da "Vagabondaggio" (1887)
Il maestro dei ragazzi
La mattina, prima delle sette, si vedeva passare il maestro dei ragazzi,
mentre andava raccogliendo la scolaresca di casa in casa: con la mazzettina in una mano,
un bimbo restìo appeso all'altra, e dietro una nidiata di marmocchi, che ad ogni fermata
si buttava sul marciapiede, come pecore stracche. Donna Mena, la merciaia, gli faceva
trovare il suo Aloardo, già bell'e ripulito, a furia di scapaccioni, e il maestro,
amorevole e paziente, si trascinava via il monello, che strillava e tirava calci. Più
tardi, prima del desinare, tornava rimorchiando Aloardino tutto inzaccherato, lo lasciava
sull'uscio del negozio, e ripigliava per mano il bimbo con cui era venuto la mattina.
Così passava e ripassava quattro volte al giorno, prima e dopo il mezzodì,
sempre con un ragazzetto svogliato per mano, gli altri sbandati dietro, d'ogni ceto,
d'ogni colore, col vestitino attillato alla moda, oppure strascicando delle scarpacce
sfondate; però tenendosi accosto invariabilmente le scolare che stava più vicino di
casa, sicché ogni mamma poteva credere che il suo figliuolo fosse il preferito.
Le mamme lo conoscevano tutte; dacché erano al mondo l'avevano visto passare
mattina e sera, col cappelluccio stinto sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti
come le scarpe, il sorriso paziente e inalterabile nel viso disfatto di libro vecchio;
senza altro di stanco che il vestito mangiato dal sole e dalla spazzola, sulle spalle un
po' curve.
Sapevano pure che era un gran cacciatore di donne; da circa quarant'anni,
dacché andava su e giù per le strade mattina e sera, al pari di una chioccia coi suoi
pulcini, era sempre col naso in aria, agitando la mazzettina a guisa di uno zimbello, come
un vero uccellatore, in cerca di un'innamorata - senza ombra di male - una che lo
guardasse ogni volta che passava, e tirasse fuori il fazzoletto quando egli si soffiava il
naso - niente di più; gli sarebbe bastato di sapere che in qualche luogo, vicina o
lontana, aveva un'anima sorella. Talché lungo la perenne via crucis di tutti i giorni,
egli aveva delle immaginarie stazioni consolatrici, delle invetriate che soleva sbirciare
dacché svoltava la cantonata, e che avevano senso e parole soltanto per lui, alle quali
aveva visto invecchiare dei visi amati - o scomparirne per andare a maritarsi - egli solo
sempre lo stesso, portando una instancabile giovinezza dentro di sé, dedicando alle
figliuole il sentimento che aveva provato per le madri, mulinando avventure da Don
Giovanni nella sua vita da anacoreta.
Era come la conseguenza della sua professione, l'incarnazione degli estri
poetici che gli occupavano le ore d'ozio, la sera, dinanzi al lume a petrolio, coi piedi
indolenziti nelle ciabatte di cimosa, ben coperto dal pastrano, mentre sua sorella
Carolina rattoppava le calze, dall'altro lato del tavolinetto, anch'essa con un libro
aperto dinanzi agli occhi. Faceva il maestro di scuola per vivere, ma il suo vero stato
erano le lettere, sonetti, odi, anacreontiche, acrostici soprattutto, con tutte le sante
del calendario a capoverso. Portava, sotto il paletò spelato, da un capo all'altro della
città, strascinandosi dietro la scolaresca, la sacra fiamma dei versi, quella che fa
cantare le giovinette al chiaro di luna sul veroncello - e doveva farle pensare a lui.
Sapeva già, come se gliela avessero confidata, tutta la curiosità che doveva suscitare
la sua persona, i palpiti che destava una sua occhiata, le fantasie che si lasciava dietro
il suo passaggio. Troppo scrupoloso però per abusarne!
Un giorno, lo rammentava sempre con una dolce confusione interna, una
giovinetta alla quale andava a dare lezioni di bello scrivere a domicilio, volle
regalargli per la sua festa un bel fiore ch'era in un vasetto della scrivania - rosa o
garofano, non si rammentava pel turbamento che gli aveva fatto velo alla vista - glielo
presentava con un atto gentile, e gli diceva, al vederlo timido e imbarazzato:
- L'ho tenuto lì per lei, signor maestro.
- No... la prego... Mi risparmi...
- Come? non lo vuole?
- Seguitiamo la lezione, di grazia!... Queste non son cose...
- Ma perché? Che c'è di male...
- Tradire la fiducia dei suoi parenti... sotto la veste di istitutore... -
Allora la ragazza era scoppiata in una risata così matta, così impertinente,
che gli squillava ancora nelle orecchie al ripensarci, e ancora, dopo tanto tempo, gli
metteva in capo un dubbio, uno di quei lampi di luce che fanno cacciare il capo sotto il
guanciale, per non vederli, la notte.
Ah, quelle benedette ragazze, chi arrivava a capirle, per quanto gli anni
passassero! Esse gli ridevano dietro le spalle. - Poi, dopo molto tempo, quand'egli
passava a prendere i loro bimbi, tirando in su i baffetti ostinatamente neri, si sentivano
intenerire da una certa commozione ripensando al passato, alle rosee fantasie della prima
giovinezza, che evocava la figura melanconica di quell'eterno cercatore di amore.
- Entrate, don Peppino, il ragazzo sta vestendosi.
- No, grazie, non importa.
- Volete aspettare al sole?
- Ho qui i ragazzi. Non posso lasciarli.
- Quanti ne avete, santa pazienza! Ce ne vorrà, da mattina a sera, tanto
tempo che fate quel mestiere!
- Sì, un pezzo che ci conosciamo, di vista almeno. Quando lei stava in via
del Carmine, il terrazzino col basilico. Si rammenta?
- Si diventa vecchi, don Peppino! Ora abbiamo i capelli bianchi. Parlo per me,
che ho già una figliuola da marito.
- Giusto, avevo portato qui una cosuccia per donna Lucietta. Oggi è la sua
festa, mi pare.
- Cos'è? l'immagine di santa Lucia? No, una poesia! Lucia, Lucia, vien qui,
guarda cosa t'ha portato il signor maestro.
- Piccolezze, donna Lucietta, scuserà l'ardire.
- Bello, bello, grazie tante. Guarda che bel foglio, mamma. Sembra un
merletto.
- Son cose leggiere. Proprio un ricamino in versi, come ci vogliono per una
bella ragazza qual è lei. Piccolezze, sa!
- Grazie, grazie. Ecco Bartolino. È mezz'ora che il signor maestro t'aspetta,
maleducato!
- Guarda mamma; ritagliando il bordo della carta tutto in giro se ne può
cavare un bel portamazzi, se oggi mi vengono dei fiori -.
La scuola era un grande stanzone imbiancato a calce, chiuso in fondo da un
tramezzo che arrivava a metà dell'altezza, e al di sopra lasciava un gran vano
semicircolare e misterioso, il quale dava lume a un bugigattolo che vi era dietro. Accanto
all'uscio vedevasi il tavolinetto del maestro, coperto da un tappetino ricamato a mano, e
sopra tanti altri lavori fatti di ritagli: nettapenne, sottolume, e un mandarino di lana
arancione, colle sue brave foglioline verdi, causa d'infinite distrazioni agli scolari.
L'altro ornamento della scuola, sulla larga parete nuda dietro il tavolino, era una
cornicetta di carta traforata, opera industre della stessa mano, che conteneva due piccole
fotografie ingiallite, i ritratti del maestro e di sua sorella, somiglianti come due gocce
d'acqua, malgrado i baffetti incerati dell'uno, e la pettinatura grottesca dell'altra: gli
stessi pomelli scarni che sembravano sporgere fuori della cornice, la stessa linea sottile
delle labbra smunte, gli stessi occhi appannati, quasi stanchi di guardare perennemente,
dal fondo dell'orbita incavata, lo sbaraglio delle seggiole scompagnate per la scuola; e
tutt'in giro la tristezza delle pareti bianche, macchiate in un canto dalla luce scialba
della finestra polverosa che dava nel cortiletto.
Di buon mattino, appena il falegname accanto principiava a martellare, udivasi
bispigliare due voci sonnolente nel bugigattolo oscuro, e poi s'illuminava il vano al di
sopra del tramezzo. Il maestro andava a prendere una manata di trucioli, strascicando le
ciabatte, tutto raggomitolato in un pastrano spelato, e accendeva il fuoco per fare il
caffè. Allora, dietro la finestra appannata, vedevasi salire la fiamma del focolare
annidato sotto quattro tegole sporgenti dal muro, e il fumo denso che stagnava nel
cortiletto cieco. In fondo allo stanzino la sorella del maestro intanto cominciava a
tossire, dall'alba.
Egli andava a prendere le scarpe appoggiate allo stipite dell'uscio, l'una
accanto all'altra, coi tacchi in alto, e si metteva a lustrarle amorosamente, mentre
faceva bollire il caffè, ritto innanzi al fuoco, col bavero del pastrano sino alle
orecchie. In seguito toglieva dal fuoco la caffettiera, sempre colla mano sinistra, per
pigliare colla destra la chicchera senza manico dall'asse inchiodata accanto al fornello,
la risciacquava nel catino fesso incastrato fra due sassi accanto al pozzo, e portava
finalmente il lume nel bugigattolo, diviso in due da una vecchia tenda da finestra appesa
a una funicella. La sorella si alzava a sedere sul letto in fondo, stentatamente,
tossendo, soffiandosi il naso, gemendo sempre, colle trecce arruffate, il viso consunto,
gli occhi già stanchi, salutando il fratello con un sorriso triste d'incurabile.
- Come ti senti oggi, Carolina? - le chiedeva il fratello.
- Meglio, - rispondeva lei invariabilmente.
Intanto il sole sormontava il tetto di faccia alla finestra, come una polvere
d'oro, in mezzo a cui balenava il volo dei passeri schiamazzanti. Dietro l'uscio passava
lo scampanellare delle capre.
- Vado pel latte -, diceva don Peppino.
- Sì, - rispondeva lei collo stesso moto stracco del capo.
E cominciava a vestirsi lentamente, mentre il maestro, accoccolato col
bicchiere in mano, leticava col capraio che gli misurava il latte come fosse oro colato.
Carolina andava a rifare il lettuccio piatto del fratello, dall'altra parte
della cortina, rialzandola tutta sulla funicella per dare aria alla stanza, come era
solita dire; e si dava a strascicare la scopa per la scuola, adagio adagio, movendo le
seggiole una dopo l'altra, appoggiandosi al bastone della scopa per tossire, in mezzo al
polverìo.
Il fratello tornava coi due soldi di latte in fondo al bicchiere, e due
panetti nelle tasche del pastrano. Ripiegavano un lembo del tappetino, per non
insudiciarlo, e sedevano a far colazione in silenzio, l'uno di qua e l'altra di là del
tavolino, tagliando ad una ad una delle fette di pane sottili, masticando adagio, e come
soprapensieri. Soltanto, ogni volta che lei tossiva, il fratello rizzava il capo a
fissarla in aria inquieta, e tornava a chinare gli occhi sul piatto.
Alfine egli se ne andava colla mazzettina sotto l'ascella, il cappelluccio
sull'orecchio, i baffetti incerati, tirando in su il colletto della camicia, infilandosi
con precauzione i guanti neri che puzzavano d'inchiostro, seguito passo passo dalla
sorella che si ostinava a passargli straccamente la spazzola addosso, covandolo con uno
sguardo quasi materno, accompagnandolo dalla soglia con un sorriso rassegnato di
zitellona, che credeva tutte le donne innamorate di suo fratello.
Anch'essa aveva avuto la sua primavera scolorita di ragazza senza dote e
senza bellezza, quando rimodernava, ogni festa principale, lo stesso vestitino di lana e
seta, e architettava pettinature fantastiche dinanzi allo specchietto incrinato. Oh, le
rosee visioni che passarono su quella vesticciuola, mentre essa agucchiava le intere
notti! e gli sconforti amari che la tormentarono dinanzi a quello specchio, al quale si
affacciavano ogni volta inesorabilmente i pomelli ossuti ed il naso troppo lungo! In mezzo
al crocchio allegro e civettuolo delle altre ragazze ella portava sempre come la visione
dolorosa della sua figura grottesca, e se ne stava in disparte - per vergogna, dicevano le
une, - per orgoglio, dicevano le altre. - Giacché passava anche lei per letterata. Nello
squallore della loro miseria decente le lettere avevano messo un conforto, una lusinga,
come un lusso delicato che li compensava della commiserazione mal dissimulata dei vicini.
Essa teneva gelosamente custoditi, in belle copie tutte a svolazzi e maiuscole ornate, i
versi del fratello; e quando egli si era lasciato vincere alfine dall'indifferenza
generale, dalla stanchezza dell'umile e faticoso impiego che doveva fare delle lettere per
guadagnarsi il pane, essa sola era rimasta una gran leggitrice di romanzi e di versi:
avventure epiche di cappa e di spada, casi complicati e straordinari, amori eroici,
delitti misteriosi, epistolari di quattrocento pagine tutte piene di una sola parola,
nenie belate al chiaro di luna, dolori di anime in lutto prima di nascere, che piangevano
delusioni future. Tutta la sua giovinezza squallida s'era consunta in quelle fantasie
ardenti, che le popolavano le notti insonni di cavalieri piumati, di poeti tisici e
biondi, di avvenimenti bizzarri e romanzeschi, in mezzo ai quali sognava di vivere anche
mentre scopava la scuola o faceva cuocere il magro desinare, nel cortiletto cieco che
serviva da cucina. E sotto l'influenza di tutto quel medio evo, la preoccupazione dolorosa
della sua disavvenenza e della sua povertà manifestavasi in modo grottesco, con
ricciolini artificiosi sulla fronte, trecce spioventi sulle spalle, sgonfi medioevali ai
gomiti del vestito e gorgiere inamidate.
- Che è l'ultimo figurino quello? - avevale chiesto un giorno la più
elegante e la più crudele delle sue compagne.
Lui solo - tanto tempo addietro! - adesso era impiegato alla Pretura Urbana
- quanti palpiti! quanta dolcezza! quanti sogni! Ed ora più nulla, allorché lo
incontrava per caso, carico di moglie e di figliuoli! Allora era un giovinetto smunto, con
grandi occhi pensosi che stavano a guardare i «vortici delle danze» dal vano di un
uscio, come dall'alto, da cento miglia lontano. Le ragazze lo canzonavano anche un po'
perché non ballava mai; lo chiamavano «il poeta». Egli da lontano inchiodava uno
sguardo fatale su quella ragazza, sola e dimenticata in un cantuccio al par di lui. Una
domenica infine le si fece presentare; le disse con una lunga frase ingarbugliata che
aveva ambito l'onore di far la sua conoscenza perché «nella festa» era l'unica persona
con cui si potesse scambiare due parole: lo sentiva, gliel'avevano detto: sapeva anche che
era una distinta cultrice delle lettere...
«Le danze» giravano giravano «vorticose» in un gran polverìo, sotto la
lumiera a petrolio, ed essi sembrano cento miglia lontani, proprio come nei romanzi, mezzo
nascosti dietro la tenda all'uncinetto, lui col cappello sull'anca, e l'arco della mente
teso per ogni parola che gli usciva di bocca; lei irradiata da quella prima lusinga che le
veniva da un uomo, con una nuova dolcezza negli occhi, attraverso i ricciolini.
- È un poema?
- No, un romanzo.
- Storico?
- Oibò signorina! Per chi mi piglia? Sa il detto di quel tale: «Chi ci
libererà dai Greci e dai Romani?...»
- Genere Manzoni allora?
- No, più moderno; stavo per dire più fine; certo più nervoso... tutta la
nervosità del secolo in cui viviamo...
- E il titolo? si può sapere almeno?
- Lei sì! - Amore e morte!
- Bello! bello! bello! Ci ha lavorato molto?
- Saran quattr'anni circa.
- Perché non lo fa stampare? -
Il giovanotto alzò le spalle con un sorriso sdegnoso.
- Peccato!
Egli ebbe un lampo negli occhi, per la risposta che gli balenava in mente
pronta e azzeccata; un lampo che illuse la poveretta:
- Mi basta questa parola sua, guardi! -
La Carolina avvampò di gioia; e chinò il capo, col petto che le scoppiava.
- Che dice?... Io!... Che dice mai?... -
L'altro gonfiandosi nel soprabito anche lui a quella prima lusinga che gli
veniva da una donna, le lasciava cadere sul capo chino, dall'alto del suo colletto
inamidato, la confidenza che il trionfo più ambito per uno scrittore è quello di una
parola... una parola sola... d'encomio... d'incoraggiamento... che venga da una persona...
- Pardon! - s'interruppe a un tratto tirandosi bruscamente indietro.
- Gli è arrivata? - chiese scusandosi il padrone di casa che girava
coll'annaffiatoio. - Mi dispiace, sa... Facevo perché si soffoca dalla polvere. Non le
pare? -
Il poeta continuava dicendo che era proprio una fortuna d'incontrarsi... in
mezzo a tanta volgarità invadente...
- Lei non balla? - domandò infine.
- Io...
- Stia tranquilla. Non ballo neppur io. Sa il detto di quel tale: «Non
capisco perché cotesto lavoro non lo facciano fare dai domestici!» Ed è vero infatti.
Provi a tapparsi le orecchie, per vedere l'impressione grottesca...
- È vero, è vero.
- Sentisse poi che discorsi! - Il caldo, la folla, i lumi... Quando si arriva
a parlar delle acconciature è già un gran progresso. A proposito, lei è messa
divinamente... No, no, mi lasci dire, è diversa dalle altre; un buon gusto,
un'originalità... -
Tese l'arco delle sopracciglia, e le scoccò l'ultima frecciata:
- Insomma l'abito non fa il monaco; ma il buon gusto dice la persona... -
Com'era bello il valzer che sonavano in quel punto! come l'era rimasto in
cuore tutta la notte! e come lo canticchiava poi a mezzavoce, cogli occhi gonfi di lagrime
deliziose, cucendo nel cortiletto oscuro! Sul pilastrino del pozzo i garofani, che
allungavano dal vaso slabbrato gli steli tisici, s'agitavano lieve lieve al sole, e
parevano rinascere. Che pace ora con se stessa, quando si guardava nello specchio! che
dolcezza in certi toni della sua voce! che soavità nel raggio della luna che baciava, in
alto, il muro dirimpetto! e nell'oro del tramonto che scappava dal comignolo del tetto, e
scintillava sui vetri di quella finestra dove si vedeva alle volte un fanciulletto biondo
in una scranna a bracciuoli, immobile per delle ore! Vivere, vivere, anche in quel
cortiletto triste, fra quelle quattro mura che avevano una melanconia intima e quasi
affettuosa, nelle umili occupazioni divenute care, con quell'altro mondo fantastico che le
aprivano i libri, sotto la carezza di quella voce fraterna, amorevole e protettrice; e in
fondo al cuore poi come un punto luminoso, come una fibra delicata che trasaliva al menomo
tocco, come una gran gioia che aveva bisogno di nascondersi e le balzava alla gola ogni
momento, come una fede, come una tenerezza nuova per ogni cosa e ogni persona nota - e
l'attesa di quella domenica, di quel ballonzolo periodico in mezzo alla polvere e al puzzo
di petrolio, dove sapeva di rivedere colui che da otto giorni aveva preso tanta parte nel
suo cuore e nella sua vita!
Stavolta le venne incontro appena la vide, con una stretta di mano che
riannodava a un tratto la loro intimità spirituale, e le si mise al fianco, dietro la
tenda all'uncinetto, colla destra nello sparato della sottoveste, parlandole sempre di
sé, delle sue inclinazioni, dei suoi gusti, delle sue ammirazioni, che erano poche e
calde, della sua ambizione, che toccava il cielo. Di tratto in tratto, quando gli pareva
che la ragazza chinasse il capo stanco sotto tutto quell'io implacabile, le accoccava un
complimento, come un cocchiere fa schioccare la frusta nelle salite. La giovinetta però
chinava il capo per la commozione, col cuore tutto aperto a quelle confidenze che
cercavano avidamente la simpatia di lei. Egli pure, trascinato dalla sua foga, eccitato
dalle sue frasi medesime, si abbandonava, cominciava a sbottonarsi, a scendere fino ai
suoi piccoli guai: suo padre che lo contrariava nelle sue inclinazioni, nelle tendenze
più spiccate del suo ingegno... Nei due anni d'Università non aveva imparato nulla.
Aveva scritto soltanto dei versi sulle panche della cattedra di Diritto Civile.
- Un vero parricidio! - osservò Carolina sorridendo.
Egli per la prima volta la baciò con un'occhiata d'ineffabile tenerezza.
- Carolina! Carolina! - chiamava il fratello. E sottovoce le disse
all'orecchio: - Bada che tutti ti guardano; sei sempre con colui. Chi è? -
Qua e là, dietro i ventagli, e nei crocchi delle ragazze, balenavano infatti
dei sorrisi mal dissimulati. Ma Carolina, fiera, lo presentò al fratello:
- Il signor Angelo Monaco, distinto poeta, l'autore di Amore e morte!
- So che anche il signore è un chiaro cultore delle lettere! - disse il
Monaco tendendogli la mano regalmente.
Il romanziere aveva «sollecitato l'onore» di leggere il manoscritto del
suo romanzo in casa del maestro «per averne un giudizio illuminato e sincero». Una sera,
dopo la scuola, lo installarono dinanzi al tavolinetto dal tappetino ricamato, con due
candele accese dinanzi, come un giocatore di bussolotti, don Peppino col capo fra le mani,
tutto raccolto nel disegno di appioppargli alla sua volta la lettura dei propri versi, che
si sentiva rifiorire in petto gelosi a quell'avvenimento; la sorella digià commossa dalla
solennità dei preparativi, la porta chiusa, le seggiole dei ragazzi schierate in fila,
come per una folla di ascoltatori invisibili.
Il manoscritto era voluminoso, circa mezza risma di carta a mano, raccolta in
una custodia di marocchino col titolo in oro sul dorso, e legata con nastri tricolori.
L'autore leggeva con convinzione, sottolineando ogni parola col gesto, colla voce, con
certe occhiate che andavano a ricercare l'ammirazione in volto alla Carolina,
pallidissima, e al fratello di lei, impenetrabile dietro il palmo delle mani; si animava
alle sue frasi istesse come un bàrbero allo scrosciare delle vesciche che porta attaccate
alla coda; senza un minuto di stanchezza, quasi senza bisogno di voltar pagina. Le pagine
volavano, volavano, con un fruscìo quasi di foglie secche d'autunno, nel gran silenzio
della notte. Tutti i rumori della via erano cessati uno dopo l'altro. La luna alta si
affacciava al finestrino.
C'era un punto in cui il protagonista del romanzo, disperato, forzava la
consegna di uno stuolo di domestici in gran livrea, schierati in anticamera, e andava a
bere la morte nell'alcova della sua bella appena tornata dal ballo, ancora in una nuvola
di merletti e di pizzi. Egli la bollava con parole di fuoco, voleva offrirle, dea
implacabile, l'olocausto del suo sangue, dei suoi sensi, del suo amore immensurabile, lì
ai piedi dell'altare istesso, su quel tappeto di Persia, dinanzi a quel letto immacolato.
E all'occhiata trionfante che faceva punto, l'autore vide con gioia crudele la sua
ascoltatrice che piangeva cheta cheta, colla mano dinanzi agli occhi.
Ei le prese quella mano, e se la tenne sulle labbra a lungo per godere del suo
trionfo.
- Perdonatemi! - mormorò poscia.
Ella scosse il capo dolcemente, e rispose con un filo di voce:
- No. Sono tanto felice! -
La luna dal finestrino baciava la parete dirimpetto, tacita. Al silenzio
improvviso il maestro si destò.
Angelo Monaco prese a frequentare la casa del maestro, attratto dalla simpatia
che vi trovava, lusingato da quell'ammirazione fervida, da quell'amore timido e profondo
di cui la sua vanità era riconoscente in modo da simulare alle volte un ricambio dello
stesso sentimento.
Carolina aspettava, felice, tutta piena di una vita nuova in mezzo alle solite
modeste occupazioni, sorpresa da batticuori improvvisi, da dolcezze inesplicabili, per un
nulla, per taluni avvenimenti consueti che prima non le avevano detto cosa alcuna,
beandosi di uno sguardo, di un sorriso, di una parola, di una stretta di mano di lui,
trepidante all'ora in cui egli soleva venire, commossa da una tenerezza ineffabile quando
vedeva il raggio della luna sul finestrino, ogni quintadecima, al sentire la campana
dell'avemaria, l'organetto che passava, la voce del fratello che pronunziava il suo nome,
turbata solo da un imbarazzo insolito e da una nuova tenerezza per lui. Anch'egli le
sembrava cambiato. Da qualche tempo la trattava con una dolcezza affettuosa e quasi
triste, con un riserbo discreto e pietoso. Un giorno finalmente, al momento di uscire
insieme ai ragazzi, col cappelluccio in testa e la mazzettina in mano, la chiamò in
disparte, dietro la cortina rossa:
- ... Sai, Carolina... Sta per ammogliarsi... No! senti! Coraggio,
coraggio!... Guarda che io ho lì i ragazzi... Perdonami se ti ho fatto dispiacere!...
Toccava a me a dirtelo... Sono tuo fratello, il tuo Peppino!... -
Ella uscì nello stanzone, barcollante, come si sentisse soffocare, e
balbettò dopo un momento:
- Come lo sai? Chi te l'ha detto?
- Masino, quel ragazzo, il figlio del caffettiere. Oggi, come l'incontrammo
per caso, e vide che lo salutavo, mi ha detto che sposa sua sorella.
- Vai, vai, - disse la poveretta respingendolo colle mani tremanti. - I
ragazzi aspettano -.
E fu tutto. Ella non aggiunse una parola, non gli mosse un lamento.
L'ultima volta che la vide, Angelo la trovò così afflitta, così chiusa nel suo dolore,
che ne indovinò il motivo. Sull'uscio del cortiletto, cogli occhi rivolti a quello
spicchio di cielo e una lagrima vera negli occhi, egli le disse addio, commosso
dall'accento suo stesso. Il giorno dopo le scrisse una lettera tutta fremente da un rigo
all'altro d'amore e di disperazione, la prima in cui le parlasse d'amore, per dirle che il
suo era fatale e doveva immolarlo sull'altare dell'obbedienza filiale. «Siate felice!
siate felice! lontana o vicina, in vita e in morte!...» Fu la sola «missiva» d'amore
che ella ricevesse, e la custodì gelosamente fra i fiori secchi ch'ei le aveva donati, e
i nastri scolorati che portava il giorno in cui si erano incontrati per la prima volta.
Poi, stanca, aveva riversato sul fratello le sue illusioni giovanili,
rifacendo per lui i castelli in aria in cui s'erano passati i sogni ardenti della sua vita
claustrale, subendo, sotto altra forma, le stesse calde allucinazioni che le erano rimaste
di tante bizzarre letture, nelle quali si era consunta la sua giovinezza, dietro il
tramezzo della scuola, com'era morto il geranio che aveva agonizzato dieci anni nel
cortiletto senza sole. Una volta era stata una rosa che essa aveva sorpreso nel portapenne
della scrivania, e s'era sfogliata senza che lei osasse toccarla, lasciandole un grande
sconforto a misura che le foglioline si sperdevano nella polvere. Un'altra volta un
bigliettino profumato, visto alla sfuggita sul tappetino della scrivania, scomparso subito
misteriosamente, che l'aveva fatta almanaccare un mese, turbandola anche, mentre stava
chiuso nel cassetto, col suo odore sottile, finché le era caduto un'altra volta sotto gli
occhi, fra le cartacce inutili da buttare via nel cortiletto - la stessa corona dorata in
cima al foglio profumato, lo stesso carattere elegante con cui un ragazzo si faceva
scusare dalla mamma non so quale mancanza.
Un giorno infine il romanzo sembrò disegnarsi, al giungere di una superba
bionda che era venuta a prendere un ragazzetto pallido in una carrozza signorile,
riempiendo tutta la scuola del fruscìo della sua veste, del profumo del suo fazzoletto,
del suono armonioso della sua voce fresca e ridente come un raggio di sole che avesse
abbarbagliato maestro e discepoli. La povera zitellona per molti giorni ancora, alla
stessa ora, aveva aspettata la bella seduttrice, nascosta dietro la tenda del tramezzo,
col cuore che le batteva forte, sconvolta sino alle viscere e come violentata da un
delizioso segreto, da un turbamento strano, in cui si mescevano una tenerezza nuova pel
fratello, un senso di vaga gelosia, e una contentezza, un orgoglio segreto.
Erano reticenze discrete, silenzi pudichi, imbarazzi scambievoli, per un
cenno, per una parola, per un'allusione lontana che cadesse nel discorso, mentre sedevano
a tavola, l'uno di qua e l'altra di là di un lembo del tappetino ripiegato, mentre
rifacevano tutti i giorni la stessa conversazione vuota e insignificante del giorno
innanzi, ripetendo le stesse frasi monotone che compendiavano la loro esistenza scolorita
ed uniforme, a voce bassa, con una certa timidezza vergognosa.
Egli chinava il capo arrossendo, come sorpreso sul fatto; e giurava di no,
facendo una scrollatina di spalle, gongolando dentro di sé, con un sorrisetto di
vanagloria che gli tremolava sulle labbra.
Alle volte, in un'effusione improvvisa di tenerezza riconoscente, le posava la
destra sul capo, con quello stesso sorrisetto discreto che pareva dicesse:
- Stai tranquilla, scioccherella! -
Però, nella rettitudine istintiva della sua coscienza, la zitellona sentiva
nascere una ripugnanza, un'inquietudine dolorosa per tutto ciò che doveva esserci di
losco e di pericoloso in quel romanzo clandestino. Allora correva a buttarsi ai piedi del
confessore, nel nuovo fervore religioso in cui si era rifugiata quando aveva provato il
più gran dolore della sua giovinezza, lo sconforto e l'abbandono d'ogni lusinga terrena,
e domandava perdono per la dolce colpa che lei non aveva commesso, faceva la penitenza del
peccato immaginario che era nella sua casa.
E calda ancora di quel fervore vi attingeva il coraggio per esortare il
fratello a rientrare nel retto sentiero con delle allusioni velate, delle insinuazioni
discrete, un'effusione di tenerezza timida e quasi materna.
- Peppino! - gli disse infine, - dovresti darmi una gran consolazione.
Dovresti risolverti a prender moglie -.
Egli rizzò il capo, sorpreso prima, e poscia lusingato dalla proposta che gli
toglieva vent'anni d'addosso, obbiettando col medesimo ingenuo entusiasmo della sua prima
giovinezza che «il matrimonio è la tomba dell'amore» per farsi pregare ancora.
- Dammi retta, Peppino!... Poi quando non sarai più in tempo te ne
pentirai!... -
Egli si ostinava a scrollare il capo, lusingato internamente di poter
rifiutare per la prima volta; senza notare l'espressione dolorosa che c'era nell'accento
della povera zitellona.
- No, non mi lascio pescare. Stai tranquilla. Amo troppo la mia libertà! -
Ella provava un senso strano di simpatia, di commiserazione, e di rancore per
quel fanciulletto esile e pallido che la dama bionda era venuta a cercare, e che supponeva
fosse il complice innocente della loro tresca. Lo covava cogli occhi da lontano, nascosta
dietro la tenda, quasi egli portasse alla scuola, nei sereni lineamenti infantili, un
riflesso delle seduzioni tentatrici della mamma, inquieta se lo scolaretto mancava qualche
volta, almanaccando tutto un romanzo domestico dai menomi atti del ragazzo inconsapevole.
Se lo chiamava vicino, quando poteva farlo da solo a solo, lo accarezzava, lo interrogava,
gli faceva qualche regaluccio insignificante, attratta e ripugnante nello stesso tempo
della sua grazia infantile. Un giorno il fanciulletto, tutto contento, le disse:
- Dopo le vacanze non vengo più a scuola -.
Ella gli chiese il perché, balbettando.
- La mamma dice che ora son grande. Andrò in collegio -.
Così terminò anche quel romanzo. Ella ne sentì prima un gran sollievo; ma
nello stesso tempo un dubbio, uno sconforto amaro, vedendo dileguarsi anche le ultime
illusioni, che aveva collocate sul fratello.
Il male che la rodeva da anni e anni la inchiodò infine nel letto. Il
povero maestro non ebbe più un'ora di pace: sempre in faccende anche nei brevi istanti
che la scuola gli lasciava liberi, scopando, accendendo il fuoco, rifacendo i letti,
correndo dal medico e dallo speziale, coi baffi stinti, le scarpe infangate, il viso più
incartapecorito ancora. Le vicine, mosse a compassione, venivano a dare una mano: ora
l'una ed ora l'altra: donna Mena, la vedova del merciaio, con tutti gli ori addosso, come
se andasse a nozze; e l'Agatina del falegname, lesta di mano e sempre allegra, che
riempiva della sua gaia giovinezza la povera casa triste; talché il vecchio scapolo era
tutto scombussolato da quelle gonnelle che gli si aggiravano per casa, tentato, anche in
mezzo alle sue angustie, quasi da un ritorno di giovinezza, da sottili punture nel sangue
e al cuore, che gli cocevano come un rimorso, nelle ore nere.
- Meglio, meglio. Ha riposato -.
Il poveraccio, al trovare quella buona notizia sulla soglia, le afferrò la
mano tremante e la baciò.
- Oh, donna Mena. Che consolazione! -
Essa gli fece segno di tacere e lo condusse in punta di piedi a veder
l'inferma, che riposava con una gran dolcezza sul viso, già lambito da ombre funebri. E
come se la dolcezza di quell'istante di tregua gli si fosse comunicata, affranto
dall'angoscia che aveva trascinato insieme ai suoi ragazzi da un capo all'altro della
città, egli cadde a sedere sulla seggiola dietro la cortina, senza lasciare la mano di
donna Mena, che la svincolò adagio adagio. La stanza era già oscura, con un senso di
intimità misterioso e triste.
Ad un tratto la sorella svegliandosi lo chiamò, indovinando ch'era lì, e per
la prima volta egli accendendo il lume si trovò imbarazzato dinanzi a lei insieme a
un'altra donna.
Era stata una crisi terribile: la prima lotta colla morte che già abbrancava
la preda. L'inferma, tornata in sé, guardava il lume, le pareti, il viso del fratello con
certi occhi attoniti in cui durava ancora la visione di terrori arcani, e lo accarezzava
col sorriso, col soffio della voce, colla mano tremante, in un ritorno di tenerezza
ineffabile, che si attaccava a lui come alla vita.
E allorché furono soli, gli disse pure con quell'accento e quello sguardo
singolari:
- No quella!... Quella no, Peppino! -
Verso l'agosto sembrò che cominciasse a stare alquanto meglio. Il sole
giungeva fino al letto, dall'uscio del cortile, e la sera entravano a far compagnia tutti
i rumori del vicinato, il chiacchierìo delle comari, lo stridere delle carrucole, nei
pozzi tutto intorno, la canzone nuova che passava, l'accordo della chitarra con cui il
barbiere dirimpetto ingannava l'attesa. La ragazza del falegname entrava con un fiore nei
capelli, con un sorriso allegro che portava la gioventù e la salute.
- No, no, non ve ne andate ancora! Vedete il bene che fa a quella poveretta
soltanto a vedervi!
- Si fa tardi, signor maestro. È un'ora che son qui.
- No, non è tardi. A casa vostra lo sanno che siete qui. Piuttosto dite che
vi aspettano le compagne, lì sull'uscio.
- No, no.
- O l'innamorato, eh? Sarà l'ora in cui suole passare col sigaro in bocca...
- Oh... che dite mai, vossignoria!...
- Sì, sì, una bella ragazza come siete... è naturale. Chi non si
innamorerebbe, al vedere quegli occhi... e quel sorriso... e quel visetto furbo.
- Ma cosa gli salta in mente adesso?... -
E un giorno s'arrischiò anche a dirle, nel vano dell'uscio tutto illuminato
dalla luna:
- Ah! foss'io quel tale!
- Lei, signor maestro!... Che dice mai! -
L'emozione lo prendeva alla gola, mentre la ragazza, per rispetto, non osava
ritirare la mano che le aveva afferrata. E traboccarono frasi sconnesse: L'amore che
eguaglia: la poesia ch'è profumo dell'anima: i tesori d'affetto che si cristallizzano
nelle anime timide: la divina voluttà di cercare il pensiero e il volto dell'amata nel
raggio della luna, a un'ora data. - La ragazza lo guardava quasi impaurita, con
grand'occhi spalancati, e tutta bianca nel raggio della luna.
- Non dimenticherò mai quest'ora che mi avete concesso, Agata! Né questo
nome! mai! Divisi, lontani... ma ricorderemo... entrambi...
- Mi lasci andare, mi lasci andare. Buona sera -.
L'inferma, appoggiata a un mucchio di guanciali, chiacchierava sottovoce
col fratello, seduto accanto al letto, ancora col cappello in testa e la mazzettina fra le
gambe. Pareva che avesse a dirgli una cosa importante, dai silenzi improvvisi che le
soffocavano la parola in gola, dalle occhiate lunghe che posava su lui, dai rossori fugaci
che passavano sul pallore del viso disfatto. Infine, chinando il capo, gli disse:
- Perché non ci pensi ad accasarti?
- No, no! - rispose lui, scrollando il capo.
- Sì, ora che sei in tempo... Devi pensarci finché sei giovane... Poi,
quando sarai vecchio... e solo... come farai? -
Il fratello, sentendosi vincere dalle lagrime, conchiuse, per tagliar corto:
- Non è tempo di parlarne adesso! -
Però essa ritornava spesso sullo stesso argomento.
- Se trovassi una bella giovinetta, ricca, istruita, di buona famiglia, che
facesse per te... -
E una sera che si sentiva peggio torno a parlargliene ancora, coll'inquieto
cicaleccio proprio del suo stato.
- No, lasciami dire, ora che ho un po' di fiato. Non posso permettere che ti
sacrifichi per tenermi compagnia... tutta la tua giovinezza... Una buona dote non può
mancarti. E se lasci la scuola, tanto meglio. Vivremo tutti insieme; faremo una casa sola.
Uno stanzino mi basterà, purché sia molto arioso. Vorrei che fosse verso il giardino.
Della strada non so che farmene, oramai... Ho sempre desiderato di vedere il cielo, stando
in letto... e del verde, degli alberi... come, per esempio, averci una finestra là dove
c'è ora la cortina, una finestra che guardasse nei campi... -
Si udiva la pioggia che scrosciava nel cortiletto, una di quelle piogge che
annunziano l'autunno, e la pentola di latta, lasciata fuori, che risonava sotto la
grondaia. Un gatto, nella bufera, chiamava ai quattro venti, con voce umana.
Il maestro, che aveva seguìto il vaneggiare della sorella verso il verde ed
il sole, coll'allucinazione perenne che era in lui, le chiese affettuosamente:
- Ora che viene l'autunno saresti contenta d'andare in campagna?
- E la scuola? - ribatté lei con un sorriso malinconico. - Se tu pigliassi
una buona dote invece... con dei poderi...
- Benedette donne! quando si ficcano un chiodo in testa!... - rispose lui con
un sorrisetto malizioso.
E pareva esitare a decidersi. Ma dopo averci pensato su, finì col dire:
- Non mi vendo, no! -
E abbottonò il soprabito con dignità.
- Se ho da fare una scelta... Se mai... È inutile! - conchiuse finalmente. -
Amo troppo la mia libertà! -.
Ella insisteva a dire che queste cose si fanno finché uno è giovane, che se
no si finisce in mano della serva o di qualche intrigante.
Poi, siccome il fratello non voleva arrendersi, la zitellona si lasciò
scappare in un impeto di gelosia, alludendo alle vicine:
- Vedi che già ti si ficcano in casa, e cominciano a fare dei disegni su di
te? -
E la poveretta morì col crepacuore di lasciare il fratello esposto alle
insidie di quelle intriganti.
Com'ella aveva fatto un gran vuoto in quel bugigattolo, per quanto poco
spazio vi avesse occupato in vita, e il fratello vi si sentiva come perduto in una gran
solitudine, in una gran desolazione, nelle ore che i ragazzi gli lasciavano libere, prese
ad andare dal falegname, tutte le sere, attratto da una gratitudine dolce e malinconica
verso la ragazzona che aveva avuta tanta carità per la sua povera morta. Ma il falegname,
che certe cose non le intendeva, gli fece capire che in bottega del maestro di scuola non
sapeva che farsene, e gli facesse invece il piacere di levarsi di quei trucioli.
Anche donna Mena, qualche tempo dopo, quando vide che le visite del maestro si
facevano troppo frequenti, col pretesto dell'Aloardino, e non finiva mai di ringraziarla
dell'assistenza che aveva fatta alla sua povera sorella, per stringerle la mano e farle
gli occhi di triglia, gli disse sul mostaccio:
- Orsù, signor maestro, facciamo a parlarci chiaro, ché il vicinato comincia
a mormorare dei fatti nostri -.
Il poveraccio, colto alla sprovvista, si confuse. Ma infine prese il suo
coraggio a due mani:
- Or bene, donna Mena! Anche quella poveretta l'aveva previsto. Non ho voluto
decidermi mai a fare questo passo, perché amavo troppo la mia libertà... Ma ora che vi
ho conosciuta meglio... se volete...
- Eh, non li avevate fatti male i vostri conti, caro mio, poiché siete stanco
d'andare attorno coi ragazzi! Ma il fatto mio ce lo siamo lavorato io e la buon'anima di
mio marito... E non per farcelo mangiare a tradimento -.
Ogni giorno, mattina e sera, tornava a passare il maestro dei ragazzi, con
un fanciulletto restìo per mano, gli altri sbandati dietro, il cappelluccio stinto
sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti color caffè, la faccia rimminchionita
di uno ch'è invecchiato insegnando il b-a-ba, e cercando sempre l'innamorata, col naso in
aria.
Soltanto, tornando a casa serrava a chiave l'uscio, per scopare la scuola,
rifare il letto, e tutte le altre piccole faccenduole per le quali non aveva più nessuno
che l'aiutasse. La mattina, prima di giorno, accendeva il fuoco, si lustrava le scarpe,
spazzolava il vestito, sempre quello, e andava a bere il caffè nel cortiletto, seduto
sulla sponda del pozzo, tutto solo e malinconico, col bavero del pastrano sino alle
orecchie. Ed ora che la povera morta non ne aveva più bisogno, risparmiava anche quei due
soldi di latte.
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