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Liber Liber
Il Piacere, di Gabriele D'AnnunzioLiber Liber

Copertina | Premessa | Libro I | Libro II | Libro III | Libro IV

Libro III

I

Alla partenza dei Ferres seguì dopo pochi giorni la partenza degli Ateleta e dello Sperelli per Roma. Donna Francesca volle abbreviare la sua villeggiatura a Schifanoja, contro il solito.

Andrea, dopo una breve sosta a Napoli, giunse a Roma il 24 ottobre, una domenica, con la prima gran pioggia mattutina d'autunno. Rientrando nel suo appartamento della casa Zuccari, nel prezioso e delizioso buen retiro, provò un piacere straordinario. Gli parve di ritrovare in quelle stanze qualche parte di sé, qualche cosa che gli mancava. Il luogo non era quasi in nulla mutato. Tutto, intorno, conservava ancóra, per lui, quella inesprimibile apparenza di vita che acquistano gli oggetti materiali tra mezzo a cui l'uomo ha lungamente amato, sognato, goduto e sofferto. La vecchia Jenny e Terenzio avevano preso cura delle minime particolarità; Stephen aveva preparato con alta squisitezza il comfort pel ritorno del signore.

Pioveva. Per qualche tempo, egli rimase con la fronte contro i vetri della finestra a guardare la sua Roma, la grande città diletta, che appariva in fondo cinerea e qua e là argentea tra le rapide alternative della pioggia spinta e respinta dal capriccio del vento in un'atmosfera tutta egualmente grigia, ove ad intervalli si diffondeva un chiarore, sùbito dopo spegnendosi, come un sorridere fugace. La piazza della Trinità de' Monti era deserta, contemplata dall'obelisco solitario. Gli alberi del viale lungo il muro che congiunge la chiesa alla Villa Medici, si agitavano già seminudi, nerastri e rossastri al vento e alla pioggia. Il Pincio ancóra verdeggiava, come un'isola in un lago nebbioso.

Egli, guardando, non aveva un pensiero determinato ma un confuso viluppo di pensieri; e gli occupava l'anima un sentimento soverchiante ogni altro: il pieno e vivace risveglio del suo vecchio amore per Roma, per la dolcissima Roma, per l'immensa augusta unica Roma, per la città delle città, per quella ch'è sempre giovine e sempre novella e sempre misteriosa, come il mare.

Pioveva, pioveva. Sul Monte Mario il cielo si oscurava, le nuvole si addensavano, diventavano d'un color ceruleo cupo d'acqua raccolta, si dilatavano verso il Gianicolo, si abbassavano sul Vaticano. La cupola di San Pietro toccava con la sommità quella enorme adunazione e pareva sostenerla, simile a una gigantesca pila di piombo. Tra le innumerevoli righe oblique dell'acqua si avanzava piano un vapore, a similitudine d'un velo tenuissimo che passasse a traverso corde d'acciaio tese e continuamente vibranti. La monotonia del croscio non era interrotta da alcun altro strepito più vivo.

— Che ora è? – chiese egli a Stephen, volgendosi.

Erano le nove, circa. Egli si sentiva un po' stanco. Pensò di mettersi a dormire. Poi, anche, pensò di non veder nessuno, nella giornata, e di passar la sera a casa in raccoglimento. Ricominciava per lui la vita di città, la vita mondana. Egli voleva, prima di riprendere quel vecchio esercizio, darsi a una piccola meditazione e a una piccola preparazione, stabilire una regola, discutere seco medesimo qual dovesse essere la condotta futura.

Ordinò a Stephen:

— Se viene qualcuno a chiedere di me, ditegli che non sono ancóra tornato. Avvisate il portiere. Avvisate James che non ho più bisogno di lui oggi ma che venga a prendere gli ordini questa sera. Fatemi preparare la colazione per le tre, leggerissima, e il pranzo per le nove. Niente altro.

S'addormentò quasi sùbito. Alle due, il domestico lo svegliò; e gli annunzio che prima di mezzogiorno era venuto il duca di Grimiti, avendo saputo dalla marchesa d'Ateleta il ritorno.

— Ebbene?

— Il signor duca ha lasciato detto che sarebbe tornato di sera.

— Piove ancóra? Aprite interamente gli scuri.

Non pioveva più. Il cielo s'era rischiarato. Una zona di sole pallido entrò nella stanza, diffondendosi su l'arazzo della Vergine col bambino Gesù e Stefano Sperelli, su l'antico arazzo che Giusto portò di Fiandra nel 1508. E gli occhi di Andrea vagarono per le pareti, lentamente, riguardando le tappezzerie fini, le tinte armoniose, le figure pie ch'erano state testimoni di tanti piaceri e avevano sorriso ai lieti risvegli ed anche avevan reso men tristi le vigilie del ferito. Tutte quelle cose note ed amate parevano dargli un saluto. Egli le riguardava con un diletto singolare. L'imagine di Donna Maria gli sorse nello spirito.

Si sollevò un poco su i guanciali, accese una sigaretta, e si mise a seguire il corso dei pensieri, con una specie di voluttà. Un benessere insolito gli occupava le membra, e lo spirito era in una felice disposizione. Egli mesceva le sue fantasie alle onde del fumo, in quella luce temperata ove i colori e le forme prendevano una vaghezza più blanda.

Spontaneamente, i suoi pensieri non risalivano verso i giorni scorsi ma andavano all'avvenire. – Egli avrebbe riveduta Donna Maria, fra due, fra tre mesi, chi sa? forse anche assai prima; ed avrebbe allora riallacciato quell'amore che chiudeva per lui tante oscure promesse e tante segrete attrazioni. Sarebbe stato il vero secondo amore, con la profondità e la dolcezza e la tristezza d'un secondo amore. Donna Maria Ferres pareva essere, per un uomo d'intelletto, l'Amante Ideale, l'Amie avec des hanches, secondo l'espressione di Carlo Baudelaire, la Consolatrix unica, quella che conforta e perdona sapendo perdonare. Certo, segnando nel libro dello Shelley i due versi dolenti, ella aveva dovuto in cuor suo ripetere altre parole; e, leggendo tutto intero il poema, aveva dovuto piangere come la Dama magnetica e pensar lungamente alla pietosa cura, alla miracolosa guarigione. «I can never be thine!» Perché mai? Con troppa angoscia di passione, quel giorno, nel bosco di Vicomìle, ella aveva risposto: – Vi amo, vi amo, vi amo!

Egli ancóra udiva la voce di lei, l'indimenticabile voce. Ed Elena Muti gli entrò ne' pensieri, si avvicinò all'altra, si confuse con l'altra, evocata da quella voce; e a poco a poco gli volse i pensieri ad imagini di voluttà. Il letto dov'egli riposava e tutte le cose intorno, testimoni e complici delle ebrezze antiche, a poco a poco gli andavano suggerendo imagini di voluttà. Curiosamente, nella sua imaginazione egli cominciò a svestire la senese, ad involgerla del suo desiderio, a darle attitudini di abbandono, a vedersela tra le braccia, a goderla. Il possesso materiale di quella donna così casta e così pura gli parve il più alto, il più nuovo, il più raro godimento a cui potesse egli giungere; e quella stanza gli parve il luogo più degno ad accogliere quel godimento, perché avrebbe reso più acuto il singolar sapore di profanazione e di sacrilegio che il segreto atto, secondo lui, doveva avere.

La stanza era religiosa, come una cappella. V'erano riunite quasi tutte le stoffe ecclesiastiche da lui possedute e quasi tutti gli arazzi di soggetto sacro. Il letto sorgeva sopra un rialto di tre gradini, all'ombra d'un baldacchino di velluto controtagliato, veneziano, del secolo XVI, con fondo di argento dorato e con ornamenti d'un color rosso sbiadito a rilievi d'oro riccio; il quale in antico doveva essere un paramento sacro, poiché il disegno portava inscrizioni latine e i frutti del Sacrifizio: l'uva e le spiche. Un piccolo arazzo fiammingo, finissimo, intessuto d'oro di Cipro, raffigurante un'Annunciazione, copriva la testa del letto. Altri arazzi, con le armi gentilizie di casa Sperelli nell'ornato, coprivano le pareti, limitati alla parte superiore e alla parte inferiore da strisce in guisa di fregi su cui erano ricamate istorie della vita di Maria Vergine e gesta di martiri, d'apostoli, di profeti. Un paliotto, raffigurante la Parabola delle vergini sagge e delle vergini folli, e due pezzi di pluviale componevano la tappezzeria del caminetto. Alcuni preziosi mobili di sacrestia, in legno scolpito, del secolo XV, compivano il pio addobbo, insieme con alcune maioliche di Luca della Robbia e con seggioloni ricoperti nella spalliera e nel piano da pezzi di dalmatiche raffiguranti i fatti della Creazione. Da per tutto poi, con un gusto pieno d'ingegnosità, erano adoperate a uso di ornamento e di comodo altre stoffe liturgiche: borse da calice, borse battesimali, copricàlici, pianete, manipoli, stole, stoloni, conopei. Su la tavola del caminetto, come su la tavola di un altare, splendeva un gran trittico di Hans Memling, una Adorazione dei Magi, mettendo nella stanza la radiosità d'un capolavoro.

In certe iscrizioni tessute ricorreva il nome di Maria tra le parole della Salutazione Angelica; e in più parti la gran sigla M era ripetuta; in una, era anzi a ricamo di perle e di granati. – Entrando in questo luogo – pensava il delicato addobbatore – non crederà ella d'entrare nella sua Gloria? – E si compiacque a lungo nell'imaginar la istoria profana in mezzo alle istorie sacre; e ancóra una volta il senso estetico e la raffinatezza della sensualità soverchiarono e falsarono in lui il sentimento schietto ed umano dell'amore.

Stephen batté all'uscio, dicendo:

— Mi permetto di avvertire il signor conte che son già le tre.

Andrea si levò; e passò nella camera ottagonale, per abbigliarsi. Il sole entrava a traverso le tendine di merletto, facendo scintillare all'ingiro le mattonelle arabo-ispane, gli innumerevoli oggetti d'argento e di cristallo, i bassi rilievi del sarcofago antico. Quei luccicori varii mettevano nell'aria una mobile gaiezza. Egli si sentiva allegro, perfettamente guarito, pieno di vitalità. Il ritrovarsi nel suo home gli dava una letizia inesprimibile. Tutto ciò ch'era in lui più fatuo, più vano, più mondano, si risvegliava all'improvviso. Pareva che le cose circonstanti avessero virtù di suscitare in lui l'uomo d'un tempo. La curiosità, l'elasticità, l'ubiquità spirituali riapparivano. Egli già incominciava ad aver bisogno di espandersi, di rivedere amici, di rivedere amiche, di godere. S'accorse d'aver molto appetito; ordinò al domestico di servirgli la colazione.

Egli pranzava di rado a casa; ma, per le occasioni straordinarie, per qualche fino luncheon d'amore o per qualche piccola cena galante, aveva una camera ornata delle tappezzerie napolitane d'alto liccio, del secolo XVIII, che Carlo Sperelli ordinò al reale arazziere romano Pietro Duranti nel 1766, su disegni di Girolamo Storace. I sette pezzi delle pareti rappresentavano, con una certa copiosa magnificenza alla Rubens, episodii d'amore bacchici; e le portiere, le sopraporte, le soprafinestre rappresentavano frutta e fiori. Gli ori pallidi e fulvi, predominanti, e le carni perlate e i cinabri e gli azzurri cupi facevano un accordo morbido e nudrito.

— Quando tornerà il duca di Grimiti – disse egli al domestico – lo farete entrare.

Anche là il sole, declinante verso Monte Mario, mandava raggi. Si udiva lo strepito delle carrozze su la piazza della Trinità de' Monti. Pareva che, dopo la pioggia, si fosse diffusa su Roma tutta la luminosa biondezza dell'ottobre romano.

— Aprite le imposte – disse al domestico.

E lo strepito divenne più forte; entrò l'aria tepida; le tende ondeggiarono appena.

— Divina Roma! – egli pensò, guardando il cielo tra le alte tende. E una curiosità irresistibile lo trasse alla finestra.

Roma appariva d'un color d'ardesia molto chiaro, con linee un po' indecise, come in una pittura dilavata, sotto un cielo di Claudio Lorenese, umido e fresco, sparso di nuvole diafane in gruppi nobilissimi, che davano ai liberi intervalli una finezza indescrivibile, come i fiori dànno al verde una grazia nuova. Nelle lontananze, nelle alture estreme l'ardesia andavasi cangiando in ametista. Lunghe e sottili zone di vapori attraversavano i cipressi del Monte Mario, come capigliature fluenti in un pettine di bronzo. Prossimi, i pini del Monte Pincio alzavano gli ombrelli dorati. Su la piazza l'obelisco di Pio VI pareva uno stelo d'àgata. Tutte le cose prendevano un'apparenza più ricca, a quella ricca luce autunnale.

— Divina Roma!

Egli non sapeva saziarsi dello spettacolo. Guardò passare una torma di chierici rossi, di sotto alla chiesa; poi, la carrozza d'un prelato, nera, con due cavalli neri dalle code prolisse; poi, altre carrozze, scoperte, che portavano signore e bimbi. Riconobbe la principessa di Ferentino con Barbarella Viti; poi, la contessa di Lùcoli che guidava due poneys seguita dal suo cane danese. Un soffio dell'antica vita gli passò su lo spirito e lo turbò e gli diede un'agitazione di desiderii indeterminati.

Si ritrasse e si rimise a tavola. D'innanzi a lui il sole accendeva i cristalli e accendeva su la parete una saltazione di satiri intorno a un Sileno.

Il domestico annunziò:

— Il signor duca con due altri signori.

Ed entrarono il duca di Grimiti, Ludovico Barbarisi e Giulio Musèllaro, mentre Andrea si levava per farsi loro incontro. Tutt'e tre, l'un dopo l'altro, lo abbracciarono.

— Giulio! – esciamò lo Sperelli, rivedendo l'amico dopo due anni e più. – Da quanto sei a Roma?

— Da una settimana. Volevo scriverti da Schifanoja, ma poi ho preferito aspettare che tu tornassi. Come stai? Ti trovo un po' dimagrato, ma bene. Soltanto qui a Roma ho saputo del tuo caso; altrimenti mi sarei partito dall'India per venirti ad assistere. Ai primi di maggio, mi trovavo in Padmavati, nel Bahar. Quante cose t'ho da raccontare!

— E quante, anch'io!

Si strinsero di nuovo le mani, cordialmente. Andrea pareva lietissimo. Questo Musèllaro gli era caro sopra tutti gli altri amici, per la sua nobile intelligenza, per il suo spirito acuto, per la finezza della sua cultura.

— Ruggero, Ludovico, sedete. Giulio, siedi qui.

Egli offerse le sigarette, il tè, i liquori. La conversazione si fece vivissima. Ruggero Grimiti e il Barbarisi davano le notizie di Roma, facevano la piccola cronaca. Il fumo saliva nell'aria tingendosi ai raggi quasi orizzontali del sole; le tappezzerie s'armonizzavano in un color caldo e pastoso; l'aroma del tè si mesceva all'odor del tabacco.

— T'ho portato un sacco di tè – disse il Musèllaro allo Sperelli – assai migliore di quello che beveva il tuo famoso Kien-Lung.

— Ah, ti ricordi, a Londra, quando componevamo il tè, secondo la teoria poetica del grande Imperatore?

— Sai – disse il Grimiti. – È a Roma Clara Green, la bionda. La vidi domenica per Villa Borghese. Mi riconobbe, mi salutò, e fece fermare la carrozza. Abita, per ora, all'Albergo d'Europa, in piazza di Spagna. È ancóra bella. Ti ricordi che passione ebbe per te e come ti perseguitò, quando tu eri innamorato della Landbrooke? Sùbito, mi chiese le tue notizie prima delle mie...

— La rivedrò volentieri. Ma si veste ancóra di verde e si mette sul cappello i girasoli?

— No, no. Ha abbandonato l'esteticismo per sempre, a quanto pare. S'è gettata alle piume. Domenica, portava un gran cappello alla Montpensier con una piuma favolosa.

— Quest'anno – disse il Barbarisi – abbiamo una straordinaria abbondanza di demi-mondaines. Ce ne sono tre o quattro a bastanza piacevoli. Giulia Arici ha un bellissimo corpo e le estremità discretamente signorili. È tornata anche la Silva, che ier l'altro il nostro amico Musèllaro conquistò con una pelle di pantera. È tornata Maria Fortuna, ma in rotta con Carlo de Souza che pel momento vien sostituito da Ruggero...

— La stagione è già dunque in fiore?

— Quest'anno, è precoce come non mai, per le peccatrici e per le impeccabili.

— Quali delle impeccabili sono già a Roma?

— Quasi tutte: la Moceto, la Viti, le due Daddi, la Micigliano, la Miano, la Massa d'Albe, la Lùcoli...

— La Lùcoli, l'ho veduta dianzi, dalla finestra. Guidava. Ho veduta anche tua cugina con la Viti.

— Mia cugina è qui fino a domani. Domani tornerà a Frascati. Mercoledì darà una festa in villa, una specie di garden party, alla maniera della principessa di Sagan. Non è prescritto il costume rigoroso, ma tutte le dame porteranno cappelli Louis XV o Directoire. Andremo.

— Tu per ora non ti moverai da Roma; è vero? – chiese il Grimiti allo Sperelli.

— Rimarrò sino ai primissimi di novembre. Poi andrò in Francia per quindici giorni a rifornirmi di cavalli. E tornerò qui, verso la fin del mese.

— A proposito, Leonetto Lanza vende Campomorto – disse Ludovico. – Tu lo conosci: è un magnifico animale, e gran saltatore. Ti converrebbe.

— Per quanto?

— Per quindicimila, credo.

— Vedremo.

— Leonetto è prossimo alle nozze. Si è fidanzato, in questa estate, a Aix-les-Bains, con la Ginosa.

— Mi dimenticavo di dirti – fece il Musèllaro – che Galeazzo Secìnaro ti saluta. Siamo tornati insieme. Se ti raccontassi le gesta di Galeazzo, durante il viaggio! Ora è a Palermo, ma verrà a Roma in gennaio.

— Ti saluta anche Gino Bommìnaco – aggiunse il Barbarisi.

— Ah, ah! – esclamò il duca, ridendo. – Andrea, bisogna che tu ti faccia raccontare da Gino la sua avventura con Donna Giulia Moceto... Tu sei al caso, io credo, di darci qualche spiegazione in proposito.

Anche Ludovico si mise a ridere.

— So – disse Giulio Musèllaro – che qui a Roma hai fatto stragi meravigliose. Gratulor tibi!

— Ditemi, ditemi l'avventura – sollecitava Andrea, curiosamente.

— Bisogna sentirla da Gino, per ridere. Tu conosci la mimica di Gino. Bisogna vedere la faccia ch'egli fa, quando arriva al punto culminante. È un capolavoro!

— La sentirò anche da lui, – insisteva Andrea, punto dalla curiosità – ma accennami qualche cosa; ti prego.

— Ecco, in due parole – consentì Ruggero Grimiti, posando sul tavolo la tazza, e accingendosi a raccontar la storiella, senza scrupoli e senza reticenze, con quella stupenda facilità con cui i giovini gentiluomini publicano i peccati delle loro e delle altrui dame. – Nella primavera scorsa (non so se tu l'abbia notato) Gino faceva a Donna Giulia una corte ardentissima, assai visibile. Alle Capannelle, la corte si mutò in flirtation assai vivace. Donna Giulia era sul punto di capitolare; e Gino, al solito, era tutto in fiamme. L'occasione si presentò. Giovanni Moceto partì per Firenze, a portare i suoi cavalli slombati sul turf delle Cascine. Una sera, una sera dei soliti mercoledì, anzi dell'ultimo mercoledì, Gino pensò che il gran momento era giunto; e aspettò che tutti a uno a uno se ne andassero e che il salone rimanesse vuoto e ch'egli finalmente rimanesse solo, con lei...

— Qui – interruppe il Barbarisi – ci vorrebbe ora Bommìnaco. È inimitabile. Bisogna sentirgli fare, in napoletano, la descrizione dell'ambiente, e l'analisi del suo stato, e poi la riproduzione del momento psicologico e del fisiologico, com'egli dice, alla sua maniera. È d'una comicità irresistibile.

— Dunque – seguitò Ruggero – dopo il preludio, che sentirai da lui, nel languore e nell'eccitazione erotica d'una fin de soirée, egli s'inginocchiò d'innanzi a Donna Giulia che stava seduta su una poltrona molto bassa, su una poltrona «imbottita di complicità» . Donna Giulia già naufragava nella dolcezza, difendendosi debolmente; e le mani di Gino divenivano sempre più temerarie, mentre ella già esalava il sospiro della dedizione... Ahimè, dall'estrema temerità le mani si ritrassero con un moto istintivo come se avessero toccato la pelle d'una serpe, una cosa repugnante...

Andrea ruppe in uno scoppio di risa così schietto che l'ilarità si propagò a tutti gli amici. Egli aveva compreso, perché sapeva. Ma Giulio Musèllaro disse, con gran premura, al Grimiti:

— Spiegami! Spiegami!

— Spiega tu – disse il Grimiti allo Sperelli.

— Ecco, – spiegò Andrea, ancóra ridendo – conosci tu la più bella poesia di Teofilo Gautier, il Musée secret?

O douce barbe féminine! – recitò il Musellaro, ricordandosi.

— Ebbene?

— Ebbene, Giulia Moceto è una finissima bionda; ma se tu avessi la fortuna, che ti auguro, di tirare le drap de la blonde qui dort, certo non troveresti, come Filippo di Borgogna, il toson d'oro. Ella è, dicono, sans plume et sans duvet come i marmi di Paro che canta il Gautier.

— Ah, una rarissima rarità che io apprezzo molto – disse il Musèllaro.

— Una rarità che noi sappiamo apprezzare – ripeté Andrea. Ma Gino Bommìnaco è un ingenuo, un semplice.

Ascolta, ascolta il resto – fece il Barbarisi.

— Ah se ci fosse qui l'eroe! – esclamò il duca di Grimiti. – La storiella in un'altra bocca perde tutto il sapore. Figurati dunque che la sorpresa fu tanta e tanta la confusione, da spegnere ogni fuoco. Gino dovette ritirarsi prudentemente, per l'impossibilità assoluta d'andar più oltre. Te l'imagini? T'imagini tu la terribile mortificazione d'un uomo che, essendo giunto ad ottener tutto, non può prender nulla? Donna Giulia era verde; Gino fingeva di tender l'orecchio ai rumori, per temporeggiare, sperando... Ah, il racconto della ritirata è una meraviglia. Altro che Anabasi! Sentirai.

— E Donna Giulia è poi divenuta l'amante di Gino? – domandò Andrea.

— Mai! Il povero Gino non mangerà mai di quel frutto; e credo che ne morrà di rammarico, di desiderio, di curiosità. Si sfoga a riderne, con gli amici; ma tu osservalo bene, quando racconta. Sotto la buffoneria c'è la passione.

— Bel soggetto per una novella – disse Andrea al Musèllaro. Non ti pare? Una novella intitolata L'Ossesso... Si potrebbe fare una cosa assai fine e intensa. L'uomo, continuamente occupato, incalzato, angustiato dalla visione fantastica di quella rara forma ch'egli ha toccata e quindi imaginata ma non goduta né con gli occhi vista, si consuma di passione a poco a poco e diventa folle. Egli non può togliersi dalle dita l'impressione di quel contatto; ma il primo ribrezzo istintivo gli si muta in un ardore inestinguibile... Si potrebbe insomma, sul fondo reale, lavorar d'arte: ottener qualche cosa come un racconto di un Hoffmann erotico, scritto con la precisione plastica d'un Flaubert.

— Pròvati.

— Chi sa! Del resto, io compiango il povero Gino. La Moceto ha, dicono, il più bel ventre della Cristianità...

— Mi piace quel «dicono» – interruppe Ruggero Grimiti.

— ...il ventre d'una Pandora infeconda, una coppa d'avorio, uno scudo raggiante, speculum voluptatis; e il più perfetto ombelico che si conosca, un piccolo ombelico circonflesso, come nelle terre cotte di Clodion, un puro suggello di grazia, un occhio cieco ma più splendido di un astro, voluptatis ocellus, da celebrarsi in un epigramma degno dell'Antologia greca.

Andrea si eccitava, in quei discorsi. Secondato dagli amici, entrò in un dialogo delle bellezze delle donne assai men castigato di quello del Firenzuola. Si risvegliavano in lui, dopo la lunga astinenza, le sensualità antiche; ed egli parlava con un calore intimo e profondo, da gran conoscitor del nudo, compiacendosi delle parole più colorite, sottilizzando come un artista e come un libertino. E, in verità, il dialogo di quei quattro giovini signori tra quelle dilettose tappezzerie bacchiche, se fosse stato raccolto, avrebbe potuto ben essere il Breviarium arcanum della corruzione elegante in questa fine del XIX secolo.

Il giorno moriva; ma l'aria era ancóra pregna di luce, ritenendo la luce come una spugna ritiene l'acqua. Si vedeva, per la finestra, all'orizzonte una striscia aranciata su cui i cipressi del Monte Mario si disegnavan netti come i denti d'un gran rastrello d'ebano. Si udivano di tratto in tratto i gridi delle cornacchie trasvolanti in gruppi a riunirsi su i tetti della Villa Medici per discender poi nella Villa Borghese, nella piccola valle del sonno.

— Che fai tu stasera? – chiese ad Andrea il Barbarisi.

— Veramente, non so.

— Vieni allora con noi. Per le otto abbiamo un pranzo dai Doney, al Teatro Nazionale. Inauguriamo il nuovo Restaurant, anzi i cabinets particuliers del nuovo Restaurant, dove almeno non dovremo rassegnarci, dopo le ostriche, allo scoprimento afrodisiaco della Giuditta e della Bagnante, come al Caffè di Roma. Pepe academico su ostriche finte...

— Vieni con noi, vieni con noi – sollecitò Giulio Musèllaro.

— Siamo noi tre – aggiunse il duca – con Giulia Arici, con la Silva e con Maria Fortuna. Ah, una bellissima idea! Vieni con Clara Green.

— Bellissima idea! – ripeté Ludovico.

— E dove trovo io Clara Green?

— All'Albergo d'Europa, qui accanto, in piazza di Spagna. Un tuo biglietto la renderà felice. Sii certo che lascerà qualunque impegno.

Ad Andrea piacque la proposta.

— Sarà meglio – disse – ch'io vada a farle una visita. È probabile ch'ella sia rientrata. Non ti pare, Ruggero?

— Vèstiti, e usciamo sùbito.

Uscirono. Clara Green era rientrara da poco all'albergo. Accolse Andrea con una gioia infantile. Ella, certo, avrebbe preferito di pranzar sola con lui; ma accettò l'invito senza esitare; scrisse un biglietto per liberarsi da un impegno anteriore; mandò a un'amica la chiave d'un palco. Ella pareva felice. Si mise a raccontargli una quantità di sue storie sentimentali; gli fece una quantità di domande sentimentali; gli giurò ch'ella non aveva mai potuto dimenticarlo. Parlava, tenendo le mani di lui nelle sue.

I love you more than any words can say, Andrew...

Ella era ancor giovine. Con quel suo profilo puro e diritto, coronato dai capelli biondi, divisi su la fronte in un'acconciatura bassa, pareva una bellezza greca in un keepsake. Aveva una certa incipriatura estetica, lasciatale dall'amor del poeta pittore Adolphus Jeckyll; il quale seguiva in poesia John Keats e in pittura l'Holman Hunt, componendo oscuri sonetti e dipingendo soggetti presi alla Vita nuova. Ella aveva «posato» per una Sibylla palmifera e per una Madonna del Giglio. Aveva anche «posato» , una volta, innanzi ad Andrea, per uno studio di testa da servire all'acquaforte dell'Isabetta nella novella del Boccaccio. Era dunque nobilitata dall'arte. Ma, in fondo, non possedeva alcuna qualità spirituale; anzi, a lungo andare, la rendeva un po' stucchevole quel certo sentimentalismo esaltato che non di rado s'incontra nelle donne di piacere inglesi e che fa uno strano contrasto con le depravazioni della loro lascivia.

Who would have thought we should stand again together, Andrew!

Dopo un'ora, Andrea la lasciò e risalì al palazzo Zuccari, per la scaletta che dalla piazza Mignanelli porta alla Trinità. Giungeva alla scaletta solitaria il rumore della città nella sera mite di ottobre. Le stelle riscintillavano in un cielo umido e terso. Di sotto alla casa dei Casteldelfino, a traverso un piccolo cancello, le piante in un chiarore misterioso agitavano ombre vaghe, senza un fruscìo, come piante marine fluttuanti in fondo a un aquario. Dalla casa, da una finestra con le tendine rosse illuminate, veniva il suono d'un pianoforte. Le campane della chiesa rintoccarono. Egli si sentì d'improvviso pesare il cuore. Un ricordo di Donna Maria lo riempì, d'improvviso; e gli suscitò in confuso un senso di rammarico e quasi di pentimento. – Che faceva ella in quell'ora? Pensava? Soffriva? – Con l'imagine della senese gli si affacciò alla memoria la vecchia città toscana: il Duomo bianco e nero, la Loggia, la Fonte. Una grave tristezza l'occupò. Gli parve che qualche cosa dal fondo del suo cuore si fosse involato; ed egli non sapeva bene qual fosse, ma n'era afflitto come d'una perdita irrimediabile.

Ripensò al proposito suo della mattina. – Una sera in solitudine, nella casa dove ella forse un giorno sarebbe venuta; una sera malinconica ma dolce, in compagnia dei ricordi e dei sogni, in compagnia dello spirito di lei; una sera di meditazione e di raccoglimento! – In verità, il proposito non poteva meglio esser tenuto. Egli stava per recarsi a un pranzo di amici e di donne; e, senza dubbio, avrebbe passata la notte con Clara Green.

Il pentimento gli fu così insoffribile, gli diede tale tortura, ch'egli si abbigliò con insolita prontezza, saltò nel coupé e si fece condurre all'albergo, prima dell'ora. Trovò Clara già pronta. Le offerse un giro in coupé per le vie di Roma, durante il tempo che mancava alle otto.

Passarono per la via del Babuino, intorno l'obelisco nella piazza del Popolo, quindi su pel Corso e a destra per la via della Fontanella di Borghese; ritornarono per Montecitorio al Corso fino alla piazza di Venezia e quindi su al Teatro Nazionale. Clara cinguettava di continuo, e di tratto in tratto si chinava verso il giovine per mettergli un mezzo bacio su l'angolo della bocca, coprendo l'atto furtivo con un ventaglio di piume bianche d'onde esciva un profumo di white-rose assai fine. Ma Andrea pareva non ascoltasse e all'atto di lei sorrideva appena.

— Che pensi? – gli chiese ella, pronunciando le parole italiane con un poco d'incertezza ch'era una grazia.

— Nulla – rispose Andrea, prendendole una mano non ancóra inguantata e guardando gli anelli.

— Chi lo sa! – sospirò ella, dando un'espressione singolare a que' tre monosillabi che le donne straniere imparano sùbito; ne' quali esse credono sia racchiusa tutta la malinconia dell'amore italiano. – Chi lo sa!

Poi soggiunse, con un accento quasi supplichevole:

Love me this evening, Andrew!

Andrea le baciò un orecchio, le passò un braccio intorno al busto, le disse una quantità di cose sciocche, cambiò umore. Il Corso era popoloso, le vetrine splendevano, i venditori di giornali strillavano, vetture publiche e signorili s'incrociavano col coupé, dalla piazza Colonna alla piazza di Venezia si spandeva tutta l'animazione serale della vita di Roma.

Quando entrarono dai Doney, le otto erano passate di dieci minuti. Gli altri sei commensali erano già presenti. Andrea Sperelli salutò la compagnia e, portando per mano Clara Green, disse:

Ecce Miss Clara Green, ancilla Domini, Sibylla palmifera, candida puella.

Ora pro nobis – risposero in coro il Musèllaro, il Barbarisi e il Grimiti. Le donne risero, ma senza capire. Clara sorrise; e, fuor del mantello, appariva in abito bianco, semplice, corto, con una scollatura a punta sul petto e su le spalle, con un nastro verdemare su l'omero sinistro, con due smeraldi agli orecchi, disinvolta sotto il triplice esame di Giulia Arici, di Bébé Silva e di Maria Fortuna.

Il Musèllaro e il Grimiti la conoscevano. Il Barbarisi le fu presentato. Andrea diceva:

— Mercedes Silva, nominata Bébé, chica pero guapa.

— Maria Fortuna, la bella Talismano, che è una vera Fortuna publica... per questa Roma che ha la fortuna di possederla.

Quindi, volgendosi al Barbarisi:

— Fateci voi l'onore di presentarci a quella dama, che, se non m'inganno, è la divina Giulia Farnese.

— No: Arici – interruppe Giulia.

— Chiedo perdono, ma per crederlo ho bisogno di raccogliere tutta la mia buona fede e di consultare il Pinturicchio nella Sala Quinta.

Egli diceva queste sciocchezze senza ridere, dilettandosi ad empir di stupefazione o d'irritazione la dolce ignoranza di quelle oche belle. Aveva, quando si trovava nel demi-monde, una sua maniera e un suo stile particolari. Per non annoiarsi, si metteva a compor frasi grottesche, a gittar paradossi enormi, atroci impertinenze dissimulate con l'ambiguità delle parole, sottigliezze incomprensibili, madrigali enigmatici, in una lingua originale, mista come un gergo, di mille sapori come un'olla podrida rabelesiana, carica di spezie forti e di polpe succulente. Nessuno meglio di lui sapeva raccontare una novelletta grassa, un aneddoto scandaloso, una gesta da Casanova. Nessuno, nella descrizione d'una cosa di voluttà, sapeva meglio di lui trovare la parola lubrica ma precisa e possente, la vera parola di carne e d'ossa, la frase piena di midolla sostanziale, la frase che vive e respira e palpita come la cosa di cui ritrae la forma, comunicando all'uditor degno un piacere duplice, un godimento non pur dell'intelletto ma dei sensi, una gioia simile in parte a quella che producono certe pitture dei grandi maestri coloristi, impastate di porpora e di latte, bagnate come nella transparenza d'un'ambra liquida, impregnate d'un oro caldo e inestinguibilmente luminoso come un sangue immortale.

— Chi è il Pinturicchio? – domandò Giulia Arici al Barbarisi.

— Il Pinturicchio? – esclamò Andrea. – Un superficiale riquadratore di stanze, che qualche tempo fa ebbe la fantasia di dipingervi sopra una porta, nell'appartamento del papa. Non ci pensate più. È morto.

— Ma come?...

— Oh, in una maniera spaventevole! La moglie era l'amante d'un soldato di Perugia, che stava di guarnigione a Siena... Domandatene a Ludovico. Egli sa tutto; ma non ve n'ha mai parlato, per tema d'affliggervi. Bébé, ti avverto che il principe di Galles a tavola comincia a fumare tra il secondo e il terzo piatto; non prima. Tu anticipi alquanto.

La Silva aveva accesa una sigaretta; e inghiottiva le ostriche mentre il fumo le usciva dalle narici. Ella somigliava un collegiale senza sesso, un piccolo ermafrodito vizioso: pallida, magra, con gli occhi avvivati dalla febbre e dal carbon, con la bocca troppo rossa, con i capelli corti, lanosi, un po' ricci, che le coprivano la testa a guisa d'un caschetto d'astrakan. Teneva incastrata nell'occhiaia sinistra una lente rotonda; portava un alto solino inamidato, la cravatta bianca, il panciotto aperto, una giacca nera di taglio maschile, una gardenia all'occhiello, affettando le maniere d'un dandy, parlando con una voce rauca. E attirava, tentava, per quella impronta di vizio, di depravazione, di mostruosità, ch'era nel suo aspetto, nelle sue attitudini, nelle sue parole. Sal y pimienta.

Maria Fortuna invece aveva il tipo un po' bovino, era una Madame de Parabère, tendente alla pinguedine. Come la bella amante del Reggente possedeva una carne bianca, d'una bianchezza opaca e profonda, una di quelle carni instancabili e insaziabili su cui Ercole avrebbe potuto compiere la sua impresa d'amore, la sua tredicesima fatica, senza sentirsi chieder tregua. E gli occhi le nuotavano, molli viole, in un'ombra alla Cremona e la bocca sempre socchiusa mostrava in un'ombra rosata un luccicor vago di madreperla, come una conchiglia socchiusa.

Giulia Arici piaceva molto allo Sperelli, per quel suo color dorato, sul quale s'aprivano due lunghi occhi di velluto, d'un morbido velluto castagno che talvolta prendeva riflessi quasi fulvi. Il naso un po' carnoso e le labbra tumide, fresche, sanguigne, dure, le formavano nel basso del viso un'espressione d'aperta lascivia, resa ancor più vivace dall'irrequietudine della lingua. I canini, essendo troppo forti, le sollevavano gli angoli della bocca; e, come gli angoli così sollevati si facevano aridi o le davano forse un lieve fastidio, ella ad ogni tratto con la punta della lingua li inumidiva. E si vedeva ad ogni tratto scorrere per la chiostra dei denti quella punta, come la foglia bagnata d'una rosa grassa per una fila di piccole mandorle nude.

— Julia, – disse Andrea Sperelli, guardandole la bocca – san Bernardino ha per voi in un suo sermone un epiteto meraviglioso. E anche questo non sapete, voi!

L'Arici si mise a ridere, d'un riso ebete ma bellissimo, che le scopriva un poco le gengive; e nell'agitazione ilare usciva da lei un profumo più acuto come quando viene scosso un cespuglio.

— Che mi date – soggiunse Andrea – che mi date in compenso se, estraendo dal sermone del santo quella parola voluttuosa, come da un tesoro teologale una pietra afrodisiaca, io ve la offro?

— Non so – rispose l'Arici, sempre ridendo e tenendo tra le dita a bastanza fini e lunghette un bicchiere con vin di Chablis. – Quel che volete.

— Il sostantivo dell'adjettivo.

— Che dite?

— Ne discorreremo. La parola è: linguatica. Messer Ludovico, aggiugnete alle vostre litanie questa appellazione: «Rosa linguatica, glube nos.»

— Peccato – disse il Musèllaro – che tu non sia alla mensa di un duca del secolo XVI, tra una Violante e una Imperia, con Giulio Romano, con Pietro Aretino e con Marc'Antonio!

La conversazione andavasi accendendo nei vini, nei vecchi vini di Francia, fluidi e ardenti, che dànno ali e fiamme al verbo. Le maioliche non eran durantine, istoriate dal cavalier Cipriano dei Piccolpasso, né le argenterie eran quelle milanesi di Ludovico il Moro; ma neppure erano troppo volgari. Nel mezzo della tavola un vaso di cristallo azzurro conteneva un gran mazzo di crisantemi gialli, bianchi, violacei, su cui si posavano gli occhi malinconici di Clara Green.

— Clara, – chiese Ruggero Grimiti – siete triste? A che pensate?

À ma chimère! – rispose l'antica amante di Adolphus Jeckyll, sorridendo; e chiuse il sospiro nel cerchio d'un bicchiere colmo di Sciampagna.

Quel vino chiaro e brillante, che ha su le donne una virtù così pronta e così strana, già incominciava ad eccitare variamente i cervelli e le matrici di quelle quattro etàire ineguali, a risvegliare e a stimolare in loro il piccolo dèmone isterico e a farlo correre per tutti i loro nervi propagando la follia. Bébé Silva gittava motti orribili, ridendo d'un riso soffocato e convulso e quasi singhiozzante come quel d'una donna che sia per morir di solletico. Maria Fortuna schiacciava i fondants col gomito nudo e li offeriva per niente, premendo poi su la bocca di Ruggero il gomito dolcificato. Giulia Arici, oppressa dai madrigali dello Sperelli, si turava gli orecchi con le belle mani, abbandonandosi alla spalliera; e la sua bocca, in quell'atto, attirava i morsi come un frutto sugoso.

— Hai mangiato mai – diceva il Barbarisi allo Sperelli – certe confetture di Costantinopoli, morbide come una pasta, fatte di bergamotto, di fiori d'arancio e di rose, che profumano l'alito per tutta la vita? La bocca di Giulia è una confettura orientale.

— Ti prego, Ludovico, – diceva lo Sperelli – lasciamela provare. Conquistami Clara Green e cedimi Giulia per una settimana. Clara anche ha un sapore originale: un giulebbe di violette di Parma tra due biscotti Peek-Frean alla vainiglia...

— Attenti, signori! – gridò Bébé Silva, prendendo un fondant.

Ella aveva vista la piacevolezza di Maria Fortuna e aveva fatta la scommessa ginnica di mangiarsi un fondant sul suo proprio gomito tirandoselo fin presso alle labbra. Per eseguire il giuoco, si scoprì il braccio: un braccio magro e pallido, sparso di lanugine scura; appiccicò il fondant all'osso acuto; e, stringendosi con la mano sinistra l'antibraccio destro e facendo forza, riuscì a vincere la scommessa, con l'abilita d'un clown, tra gli applausi.

— E questo è niente – disse ella ricoprendosi la nudità spetrale. – Chica pero guapa; è vero, Musellaro?

Ed accese la decima sigaretta.

L'odor del tabacco era così delizioso che tutti vollero fumarne. L'astuccio della Silva passò, di mano in mano. Maria Fortuna lesse ad alta voce su l'argento smaltato dell'astuccio:

— «Quia nominor Bébé

Allora tutte desiderarono d'avere un motto, un'impresa da mettere su i fazzoletti, su la carta da lettere, su le camicie. La cosa parve loro molto aristocratica, sommamente elegante.

— Chi mi trova un motto? – esclamò l'antica amante di Carlo de Souza. – Lo voglio latino.

— Io – disse Andrea Sperelli. – Eccolo: «Semper parata

— No.

— «Diu saepe fortiter

— Che vuol dire?

— E che t'importa di saperlo? Basta che sia latino. Eccone un altro, magnifico: «Non timeo dona ferentes

— Mi piace poco. Non m'è nuovo...

— E allora, questo: «Rarae nates cum gurgite vasto

— È troppo comune. Lo leggo tante volte nelle cronache dei giornali...

Ludovico, Giulio, Ruggero ridevano in coro, sonoramente. Il fumo delle sigarette si spandeva su le teste formando leggeri nimbi azzurrognoli. A intervalli veniva dall'orchestra del Teatro un'onda di suoni, nell'aria calda; e faceva cantarellare Bébé. Clara Green sfogliava nel suo piatto i crisantemi, in silenzio, poiché il vin bianco e leggiero le si era convertito nelle vene in un languor triste. Per quelli che già la conoscevano, un tal sentimentalismo bacchico non era nuovo; e il duca di Grimiti si divertiva a provocarne l'effusione. Ella non rispondeva, seguitando a sfogliare nel piatto i crisantemi e stringendo le labbra, quasi per trattenere il pianto. Come Andrea Sperelli si curava poco di lei e si dava ad una pazza allegria di atti e di parole, meravigliando perfino i suoi compagni di piacere, ella disse con una voce supplichevole, tra il coro delle altre voci:

Love me to-night, Andrew!

E da allora in poi, quasi ad intervalli misurati, levando di sul piatto lo sguardo ceruleo, si mise a supplicare languidamente:

Love me to-night, Andrew!

— O che lagno! – fece Maria Fortuna. – Ma che significa? Si sente male?

Bébé Silva fumava, beveva bicchierini di vieux cognac e diceva cose enormi, con una vivacità artifiziale. Ma aveva, a quando a quando, momenti di stanchezza, di prostrazione, stranissimi, ne' quali pareva che qualche cosa le cadesse dal volto e che nella sua figura sfrontata e oscena entrasse non so qual piccola figura triste, miserevole, malata, pensierosa, più vecchia, della vecchiezza d'una bertuccia tisica che si ritragga in fondo alla sua gabbia a tossire dopo aver fatto ridere la gente. Erano momenti fuggevoli. Ella si riscoteva per bere un altro sorso o per dire un'altra enormità.

E Clara Green a ripetere:

Love me to-night, Andrew!

II

Così, d'un balzo, Andrea Sperelli si rituffò nel Piacere.

Per quindici giorni lo occuparono Giulia Arici e Clara Green. Poi partì per Parigi e per Londra, in compagnia del Musèllaro. Tornò a Roma verso la metà di dicembre; trovò la vita invernale già molto mossa; fu sùbito ripreso nel gran cerchio mondano.

Ma egli non s'era mai trovato in una disposizion di spirito più inquieta, più incerta, più confusa; non aveva mai provato dentro di sè uno scontento più molesto, un malessere più importuno; né mai aveva provato contro di sé medesimo impeti d'ira e moti di disgusto più crudeli. Talvolta, in qualche stanca ora di solitudine, egli si sentiva salire dalle profonde viscere l'amarezza, come una nausea improvvisa; e rimaneva là ad assaporarla, torpidamente, senza aver la forza di cacciarla fuori, con una specie di rassegnazione cupa, come un malato che abbia perduta ogni fiducia di guarire e sia disposto a vivere del suo proprio male, a raccogliersi nella sua sofferenza, a profondarsi nella sua miseria mortale. Gli pareva che di nuovo l'antica lebbra gli si dilatasse per l'anima e di nuovo il cuore gli si vuotasse per non riempirsi più mai, come un otre forato, irreparabilmente. Il senso di questa vacuità, la certezza di questa irreparabilità gli movevano talvolta una specie di collera disperata e poi un disprezzo folle di sé medesimo, del suo volere, delle ultime sue speranze, degli ultimi suoi sogni. Egli era giunto a un terribile momento, incalzato dalla vita inesorabile, dall'implacabile passione della vita; era giunto al momento supremo della salvezza o della perdizione, al momento decisivo in cui i grandi cuori rivelano tutta la loro forza e i piccoli cuori tutta la loro viltà. Egli si lasciò sopraffare; non ebbe il coraggio di salvarsi con un atto volontario; pur essendo in balia del dolore, ebbe paura d'un dolore più virile; pur essendo travagliato dal disgusto, ebbe paura di rinunziare a ciò che lo disgustava; pur avendo in sé vivo e spietato l'istinto del distacco dalle cose che più parevano attrarlo, ebbe paura di allontanarsi da quelle cose. Egli si lasciò abbattere; abdicò intieramente e per sempre alla sua volontà, alla sua energia, alla sua dignità interiore; sacrificò per sempre quel che gli rimaneva di fede e d'idealità; si gittò nella vita, come in una grande avventura senza scopo, alla ricerca del godimento, dell'occasione, dell'attimo felice, affidandosi al destino, alle vicende del caso, all'accozzo fortuito delle cagioni. Ma, mentre egli credeva con questa specie di fatalismo cinico mettere un argine alla sofferenza e conquistare se non la calma almeno l'ottusità in lui di continuo la sensibilità al dolore diveniva più acuta, le facoltà di soffrire si moltiplicavano, i bisogni e i disgusti aumentavano senza fine. Egli esperimentava ora la profonda verità delle parole che aveva dette un giorno a Maria Ferres, in un momento di confidenza e di malinconia sentimentali: – Altri sono più infelici; ma io non so se ci sia stato al mondo uomo men felice di me. – Egli esperimentava ora la verità di quelle parole dette in un momento assai dolce, quando gli illuminava l'anima l'illusione di una seconda giovinezza, il presentimento d'una nuova vita.

Eppure, quel giorno, parlando a quella creatura, egli era stato sincero come non mai; egli aveva espresso il suo pensiero con ingenuità e candore, come non mai. Perché, in un soffio, tutto s'era dileguato, tutto era svanito? Perché non aveva saputo egli nutrire quella fiamma nel suo cuore? Perché non aveva saputo custodire quella memoria e tenere quella fede? La sua legge era dunque la mutabilità; il suo spirito aveva l'inconsistenza d'un fluido; tutto in lui si trasformava e si difformava, senza tregua; la forza morale gli mancava intieramente; il suo essere morale si componeva di contraddizioni; l'unità, la semplicità, la spontaneità gli sfuggivano; a traverso il tumulto, la voce del dovere non gli giungeva più; la voce del volere veniva soverchiata da quella degli istinti; la conscienza, come un astro senza luce propria, ad ogni tratto si eclissava. Tale era stato sempre; tale sarebbe stato sempre. Perché, dunque, combattere contro sé medesimo? Cui bono?

Ma appunto codesta lotta era una necessità della sua vita; appunto codesta irrequietudine era una condizione essenziale della sua esistenza; appunto codesta sofferenza era una condanna a cui non avrebbe egli potuto sottrarsi giammai.

Qualunque tentativo di analisi su sé medesimo si risolveva in una maggiore incertezza, in una maggiore oscurità. Essendo egli interamente sfornito di forza sintetica, la sua analisi diveniva un crudele giuoco distruttore. E da un'ora di riflessione su sé medesimo egli usciva confuso, disfatto, disperato, perduto.

Quando, la mattina del 30 dicembre, nella via dei Condotti, inaspettatamente, si rincontrò con Elena Muti, egli ebbe una commozione inesprimibile, come d'innanzi al compiersi d'un fato meraviglioso, come se il riapparir di quella donna in quel momento tristissimo della sua vita avvenisse per virtù d'una predestinazione ed ella gli fosse inviata per soccorso ultimo o per ultimo danno nel naufragio oscuro. Il primo moto dell'anima sua fu di ricongiungersi a lei, di riprenderla, di riconquistarla, di ripossederla tutta quanta, come un tempo, di rinnovare la passione antica con tutte le ebrezze e tutti gli splendori. Il primo moto fu di giubilo e di speranza. Poi, senza indugio, risorsero la diffidenza e il dubbio e la gelosia; senza indugio, l'occupò la certezza che nessun prodigio mai avrebbe potuto risuscitare sol una minima parte della felicità morta, riprodurre sol un baleno dell'ebrezza spenta, sol un'ombra dell'illusione sparita.

Ella era venuta, ella era venuta! Era rientrata nel luogo dove ogni cosa per lei custodiva un ricordo e aveva detto: – Io non sono più tua, non potrò essere tua più mai. – Aveva gridato, contro di lui: – Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo? – Proprio, aveva osato gridar quelle parole, contro di lui, in quel luogo, in conspetto di quelle cose!

Un dolore atroce, enorme, fatto di mille punture l'una dall'altra distinte e l'una più dell'altra acute, lo tenne per qualche tempo e l'esasperò. La passione lo riavvolse con mille fuochi, suscitandogli un inestinguibile ardore carnale per quella donna non più sua, risvegliandogli nella memoria tutte le più minute particolarità dei godimenti lontani, le imagini di tutte le carezze, di tutte le attitudini di lei nel piacere, di tutte le folli mescolanze che non saziavano né appagavano mai la loro brama di continuo rinascente. E pur sempre, in ogni sua imaginazione, persisteva quella strana difficoltà a ricongiungere l'Elena d'una volta all'Elena d'ora. Mentre i ricordi del possesso lo accendevano e lo torturavano, la certezza del possesso gli sfuggiva: l'Elena d'ora gli pareva una donna nuova, non mai goduta, non mai stretta. Il desiderio gli diede tali spasimi ch'egli credé morirne. L'impurità l'infettò come un tossico.

L'impurità, che allora la fiamma alata dell'anima velava d'un velo sacro e circondava d'un mistero quasi divino, appariva ora senza il velo, senza il mistero della fiamma, come una lascivia interamente carnale, come una libidine bassa. Ed egli sentiva che quel suo ardore non era l'Amore e che non aveva più nulla di comune con l'Amore. Non era l'Amore. Ella gli aveva gridato: – Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo? – Ebbene, sì, egli l'avrebbe sofferto!

Egli l'avrebbe presa, senza ripugnanza, così come veniva, contaminata dall'abbraccio di un altro; avrebbe messa la sua carezza su la carezza di un altro; avrebbe premuto il suo bacio sul bacio di un altro.

Nulla più, nulla più, dunque, in lui rimaneva intatto. Anche il ricordo della grande passione si corrompeva miseramente, si bruttava, s'avviliva, in lui. L'ultimo barlume di speranza era estinto. Infine, egli toccava il fondo, per non rialzarsi mai più.

Ma una orribile smania l'invase, di atterrare l'idolo che rimanevagli pur sempre alzato ed enigmatico d'innanzi. Con una cinica crudeltà egli si mise a scalzarlo, ad oscurarlo, a corroderlo. L'analisi distruggitrice, ch'egli già aveva esperimentata su se medesimo, gli servì contro di Elena. A tutte le interrogazioni del dubbio, che un tempo egli aveva voluto sfuggire, ora cercò una risposta; di tutti i sospetti, che un tempo apparivano e si dileguavano senza lasciar traccia, ora studiò l'origine, ritrovò la giustificazione, ottenne la conferma. Egli credeva di trovare un sollievo in questa disgraziata opera d'abbattimento; e aumentava la sua sofferenza, irritava il suo male, allargava le sue macchie.

Quale era stata la cagion vera della partenza di Elena, nel marzo del 1885? – Molte dicerie eran corse in quel tempo e nel tempo del matrimonio di lei con Humphrey Heathfield. La verità era una sola. Egli la seppe da Giulio Musèllaro, per caso, in mezzo a chiacchiere inconcludenti, una sera, uscendo da un teatro; e non ne dubitò. Donna Elena Muti era partita per affari di finanza, per combinare «un'operazione» che doveva trarla da gravissimi imbarazzi pecuniarii causati dalla sua eccessiva prodigalità. Il matrimonio con Lord Heathfield l'aveva salvata da una rovina. Questo Heathfield, marchese di Mount Edgcumbe e conte di Bradford, possedeva ricchezze considerevoli ed era alleato con la più alta nobiltà britanna. Donna Elena aveva saputo far le sue cose con molto accorgimento; aveva saputo escir dal pericolo con un'abilità straordinaria. Certo, i suoi tre anni di vedovanza non parevano essere stati un casto intermezzo preparatorio alle seconde nozze. Non casto e neanche cauto. Ma, senza dubbio, Donna Elena era una gran donna...

— Ah, mio caro, una gran donna! – ripeté Giulio Musèllaro. – tu lo sai bene.

Andrea tacque.

— Ma non ti consiglio di riavvicinarti – soggiunse l'amico, gittando via la sigaretta che tra una chiacchiera e l'altra gli si era spenta. – Riaccendere un amore è come riaccendere una sigaretta. Il tabacco s'invelenisce; l'amore, anche. Andiamo a prendere da una tazza di tè dalla Moceto? M'ha detto che si può andare lei dopo il teatro: non è mai tardi.

Erano sotto il palazzetto Borghese.

— Va tu – disse Andrea. – Io torno a casa, a dormire. La caccia d'oggi m'ha un po' stancato. Salutami Donna Giulia. Comprends et prends.

Il Musèllaro salì. Andrea seguitò giù per la Fontanella di Borghese e per i Condotti, verso la Trinità. Era una notte di gennaio fredda e serena, una di quelle prodigiose notti iemali che fanno di Roma una città d'argento chiusa in una sfera di diamante. La luna piena, a mezzo del cielo, versava la triplice purezza della luce, del gelo e del silenzio.

Egli camminava, sotto la luna, come un sonnambulo, non avendo conscienza che del suo dolore. L'ultimo colpo era dato; l'idolo crollava; nulla più rimaneva su la gran rovina; tutto così finiva, per sempre. – Ella, dunque, veramente non l'aveva mai amato. Senza esitare, aveva troncato l'amore per provvedere a un dissesto. Senza esitare, aveva concluso un matrimonio utile. Ora, d'innanzi a lui, prendeva un'attitudine di martire, si avvolgeva in un velo di sposa inviolabile! – Un riso amaro gli saliva dal fondo; e poi una collera sorda gli si mosse contro la donna e l'accecò. I ricordi della passione non valsero. Tutte le cose di quel tempo gli apparvero come un solo inganno, enorme e crudele, come una sola menzogna; e quest'uomo che dell'inganno e della menzogna s'era fatto nella vita un abito, quest'uomo che aveva ingannato e mentito tante volte, si sentì, al pensiero dell'altrui frode, offendere, sdegnare, disgustare come da una colpa imperdonabile, come da una mostruosità inescusabile, ed anche inesplicabile. Egli non giungeva infatti a spiegarsi come Elena avesse potuto commettere un tal delitto; e, pur non giungendovi, non le concedeva alcuna giustificazione, non accoglieva il dubbio che una qualche altra segreta cagione l'avesse spinta alla fuga subitanea. Egli non sapeva vedere che l'azione brutale, la bassezza, la volgarità: la volgarità, sopra tutto, cruda, aperta, odiosa, non attenuata da nessuna contingenza. Insomma, si trattava di questo: una passione, che pareva sincera ed era giurata altissima, inestinguibile, veniva ad essere interrotta da un affar di denaro, da una utilità materiale, da un negozio.

«Ingrato! Ingrato! Che sai tu di quel ch'è accaduto, di quel ch'io ho sofferto? Che sai?» Le parole di Elena gli tornarono nella memoria, precise; tutte le parole di lei, dal principio alla fine del colloquio tenuto innanzi al caminetto, gli tornarono nella memoria: le parole di tenerezza, le offerte di fraternità, tutte quelle frasi sentimentali. Ed egli ripensò anche alla lacrima che le avea velato gli occhi, alle mutazioni del volto, al tremito, alla voce soffocata dell'addio quando egli le aveva posato su le ginocchia il fascio delle rose. – Perché mai aveva ella consentito a venir nella casa? Perché aveva voluto recitar quella parte, provocar quella scena, ordire quel nuovo dramma o quella nuova comedia? Perché?

Era giunto alla sommità della scala, nella piazza deserta. La bellezza della notte gli diede, d'improvviso, un'aspirazione vaga ma affannosa verso un Bene sconosciuto; l'imagine di Donna Maria gli attraversò lo spirito; il cuore gli palpitò forte, come all'urto d'un desiderio; gli balenò il pensiero di tener le mani di Donna Maria nelle sue, di piegare sul cuor di lei la fronte e di sentirsi da lei consolare senza parole, pietosamente. Quel bisogno di pietà, di rifugio, di compianto fu come l'ultimo tratto dell'anima che non si rassegnava a perire. Egli chinò il capo e rientrò nella casa, senza più volgersi a guardare la notte.

Terenzio l'aspettava, nell'anticamera, e lo seguì fin nella stanza da letto, dove il fuoco era acceso. Domandò:

— Il signor conte va a letto sùbito?

— No, Terenzio. Portami il tè – rispose il signore, sedendosi innanzi al camino e tendendo le palme verso la fiamma.

Egli tremava, d'un piccolo tremito nervoso. Aveva pronunziate quelle parole con una strana dolcezza; aveva chiamato a nome il domestico; gli aveva dato del tu.

— Ha freddo il signor conte? – domandò Terenzio, con una premura affettuosa, incoraggiato dalla benevolenza del signore.

E si chinò su gli alari a ravvivare il fuoco, aggiungendo altre legne. Egli era un vecchio servo di casa Sperelli; aveva servito il padre di Andrea per molti anni; e la sua devozione pel giovine giungeva sino all'idolatria. Nessuna creatura umana gli pareva più bella, più nobile, più sacra. Egli apparteneva, in verità, a quella ideal razza che fornisce i servi fedeli ai romanzi d'avventura o di sentimento. Ma, a differenza de' servi romanzeschi, parlava di rado, non dava consigli, non d'altro s'occupava che d'obedire.

— Va bene così – disse Andrea, cercando di vincere il tremito convulso, accostandosi al fuoco.

La presenza del vecchio, in quella cattiva ora, lo commoveva singolarmente. Era una commozione simile in parte alla debolezza che, in presenza d'una persona buona, prende gli uomini prima dei suicidio. Non mai, come in quell'ora, il vecchio gli aveva suscitato il pensiero del padre, la memoria del caro estinto, il rimpianto del grande amico perduto. Non mai, come in quell'ora, egli aveva provato il bisogno d'un conforto familiare, della voce e della mano paterna. Che avrebbe detto il padre se avesse veduto il figliuolo accasciato nell'orribile miseria? Come l'avrebbe sollevato? Con quale forza?

Il suo pensiero andava al morto, con un immenso rammarico. Ma non era in lui nemmen l'ombra del sospetto, che la causa remota della sua miseria fosse nel primo insegnamento paterno.

Terenzio portò il tè. Quindi si mise a preparare il letto, con lentezza, con una cura quasi feminile, emulando Jenny, non dimenticando nulla, sembrando voler assicurare al signore, fino al mattino, un riposo perfettissimo, un sonno imperturbabile. Andrea lo guardava, notandone ogni atto, con una commozione crescente, in fondo a cui era anche non so qual vago senso di pudore. Gli faceva male la bontà di quel vecchio intorno a quel letto per ove eran passati tanti amori immondi; gli pareva quasi che quelle mani senili rimescolassero tutte le impurità, inconsapevolmente.

— Va a dormire, Terenzio – egli disse. – Non ho bisogno d'altro.

Rimase solo, d'innanzi al fuoco, solo con l'anima sua, solo con la sua tristezza. Si levò, agitato dal tormento interiore, e si mise a percorrere la stanza. L'incalzava la visione della testa di Elena sul guanciale scoperto del letto. Ad ogni tratto, quando giunto d'innanzi alla finestra si rivolgeva, credeva di vederla; e n'aveva un sussulto. I suoi nervi erano così estenuati che secondavano ogni disordine della fantasia. L'allucinazione diveniva più intensa. Egli si fermò, nascose la faccia tra le palme, per contenere l'eccitamento. Poi tirò sul guanciale la coperta, e andò a risedersi.

Gli sorse nello spirito un'altra imagine: Elena tra le braccia del marito: ancóra una volta, con una esattezza implacabile.

Egli ora conosceva meglio questo marito. Proprio in quella sera, al teatro, in un palco, egli era stato a lui presentato da Elena e l'aveva osservato attentamente, minutamente, con acuta ricerca, come per averne qualche rivelazione, come per strappargli un segreto. Udiva ancóra la voce di lui, una voce d'un timbro singolare, un po' stridula, che dava ad ogni principio di frase una intonazione interrogativa; e vedeva quegli occhi chiari chiari sotto la gran fronte convessa, quegli occhi che prendevano talvolta i riflessi morti d'un vetro o s'animavano d'un bagliore indefinibile, simile un poco allo sguardo d'un maniaco. E vedeva anche quelle mani bianchicce, molli, sparse d'una peluria biondissima, che avevano qualche cosa d'inverecondo in ogni loro moto, nel prendere il binocolo, nello spiegare il fazzoletto, nel posarsi sul davanzale del palco, nello sfogliare il libretto dell'opera, in ogni loro moto: mani improntate di vizio, mani sàdiche, poiché tali forse dovevan esser quelle di certi personaggi del Sade.

Egli vedeva quelle mani toccare la nudità di Elena, contaminare il corpo bellissimo, tentare una lascivia curiosa... Orrore!

Il supplizio era insostenibile. Egli si levò, di nuovo; andò alla finestra, l'aprì, rabbrividì all'aria fredda, si scosse. La Trinità de' Monti splendeva nell'azzurro, con lineamenti netti, come intagliata in un marmo appena appena roseo. Roma, sotto, aveva un luccicor cristallino, come una città scavata in un ghiacciaio.

Quella quiete gelida e precisa gli ricondusse lo spirito alla realità, gli ridiede la conscienza vera del suo stato. Egli richiuse, e tornò a sedersi. L'enigma di Elena lo attrasse ancóra; le interrogazioni gli risorsero in tumulto, lo incalzarono. Ma ebbe la forza di ordinarle, di coordinarle, di esaminarle a una a una, con una strana lucidità. Come più procedeva nell'analisi, più acquistava di lucidità; e di quella sua crudele psicologia godeva come d'una vendetta. Infine, gli pareva d'aver denudata un'anima, d'aver penetrato un mistero. Gli pareva, infine, di possedere Elena assai più a dentro che non al tempo dell'ebrezza.

Chi era ella mai?

Era uno spirito senza equilibrio in un corpo voluttuario. A similitudine di tutte le creature avide di piacere, ella aveva per fondamento del suo essere morale uno smisurato egoismo. La sua facoltà precipua, il suo asse intellettuale, per dir così, era l'imaginazione: una imaginazione romantica, nudrita di letture diverse, direttamente dipendente dalla matrice, continuamente stimolata dall'isterismo. Possedendo una certa intelligenza, essendo stata educata nel lusso d'una casa romana principesca, in quel lusso papale fatto di arte e di storia, ella erasi velata d'una vaga incipriatura estetica, aveva acquistato un gusto elegante; ed avendo anche compreso il carattere della sua bellezza, ella cercava, con finissime simulazioni e con una mimica sapiente, di accrescerne la spiritualità, irraggiando una capziosa luce d'ideale.

Ella portava quindi, nella comedia umana, elementi pericolosissimi; ed era occasion di ruina e di disordine più che s'ella facesse publica professione d'impudicizia.

Sotto l'ardore della imaginazione, ogni suo capriccio prendeva un'apparenza patetica. Ella era la donna delle passioni fulminee, degli incendii improvvisi. Ella copriva di fiamme eteree i bisogni erotici della sua carne e sapeva transformare in alto sentimento un basso appetito...

Così, in questo modo, con questa ferocia, Andrea giudicava la donna un tempo adorata. Procedeva, nel suo esame spietato, senza arrestarsi d'innanzi ad alcun ricordo più vivo. In fondo ad ogni atto, a ogni manifestazione dell'amor d'Elena trovava l'artifizio, lo studio, l'abilità, la mirabile disinvoltura nell'eseguire un tema di fantasia, nel recitare una parte dramatica, nel combinare una scena straordinaria. Egli non lasciò intatto alcuno de' più memorabili episodii: né il primo incontro al pranzo di casa Ateleta, né la vendita del cardinale Immenraet, né il ballo del'Ambasciata di Francia, né la dedizione improvvisa nella stanza rossa del palazzo Barberini, né il congedo su la via Nomentana nel tramonto di marzo. Quel magico vino che prima lo aveva inebriato ora gli pareva una mistura perfida.

Ben però, in qualche punto, egli rimaneva perplesso, come se, penetrando nell'anima della donna, egli penetrasse nell'anima sua propria e ritrovasse la sua propria falsità nella falsità di lei; tanta era l'affinità delle due nature. E a poco a poco il disprezzo gli si mutò in una indulgenza ironica, poiché egli comprendeva. Comprendeva tutto ciò che ritrovava in sé medesimo.

Allora, con fredda chiarezza, definì il suo intendimento.

Tutte le particolarità del colloquio avvenuto nel giorno di San Silvestro, più d'una settimana innanzi, tutte gli tornarono alla memoria; ed egli si piacque a riconstruir la scena, con una specie di cinico sorriso interiore, senza più sdegno, senza concitazione alcuna, sorridendo di Elena, sorridendo di sé medesimo. – Perché ella era venuta? Era venuta perché quel convegno inaspettato, con un antico amante, in un luogo noto, dopo due anni, le era parso strano, aveva tentato il suo spirito avido di commozioni rare, aveva tentata la sua fantasia e la sua curiosità. Ella voleva ora vedere a quali nuove situazioni e a quali nuove combinazioni di fatti l'avrebbe condotta questo giuoco singolare. L'attirava forse la novità di un amor platonico con la persona medesima ch'era già stata oggetto d'una passion sensuale. Come sempre, ella erasi messa con un certo ardore all'imaginazione d'un tal sentimento; e poteva anche darsi ch'ella credesse d'esser sincera e che da questa imaginata sincerità avesse tratto gli accenti di profonda tenerezza e le attitudini dolenti e le lacrime. Accadeva in lei un fenomeno a lui ben noto. Ella giungeva a creder verace e grave un moto dell'anima fittizio e fuggevole; ella aveva, per dir così, l'allucinazione sentimentale come altri ha l'allucinazione fisica. Perdeva la conscienza della sua menzogna; e non sapeva più se si trovasse nel vero o nel falso, nella finzione o nella sincerità.

Ora, a questo punto era lo stesso fenomeno morale che ripetevasi in lui di continuo. Egli dunque non poteva con giustizia accusarla. Ma, naturalmente, la scoperta toglieva a lui ogni speranza d'altro piacere che non fosse carnale. Omai la diffidenza gli impediva qualunque dolcezza d'abbandono, qualunque ebrezza dello spirito. Ingannare una donna sicura e fedele, riscaldarsi a una grande fiamma suscitata con un baglior fallace, dominare un'anima con l'artifizio, possederla tutta e farla vibrare come uno stromento, habere non haberi, può essere un alto diletto. Ma ingannare sapendo d'essere ingannato è una sciocca e sterile fatica, è un giuoco noioso e inutile.

Egli doveva dunque ottener che Elena rinunziasse all'idea di fraternizzare e gli tornasse fra le braccia come un tempo. Egli doveva riprendere il possesso materiale della bellissima donna, trarre dalla bellezza di lei il maggior possibile godimento, e quindi esserne per sempre liberato dalla sazietà. Ma in questa impresa conveniva usar prudenza e pazienza. Già nel primo colloquio l'ardor violento aveva fatto cattiva prova. Appariva manifesto ch'ella fondava il suo progetto di impeccabilità su la famosa frase: «Soffriresti tu di spartire con altri il mio corpo?» La grande macchina platonica era mossa da questo santo orrore delle mescolanze. Poteva anche darsi che, in fondo in fondo, questo orrore fosse sincero. Quasi tutte le donne d'amorosa vita, se giungono a concluder nozze, affettano ne' primi tempi del matrimonio una feroce purità e si pongono a far professione di mogli caste con leale proposito. Poteva quindi anche darsi che Elena fosse presa dal comune scrupolo. Nulla di peggio, allora, che assalirla di fronte e apertamente urtare la sua novella virtù. Invece, conveniva secondarla nelle aspirazioni spirituali, accettarla come «la sorella più cara, l'amica più dolce» , inebriarla d'ideale, platonizzando con accortezza; e a poco a poco trarla dalla candida fraternità a un'amicizia voluttuosa, e da un'amicizia voluttuosa alla total resa del corpo. Probabilmente queste transizioni sarebbero state rapidissime. Tutto dipendeva dalla circostanza....

Così ragionava Andrea Sperelli, d'innanzi al camino che aveva illuminata l'amante Elena ignuda, avvolta nel drappo dello Zodiaco, ridente tra le rose sparse. E l'occupava una stanchezza immensa, una stanchezza che non chiedeva il sonno, una stanchezza così vacua e sconsolata che quasi pareva un bisogno di morire; mentre il fuoco spegnevasi in su gli alari e la bevanda freddavasi nella tazza.

Ne' giorni che seguirono, egli invano aspettò il biglietto promesso. «Vi scriverò un biglietto per dirvi quando potrò vedervi.» Elena dunque intendeva dargli un nuovo convegno. Ma dove? Ancóra nella casa Zuccari? Avrebbe ella commessa la seconda imprudenza? L'incertezza gli dava torture indicibili. Egli passava tutte le sue ore a ricercare un qualunque mezzo per incontrarla, per vederla. Più d'una volta andò all'Albergo del Quirinale, con la speranza d'esser ricevuto, ma non la trovò mai. La rivide una sera col marito, con Mumps, com'ella diceva, di nuovo al teatro. Parlando di cose leggere, della musica, dei cantanti, delle dame, egli mise nel suo sguardo una tristezza supplichevole. Ella si mostrò molto preoccupata del suo appartamento: – rientrava nel palazzo Barberini, nel suo antico quartiere ma ampliato; ed era sempre con i tappezzieri a dare ordini, a disporre.

— Rimarrete a Roma lungo tempo? – le chiese Andrea.

— Sì – ella rispose. – Roma sarà la nostra residenza invernale.

Poco dopo, soggiunse:

— Voi, veramente, potreste darci qualche consiglio per l'addobbo. Venite una di queste mattine al palazzo. Io ci son sempre tra le dieci e mezzogiorno.

Egli profittò d'un momento in cui Lord Heathfield parlava con Giulio Musèllaro, giunto allora nel palco; e chiese guardandola negli occhi:

— Domani?

Ella rispose, con semplicità, come se non avesse badato all'accento di quella interrogazione:

— Tanto meglio.

La mattina dopo, egli andò, verso le undici, a piedi, lungo la via Sistina, per la piazza Barberini e su per la salita. Era un cammino ben noto. Gli parve di ritrovare le impressioni d'una volta; ebbe un'illusione momentanea: il cuore gli si sollevò. La fontana del Bernini brillava singolarmente al sole, come se i delfini, la conchiglia e il Tritone fosser divenuti d'una materia più diafana, non pietra e non ancor cristallo, per una metamorfosi interrotta. L'operosità della nuova Roma empiva di romore tutta la piazza e le vie prossime. Tra i carri e i giumenti guizzavano i piccoli ciociari offrendo le violette.

Quando egli oltrepassò il cancello ed entrò nel giardino, sentendosi prendere da un tremito, pensò: «Ma l'amo io dunque ancóra? Ancóra la sogno?» Gli pareva che il tremito fosse quel d'una volta. Guardò il gran palazzo radiante e il suo spirito volò ai tempi in cui quella dimora, in certe albe fredde e nebbiose, prendeva per lui un aspetto d'incanto. Erano i primissimi tempi della felicità: egli usciva caldo di baci, pieno della recente gioia; le campane della Trinità de' Monti, di Sant'Isidoro, de' Cappuccini sonavano l'Angelus nel crepuscolo, confusamente, come se fossero assai più lontane; all'angolo della via rosseggiavano i fuochi intorno le caldaie dell'asfalto; un gruppo di capre stava lungo il muro biancastro, sotto una casa addormentata; i gridi fiochi degli acquavitari si perdevano nella nebbia...

Egli sentì risalir dal profondo quelle sensazioni obliate; per un momento, si sentì passar su l'anima un'onda dell'antico amore; per un momento, provò ad imaginare che Elena fosse la Elena d'una volta e che le cose tristi non fossero vere e che la felicità seguitasse. Tutto l'ingannevole fermento cadde, appena egli varcò la soglia e vide venire incontro il marchese di Mount Edgcumbe sorridente di quel suo sorriso fine e un po' ambiguo.

Allora incominciò il supplizio.

Elena comparve, gli tese la mano con molta cordialità, innanzi al marito, dicendo:

— Bravo Andrea! Aiutateci, aiutateci...

Ella era molto vivace, nelle parole, ne' gesti. Aveva un'aria molto giovenile. Portava una giacca di panno azzurro cupo, guarnita d'astrakan nero su gli orli, sul collo diritto e su le maniche; e un cordoncino di lana faceva nell'astrakan un ricamo elegante, passandovi sopra intrecciato. Ella teneva una mano nella tasca, in atto grazioso; e con l'altra indicava le opere di tappezzeria, i mobili, i quadri. Domandava consiglio.

— Dove mettereste voi questi due cassoni? Vedete: li ha trovati Mumps a Lucca. Le pitture sono del vostro Botticelli. Dove mettereste questi arazzi?

Andrea riconobbe i quattro arazzi della Storia di Narcisso ch'erano alla vendita del cardinale Immenraet. Guardò Elena, ma non incontrò gli occhi di lei. Una irritazione sorda lo prese, contro di lei, contro il marito, contro quegli oggetti. Egli avrebbe voluto andarsene; ma gli convenne mettere in servigio dei coniugi Heathfield il suo buon gusto; gli convenne anche sofferire l'erudizione archeologica di Mumps, ch'era un collezionista ardente e che volle mostrargli qualcuna delle sue raccolte. Egli riconobbe in una vetrina l'elmo del Pollajuolo, e in un'altra la tazza di cristallo di ròcca appartenuta a Niccolò Niccoli. La presenza di quella tazza in quel luogo lo turbò stranamente, gli fece balenare allo spirito folli sospetti. Era dunque caduta in mano di Lord Heathfield? Dopo la famosa contesa che non ebbe esito, nessuno più si occupò del cimelio, nessuno tornò alla vendita, il giorno dopo; l'eccitazione efimera languì, si spense, passò come tutto passa nella vita mondana; e il cristallo rimase al contrasto di altri. La cosa era naturalissima; ma in quel momento ad Andrea parve straordinaria.

Ad arte, egli si fermò d'innanzi alla vetrina e guardò molto la coppa preziosa dove la storia d'Anchise e di Venere scintillava come intagliata in un puro diamante.

— Niccolò Niccoli – disse Elena, pronunziando quel nome con accento indefinibile in cui il giovine credé sentire un poco di malinconia

Il marito era passato nella stanza attigua per aprire un armario

— Ricordatevi! Ricordatevi! – mormorò Andrea, volgendosi.

— Mi ricordo.

— Quando dunque vi vedrò?

— Chi sa!

— Mi prometteste...

Ricomparve il Mount Edgcumbe. Passarono nell'altra stanza, seguitarono il giro. Ovunque i tappezzieri attendevano a stendere parati, ad alzar tende, a trasportar mobili. Andrea, ogni volta che l'amica gli chiedeva un consiglio, doveva fare uno sforzo per rispondere, per vincere la mala voglia, per dominare l'impazienza. In un momento che il marito parlava con uno di quegli uomini, egli le disse, a bassa voce, mostrando chiaro il suo fastidio:

— Perché darmi questa tortura? Io sperava di trovarvi sola.

A una porta, il cappellino di Elena urtò una portiera mal messa e si piegò tutto da un lato. Ella, ridendo, chiamò Mumps perché le sciogliesse il nodo del velo. E Andrea vide quelle mani odiose sciogliere il nodo su la nuca della desiderata, sfiorare i piccoli riccioli neri, quei riccioli vivi che un tempo sotto i baci rendevano un profumo misterioso, non paragonabile ad alcuno de' profumi conosciuti, ma più di tutti soave, più di tutti inebriante.

Senza indugio, egli si congedò, affermando d'essere aspettato a colazione.

— Noi verremo a star qui definitivamente il primo di febbraio, martedì – gli disse Elena. – Allora sarete, spero, un nostro assiduo.

Andrea s'inchinò.

Avrebbe dato qualunque cosa per non toccare la mano di Lord Heathfield. Se ne andò pieno di rancore, di gelosia, di disgusto.

La sera medesima, sul tardi, essendo capitato per caso al Circolo, dove non saliva da molto tempo, egli vide seduto a un tavolo di giuoco Don Manuel Ferres y Capdevila, il ministro del Guatemala. Lo salutò con premura; gli chiese notizie di Donna Maria, di Delfina.

— Sono ancóra a Siena? Quando verranno?

Il ministro, memore d'aver guadagnate alcune migliaia di lire giocando col giovine conte nell'ultima notte di Schifanoja, rispose con grande cortesia alla premura. Egli aveva conosciuto Andrea Sperelli giocatore ammirabile, d'alto stile, perfetto.

— Sono qui tutt'e due, da qualche giorno. Arrivarono lunedì. Maria è molto dispiacente di non aver trovata la marchesa d'Ateleta. Io credo che una vostra visita le sarà molto gradita. Stiamo nella via Nazionale. Eccovi l'indirizzo esatto.

Gli diede un suo biglietto. Quindi si rimise al giuoco. Andrea si sentì chiamare dal duca di Beffi ch'era in un crocchio di altri gentiluomini.

— Perché non sei venuto stamani a Centocelle? – gli domandò il duca.

— Avevo un altro appuntamento – rispose Andrea, senza pensarci, per una scusa qualunque.

Il duca si mise a ridacchiare in coro con gli altri amici.

— Al palazzo Barberini?

— Potrebbe darsi.

— Potrebbe darsi? T'ha visto entrare Ludovico...

— E tu dov'eri? – chiese Andrea al Barbarisi.

— Da mia zia Saviano.

— Ah!

— Non so se tu abbia fatto miglior caccia, – seguitò il duca di Beffi – ma noi abbiamo avuto un galoppo veloce di quarantadue minuti e due volpi. Giovedì, alle Tre Fontane.

— Capisci? Non alle Quattro... – ammonì, con la sua solita gravità comica, Gino Bommìnaco.

Gli amici risero, al motto; e il riso si propagò anche allo Sperelli. Non gli dispiaceva quella malignità. Anzi, ora appunto che mancava il fondamento, egli godeva che gli amici credessero riannodata la sua relazione con Elena. Si volse a discorrere con Giulio Musèllaro sopravvenuto. Da alcune parole giuntegli all'orecchio, s'accorse che nel crocchio si parlava di Lord Heathfield.

— Io lo conobbi a Londra sei o sett'anni fa – diceva il duca di Beffi. – Era Lord of the Bedchamber del principe di Galles, mi pare...

Poi la voce s'abbassò. Il duca doveva raccontare cose enormi. All'orecchio d'Andrea giunse, tra frammenti di frasi erotiche, due o tre volte il titolo d'un giornale famoso nella stagione degli scandali di Londra: Pall Mall Gazette. Egli avrebbe voluto ascoltare: una terribile curiosità l'invadeva. Rivide nell'imaginazione le mani di Lord Heathfield, quelle pallide mani, così espressive, così significative, così rivelatrici, indimenticabili. Ma il Musèllaro seguitava a discorrere. Il Musèllaro gli disse:

— Usciamo. Ti racconterò.

Giù per le scale incontrarono il conte Albónico che saliva. Era vestito a lutto per la morte di Donna Ippolita. Andrea si fermò: gli chiese qualche notizia del fatto doloroso. Egli aveva saputo la sventura, nel novembre, a Parigi, da Giulio Montelatici, cugino di Donna Ippolita.

— Ma fu un tifo?

Il vedovo biondiccio e scolorito colse l'occasione per versar la sua pena. Egli portava in giro il suo dolore come un tempo aveva portato la bellezza della moglie. La balbuzie immiseriva le sue parole afflitte: e pareva che gli occhi biancastri gli si dovessero sgonfiare, come due bolle di siero, da un momento all'altro.

Giulio Musèllaro, vedendo che l'elegia del vedovo andava un po' per le lunghe, sollecitò Andrea dicendogli:

— Bada, ci faremo aspettar troppo.

Andrea si licenziò, rimettendo a un prossimo incontro il seguito della commemorazione funebre. Ed uscì con l'amico.

Le parole dell'Albónico gli avevano rinnovato quel sentimento singolare, misto d'un tormentoso desiderio e poi d'una specie di compiacenza, che a Parigi l'aveva per alcuni giorni occupato dopo la notizia della morte. In quei giorni l'imagine di Donna Ippolita, quasi avvolta d'oblio, gli era apparsa, a traverso il tempo della malattia e della convalescenza, a traverso tante altre vicende, a traverso l'amore di Donna Maria Ferres, molto lontana ma avvolta di non so che idealità. Egli aveva da lei ottenuto il consenso; e, pur non essendo giunto a possederla, ne aveva tratto una delle più grandi ebrezze umane: l'ebrezza della vittoria sopra un rivale, d'una vittoria clamorosa, in conspetto della donna desiderata. In quei giorni, il desiderio non potuto appagare gli era risorto; e sotto l'impero dell'imaginazione, l'impossibilità di appagarlo gli aveva dato una inquietudine indicibile, qualche ora di vero supplizio. Poi, tra il desiderio e il rimpianto era nato un altro sentimento, quasi di compiacenza, direi quasi d'elevazione lirica. Gli piaceva che la sua avventura terminasse così, per sempre. Quella donna non posseduta, pel cui acquisto egli era stato sul punto di rimanere ucciso, quella donna quasi sconosciuta gli si levava unica intatta su le cime dello spirito, nella divina idealità della morte. Tibi, Hippolyta, semper!

— Dunque – raccontava Giulio Musèllaro – ella è venuta oggi, verso le due.

Raccontava la resa di Giulia Moceto, con un certo entusiasmo, con molte particolarità intorno la rara e segreta bellezza della Pandora infeconda.

— Hai ragione. È una coppa d'avorio, uno scudo raggiante, speculum voluptatis...

In Andrea una certa lieve puntura provata alcuni giorni a dietro, nella notte di luna, dopo il teatro, quando l'amico era salito solo al palazzetto Borghese, facevasi ora di nuovo sentire; mutavasi in un rincrescimento non bene definito ma in fondo a cui si movevano forse, confuse con le memorie, la gelosia, l'invidia e quella suprema intolleranza egoistica e tirannica ch'era nella sua natura e che lo spingeva talvolta a desiderare quasi la distruzione d'una donna già preferita e goduta, affinché ella non fosse più goduta da altri. Nessuno doveva bevere al bicchiere dove aveva egli bevuto una volta. Il ricordo del suo passaggio doveva bastare a riempire una intera vita. Le amanti dovevano rimaner fedeli in eterno alla sua infedeltà. Questo era il suo sogno orgoglioso. E poi gli spiaceva la publicazione, la divulgazione d'un segreto di bellezza. Certo, s'egli avesse posseduto il Discobolo di Mirone o il Doriforo di Policleto o la Venere cnidia, la sua prima cura sarebbe stata di chiudere il capolavoro in un luogo inaccessibile e di goderne da solo, perché il godimento altrui non diminuisse il suo proprio. E allora perché egli medesimo aveva concorso a publicare il segreto? Perché egli medesimo aveva stimolato la curiosità dell'amico? Perché egli medesimo gli aveva fatto un augurio? La facilità stessa con cui quella donna s'era data gli metteva ira e disgusto, e anche un poco lo umiliava.

— Ma dove andiamo? – chiese Giulio Musèllaro, fermandosi nella piazza di Venezia.

In fondo ai varii moti dell'animo e ai varii pensieri Andrea manteneva l'agitazione in lui suscitata dall'incontro con Don Manuel Ferres, il pensiero di Donna Maria, un'imagine balenante. E appunto, in mezzo a quei contrasti momentanei, una sorta di ansietà lo traeva verso la casa di lei.

— Io torno a casa – rispose. – Passiamo per la via Nazionale. Accompagnami.

Da allora egli non ascoltò più le parole dell'amico. Il pensiero di Donna Maria lo dominò tutto. Giunto d'innanzi al Teatro ebbe un momento d'esitazione, non sapendo se scegliere il marciapiede di destra o quel di sinistra. Egli voleva scoprire la casa leggendo i numeri delle porte.

— Ma che hai? – gli chiese il Musèllaro.

— Nulla. T'ascolto.

Guardò un numero e calcolò che la casa doveva essere a manca, non molto lontana, forse in vicinanza della Villa Aldobrandini. I grandi pini della villa apparvero leggeri nel cielo stellato, poiché la notte era gelida ma serena; la Torre delle Milizie levava la sua mole quadrata, cupa fra le stelle; le palme, che crescono su le mura di Servio, al chiaror de' fanali dormivano immobili.

Pochi numeri mancavano a raggiunger quello segnato sul biglietto di Don Manuel. Andrea trepidava come se Donna Maria fosse per venirgli incontro. La casa era, infatti, vicina. Egli passò rasente il portone chiuso; non poté tenersi dal guardare in su.

— Ma che guardi? – gli chiese il Musèllaro.

— Nulla. Dammi una sigaretta. Affrettiamo il passo, ché fa freddo.

Percorsero la via Nazionale fino alle Quattro Fontane, in silenzio. La preoccupazione di Andrea era manifesta. L'amico gli disse:

— Tu certo hai qualche cosa che ti tormenta.

E Andrea si sentiva il cuore così gonfio che fu sul punto di abbandonarsi alla confidenza. Ma si trattenne. Egli era ancóra sotto l'impressione delle malignità udite al Circolo, del racconto di Giulio, di tutta quella indiscreta leggerezza da lui stesso provocata, da lui stesso professata. L'assenza completa di mistero nell'avventura, la compiacenza vanitosa degli amanti nell'accogliere i motti e i sorrisi altrui, la cinica indifferenza con cui gli amanti d'un tempo lodano le qualità della donna a coloro che già sono su la via di goderle, e l'affettazione con cui quelli dànno a questi i consigli per giunger meglio allo scopo, e la premura con cui questi dànno a quelli i più minuti ragguagli su un primo convegno per sapere se la maniera tenuta ora dalla dama nel concedersi si riconfronti con quella tenuta altre volte, e le cessioni, e le concessioni, e le successioni, e insomma tutte le piccole e grandi viltà che accompagnano i dolci adulterii mondani, gli parvero ridur l'amore una mescolanza insipida e immonda, una volgarità ignobile, una prostituzion senza nome. Le memorie di Schifanoja gli attraversavano l'anima, come profumi cordiali. La figura di Donna Maria gli splendeva dentro con tal vivezza ch'egli n'era quasi attonito; e un'attitudine egli vedeva sopra le altre distinta, sopra le altre luminosa: l'attitudine di lei quando nel bosco di Vicomìle aveva pronunziata la parola ardente. Avrebbe egli riudita quella parola da quella bocca? Che aveva fatto ella, che aveva pensato, come aveva vissuto nel tempo della lontananza? L'agitazione interiore gli cresceva ad ogni passo. Come fantasmagorie mobili e fuggevoli gli passavano nello spirito frammenti di visioni: un lembo di paesaggio, un lembo di mare, una scala tra i rosai, l'interno d'una stanza, tutti i luoghi ov'era nato un sentimento, ov'erasi effusa una dolcezza, ov'ella aveva sparso il fascino della sua persona. Ed egli provava un tremore intimo e profondo a pensare che forse nel cuor di lei ancóra viveva la passione, che forse ella aveva sofferto e pianto e forse anche sognato e sperato. Chi sa!

— Ebbene? – disse Giulio Musèllaro. – Come vanno le cose con Lady Heathfield?

Scendevano giù per la via delle Quattro Fontane, erano d'innanzi al palazzo Barberini. A traverso i cancelli, tra i colossi di pietra, appariva il giardino oscuro animato da un mormorio fioco di acque, dominato dall'edifizio biancheggiante ove il solo portico aveva ancóra un lume.

— Che dici? – domandò Andrea.

— Come vanno le cose con Donna Elena?

Andrea guardò il palazzo. Gli sembrò, in quel momento, di sentirsi nel cuore una grande indifferenza, la morte vera del desiderio, la finale rinunzia; e trovò, per rispondere, una frase qualunque.

— Seguo il consiglio. Non riaccendo la sigaretta...

— Eppure, vedi, questa volta forse varrebbe la pena. L'hai guardata bene? Mi pare più bella; mi pare, non so, che abbia qualche cosa di nuovo, inesprimibile... Forse dico male a dir nuovo. È come divenuta più intensa, conservando tutto il suo carattere di bellezza; è insomma, dirò così, più Elena dell'Elena di due o tre anni fa: «essenzia quinta» . Sarà, forse, effetto della seconda primavera; perché credo ch'ella debba stare lì lì per toccar la trentina. Non ti sembra?

Andrea si sentì da queste parole pungere, di nuovo accendere. Nulla vale a ravvivare e ad esasperare il desiderio d'un uomo quanto l'udire da altri lodar la donna da lui troppo a lungo posseduta, o troppo a lungo vagheggiata invano. Ci sono amori in agonia che si protraggono ancóra, per virtù dell'altrui invidia, dell'altrui ammirazione; poiché l'amante disgustato o stanco teme di rinunziare al suo possesso o al suo assedio in favore della felicità di chi potrebbe succedergli.

— Non ti sembra? E poi, menelaizzare quell'Heathfield dovrebbe essere un gaudio straordinario.

— Credo anch'io – disse Andrea, sforzandosi di prendere il tono frivolo dell'amico. Vedremo.

III

— Maria, lasciate a questo minuto la sua dolcezza, lasciate ch'io esprima tutto il mio pensiero!

Ella si levò. Disse piano, senza sdegno, senza severità, con commozione palese nella voce:

— Perdonatemi. Io non posso ascoltarvi. Mi fate molto male.

— Tacerò. Rimanete, Maria; vi prego.

Di nuovo, ella sedette. Era come al tempo di Schifanoja. Nulla superava la grazia della finissima testa che pareva esser travagliata dalla profonda massa de' capelli, come da un divino castigo. Un'ombra morbida, tenera, simile alla fusione di due tinte diafane, d'un violetto e d'un azzurro ideali, le circondava gli occhi che volgevan l'iride lionata degli angeli bruni.

— Io non voleva – soggiunse Andrea, umilmente – non voleva che ricordarvi le mie parole d'un tempo, quelle che ascoltaste una mattina nel parco, sul sedile di marmo, sotto gli àlbatri, in un'ora indimenticabile per me e quasi sacra nella memoria...

— Io le ricordo.

— Ebbene, Maria, da quel tempo la mia miseria è divenuta più trista, più oscura, più crudele. Io non saprò mai dirvi tutte le mie sofferenze, tutte le mie abiezioni; non saprò mai dirvi quante volte la mia anima vi ha chiamata, credendo di morire; non saprò mai dirvi il brivido di felicità, la sollevazione di tutto il mio essere verso la speranza, se per un momento io osava pensare che il ricordo di me forse ancóra viveva nel vostro cuore.

Egli parlava con l'accento medesimo di quella mattina lontana; pareva ripreso da quella medesima ebrezza sentimentale. Tutte le malinconie gli risalivano alle labbra. Ed ella ascoltava, a capo chino, immobile, quasi nell'attitudine di quella volta; e la sua bocca, l'espression della sua bocca, invano serrata con violenza, come quella volta, tradiva una sorta di dolorosa voluttà.

— Vi ricordate di Vicomìle? Vi ricordate del bosco, in quella sera d'ottobre, quando traversammo soli?

Donna Maria accennò lievemente col capo, come in atto d'assenso.

— E della parola che mi diceste? – soggiunse il giovine, più sommesso, ma con nella voce un'espressione intensa di passion contenuta, piegandosi verso di lei molto, come per giungere a guardarla negli occhi ch'ella teneva ancóra chini.

Ella li alzò, que' buoni pietosi dolenti occhi, su lui.

— Di tutto io mi ricordo, – rispose – di tutto, di tutto. Perché dovrei nascondervi l'anima mia? Voi siete uno spirito nobile e grande; ed io ho fede nella vostra generosità. Perché dovrei condurmi verso di voi come una donna volgare? Quella sera, non vi dissi che vi amavo? Io intendo nella vostra domanda un'altra domanda. Voi mi chiedete se ancóra io vi ami.

Ella esitò, un attimo. Le labbra le tremarono.

— Vi amo.

— Maria!

— Ma voi dovete rinunziar per sempre al mio amore, voi dovete allontanarvi da me; dovete essere nobile e grande, e generoso, risparmiandomi una lotta che mi fa paura. Io ho molto sofferto, Andrea, e saputo soffrire; ma il pensiero di dover combattere contro di voi, di dovermi difendere contro di voi, mi dà un terrore folle. Voi non sapete a costo di quali sacrifizi ero giunta ad ottenere la calma del cuore; non sapete a quali alti e carissimi ideali ho rinunziato... Poveri ideali! Sono diventata un'altra donna, perché era necessario che io diventassi un'altra; sono diventata una donna comune, perché così chiedeva il dovere.

Ella aveva nella voce una malinconia grave e soave.

— Incontrandovi, sentii d'un tratto risorgere in me i vecchi sogni, sentii rivivere l'anima antica; e ne' primi giorni mi abbandonai alla dolcezza, chiudendo gli occhi sul pericolo lontano. Pensavo: «Egli non saprà nulla dalla mia bocca; io non saprò nulla dalla sua.» Ero quasi senza rimorso, senza quasi paura. Ma voi parlaste; voi mi diceste parole che io non aveva udite mai; voi mi strappaste una confessione... il pericolo m'apparve, certo, aperto, manifesto. E ancóra m'abbandonai a un sogno. Le vostre angosce mi stringevano, mi facevano una pena profonda. Pensavo: «L'impuro l'ha macchiato; s'io bastassi a purificarlo! Sarei felice d'esser l'olocausto della sua rinnovazione.» La vostra tristezza attirava la mia tristezza. Mi pareva che forse io non avrei saputo consolarvi ma che forse avreste provato un sollievo sentendo un'anima rispondere eternamente amen alle volontà del vostro dolore.

Ella proferì queste ultime parole con tale elevazion spirituale in tutta la figura, che Andrea fu invaso da un'onda di gaudio quasi mistico; e il suo unico desiderio, in quel momento, era di prenderle ambo le mani e d'esalare l'ineffabile ebrezza su quelle care delicate immacolate mani.

— Non è possibile! Non è possibile! – ella seguitò, scotendo la testa in atto di rammarico. – Noi dobbiamo rinunziar per sempre a qualunque speranza. La vita è implacabile. Senza volere, voi distruggereste un'intera esistenza e forse non una sola...

— Maria, Maria, non dite queste cose! – interruppe il giovine, piegandosi ancóra verso di lei, prendendole una mano, senza impeto, ma con una specie di trepidazione supplichevole come se prima di compier l'atto egli aspettasse un segno di consenso. – Io farò quel che vorrete; io sarò umile e obediente; la mia unica aspirazione è d'obedirvi; il mio unico desiderio è di morire nel vostro nome. Rinunziare a voi è rinunziare alla salvezza, ricader per sempre nella rovina, non rialzarsi mai più. Io vi amo come nessuna parola umana potrà mai esprimere. Ho bisogno di voi. Voi soltanto siete vera; voi siete la Verità che il mio spirito cerca. Il resto è vano; il resto è nulla. Rinunziare a voi è come entrar nella morte. Ma se il sacrifizio di me vale a conservarvi la pace, io vi debbo il sacrifizio. Non temete, Maria. Io non vi farò alcun male.

Egli teneva la mano di lei nella sua, ma senza premerla. La sua parola non aveva ardore ma era sommessa, scorata, accorante, piena d'una immensa prostrazione. E la pietà illudeva Maria così ch'ella non ritrasse la mano e s'abbandonò per qualche minuto alla pura voluttà di quel contatto leggero. Era in lei una voluttà tanto sottile che quasi pareva non aver ripercussione organica; era come se un fluido essenziale le si partisse dall'intimo cuore e pel braccio le affluisse alle dita e le si dilatasse oltre le dita con un'onda indefinitamente armoniosa. Quando Andrea tacque, certe parole proferite nel parco, nella mattina indimenticabile, le tornarono alla memoria rianimate dal suon recente della voce di lui, mosse dalla nuova commozione: «La sola presenza vostra visibile bastava a darmi l'ebrezza. Io la sentiva fluire nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento sovrumano...»

Successe un intervallo di silenzio. Si udiva di tratto in tratto il vento scuotere i vetri delle finestre. Giungeva col vento un clamore lontano, misto al rombo delle vetture. Entrava una luce fredda e limpida come un'acqua sorgiva; negli angoli si raccoglieva l'ombra, e fra le tende composte di tessuti dell'Estremo Oriente; luccicavano qua e là su i mobili le incrostazioni di giada, di avorio, di madreperla; un gran Buddha dorato appariva in fondo, sotto una musa paradisiaca. Quelle forme esotiche davano alla stanza un po' del loro mistero.

— Ora, che pensate? – chiese Andrea. – Non pensate alla mia fine?

Ella pareva assorta in un pensier dubitoso. Era, in vista, irresoluta come se ascoltasse due voci interiori.

— Io non so dirvi – ella rispose, passandosi la mano su la fronte con un gesto lieve – non so dirvi che strano presentimento mi opprima, da lungo tempo. Non so; ma io temo.

Ella soggiunse, dopo una pausa:

— Pensare che voi soffrite, che voi siete malato, povero amico, e che io non potrò alleviarvi la pena, che io vi mancherò nella vostra ora d'angoscia, che io non saprò se voi mi chiamerete... Mio Dio!

Ella aveva nella voce un tremito e una fievolezza quasi di pianto, come se le si fosse chiusa la gola. Andrea teneva il capo chino, tacendo.

— Pensare che la mia anima sempre vi seguirà, sempre, e che non potrà mai mai confondersi con la vostra, non potrà mai da voi essere compresa... Povero amore!

Ella aveva la voce piena di lacrime, la bocca atteggiata di dolore.

— Non mi abbandonate! Non mi abbandonate! – proruppe il giovine, prendendole ambo le mani, quasi inginocchiandosi, in preda a una grande esaltazione. – Io non vi chiederò nulla; non voglio da voi che la pietà. La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione di qualunque altra: voi lo sapete. Le vostre sole mani mi potranno guarire; mi potranno ricondurre alla vita, sollevare dalla bassezza, ridonare la fede, liberare da tutte le cattive cose che m'infettano e mi empiono d'orrore. Care, care mani...

Egli si chinò a baciarle, vi tenne premuta la bocca. Socchiuse gli occhi, in atto di somma dolcezza, mentre diceva piano, con un accento indefinibile:

— Vi sento tremare.

Ella si levò, tremante, smarrita, più pallida di quando, nella mattina memorabile, camminava sotto i fiori. Il vento scoteva i vetri; giungeva un clamore come d'una moltitudine ammutinata. Quelle grida nel vento, che venivano dal Quirinale, le aumentarono l'agitazione.

— Addio. Vi prego, Andrea; non rimanete più qui, mi vedrete un'altra volta, quando vorrete. Ma ora, addio. Vi prego!

— Dove vi vedrò?

— Al concerto, domani. Addio.

Ella era tutta sconvolta, come se avesse commessa una colpa. Lo accompagnò fino alla porta della stanza. Rimasta sola, esitò, non sapendo che fare, ancor tenuta dallo sbigottimento. Si sentiva ardere le guance e le tempie, intorno agli occhi, d'un ardore intenso, mentre pel resto del corpo rabbrividiva; su le mani l'impressione della bocca amata persisteva come un suggello, ed era un'impressione deliziosa, ed ella avrebbe voluto che fosse indelebile come un suggello divino.

Guardò in giro. Nella stanza la luce diminuiva, le forme si perdevano nella mezz'ombra, il gran Buddha raccoglieva nella sua doratura un chiaror singolare. Or sì or no giungevano le grida. Ella andò verso una finestra, l'aprì, si sporse. Un vento gelido soffiava su la strada, ove già verso la piazza di Termini cominciavano ad accendersi i fanali. Incontro, gli alberi della Villa Aldobrandini svettavano, appena tinti d'un riflesso rossastro. Su la Torre delle Milizie pendeva una enorme nuvola paonazza, solitaria nel cielo.

La sera le parve lugubre. Ella si ritrasse; andò a sedersi nel luogo medesimo del colloquio recente. – Perché Delfina non tornava ancóra? – Avrebbe voluto evitare ogni riflessione, ogni meditazione; eppure non so che debolezza la tratteneva in quel luogo ove, pochi minuti innanzi, Andrea aveva respirato, aveva parlato, aveva esalato il suo amore e il suo dolore. Gli sforzi, i propositi, le contrizioni, le preghiere, le penitenze di quattro mesi si disperdevano, si disfacevano, diventavano inutili, in un attimo. Ella ricadeva, sentendosi forse più stanca, più vinta, senza volontà e senza potere contro i fenomeni morali che la sorprendevano, contro le sensazioni che la sconvolgevano; e, mentre s'abbandonava all'angoscia e al languore d'una conscienza in cui ogni coraggio veniva meno, le pareva che qualche cosa di lui fluttuasse nell'ombra della stanza e le avvolgesse tutta la persona, d'una carezza infinitamente soave.

E, il giorno dopo, ella salì al Palazzo dei Sabini, con il cuor palpitante sotto un mazzo di violette.

Andrea già era ad attenderla su la porta della sala. Stringendole la mano, le disse:

— Grazie.

La condusse a una sedia, le si mise accanto. Le disse:

— Credevo di morire aspettandovi. Temevo che non veniste. Come vi son grato!

Le disse:

Iersera, tardi, io passai dalla vostra Casa. Vidi un lume a una finestra, alla terza finestra verso il Quirinale. Non so che avrei dato per conoscere se voi eravate là...

Anche, le chiese:

— Da chi avete avute quelle violette?

— Da Delfina – ella rispose.

— Vi ha raccontato Delfina il nostro incontro di stamani su la piazza di Spagna?

— Sì; tutto.

Il concerto incominciò con un Quartetto del Mendelssohn. La sala era già quasi interamente occupata. L'uditorio componevasi, in massima parte, di dame straniere; ed era un uditorio biondo, pieno di modestia negli abiti, pieno di raccoglimento nelle attitudini, silenzioso e religioso come in un luogo pio. L'onda della musica passava su teste immobili, coperte di cappelli scuri, dilatandosi in una luce aurea, in una luce che fluiva dall'alto, temperata dalle tendine gialle, schiarita dalle pareti bianche e nude. E la vecchia sala dei Filarmonici, disadorna, dove appena rimaneva su l'egual candore qualche traccia d'un fregio e dove le misere portiere azzurre stavan per cadere, offriva imagine d'un luogo che fosse rimasto chiuso per un secolo e fosse stato riaperto proprio in quel giorno. Ma quel color di vecchiezza, quell'aria di povertà, quella nudità delle pareti aggiungevano non so che strano sapore allo squisito diletto dell'udizione; e il diletto pareva più segreto, più alto, più puro là dentro, per ragion d'un contrasto. Era il 2 di febbraio, un mercoledì: in Montecitorio, il Parlamento disputava per il fatto di Dogali; le vie e le piazze prossime rigurgitavano di popolo e di soldati.

I ricordi musicali di Schifanoja sorsero nello spirito de' due amanti; un riflesso di quell'autunno illuminò i loro pensieri. Al suono del Minuetto mendelssohniano si svolgeva la visione della villa maritima, della sala profumata dai giardini sottoposti, dove negli intercolunnii del vestibolo si levavano le cime dei cipressi, si scorgevano le vele di fiamma su un lembo di mare sereno.

Di tratto in tratto Andrea, chinandosi un poco verso la senese, le chiedeva piano:

— Che pensate?

Ella rispondeva con un sorriso così tenue ch'egli appena giungeva a coglierlo.

— Vi ricordate del 23 settembre? – ella disse.

Andrea non aveva ben distinto nella memoria quel ricordo, ma assentì col capo.

L'Andante calmo e solenne, dominato da un'alta melodia patetica, dopo estesi sviluppi aveva uno scoppio di dolore. Il Finale insisteva in una certa monotonia ritmica, piena di stanchezza.

Ella disse:

— Ora viene il vostro Bach.

E ambedue, quando la musica ricominciò, provarono un bisogno istintivo di riavvicinarsi. I loro gomiti si sfioravano. Alla fine d'ogni tempo, Andrea si chinava verso di lei per legger nel programma ch'ella teneva spiegato fra le mani; e, nell'atto, le premeva il braccio, sentiva l'odore delle viole, le comunicava un brivido di delizia. L'Adagio aveva una elevazion di canto così possente, saliva con tal volo alle sommità dell'estasi, con tal piena sicurezza allargavasi nell'Infinito, che parve la voce d'una creatura sopraumana la quale effondesse nel ritmo il giubilo d'una sua conquista immortale. Tutti gli spiriti erano trascinati dall'onda irresistibile. Quando la musica cessò, lo stesso fremito degli strumenti durò qualche minuto nell'uditorio. Un susurro corse da un capo all'altro della sala. L'applauso irruppe, dopo l'indugio, più vivo.

I due si guardarono, con gli occhi alterati, come se si distaccassero dopo un amplesso d'insostenibile piacere. La musica continuava; la luce della sala diveniva più discreta; un tepor dilettoso addolciva l'aria; intiepidite, le violette di Donna Maria esalavano un profumo più forte. Andrea aveva quasi l'illusione d'essere solo con lei, poiché non vedeva d'innanzi a sé persone ch'egli conoscesse.

Ma s'ingannava. In un intervallo, volgendosi, vide Elena Muti diritta in fondo alla sala, accompagnata dalla principessa di Ferentino. Sùbito, il suo sguardo incontrò quel di lei. Da lontano, egli salutò. Gli parve di scorgere su le labbra di Elena un sorriso singolare.

— Chi salutate? – chiese Donna Maria, anche volgendosi. – Chi sono quelle signore?

— Lady Heathfield e la principessa di Ferentino.

Ella credé sentire nella voce di lui un turbamento.

— Qual è la Ferentino?

— La bionda.

— L'altra è molto bella.

Andrea tacque.

— Ma è una inglese? – ella soggiunse.

— No; è una romana; è la vedova del duca di Scerni, passata a Lord Heathfield in seconde nozze.

— È molto bella.

Andrea domandò, con premura.

— Ora, che soneranno?

— Il Quartetto del Brahms, in do minore.

— Lo conoscete?

— No.

— Il secondo tempo è meraviglioso.

Per celare la sua inquietudine, egli parlava.

— Quando vi vedrò, ancóra?

— Non so.

— Domani?

Ella titubò. Pareva che le fosse discesa pel volto una lieve ombra. Rispose:

— Domani, se ci sarà sole, verrò con Delfina su la piazza di Spagna, verso mezzogiorno.

— E se il sole mancasse?

— Sabato sera, andrò dalla contessa Starnina...

La musica ricominciava. Il primo tempo esprimeva un lottar cupo e virile, pieno di vigore. La Romanza esprimeva un ricordarsi desioso ma assai triste, e quindi un sollevarsi lento, incerto, debole, verso un'alba assai lontana. Una chiara frase melodica si svolgeva con profonde modulazioni. Era un sentimento assai diverso da quel che animava l'Adagio del Bach: era più umano, più terreno, più elegiaco. Passava in quella musica un soffio di Ludovico Beethoven.

Andrea fu invaso da una così terribile ansia che temé di tradirsi. Tutta la dolcezza di prima gli si convertì in amarezza. Egli non aveva la conscienza esatta di questo suo nuovo sofferire; non sapeva raccogliersi né dominarsi; ondeggiava perduto fra la duplice attrazion feminile e il fascino della musica, da nessuna delle tre forze penetrato; provava, dentro, un'impressione indefinibile, come d'un vuoto in cui risonassero di continuo grandi urti con un'eco dolorosa; e il suo pensiero si spezzava in mille frammenti, si sconnetteva, si disfaceva; e le due imagini feminili si sovrapponevano, si confondevano, si distruggevano a vicenda, senza ch'egli potesse giungere a separarle, senza ch'egli potesse giungere a definire il suo sentimento verso l'una, il suo sentimento verso l'altra. E a fior di questa torbida sofferenza interiore si moveva l'inquietudine prodotta dalla immediata realità, dalle preoccupazioni, dirò così, pratiche. Non gli sfuggiva un leggero cambiamento nell'attitudine di Donna Maria verso di lui; e credeva sentire lo sguardo di Elena assiduo e fisso; e non giungeva a trovare un modo di contenersi, non sapeva se dovesse accompagnar Donna Maria nell'uscir dalla sala o se dovesse avvicinarsi a Elena, né sapeva se quel caso gli avrebbe giovato o nociuto presso l'una e l'altra.

— Io vado – disse Donna Maria levandosi, dopo la Romanza.

— Non aspettate la fine?

— No; debbo essere a casa per le cinque.

— Ricordatevi, domattina...

Ella gli tese la mano. Forse pel calore dell'aria chiusa, una lieve Fiamma le avvivava la pallidezza. Un mantello di velluto, d'un color cupo di piombo, orlato d'una larga zona di chinchilla, le copriva tutta la persona: e tra la pelliccia cinerea le violette morivano squisitamente. Nell'uscire, ella camminava con sovrana eleganza, mentre qualcuna delle signore sedute volgevasi a guardarla. E per la prima volta Andrea vide in lei, nella donna spirituale, nella pura madonna senese, la dama di mondo.

Il Quartetto entrava nel terzo tempo. Poiché la luce diurna diminuiva, furono alzate le tendine gialle, come in una chiesa. Altre signore abbandonarono la sala. Sorgeva qua e là qualche bisbiglio. Cominciavano nell'uditorio la stanchezza e la disattenzione, che son proprie della fine d'ogni concerto. Per uno di que' singolari fenomeni d'elasticità e di volubilità repentini, Andrea provò un senso di sollievo, quasi gaio. Egli perse ogni preoccupazion sentimentale e passionale, d'un tratto; e l'avventura di piacere apparve sola alla sua vanità, alla sua viziosità, lucidamente. Egli pensò che Donna Maria, concedendogli quei convegni innocui, già aveva messo il piede su la dolce china in fondo a cui è il peccato inevitabile anche per le anime più vigili; pensò che forse un po' di gelosia avrebbe potuto spingere Elena a ricadergli nelle braccia, e che quindi forse l'una avventura avrebbe aiutata l'altra; pensò che forse appunto un vago timore, un presentimento geloso avevano affrettato l'assenso di Donna Maria al prossimo convegno. Egli era dunque su la via di una duplice conquista; e sorrise notando che in ambedue le imprese la difficoltà si presentava sotto un medesimo aspetto. Egli doveva convertire in amanti due sorelle, cioè due che volevano presso di lui far profession di sorelle. Altre simiglianze fra i due casi egli notò, sorridendo. – Quella voce! Com'erano strani nella voce di Donna Maria gli accenti d'Elena! – Gli balenò un pensiero folle. – Quella voce poteva esser per lui l'elemento d'un'opera d'imaginazione: in virtù d'una tale affinità egli poteva fondere le due bellezze per possederne una terza imaginaria, più complessa, più perfetta, più vera perché ideale...

Il terzo tempo, eseguito con impeccabile stile, finiva tra gli applausi. Andrea si levò; si avvicinò a Elena.

— Oh, Ugenta, dove siete stato fino ad ora? – gli disse la principessa di Ferentino. – Au pays du Tendre?

— E quell'incognita? – gli disse Elena, con un'aria leggera, odorando un mazzo di viole tirato fuori dal manicotto di martora.

— È una grande amica di mia cugina: Donna Maria Ferres y Capdevila, moglie del nuovo ministro di Guatemala – rispose Andrea, senza turbarsi. – Una bella creatura, assai fine. Era da Francesca, a Schifanoja, in settembre.

— E Francesca? – interruppe Elena. – Non sapete quando tornerà?

— Ho notizie sue, da San Remo, recenti. Ferdinando migliora. Ma temo ch'ella dovrà trattenersi là qualche altro mese, forse più.

— Che peccato!

Il Quartetto entrava nell'ultimo tempo, molto breve. Elena e la Ferentino avevano occupato due sedie, in fondo, lungo la parete, sotto il pallido specchio dove si rifletteva la sala malinconica. Elena ascoltava, con la testa china, facendo scorrere tra le sue mani le estremità d'un lucido boa di martora.

— Accompagnateci – ella disse, quando il concerto fu finito, allo Sperelli.

Montando in carrozza, dopo la Ferentino, ella disse:

— Montate anche voi. Lasciamo Eva al palazzo Fiano. Vi poso poi dove volete.

— Grazie.

Lo Sperelli accettò. Uscendo nel Corso, la carrozza fu costretta a procedere con lentezza perché tutta la via era ingombra di gente in tumulto. Dalla piazza di Montecitorio, dalla piazza Colonna venivano clamori e si propagavano come uno strepito di flutti, aumentavano, cadevano, risorgevano, misti agli squilli delle trombe militari. La sedizione ingrossava, nella sera cinerea e fredda; l'orrore della strage lontana faceva urlare la plebe; uomini in corsa, agitando gran fasci di fogli, fendevano la calca; emergeva distinto su i clamori il nome d'Africa.

— Per quattrocento bruti, morti brutalmente! mormorò Andrea, ritirandosi dopo aver osservato allo sportello.

— Ma che dite? – esclamò la Ferentino.

Su l'angolo del palazzo Chigi il tumulto sembrava una zuffa. La carrozza fu costretta a fermarsi. Elena si chinò per guardare; e il suo volto fuor dell'ombra illuminandosi al riflesso del fanale e alla luce del crepuscolo apparve d'una bianchezza quasi funeraria, d'una bianchezza gelida e un po' livida, che risvegliò in Andrea il ricordo vago d'una testa veduta – non sapeva più quando, non sapeva più dove – in una galleria, in una cappella.

— Eccoci – disse la principessa, poiché la carrozza era giunta finalmente al palazzo Fiano. – Addio dunque. Ci ritroveremo stasera dall'Angelieri. Addio, Ugenta. Venite domani a colazione da me? Troverete anche Elena, e la Viti e mio cugino.

— L'ora?

— Mezz'ora dopo mezzogiorno.

— Va bene. Grazie.

La principessa discese. Il servo aspettava un ordine.

— Dove volete ch'io vi porti? – domandò Elena allo Sperelli che le si era già seduto accanto, nel posto dell'amica.

Far, far away...

— Su via, dite: a casa vostra?

E senza aspettare altra risposta, ella ordinò:

— Trinità de' Monti, palazzo Zuccari.

Il servo richiuse lo sportello. La carrozza si mosse al trotto, voltò per la via Frattina, lasciando dietro di sé la folla, le grida, i romori.

— Oh, Elena, dopo tanto... – proruppe Andrea, chinandosi a guardare la desiderata che s'era raccolta nell'ombra, in fondo, come schiva d'un contatto.

Il chiaror d'una vetrina, al passaggio, traversò l'ombra; ed egli vide che Elena sorrideva, bianca, d'un sorriso attirante.

Sempre così sorridendo, ella si tolse dal collo con un gesto agile il lungo boa di martora e lo gittò intorno al collo di lui, in guisa d'un laccio. Pareva facesse per gioco. Ma con quel morbido laccio, profumato del profumo medesimo che Andrea aveva sentito nella volpe azzurra, ella attirò il giovine; gli offerse le labbra, senza parlare.

Ambedue le bocche si ricordarono delle antiche mescolanze, di quelle congiunzioni terribili e soavi che duravano fino all'ambascia e davano al cuore la sensazione illusoria come d'un frutto molle e roscido che vi si sciogliesse. Per prolungare il sorso, contenevano il respiro. La carrozza dalla via dei Due Macelli sali per la via del Tritone, voltò nella via Sistina, si fermò al palazzo Zuccari.

Rapidamente, Elena respinse il giovine. Gli disse, con la voce un po' velata:

— Discendi. Addio.

— Quando verrai?

— Chi sa!

Il servo aprì lo sportello. Andrea discese. La carrozza voltò di nuovo, per riprendere la via Sistina. Andrea, tutto ancor vibrante, con gli occhi ancor fluttuanti in una nebbia torbida, guardava se apparisse dietro il vetro il volto di Elena; ma non vide nulla. La carrozza si allontanò.

Risalendo le scale, egli pensava: – Alfine, ella si converte! Gli rimaneva nel capo quasi un vapore d'ebrezza, gli rimaneva nella bocca il gusto del bacio, gli rimaneva nella pupilla il balen del sorriso con cui Elena gli aveva gittato al collo quella specie di serpe rilucente e aulente. – E Donna Maria? – Egli, certo, doveva alla senese l'inaspettata voluttà. Senz'alcun dubbio, in fondo all'atto strano e fantastico di Elena era un principio di gelosia. Temendo forse ch'egli le sfuggisse, ella aveva voluto legarlo, adescarlo, accendergli di nuovo la sete. – Mi ama? Non mi ama? – E che importava a lui saperlo? Che gli giovava? Omai l'incanto era rotto. Nessun prodigio mai avrebbe potuto risuscitare sol una minima parte della felicità morta. Conveniva a lui occuparsi della carne che era ancóra divina.

Si compiacque a lungo nel considerar l'avventura. Si compiacque, in ispecie, della maniera elegante e singolare con cui Elena aveva dato sapore al capriccio. E l'imagine del boa suscitò l'imagine della treccia di Donna Maria, suscitò in confuso tutti gli amorosi sogni da lui sognati intorno a quella vasta capellatura vergine che un tempo faceva languir d'amore le educande nel monastero fiorentino. Di nuovo, egli mescolò i due desiderii; vagheggiò la duplicità del godimento; travide la terza Amante ideale.

Entrava in una disposizion di spirito riflessiva. Vestendosi per il pranzo, ripensava: – Ieri, una grande scena di passione, quasi con lacrime; oggi una piccola scena muta di sensualità. E a me pareva ieri d'essere sincero nel sentimento, come io era dianzi sincero nella sensazione. Inoltre, oggi stesso, un'ora prima del bacio d'Elena, io avevo avuto un alto momento lirico accanto a Donna Maria. Di tutto questo non riman traccia. Domani, certo, ricomincerò. Io sono camaleontico, chimerico, incoerente, inconsistente. Qualunque mio sforzo verso l'unità riuscirà sempre vano. Bisogna omai ch'io mi rassegni. La mia legge è in una parola: NUNC. Sia fatta la volontà della legge.

Rise di sé medesimo. E da quell'ora ebbe principio la nuova fase della sua miseria morale.

Senza alcun riguardo, senza alcun ritegno, senza alcun rimorso, egli si diede tutto a porre in opera le sue imaginazioni malsane. Per trarre Maria Ferres a cedergli, usò i più sottili artifizii, i più delicati intrichi, illudendola appunto nelle cose dell'anima, nella spiritualità, nell'idealità, nell'intima vita del cuore. Per proseguire con egual prestezza nell'acquisto della nuova amante e nel riacquisto dell'antica, per profittar d'ogni circostanza nell'una e nell'altra impresa, egli andò incontro a una quantità di contrattempi, d'impacci, di bizzarri casi; e ricorse, per uscirne, a una quantità di menzogne, di trovati, di ripieghi meschini, di sotterfugi degradanti, di bassi raggiri. La bontà, la fede, il candore di Donna Maria non lo soggiogavano. Egli aveva messo a fondamento della sua seduzione il versetto d'un salmo: «Asperges me hyssopo et mundabor: lavabis me, et super nivem dealbabor.» La povera creatura credeva di salvare un'anima, di redimere un'intelligenza, di purificare con la sua purità un uomo macchiato; credeva ancor profondamente alle parole indimenticabili udite nel parco, in quella Epifania dell'Amore, al conspetto del mare, sotto gli alberi floridi. E questa fede appunto la ristorava e la sollevava in mezzo alle lotte cristiane che di continuo si combattevano nella sua conscienza, la liberava dal sospetto, la inebriava d'una specie di misticismo voluttuoso in cui ella effondeva tesori di tenerezza, tutta l'onda raccolta de' suoi languori, il fior più dolce della sua vita.

Per la prima volta, forse, Andrea Sperelli si trovava innanzi a una vera passione; per la prima volta si trovava innanzi a uno di quei grandi sentimenti feminili, rarissimi, che illuminano d'un bello e terribile baleno il ciel grigio e mutevole degli amori umani. Egli non se ne curò. Divenne lo spietato carnefice di sé stesso e della povera creatura.

Ogni giorno un inganno, una viltà.

Il giovedì, il 3 febbraio, su la piazza di Spagna, secondo la parola corsa al concerto, egli la incontrò davanti alla mostra d'un orafo antiquario, con Delfina. Appena udì il saluto di lui, ella si volse; e una fiamma le tinse il pallore. Guardarono insieme i gioielli del Settecento, le fibbie e i diademi di stras, gli spilli e gli orologi di smalto, le tabacchiere d'oro, d'avorio, di tartaruga, tutte quelle minuterie d'un secolo morto, che in quella chiara luce mattinale formavano una ricchezza armoniosa. D'intorno, i fiorai andavano offerendo in canestri le giunchiglie gialle e bianche, le violette doppie, lunghi rami di mandorlo. Un fiato di primavera passava nell'aria. La colonna della Concezione saliva agile al sole, come uno stelo, con la Rosa mystica in sommo; la Barcaccia era carica di diamanti; la scala della Trinità slargava in letizia i suoi bracci verso la chiesa di Carlo VIII erta con le due torri in un azzurro annobilito da' nuvoli, in un cielo antico del Piranesi.

— Che meraviglia!— esclamò Donna Maria. – Avete ragione d'esser tanto innamorato di Roma.

— Oh, voi non la conoscete ancóra! – le disse Andrea. – Io vorrei essere il vostro duca...

Ella sorrise.

— ... compiere presso di voi, in questa primavera, un vergiliato sentimentale.

Ella sorrideva, con in tutta la persona un'apparenza men triste, men grave. Il suo abbigliamento di mattina aveva un'eleganza sobria ma rivelava la finissima ricerca d'un gusto educato alle cose dell'arte, alle delicatezze del colore. La sua giacca incrociata in forma di scialle, era d'un panno grigio pendente un poco nel verde; e una striscia di lontra ne ornava gli orli e su la lontra correva un ricamo fatto d'un cordoncino di seta. E la giacca si apriva su una sottoveste anche di lontra. E come il taglio era d'eletto stile così l'accordo de' due toni, di quell'indescrivibile grigio e di quel fulvo opulento, era una delizia degli occhi.

Ella domandò:

— Dove foste ier sera?

— Uscii dal concerto pochi minuti dopo di voi. Tornai a casa; restai là, perché mi parve che il vostro spirito fosse presente. Pensai molto. Non sentiste il mio pensiero?

— No, non lo sentii. La mia sera fu cupa, non so perché. Mi parve d'essere tanto sola!

Passò la contessa di Lùcoli in un dog-cart guidando un roano. Passò, a piedi, Giulia Moceto accompagnata da Giulio Musèllaro. Passò Donna Isotta Cellesi.

Andrea salutava. Donna Maria gli chiedeva i nomi delle signore: quello della Moceto non le fu nuovo. Si rammentò del giorno in cui venne pronunziato da Francesca, innanzi all'arcangelo Michele del Perugino, quando Andrea sfogliava i suoi disegni nella stanza di Schifanoja; e seguì con lo sguardo l'antica amante dell'amato. Un'inquietudine la strinse. Tutto ciò che legava Andrea alla vita anteriore le dava ombra. Ella avrebbe voluto che quella vita, a lei ignota, non fosse mai stata; avrebbe voluto interamente cancellarla dalla memoria di chi vi s'era immerso con tanta avidità e n'era emerso con tanta stanchezza, con tanta perdita, con tanti mali. «Vivere unicamente in voi e per voi, senza domani, senza ieri, senza alcun altro legame, senza alcuna altra preferenza, fuor del mondo...» Erano le parole di lui. Oh sogno!

E stringeva Andrea una diversa inquietudine. S'avvicinava l'ora della colazione offerta dalla principessa di Ferentino.

— Per dove siete diretta? – domandò.

— Io e Delfina abbiamo preso tè e sandwiches dal Nazzarri, con l'intenzione di godere il sole. Saliremo al Pincio e visiteremo forse la Villa Medici. Se volete farci compagnia...

Egli ondeggiò, dentro, penosamente. – Il Pincio, Villa Medici, in un pomeriggio di febbraio, con lei! – Ma non poteva mancare all'invito; e lo tormentava anche la curiosità d'incontrare Elena dopo la scena della sera, poiché, sebbene egli fosse andato in casa Angelieri, ella non vi era apparsa. Disse, con un'aria desolata:

— Che sfortuna! Devo trovarmi a una colazione, fra un quarto d'ora. Accettai l'invito, la settimana scorsa. Ma se avessi saputo, avrei potuto liberarmi da qualunque impegno. Che sfortuna!

— Andate; non perdete tempo. Vi fareste aspettare....

Egli guardò l'oriolo.

— Posso ancóra accompagnarvi per un tratto.

— Mamma, – pregò Delfina – andiamo su per la scala. Andai su, ieri, con Miss Dorothy. Se tu vedessi!

Come erano in vicinanza del Babuino, voltarono per attraversare la piazza. Un fanciullo li seguiva pertinace nell'offrire un gran ramo di mandorlo che Andrea comprò e donò a Delfina. Dagli alberghi uscivano signore bionde con in mano il libro rosso del Baedeker; le pesanti vetture a due cavalli s'incrociavano, con un luccichio metallico nei guarnimenti di vecchia foggia; i fiorai sollevavano verso le straniere i canestri colmi, vociferando, a gara.

— Promettetemi – disse Andrea a Donna Maria, ponendo il piede sul primo gradino – promettetemi che non entrerete nella Villa Medici senza di me. Oggi, rinunziate; vi prego.

Ella pareva occupata da un pensiero triste. Disse:

— Rinunzierò.

— Grazie.

La scala d'innanzi a loro levavasi in trionfo, emanando dalla pietra riscaldata un tepore mitissimo; e la pietra aveva un colore d'antica argenteria, simile a quel delle fontane di Schifanoja. E Delfina precedeva correndo, col ramo fiorito, mentre nel vento della corsa qualche fragile foglia rosea s'involava come una farfalla.

Un acuto rammarico punse il cuore del giovine. Gli apparvero tutte le dolcezze d'una passeggiata sentimentale pei sentieri medìcei, sotto i bossoli muti, in quella prima ora del pomeriggio.

— Da chi andate? – gli domandò Donna Maria, dopo un intervallo di silenzio.

— Dalla vecchia principessa Alberoni – rispose Andrea. – Tavola cattolica.

Mentì anche una volta, poiché un istinto l'avvertiva che forse il nome della Ferentino avrebbe suscitato in Donna Maria qualche sospetto.

— Dunque, addio – ella soggiunse, porgendogli la mano.

— No; vengo fin su la piazza. Ho il mio legno che m'attende là. Guardate: quella è la mia casa.

E le indicò il palazzo Zuccari, il buen retiro, inondato dal sole, che dava imagine d'una strana serra diventata opaca e bruna pel tempo.

— Ora che la conoscete, non verrete qualche volta... in ispirito?

— In ispirito, sempre.

— Prima di sabato sera non vi rivedrò?

— Difficilmente.

Si salutarono. Ella, con Delfina, si mise pel viale arborato. Egli montò nel suo legno e s'allontanò per la via Gregoriana.

Giunse dalla Ferentino con qualche minuto di ritardo. Si scusò. Elena era là col marito.

La colazione fu servita in un'allegra sala tappezzata d'arazzi della fabbrica barberina rappresentanti Bambocciate su lo stile di Pietro Loar. Fra quel bel Seicento grottesco incominciò a scintillare e a scoppiettare un fuoco di maldicenza meraviglioso. Tutt'e tre le dame avevano lo spirito gaio e pronto. Barbarella Viti rideva del suo forte riso maschile, arrovesciando un po' indietro la bella testa efebica; e i suoi occhi neri s'incontravano e si mescevano troppe volte con i verdi occhi della principessa. Elena motteggiava con una straordinaria vivacità; e sembrava ad Andrea così discosta, così estranea, così incurante ch'egli quasi dubitò – Ma iersera fu un sogno? – Ludovico Barbarisi e il principe di Ferentino secondavano le dame. Il marchese di Mount Edgcumbe si prendeva cura d'annoiare il suo giovine amico chiedendogli notizie intorno le prossime vendite e parlandogli d'una rarissima edizione del romanzo d'Apulejo Metamorphoseon da lui acquistata pochi giorni innanzi, per mille cinquecento venti lire: – ROMA, 1469, in folio. – Di tratto in tratto egli s'interrompeva per seguire un gesto di Barbarella; e passava ne' suoi occhi lo sguardo del maniaco e nelle sue mani odiose un tremito singolare.

L'irritazione, il fastidio, l'insofferenza in Andrea arrivarono a tal punto ch'egli non riusciva più a dissimularli.

— Ugenta, siete di malumore? – gli chiese la Ferentino.

— Un poco. È malato Miching Mallecho.

E allora il Barbarisi lo annoiò con molte domande su la malattia del cavallo. E poi il Mount Edgcumbe ricominciò col Metamorphoseon. E la Ferentino, ridendo:

— Sai, Ludovico, ieri, al concerto del Quintetto, lo sorprendemmo in flirtation con una Incognita.

— Già – fece Elena.

— Una Incognita?— esclamò Ludovico.

— Sì; ma forse tu ci potrai dare informazioni. È la moglie del nuovo ministro di Guatemala.

— Ah, ho capito.

— Dunque?

— Io, per ora, non conosco che il ministro. Lo vedo giocare al Circolo tutte le notti.

— Dite, Ugenta: è già stata ricevuta dalla Regina?

— Non so, principessa – rispose Andrea, con un po' d'impazienza nella voce.

Quel cicaleccio gli diveniva insopportabile; e la gaiezza di Elena gli dava una orribile tortura, e la vicinanza del marito lo disgustava come non mai. Più che contro questi, egli aveva ira contro sé medesimo. In fondo alla sua irritazione, movevasi un senso di rimpianto verso la felicità dianzi ricusata. Il suo cuore, deluso e offeso dall'attitudine crudele di Elena, si rivolgeva all'altra con un acuto pentimento; ed egli la vedeva pensosa, in un viale solitario, bella e nobile come non mai.

La principessa si levò, tutti si levarono, per passare nel salone attiguo. Barbarella corse ad aprire il pianoforte che spariva sotto una vasta sciablacca di velluto rosso trapunta d'un oro opaco; e si mise a cantarellare la Tarentelle di Giorgio Bizet dedicata a Cristina Nilsson. Elena ed Eva si chinavano su di lei per leggere la pagina della musica. Ludovico stava in piedi, dietro a loro, fumando una sigaretta. Il principe era scomparso.

Ma Lord Heathfield non lasciava Andrea. L'aveva tratto nel vano d'una finestra e gli parlava di certe coppette amatorie urbaniesi da lui acquistate nella vendita del cavalier Dàvila; e quella voce stridula, con quella stucchevole intonazione interrogativa, e que' gesti che indicavano le dimensioni delle coppette, e quello sguardo ora morto ora tagliente sotto la enorme fronte convessa, e tutte insomma quelle sembianze esose erano per Andrea un supplizio così fiero ch'egli stringeva i denti convulso come un uomo sotto i ferri d'un chirurgo.

Un solo desiderio l'occupava omai: quel d'andarsene. Egli pensava di correre al Pincio, sperava di ritrovare la Donna Maria, di condurla nella Villa Medici. Potevan esser le due. Egli vedeva dalla finestra il cornicione della casa incontro splendido di sole nel cielo azzurro. Volgendosi, vedeva al pianoforte il gruppo delle dame nel bagliore vermiglio che un fascio di raggi suscitava dalla sciablacca. Al bagliore mescevasi il fumo leggero della sigaretta; e le ciarle e le risa si mescevano a qualche accordo che le dita di Barbarella cercavano a caso su i tasti. Ludovico parlò piano nell'orecchio di sua cugina; e la cugina comunicò forse la cosa alle amiche, poiché di nuovo fu uno scroscio chiaro e brillante come d'una collana disfilata su una guantiera d'argento. E Barbarella riprese l'Allegretto del Bizet, sotto voce.

Tra la la... Le papillon s'est envolé... Tra la la...

Andrea aspettava di cogliere il momento opportuno per interrompere il discorso del Mount Edgcumbe e per quindi prender congedo. Ma il collezionista metteva fuori un seguito di periodi legati l'uno con l'altro, senza intervalli, senza pause. Una pausa avrebbe salvato il martire, e non veniva ancóra; e l'ansietà cresceva ad ogni attimo.

Oui! Le papillon s'est envolé... Oui!... Ah! ah! ah! ah! ah!...

Andrea guardò l'oriolo.

— Sono già le due! Perdonatemi, marchese. Bisogna ch'io vada.

E accostandosi al gruppo:

— Perdonatemi, principessa. Alle due ho un consulto in scuderia coi veterinarii.

Salutò in gran fretta. Elena gli diede a stringere la punta delle dita. Barbarella gli diede un fondant, dicendogli:

— Portatelo al povero Miching da parte mia.

Ludovico voleva accompagnarlo.

— No; resta.

S'inchinò e uscì. Fece le scale in un baleno. Saltò nel suo legno, gridando al cocchiere:

— Di corsa, al Pincio!

Egli era invaso da un desiderio folle di ritrovare Maria Ferres, di ricuperare la felicità a cui dianzi aveva rinunziato. Il trotto fitto de' suoi cavalli non gli sembrava a bastanza veloce. Guardava ansioso, per veder finalmente apparire la Trinità de' Monti, lo stradone arborato, i cancelli.

La carrozza oltrepassò i cancelli. Egli ordinò al cocchiere di moderare il trotto e di girare per tutti i viali. Il cuore gli dava un balzo ogni volta che di lungi, tra gli alberi, appariva una figura di donna; ma invano. Su la spianata egli discese; prese i piccoli viali chiusi alle vetture, esplorando ogni angolo: invano. Le persone dai sedili lo seguivano con gli occhi, per curiosità, poiché la sua inquietudine era manifesta.

Essendo la Villa Borghese aperta, il Pincio riposava tranquillo sotto quel sorriso languido di febbraio. Rare carrozze e rari pedoni interrompevano la pace del monte. Gli alberi ancor nudi, biancastri, taluni un po' violetti, ergevano le braccia in un cielo delicato, sparso di ragnateli finissimi che il vento strappava e distruggeva col suo soffio. I pini, i cipressi, le altre piante sempre verdi assumevano un po' del comun pallore, sfumavano, si scolorivano, si fondevano nel comune accordo. La varietà de' tronchi, il frastaglio de' rami rendevano più solenne l'uniformità delle erme.

Non fluttuava forse ancóra in quell'aria qualche cosa della tristezza di Donna Maria? Appoggiato al cancello della Villa Medici, Andrea rimase per alcuni minuti come oppresso da un peso enorme.

E la vicenda continuò, ne' giorni vegnenti, con le medesime torture, con torture peggiori, con più crudeli menzogne. Per un fenomeno non raro nell'abiezion morale degli uomini d'intelletto, egli aveva ora una terribile lucidità di conscienza, una lucidità continua, senza più oscurazioni, senza più eclissi. Egli sapeva quel che faceva, e giudicava poi quel che aveva fatto. E in lui il disprezzo di sé stesso era pari all'ignavia della volontà.

Ma le sue ineguaglianze appunto e le sue incertezze e i suoi strani silenzii e le sue strane effusioni e tutte insomma le singolarità di espressione, che portava un tale stato d'animo, accrescevano, incitavano la passionata misericordia di Donna Maria. Ella lo vedeva soffrire e ne provava dolore e tenerezza; e pensava: – A poco a poco, io lo guarirò. – E a poco a poco, senza accorgersene, ella andava perdendo la forza e piegando verso il desiderio dell'infermo.

Ella piegava dolcemente.

Nel salone della contessa Starnina, ebbe un indefinibile brivido quando sentì su le sue spalle e su le sue braccia scoperte lo sguardo di Andrea. Per la prima volta Andrea la vedeva in abito da sera. Egli di lei conosceva soltanto il volto e le mani: ora, le spalle gli parvero di squisita forma ed anche le braccia, sebbene forse un po' magre.

Era ella vestita d'un broccato color d'avorio, misto di zibellino. Una sottile striscia di zibellino correva intorno la scollatura, dando alla carne una indescrivibile finezza; e la linea delle spalle dall'appiccatura del collo agli omeri cadeva giù alquanto, aveva quella cadente grazia che è un segno d'aristocrazia fisica divenuto omai rarissimo. Su i capelli copiosi, disposti in quella foggia che predilesse pe' suoi busti il Verrocchio, non splendeva né una gemma né un fiore.

In due o tre momenti opportuni, Andrea le mormorò parole d'ammirazione e di passione.

— È la prima volta che noi ci vediamo «nel mondo» – le disse. – Mi date un guanto, per memoria?

— No.

— Perché, Maria?

— No, no; tacete.

— Oh le vostre mani! Vi ricordate quando, a Schifanoja, le disegnai? Mi pare che mi appartengano di diritto; mi pare che voi dobbiate concedermene il possesso, e che, di tutto il vostro corpo, sieno le cose più intimamente animate dall'anima vostra, le più spiritualizzate, quasi direi le più pure... Mani di bontà, mani di perdono... Come sarei felice di possedere almeno un guanto: una larva, una parvenza della loro forma, una spoglia profumata dal loro profumo!... Mi date un guanto, prima d'andarvene?

Ella non rispose più. Il colloquio fu interrotto. Dopo qualche tempo, pregata, ella sedé al pianoforte; si tolse i guanti, li posò sul leggìo. Le sue dita, fuor di quelle sottili guaine, apparvero bianchissime, lunghette, inanellate. Brillava di vivi fuochi su l'anulare sinistro un grande opale.

Sonò le due Sonate-Fantasie del Beethoven (op. 27). L'una, dedicata a Giulietta Guicciardi, esprimeva una rinunzia senza speranza, narrava il risveglio dopo un sogno troppo a lungo sognato. L'altra fin dalle prime battute dell'Andante, in un ritmo soave e piano, accennava a un riposo dopo la tempesta; quindi, passando per le irrequietudini del secondo tempo, allargavasi in un Adagio di luminosa serenità e finiva con un Allegro vivace in cui era una sollevazion di coraggio e quasi un ardore.

Andrea sentì che, in mezzo a quell'uditorio intento, ella sonava sol per lui. Di tratto in tratto, i suoi occhi dalle dita della sonatrice andavano ai lunghi guanti che pendevano di sul leggìo conservando l'impronta di quelle dita, conservando una inesprimibile grazia nella piccola apertura del polso ove dianzi appariva appena appena un po' della cute feminile.

Donna Maria si levò, circondata d'elogi. Non riprese i guanti; s'allontanò. Invase allora Andrea la tentazion d'involarli. – Li aveva ella forse lasciati là per lui? i Ma egli ne voleva uno solo. Come diceva finamente un fino amatore, un par di guanti è tutt'altro che un guanto solo.

Condotta di nuovo al pianoforte dall'insistenza della contessa Starnina, Donna Maria tolse dal leggìo i guanti e li posò all'estremità della tastiera, nell'ombra dell'angolo. Quindi sonò la Gavotta di Luigi Rameau, la Gavotta delle dame gialle, l'indimenticabile danza antica del Tedio e dell'Amore. «Certe dame biondette, non più giovini...»

Andrea la guardava fiso, con un po' di trepidazione. Quando ella si levò, prese un guanto solo. Lasciò l'altro nell'ombra, su la tastiera, per lui.

Tre giorni dopo, essendo Roma attonita sotto la neve, Andrea trovò a casa questo biglietto: «Martedì, ore 2 pom. – Stasera, dalle undici a mezzanotte, mi aspetterete in una carrozza, d'innanzi al palazzo Barberini, fuori del cancello. Se a mezzanotte non sarò ancóra apparsa, potrete andarvene. – A stranger». Il biglietto aveva un tono romanzesco e misterioso. In verità la marchesa di Mount Edgcumbe faceva troppo abuso di carrozza nell'esercizio dell'amore. Era forse per un ricordo del 25 marzo 1885? Voleva forse ella riprender l'avventura nel momento medesimo con cui l'aveva interrotta? E perché quello stranger? Andrea ne sorrise. Egli tornava allora allora da una visita a Donna Maria, da un'assai dolce visita; e il suo spirito inchinava più verso la senese che verso l'altra. Gli indugiavan nell'orecchio le vaghe e gentili parole che la senese aveva dette guardando insieme con lui a traverso i vetri cader la neve mite come il fior del pesco o il fior del melo in su gli alberi della Villa Aldobrandini già illusi da un presentimento di stagion novella. Ma, prima d'uscir pel pranzo, diede ordini molto accurati a Stephen.

Alle undici egli era d'innanzi al palazzo; e l'ansia e l'impazienza lo divoravano. La bizzarria del caso, lo spettacolo della notte nivale, il mistero, l'incertezza gli accendevano l'imaginazione, lo sollevavano dalla realità.

Splendeva su Roma, in quella memorabile notte di febbraio, un plenilunio favoloso, di non mai veduto lume. L'aria pareva impregnata come d'un latte immateriale; tutte le cose parevano esistere d'una esistenza di sogno, parevano imagini impalpabili come quelle d'una meteora, parevan esser visibili di lungi per un irradiamento chimerico delle loro forme. La neve copriva tutte le verghe dei cancelli, nascondeva il ferro, componeva un'opera di ricamo più leggera e più gracile d'una filigrana, che i colossi ammantati di bianco sostenevano come le querci sostengono le tele dei ragni. Il giardino fioriva a similitudine d'una selva immobile di gigli enormi e difformi, congelato; era un orto posseduto da una incantazione lunatica, un esanime paradiso di Selene. Muta, solenne, profonda, la casa dei Barberini occupava l'aria: tutti i rilievi grandeggiavano candidissimi gittando un'ombra cerulea, diafana come una luce; e quei candori e quelle ombre sovrapponevano alla vera architettura dell'edifizio il fantasma d'una prodigiosa architettura ariostèa.

Chino a riguardare, l'aspettante sentiva sotto il fascino di quel miracolo che i fantasmi vagheggianti dell'amore si risollevavano e le sommità liriche del sentimento riscintillavano come le lance ghiacce dei cancelli alla luna. Ma egli non sapeva quale delle due donne avrebbe preferita in quello scenario fantastico: se Elena Heathfield vestita di porpora o Maria Ferres vestita d'ermellino. E, come il suo spirito piacevasi d'indugiare nell'incertezza della preferenza, accadeva che nell'ansia dell'attesa si mescessero e confondessero stranamente due ansie, la reale per Elena, l'imaginaria per Maria.

Un orologio suonò da presso, nel silenzio, con un suono chiaro e vibrante; e pareva come se qualche cosa di vitreo nell'aria s'incrinasse a ognun de' tocchi. L'orologio della Trinità de' Monti rispose all'appello; rispose l'orologio del Quirinale; altri orologi di lungi risposero, fiochi. Erano le undici e un quarto.

Andrea guardò, aguzzando la vista, verso il portico. – Avrebbe ella osato attraversare a piedi il giardino? – Pensò la figura di Elena tra il gran candore. Quella della senese risorse spontanea, oscurò l'altra, vinse il candore, candida super nivem. La notte di luna e di neve era dunque sotto il dominio di Maria Ferres, come sotto una invincibile influenza astrale. Dalla sovrana purità delle cose nasceva l'imagine dell'amante pura, simbolicamente. La forza del Simbolo soggiogava lo spirito del poeta.

Allora, sempre guardando se l'altra venisse, egli si abbandonò al sogno che gli suggerivano le apparenze delle cose.

Era un sogno poetico, quasi mistico. Egli aspettava Maria. Maria aveva eletta quella notte di soprannaturale bianchezza per immolar la sua propria bianchezza al desiderio di lui. Tutte le cose bianche intorno, consapevoli della grande immolazione, aspettavano per dire ave ed amen al passaggio della sorella. Il silenzio viveva.

«Ecco, ella viene: incedit per lilia et super nivem. È avvolta nell'ermellino; porta i capelli constretti e nascosti in una fascia; il suo passo è più leggero della sua ombra; la luna e la neve sono men pallide di lei. Ave.

«Un'ombra, cerulea come una luce che si tinga in uno zaffiro, l'accompagna. I gigli enormi e difformi non s'inchinano, poiché il gelo li ha irrigiditi, poiché il gelo li ha fatti simili agli asfodilli che illuminavano i sentieri dell'Ade. Ben però, come quelli de' paradisi cristiani, hanno una voce; dicono: – Amen.

«Così sia. L'adorata va ad immolarsi. Così sia. Ella è già presso l'aspettante; fredda e muta, ma con occhi ardenti ed eloquenti. Ed egli prima le mani, le care mani che chiudono le piaghe e schiudono i sogni, bacia. Così sia.

«Di qua, di là, si dileguano le Chiese alte su colonne a cui la neve illustra di volute e d'acanti magici il fastigio. Si dileguano i Fòri profondi, sepolti sotto la neve, immersi in un chiarore azzurro, onde sorgono gli avanzi dei portici e degli archi verso la luna più inconsistenti delle lor medesime ombre. Si dileguano le fontane, scolpite in rocce di cristallo, che versano non acqua ma luce.

«Ed egli poi le labbra, le care labbra che non sanno le false parole, bacia. Così sia. Fuor della fascia discinta si effondono i capelli come un gran flutto oscuro, ove tutte sembran raccolte le tenebre notturne fugate dalla neve e dalla luna. Comis suis obumbrabit tibi et sub comis peccabit. Amen.»

E l'altra non veniva! Nel silenzio e nella poesia cadevano di nuovo le ore degli uomini scoccate dalle torri e dai campanili di Roma. Qualche vettura, senza alcuno strepito, discendeva per le Quattro Fontane verso la piazza o saliva a Santa Maria Maggiore faticosamente; e i fanali erano gialli come topazii nella chiarità. Pareva che, salendo la notte al colmo, la chiarità crescesse e diventasse più limpida. Le filigrane dei cancelli riscintillavano come se i ricami d'argento vi s'ingemmassero. Nel palazzo, grandi cerchi di luce abbagliante splendevano su le vetrate, a simiglianza di scudi adamantini.

Andrea pensò: – Se ella non venisse?

Quella strana onda di lirismo passàtagli su lo spirito, nel nome di Maria, aveva coperta l'ansietà dell'attesa, aveva placata l'impazienza, aveva ingannato il desiderio. Per un attimo, il pensiero ch'ella non venisse gli sorrise. Poi di nuovo, più forte, lo punse il tormento dell'incertezza e lo turbò l'imagine della voluttà ch'egli avrebbe forse goduta là dentro, in quella specie di piccola alcova tiepida dove le rose esalavano un profumo tanto molle. E, come nel giorno di San Silvestro, il suo sofferire era acuito da una vanità; poiché, sopra tutto, egli si rammaricava che uno squisito apparato d'amore andasse perduto senza effetto alcuno.

Là dentro, il freddo era temperato del calore continuo che esalavano i tubi di metallo pieni d'acqua bollente. Un fascio di rose bianche, nivee, lunari, posava su la tavoletta d'innanzi al sedile. Una pelle d'orso bianco teneva calde le ginocchia. La ricerca d'una specie di Symphonie en blanc majeur era manifesta in molte altre particolarità. Come il re Francesco I sul vetro della finestra, il conte d'Ugenta aveva inciso di sua mano sul vetro dello sportello un galante motto che, nell'appannatura fatta dall'alito, pareva brillare su una lastra di opale:

Pro amore curriculum
Pro amore cubiculum.

E per la terza volta le ore sonarono. Mancavano a mezzanotte quindici minuti. L'aspettazione durava da troppo tempo: Andrea si stancava e s'irritava. Nell'appartamento abitato da Elena, nelle finestre dell'ala sinistra non vedevasi altro lume che quello esterno della luna. – Sarebbe dunque venuta? E in che modo? Di nascosto? O con qual pretesto? Lord Heathfield era, certo, a Roma. Come avrebbe ella giustificata la sua assenza notturna? – Di nuovo, insorsero nell'animo dell'antico amante le acri curiosità intorno le relazioni che correvano tra Elena e il marito, intorno i loro legami coniugali, intorno il loro modo di vivere in comune, nella medesima casa. Di nuovo, la gelosia lo morse e la bramosia lo accese. Egli si ricordava delle allegre parole dette da Giulio Musèllaro, una sera, a proposito del marito; e si proponeva di prendere Elena ad ogni costo, per il diletto e per il dispetto. – Oh, s'ella fosse venuta!

Una carrozza sopraggiunse ed entrò nel giardino. Egli si chinò a guardare; riconobbe i cavalli d'Elena; intravide nell'interno una figura di dama. La carrozza disparve sotto il portico. Egli restò dubitoso. – Tornava dunque di fuori? Sola? – Acuì lo sguardo verso il portico, intensamente. La carrozza usciva, per il giardino, nella strada, imboccando la via Rasella: era vuota.

Mancavano due o tre minuti all'ora estrema; ed ella non veniva! L'ora sonò. Una terribile angoscia strinse il deluso. Ella non veniva!

Non comprendendo egli le cause della impuntualità di lei, le si rivolse contro; ebbe un moto di collera subitaneo; e gli balenò anche il pensiero ch'ella avesse voluto infliggergli una umiliazione, un castigo, o ch'ella avesse voluto togliersi un capriccio, esasperare un desiderio. Ordinò al cocchiere, pel portavoce:

— Piazza del Quirinale.

Egli si lasciava attrarre da Maria Ferres; si abbandonava di nuovo al vago sentimento di tenerezza che, dopo la visita pomeridiana, gli aveva lasciato nell'anima un profumo e gli aveva suggerito pensieri e imagini di poesia. La delusione recente, ch'era per lui una prova del disamore e della malvagità di Elena, lo spingeva forte verso l'amore e la bontà della senese. Il rammarico per la bellissima notte perduta gli aumentava, ma sotto il riflesso del sogno dianzi sognato. Ed era, in verità, una delle notti più belle che sien trascorse nel cielo di Roma; era uno di quegli spettacoli che opprimono d'una immensa tristezza lo spirito umano perché soverchiano ogni potenza ammirativa e sfuggono alla piena comprension dell'intelletto.

La piazza del Quirinale appariva tutta candida, ampliata dal candore, solitaria, raggiante come un'acropoli olimpica su l'Urbe silenziosa. Gli edifizii, intorno, grandeggiavano nel cielo aperto: l'alta porta papale del Bernini, nel palazzo del Re, sormontata dalla loggia, illudeva la vista distaccandosi dalle mura, avanzandosi, isolandosi nella sua magnificenza difforme, dando imagine d'un mausoleo scolpito in una pietra siderea; i ricchi architravi del Fuga, nel palazzo della Consulta, sporgevano di su gli stipiti e di su le colonne transfigurati dalle strane adunazioni della neve. Divini, a mezzo dell'egual campo bianco, i colossi parevano sovrastare a tutte le cose. Le attitudini dei Dioscuri e dei cavalli s'allargavano nella luce; le groppe ampie brillavano come ornate di gualdrappe gemmanti; brillavano gli omeri e l'un braccio levato di ciascun semidio. E, sopra, di tra i cavalli, slanciavasi l'obelisco; e, sotto, aprivasi la tazza della fontana; e lo zampillo e l'aguglia salivano alla luna come uno stelo di diamante e uno stelo di granito.

Una solennità augusta scendeva dal monumento. Roma, d'innanzi, si profondava in un silenzio quasi di morte, immobile, vacua, simile a una città addormentata da un potere fatale. Tutte le case, le chiese, le torri, tutte le selve confuse e miste dell'architettura pagana e cristiana biancheggiavano come una sola unica selva informe, tra i colli del Gianicolo e il Monte Mario perduti in un vapore argentino, lontanissimi, d'una immaterialità inesprimibile, simili forse ad orizzonti d'un paesaggio selenico, che suscitavano nello spirito la visione d'un qualche astro semispento abitato dai Mani. La Cupola di S. Pietro, luminosa d'un singolare azzurro metallico nell'azzurro dell'aria, giganteggiava prossima alla vista così che quasi pareva tangibile. E i due giovini Eroi cignìgeni, bellissimi in quell'immenso candore come in un'apoteosi della loro origine, parevano gli immortali Genii di Roma vigilanti sul sonno della città sacra.

La carrozza rimase ferma d'innanzi alla reggia, lungo tempo. Di nuovo, il poeta seguiva il suo sogno inarrivabile. E Maria Ferres era vicina; forse anche vegliava, sognando; forse anche sentiva gravare sul cuore tutta la grandezza della notte e ne moriva d'angoscia; inutilmente.

La carrozza passò, piano, d'innanzi alla porta di Maria Ferres, ch'era chiusa, mentre in alto i vetri delle finestre rispecchiavano il plenilunio guardando gli orti pènsili aldobrandini ove gli alberi sorgevano, aerei prodigi. E il poeta gittò il fascio delle rose bianche su la neve, come un omaggio, d'innanzi alla porta di Maria Ferres.

IV

Io vidi: indovinai... Ero dietro i vetri, da tanto tempo. Non sapevo risolvermi ad andarmene. Tutto quel bianco m'attirava... Vidi la carrozza passare lentamente, nella neve. Sentii che eravate voi, prima di vedervi gittar le rose. Nessuna parola mai potrà dirvi la tenerezza delle mie lacrime. Piansi per voi, d'amore; e piansi per le rose, di pietà. Povere rose! Mi pareva che dovessero vivere e soffrire e agonizzare, su la neve. Mi pareva, non so, che mi chiamassero, che si lamentassero, come creature abbandonate. Quando la vostra carrozza si allontanò, io mi affacciai per guardarle. Fui sul punto di scendere, giù nella strada, a prenderle. Ma qualcuno era ancóra fuori di casa; e il domestico era di là, nell'anticamera, che aspettava. Pensai mille modi, ma non riuscii a trovarne uno attuabile. Mi disperai... Sorridete? Proprio, io non so che follia mi prese. Stavo tutta attenta a spiare i passanti, con gli occhi pieni di lacrime. Se avessero calpestato le rose, mi avrebbero calpestato il cuore. Ed ero felice in quel supplizio; ero felice del vostro amore, del vostro atto delicato e appassionato, della vostra gentilezza, della vostra bontà... Ero triste e felice, quando mi addormentai; e le rose dovevan esser già moribonde. Dopo qualche ora di sonno, mi svegliò il rumore delle pale sul lastrico. Spazzavano la neve, proprio d'innanzi alla nostra porta. Io rimasi in ascolto; e il rumore e le voci continuarono fin oltre l'alba, e mi facevano tanta malinconia... Povere rose! Ma saranno sempre vive nella mia memoria. Certi ricordi bastano a profumare un'anima per sempre... Mi amate molto, Andrea?

E, dopo un'esitazione:

— Amate me sola? Avete dimenticato il resto, interamente? Sono miei tutti i vostri pensieri?

Ella palpitava e tremava.

— Io soffro... della vostra vita anteriore, di quella ch'io non conosco; soffro dei vostri ricordi, di tutte le tracce che forse vi rimangono ancóra nello spirito, di tutto ciò che in voi non potrò mai comprendere e mai possedere. Oh, s'io potessi darvi l'oblio d'ogni cosa! Odo continuamente le vostre parole, Andrea, le prime prime parole. Credo che le udrò nell'istante della morte...

Ella palpitava e tremava, sotto l'urto della passione soverchiatrice.

— Io vi amo ogni giorno più, ogni giorno più!

Andrea la inebriò di parole soavi e profonde, la vinse d'ardore, le narrò il sogno della notte nivale e il suo desiderio disperato e tutta la utile favola delle rose e molte altre imaginazioni liriche. Gli pareva ch'ella fosse prossima ad abbandonarsi; vedeva gli occhi di lei nuotare in qualche onda di languore più lunga; vedeva su la bocca dolente apparire quella inesprimibile contrattura che è come la dissimulazione d'una tendenza fisica istintiva al bacio; e vedeva le mani, quelle mani gracili e forti, mani d'arcangelo, fremere come le corde d'uno strumento, esprimere tutto l'orgasmo interno. – Se oggi potrò rapirle anche un solo bacio fuggevole – pensava – avrò di molto affrettato il termine ch'io sospiro.

Ma ella, consapevole del pericolo, si levò d'improvviso, chiedendo licenza; sonò il campanello, ordinò al domestico il tè e che pregasse Miss Dorothy di condur Delfina nel salone. Poi, volgendosi ad Andrea, un po' convulsa:

— È meglio così. Perdonatemi.

E da quel giorno evitò di riceverlo in giorni che non fossero, come il martedì e il sabato, di ricevimento comune.

Ella però si lasciò guidare da lui in varie peregrinazioni a traverso la Roma degli Imperatori e la Roma dei Papi. Il vergiliato quaresimale si svolse nelle ville, nelle gallerie, nelle chiese, nelle ruine. Dov'era passata Elena Muti passò Maria Ferres. Non di rado, le cose suggerivano al poeta le medesime effusioni di parole che Elena aveva già udite. Non di rado, un ricordo lo allontanava dalla realtà presente, lo turbava d'improvviso.

— A che pensate, ora? – gli chiedeva Maria, guardandolo in fondo alle pupille, con un'ombra di sospetto.

Ed egli rispondeva:

— A voi, sempre a voi. Mi prende come una curiosità di guardarmi dentro per vedere se ancóra mi rimanga qualche minima parte dell'anima che non sia in possesso dell'anima vostra, qualche minima piega che non sia penetrata dalla vostra luce. È come una esplorazione interiore, che io faccio per voi, già che voi non potete farla. Ebbene, Maria, non ho più nulla omai da offerirvi. Siete nell'assoluto dominio di tutto il mio essere. Non mai, penso, una creatura umana è stata più intimamente posseduta da una creatura umana, in ispirito. Se la mia bocca si congiungesse alla vostra, avverrebbe la transfusione della mia vita nella vostra vita. Penso che morirei.

Ella gli credeva, poiché la voce di lui dava alle parole la fiamma della verità.

Un giorno erano sul Belvedere della Villa Medici: guardavano ne' larghi e cupi tetti di busso l'orlo del sole morire a poco a poco e la Villa Borghese ancor nuda sommergersi a poco a poco in un vapore violaceo. Maria disse, invasa da una subitanea tristezza:

— Chi sa quante volte siete venuto qui, a sentirvi amare!

Andrea rispose, con l'accento d'un uom trasognato:

— Non so; non ricordo. Che dite mai?

Ella tacque. Poi si levò, per leggere le inscrizioni su i pilastri del tempietto. Erano, per lo più, inscrizioni d'amanti, di novelli sposi, di contemplatori solitarii.

Una portava, sotto una data e un nome di donna, un frammento del Pausias:

SIE

Immer allein sind Liebende sich in der grössten Versammlung;

Aber sind sie zu Zweien, stellt auch der Dritte sich ein.

ER

Amor, ja!

Un'altra era la glorificazione di un nome alato:

A solis ortu usque ad occasum laudabile nomen Helles.

Un'altra era una sospirevole quartina del Petrarca:

Io amai sempre ed amo forte ancóra,

E son per amar più di giorno in giorno,

Quel dolce loco ove piangendo torno

Spesse fiate quando Amor m'accora.

Un'altra pareva essere una leal dichiarazione, firmata da due leali amanti:

Ahora y no siempre.

Tutte esprimevano un sentimento erotico, o triste o giocondo; cantavano le lodi d'una bella o rimpiangevano un bene remoto; narravano d'un bacio ardente o d'una estasi languida; ringraziavano i vecchi bussi cortesi, indicavano ai felici venturi una latebra, notavano la singolarità d'un tramonto contemplato. Chiunque, sposo o amante, sotto il fascino feminino, era stato preso da un entusiasmo lirico sul piccolo Belvedere solitario a cui conduce una scala di pietra coperta di velluto. Le mura parlavano. Una indefinibile malinconia emanava da quelle voci ignote d'amori morti, una malinconia quasi sepolcrale, come dagli epitaffi d'una cappella.

D'un tratto, Maria si volse ad Andrea, dicendo:

— Ci siete anche voi.

Egli rispose, guardandola, con l'accento medesimo di dianzi:

— Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla. Vi amo.

Ella lesse. Ed era, scritto di mano d'Andrea, un epigramma del Goethe, un distico, quello che incomincia: «Sage, wie lebst du?» – Rispondi, come vivi tu? – «Ich lebe!» – Io vivo! E, se pur cento e cento secoli mi fosser dati, io m'augurerei soltanto che domani fosse come oggi. – Sotto era una data: Die ultima februarii 1885; e un nome: Helena Amyclaea.

Ella disse:

— Andiamo.

Il tetto di busso pioveva tenebre su la scala di pietra coperta di velluto. Egli chiese:

— Volete appoggiarvi?

Ella rispose:

— No; grazie.

Discesero in silenzio, pianamente. Ad ambedue pesava il cuore.

Dopo un intervallo, ella disse:

Eravate felice, due anni fa.

Ed egli, con una ostinazione meditata:

— Non so; non ricordo.

Il bosco era misterioso, in un crepuscolo verde. I tronchi e i rami sorgevano con intrichi e viluppi serpentini. Qualche foglia luccicava come un occhio di smeraldo, nell'ombra.

Dopo un intervallo, ella soggiunse:

— Chi era quella Elena?

— Non so; non ricordo. Non ricordo più nulla. Vi amo. Amo voi sola. Penso per voi sola. Vivo per voi sola. Non so più nulla; non ricordo più nulla; non desidero più nulla, oltre il vostro amore. Nessun filo più mi lega alla vita d'un tempo. Sono ora fuor del mondo, interamente perduto nel vostro essere. Io sono nel vostro sangue e nella vostra anima; io mi sento in ogni palpito delle vostre arterie; io non vi tocco eppure mi mescolo con voi come se vi tenessi di continuo tra le mie braccia, su la mia bocca, sul mio cuore. Io vi amo e voi mi amate; e questo dura da secoli, durerà nei secoli, per sempre. Accanto a voi, pensando a voi, vivendo di voi, ho il sentimento dell'infinito, il sentimento dell'eterno. Io vi amo e voi mi amate. Non so altro; non ricordo altro...

Egli le versava su la tristezza e sul sospetto un'onda di eloquenza infiammata e dolce. Ella ascoltava, diritta innanzi ai balaustri dell'ampia terrazza che si apre sul limite del bosco.

— Ed è vero? Ed è vero? – ripeteva ella con una voce spenta ch'era come l'eco affievolita d'un grido dell'anima interno. – Ed è vero?

— È vero, Maria; e questo soltanto è vero. Tutto il resto è un sogno. Io vi amo e voi mi amate. E voi mi possedete come io vi posseggo. Io vi so così profondamente mia che non vi chiedo carezze, non vi chiedo alcuna prova d'amore. Aspetto. Mi è caro, sopra ogni cosa, obedirvi. Io non vi chiedo carezze; ma le sento nella vostra voce, nel vostro sguardo, nelle vostre attitudini, ne' vostri minimi gesti. Tutto ciò che parte da voi è per me inebriante come un bacio; e io non so, sfiorandovi la mano, se sia più forte la voluttà de' miei sensi o la sollevazione del mio spirito.

Egli posò la sua mano su la mano di lei, lievemente. Ella tremò, sedotta, provando un desiderio folle di piegarsi verso di lui, di offrirgli infine le labbra, il bacio, tutta sé stessa. Le parve (poiché ella dava fede alle parole di Andrea) le parve che per tale atto ella lo avrebbe legato a sé con l'ultimo nodo, con un nodo indissolubile. Ella credeva di venir meno, di struggersi, di morire. Era come se tutti i tumulti della passione già sofferta le gonfiassero il cuore, aumentassero il tumulto della passione presente. Era come se rivivessero in quell'attimo tutte le commozioni trascorse da che ella aveva conosciuto quell'uomo. Le rose di Schifanoja rifiorivano tra i lauri e i bussi della Villa Medici.

— Io aspetto, Maria. Non vi chiedo nulla. Mantengo le mie promesse. Io aspetto l'ora suprema. Sento che verrà, poiché la forza dell'amore è invincibile. E sparirà in voi ogni timore, ogni terrore; e la comunione dei corpi vi sembrerà pura come la comunione delle anime, poiché sono egualmente pure tutte le fiamme...

Egli le premeva, con la mano senza guanto, la mano inguantata. Il giardino pareva deserto. Dal palazzo dell'Academia non giungeva alcun romore, alcuna voce. Si udiva chiaro nel silenzio il chioccolìo della fontana a mezzo dello spiazzo; i viali si prolungavano verso il Pincio diritti, come chiusi fra due pareti di bronzo su cui non anche moriva la doratura del vespro; l'immobilità di tutte le forme dava imagine d'un labirinto impietrato: le cime delle canne acquatiche intorno la vasca erano immobili nell'aria come le statue.

— Mi sembra – disse la senese, socchiudendo i cigli – di trovarmi su una terrazza di Schifanoja, lontana lontana da Roma, sola... con te. Chiudo gli occhi, veggo il mare.

Ella vedeva dal suo amore e dal silenzio nascere un gran sogno e dilatarsi nel tramonto. Ella tacque, sotto lo sguardo di Andrea; e un poco sorrise. Ella aveva detto: con te! Pronunziando quelle due sillabe, ella aveva chiuso gli occhi: e la bocca era parsa più luminosa, quasi che vi si fosse raccolto anche lo splendor celato dalle palpebre e dai cigli.

— Mi sembra che tutte queste cose non sieno fuori di me, ma che tu le abbia create nell'anima mia, per la mia gioia. Ho questa illusione in me, profonda, ogni volta che io sono innanzi a uno spettacolo di bellezza e che tu mi sei vicino.

Ella parlava lentamente, con qualche pausa, come se la sua voce fosse l'eco tarda di un'altra voce inaudibile. Perciò le sue parole avevano un singolare accento, acquistavano un suono misterioso, parevano venire dalle più segrete profondità dell'essere; non erano il comun simbolo imperfetto, erano un'espressione intensa più viva, trascendente, d'un significato più vasto.

«Dalle sue labbra, come da un giacinto pieno d'una rugiada di miele, cade a goccia a goccia un murmure liquido, che fa morir di passione i sensi, dolce come le pause della musica planetaria udita nell'estasi.» Il poeta ricordava i versi di Percy Shelley. Egli li ripeté a Maria, sentendosi conquistare dalla commozione di lei, penetrare dal fascino dell'ora, esaltare dall'apparenza delle cose. Un tremito lo prese, quando egli era per rivolgerle il tu mistico.

— Io non era mai giunto, in nessun più alto sogno del mio spirito, a ideare quest'altezza. Tu ti levi sopra tutte le mie idealità, tu splendi sopra tutti gli splendori del mio pensiero, tu m'illumini d'una luce che è quasi per me insostenibile...

Ella stava diritta, innanzi ai balaustri, con le mani posate su la pietra, con la testa alzata, più pallida di quando, nella mattina memorabile, camminava sotto i fiori. Le lacrime le empivano gli occhi socchiusi, le rilucevano tra i cigli; e sogguardando innanzi a sé, ella vedeva il cielo farsi roseo, a traverso il velo del pianto.

Era, nel cielo, una pioggia di rose, come quando nella sera d'ottobre il sole moriva dietro il colle di Rovigliano accendendo gli stagni per la pineta di Vicomìle. «Rose rose rose piovevano da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza d'una nevata in un'aurora.» La Villa Medici, eternamente verde e senza fiori, riceveva su le cime delle sue rigide mura arboree i molli petali innumerevoli caduti dai giardini celesti.

Ella si volse, per discendere. Andrea la seguì. Camminarono in silenzio verso la scala; guardarono il bosco che si stendeva fra la terrazza e il Belvedere. Pareva che il chiarore si fermasse sul limite, dove sorgono le due erme custodi, e non potesse rompere la tenebra; pareva che quegli alberi rameggiassero in un'altra atmosfera o in un'acqua cupa, in un fondo marino, simili a vegetazioni oceaniche.

Ella fu invasa da una sùbita paura; si affrettò verso la scala, discese cinque o sei gradini; si arrestò, smarrita, palpitante, udendo nel silenzio il battito delle sue arterie dilatarsi come uno strepito enorme. La villa era scomparsa; la scala era serrata fra due pareti, umida, grigia, rotta dall'erbe, triste come quella d'una carcere sotterranea. Ella vide Andrea piegarsi verso di lei, con un atto improvviso, per baciarla in bocca.

— No, no, Andrea... No!

Egli tendeva le mani per trattenerla, per costringerla.

— No!

Perdutamente, ella gli prese una mano, se la trasse alle labbra; la baciò due, tre volte, perdutamente. Poi si mise a correre giù per la scala, verso la porta, come folle.

— Maria! Maria! fermatevi!

Si ritrovarono l'una di fronte all'altro, innanzi alla porta chiusa, pallidi, ansanti, scossi da un terribile tremito, guardandosi negli occhi mutati, avendo negli orecchi il rombo del loro sangue, credendo di soffocare. E nel tempo medesimo, con un impeto concorde, si strinsero, si baciarono.

Ella disse, temendo di venir meno, appoggiandosi alla porta, con un gesto di suprema preghiera:

— Non più... Io muoio.

Rimasero un minuto, l'una di fronte all'altro, senza toccarsi. Pareva che tutto il silenzio della villa gravasse su loro, in quel luogo angusto cinto d'alti muri, simile a una tomba scoperta. Si udiva distinto il gracchiare basso e interrotto dei corvi che si raccoglievano su i tetti del palazzo o traversavano il cielo. Di nuovo, un senso strano di paura occupò il cuore della donna. Ella gittò in alto, alla sommità dei muri, uno sguardo sbigottito. Facendosi forza, disse:

— Ora, possiamo uscire... Potete aprire.

E la sua mano s'incontrò con quella di Andrea sul saliscendi, nella furia incalzante.

E, come ella passò rasente le due colonne di granito, sotto il gelsomino senza fiori, Andrea disse:

— Guarda! Il gelsomino fiorisce.

Ella non si volse, ma sorrise; e il sorriso era assai triste, pieno dell'ombre che metteva in quell'anima il riapparir subitaneo del nome inscritto sul Belvedere. E, mentre ella camminava per il viale misterioso sentendo tutto il suo sangue alterato dal bacio, un'implacabile angoscia le incideva nel cuore quel nome, quel nome!

 
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