omissis)...
                         Pag. XIV
                     ...(omissis)...
                         Pag. XV
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                         Pag. XVI
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                        Pag. XVII
                     ...(omissis)...
                        Pag. XVIII
                         Pag. XIX
                      ALLEGATO N. 3
             Evoluzione del fenomeno mafioso.
                         Pag. XX
                         Pag. XXI
                     ...(omissis)...
                        Pag. XXII
                     ...(omissis)...
                        Pag. XXIII
                     ...(omissis)...
                        Pag. XXIV
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                        Pag. XXXVI
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                       Pag. XXXVIII
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                        Pag. XXXIX
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                         Pag. XL
                         Pag. XLI
                      ALLEGATO N. 4
         Profilo giudiziario di Salvatore Riina.
                        Pag. XLII
                        Pag. XLIII
                     ...(omissis)...
                        Pag. XLIV
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