Il colore a Venezia
(Queste annotazioni sono tolte dall'albo di un artista
pedante)
Il cortiletto di un'osteria sulle Zattere al ponte della Calcina,
ombreggiato appena con qualche foglia di vite, e dal quale si vede il
largo specchio dell'acqua verdognola, che riflette le tristi case della
Giudecca, era lo scorso autunno sull'ora del mezzodì pieno zeppo di
pittori francesi, tedeschi, spagnuoli, che mangiavano senza badare al
tondo e bevevano senza badare al bicchiere, come trasognati in mezzo
alle bellezze di quella città, con le quali lottavano dall'alba alla
sera, tentando di rapire ad esse il segreto del loro colore. Il colore
nel doppio suo senso morale e materiale è un gran tormento dell'artista
d'oggi. Color locale: sentire e ritrarre una Venezia, che non possa
essere altro che Venezia; colorito: emulare con la tavolozza quelle
fanfare di tinte, quelle smorzature di toni, che nascono dal salso
dell'acqua e dallo scirocco; dalle esalazioni puzzolenti dei canali
quando restano a secco e dal cielo vaporoso e pur limpido e infiammato
all'aurora e incandescente al tramonto; dai cenci pidocchiosi della
plebe elemosinante e dalle grandezze festive dei passato; dai pomposi
mosaici della chiesa di San Marco e dai pesanti fumaiuoli dei camini a
tronco di cono rovescio: da tutto il resto, insomma, di splendori e di
abiezioni - abiezioni e splendori che hanno la somma virtù, l'unica
virtù, la quale importi all'artista, quella di essere pittoreschi.
Ma tutti sanno che ci sono delle impressioni artistiche, le quali si
prestano ad essere fermate sulla tela con i mezzi dell'arte pittorica,
ed altre no, anche di quelle che derivano dalla vista; ci sono delle
impressioni che, mentre rimangono vaghe nella mente, paiono potenti di
novità e di forza, e quando si trasmutano in corpo, sia pure in prosa
od in verso, diventano cose fiacche e vietissime. Troviamo, per esempio,
nel taccuino certi scarabocchi abbreviati, che a decifrarli occorre la
scienza paleografica, in testa ai quali si legge: Io scrivo queste righe
abbarbagliato dal sole cadente. Poi: "Il sole scende tra la Chiesa
della Salute ed il Palazzo Ducale. Manda nell'acqua il suo risplendore
di fuoco giallo, che prende una larga zona tra i lontani palazzi del
Canal Grande e la Riva degli Schiavoni. Quando le barchette passano in
quel giallo incandescente sfumano, come nelle fornaci di Murano i vetri
che si fondono; quando entrano nel colore azzurro dell'acqua, i remi
fanno ancora sgocciolare oro fuso. I piccoli vetri dei bastimenti
riflettono scintillando i raggi del sole, e gli alberi dei vascelli
staccano in luce d'oro sull'oltremare della laguna". E noi ci
rammentiamo che quel tramonto, dal quale non potremmo cavare né un
quadro decente, né un onesto periodo di novella, ci era parso
memorabile. Certo, conviene dubitare assai sulla bontà artistica di
ciò che scuote ed esalta lo spirito dell'uomo, poiché alle volte la
nostra boria, che è sempre desta, fa che si confonda la virtù
comunissima della sensibilità nervosa con la osservazione veramente
estetica. Siamo donnicciuole malaticcie e, appunto per questo, ci
crediamo artisti; e codesta irritabilità delle fibre ci fa gonfiare
come ranocchie in faccia alla natura.
Del resto, quanti misteri nell'impulso all'idea nell'arte! Come
l'ingegno resta sovente soffocato da un grande spettacolo della natura,
della bellezza umana, della vita sociale; come invece si rafforza e
rassoda nella vista di certi niente, nel confronto di certe cosette
insulse! Il lavoro delle molecole del pensiero è fatale e nello stesso
tempo supremamente illogico: è tutto a molle che scattano senza un
perché, a spirali che s'allungano e s'accorciano come il bau-bau dei
bambini: con una leva da sollevare il mondo si alza un granello di
sabbia, con un granello di sabbia si crea un vortice nel mare. Ma, senza
uscire dall'arte, accade non di rado che una sensazione puramente ideale
ritempri la mente ad un lavoro artistico sodo, il quale non ha con tale
sensazione altro nesso che di un certo colore morale. Uno stato
dell'anima tetro, prodotto da un caso triste, fa che il poeta immagini
una storia nuova, sostanziosa, effettiva, che è triste. Ma codesta
storia, con il seguirsi infinito delle transazioni e con la mutabilità
rapidissima del cuore, può - chi lo sa? - diventare allegra. Allora chi
ritrova più il primo impulso? L'artista che si muti in critico può
ritrovarlo forse; e una così fatta ricerca della genesi dell'idea
sarebbe piena di ammaestramenti filosofici e morali, ma vuota, com'è la
filosofia e la morale, d'insegnamenti per l'arte.
Il taccuino ci dà ancora queste righe sgorbiate una sera alla
Birreria, un'ora appena dopo il nostro arrivo a Venezia: "Dovevo
andare al Ponte del Sepolcro. Era notte buia; tirava vento; alcune
grosse goccie di pioggia cadevano sul felse della gondola. Lo sportello
e i finestrelli stavano aperti. Il fanaletto della mia propria barca,
che m'era vicino a tre spanne, mi sembrava distante come un faro nel
mare. Si traversò una parte del Gran Canale, poi s'entrò in certi rivi
stretti, dove a lunghe distanze le lanterne mandavano la loro pallida
striscia di luce sull'acqua agitata. Il gondoliere, incurvandosi,
passava sotto l'arco dei ponti scuri. Sui gradini delle rive e sui
basamenti delle case, certe macchie nere si muovevano lente, poi
all'avvicinarsi della gondola davano un tonfo nell'acqua. Non mi
raccapezzavo in mezzo a quei canali gobbi, storti, stretti, incassati
fra le alte case. Guardavo se alla deserta imboccatura di qualche viuzza
ci fosse una scritta, e finalmente, fissando lettera per lettera, lessi
in un angolo oscuro: Calle dei Morti". Il taccuino aggiunge:
Peccato non essere pittore! L'esclamazione, sincera nel minuto in cui fu
scritta, era assurda. Ciò che aveva mosso il nostro animo non si
addiceva punto ai mezzi dell'arte, e, non ostante, quei grossi topi che
davano un tonfo nell'acqua avrebbero potuto per un abile pennello
diventare l'occasione morale di un dipinto terribile.
Eppure Venezia, oltre l'occasione e l'impulso all'arte, dà anche i
quadri belli e dipinti. Basterebbe che alla mente fosse concesso, più
fortunata della macchina fotografica, serbare vivo il ricordo dei moti,
delle espressioni, delle forme, della luce, delle tinte; basterebbe che
il pennello non togliesse nulla all'efficacia della memoria, e il quadro
riescirebbe in ogni sua parte perfetto. In nessuna città il fondo
prospettico, il fondo naturale, i tipi, i vestimenti, le mezze nudità
s'accordano con tanta armonia.
La stessa indolenza veneziana contribuisce al vantaggio dell'arte.
L'uomo affrettato, ne' suoi atti scomposti, ne' suoi gesti rapidi, nella
sua indifferenza per le cose circostanti, è esteticamente brutto. Bello
è invece l'uomo per il quale il tempo non è danaro; l'uomo che non ha
anzi altro fine durante la più parte del giorno e della sera che di
spendere le ore, e si muove piano; e s'atteggia, e ha l'agio di
riflettere sul proprio volto le gioie e i dolori degli altri, le
allegrezze e le melanconie della natura. Poi le piazze e le vie non sono
traversate romorosamente da carrozze e da carri, che disperdono i
crocchi, che cacciano la gente sui marciapiedi, che rompono barbaramente
le dolcezze ineffabili del ciarlare e del pettegolare. Il cocchiere di
fiacre sta lì stecchito a cassetta, non si può muovere, se vuole
discorrere deve gridare e interrompersi ad ogni tratto; ma il barcaiuolo
lega all'anello della riva la gondola e, aspettando al traghetto o sul
Molo, si mette a sedere, si rizza, cammina, ragiona, guarda la passera
che vola.
Se lo scirocco, come dicono a Venezia, è cagione di tante belle
cose, viva lo scirocco. Oh il sior Tonin Bonagrazia, gentiluomo di
Torcello, con le sue storielle, che raccontava al popolo sulla riva
degli Schiavoni, e il dito mignolo, che si metteva per vezzo
smorfiosamente all'angolo destro della bocca "morto
pover'uomo!" oh il casotto dei vecchi Burattini, con Arlecchino e
Pantalone e Colombina e siora Rosaura "dolce nella memoria!"
oh le Sagre, con le ghirlande e i damaschi che ornavano finestre e
botteghe, con le bande che suonavano, e gli stendardi che sventolavano,
e la folla che si pigiava, e le frittelle di Zamaria de le fritole in
quei grandi piatti di rame e d'ottone lucidi più dell'oro, calde,
fumanti e olezzanti di un'olezzo divino "l'acquolina ci ritorna in
bocca!".
Il pittoresco Oriente ha lasciato la sua impronta, non solamente
negli edifici, ma ben anco nell'indole veneziana e nell'amore dei bei
colori. I funerali, che nelle città di terraferma coi neri carri
mortuarii tirati da cavalli neri, condotti da necrofori neri e seguiti
da gente nera, fanno parere il cielo nuvoloso anche quando è sereno: i
funerali a Venezia fanno splendere il sole anche tra la nebbia, tanto
sono ridenti. Ci ricordiamo di una mattina nel cortile del Palazzo
ducale, che, stando all'alto della scala dei Giganti, vedemmo uscire
dalla porta laterale della chiesa di San Marco e traversare fino al
portico il quale riesce sul Molo una bara tutta coperta di fiori
freschi. I becchini sfoggiavano le loro cappe rosse scarlatte; i
sagrestani vestivano di pavonazzo, e non sappiamo quali Confraternite
avessero mandato i loro rappresentanti verdi e turchini. Certi colossali
ceri tutti dipinti erano portati con fatica da grossi uomini robusti.
Alcuni monelli porgevano la mano sotto le candele per raccogliere nella
palma le sgocciolature, mentre gli altri raschiavano sul lastrico le
goccie di cera, piegandosi, dimenandosi in cento modi e sgattaiolando di
qua e di là tra le gambe dei preti in camice, i quali davano loro
ridendo qualche benevolo scapezzone. Il fondo era riempiuto da vecchi
bianchi poggiati sul bastone, da donne con bimbi che chiedevano
l'elemosina, e finalmente dalle bigolanti, sode Friulane tarchiate, che,
interrompendo la loro fatica del tirar su l'acqua dal grande pozzo di
bronzo del 1556 tutto fogliami a sirene, guardavano passare la
processione, la quale dalla gaiezza del sole; che brillava vicino al
fianco della chiesa, entrava disordinatamente nell'ombra cupa e si
perdeva sotto il portico del Molo.
Un altro dì a San Samuele, fuori della botteguccia di un
intagliatore, avevano messo al sole una enorme cornice, di legno,
scolpita a gonfi ricci barocchi ed a putti rotondi. Dall'altra parte
della via, un po' in isghembo per avere la necessaria distanza, s'era
piantato il fotografo con la sua macchina, e già aveva la testa sotto
il panno, pronto a ricavare l'immagine della cornice. Nella calle, dove
tutti questi apparecchi avevano prodotto un poco di ingombro, la gente
guardava con faccia ansiosa, e qualcuno, per passare, dava degli
spintoni alle donne, che brontolavano; e i garzoni legnaiuoli tiravano
da parte quei ragazzacci, che in atto di comica prosopopea si piantavano
di contro alla lente; e l'artista intagliatore, appoggiato con maestà
allo stipite della bottega, pareva nella sua gran pancia assai contento
di sé. Tutte le figure, illuminate ad abbaglianti colpi di luce,
staccavano Sul fondo della casa, che era come bagnato in un'ampia ombra
trasparente e celestina. Bene ci ricordiamo pur troppo, che questo
brioso quadro ci fu sciupato dal passaggio di tre uomini e di una
carriuola chiusa. Il primo di quegli uomini camminava lento lento e
guardava a terra negli angoli con occhi torvi; magro, lungo; aveva la
corda di un laccio in mano e portava non sappiamo più se un panciotto
od un fazzoletto di color giallo stonato. Sul suo berretto si leggeva in
grosse lettere Canicida: parola che fa gelare il sangue.
Né a Venezia mancano le novità dei tipi: marinai Indiani, di membra
asciutte, coi muscoli snelli da tigre, giranti per le vie inquieti come
pantere in gabbia, e gli occhi sembrano buoni, ma di una bontà
sospettosa e selvaggia; Giapponesi e Chinesi astuti, placidi, pazienti,
sorridenti e, anche in quella loro bassa condizione, filosofi e
ironicamente orgogliosi della loro antica civiltà; Negri con il naso
camuso e le labbra grosse, vestiti di bianco. Questi sono i doni che,
quanto all'arte, porta a Venezia la Peninsulare: e la mattina, chi
passeggia lungo la fondamenta delle Zattere, può vedere, appoggiati al
parapetto della coperta su quegli immensi Battelli a vapore, mentre,
guardano la terra ed ascoltano le suonate degli organini, quegli uomini,
i quali pensano ai loro paesi lontani: curiose mostre di altre razze e
di altri costumi.
I pittori, che volevano inviscerarsi Venezia, giravano, portando la
loro cassetta ed il sedile a tre piedi, di qua e di là nelle
stradicciuole deserte, con gli occhi intenti, come il medico che si vede
innanzi un caso nuovo e gravissimo. Avevano dello stralunato; non
ridevano, non parlavano: certo il loro polso doveva battere più lento,
tanto la mente era concentrata. Lo studio del vero, qualunque ne sia
l'oggetto, ha qualcosa di ansioso e di avido: pare il sogno di un avaro,
che veda il proprio tesoro volargli via con l'ali per l'aria, e voglia
corrergli dietro, e si senta de' pesi alle gambe, e non lo possa
raggiungere. Pensare poi un vero così singolare e fantastico qual è
Venezia, e in questo tempo nostro, nel quale non basta dipingere un
ponte, una gondola, una stola da senatore od un corno da doge per
ottenere il color locale.
Nel vero e nella storia i pittori di trenta, di vent'anni addietro si
contentavano della buccia: quelli d'oggi vogliono il midollo. Cercano
nelle cose il carattere; si lambiccano per entrare nell'anima di una
veduta prospettica, di una marina, di una figura: e a Venezia vogliono
proprio l'anima veneziana. Il mezzo per esprimere al di fuori
quest'anima non conta. Non importa se la pennellata sia liscia o rugosa,
disinvolta o faticata, larga o minuta, o, come faceva il Fortuny -
povero Fortuny, morto di trentacinque anni, marito, padre felice,
artista lieto e glorioso! - mezza strapazzata e mezza in miniatura. Non
importa neanche se il colore sia succoso od asciutto, a colpi di sole o
annuvolato: importa solamente che il cuore dell'artista, a forza di
concentrare il suo fluido estetico, si metta in comunicazione con il
cuore della cosa che imita, lo faccia parlare, e lo sveli o in tutto od
anche solo in una piccola parte agli occhi degli altri.
Nel vedere come uno dei migliori artisti d'Italia, un Romano, si
travagliava, seduto dinanzi al cavalletto presso al Caffè Florian,
tutti i giorni, per tante settimane, ricercando i misteri profondi della
facciata di San Marco, del Campanile, della Fabbrica dell'Orologio, e
come, principiando e terminando religiosamente sul posto non un
bozzetto, ma il quadro medesimo, confrontava tra i valori delle tinte e
li paragonava con l'azzurro del cielo, si capiva bene come egli non
intendesse a riprodurre sulla tela ciò che la fotografia porge
materialmente e che centinaia di pittori ritrassero prima di lui, bensì
volesse dare una sostanza corporea all'impressione tutta ideale, che la
piazza di San Marco aveva suscitato in date condizioni di luce e in date
circostanze sull'animo di lui pittore. Fare vivere e parlare i sassi è
più difficile che non l'eccitare la eloquenza degli alberi, delle onde,
delle bestie e dei corpi umani; ma oggi anche i pittori figuristi si
compiacciono in questa animazione della prospettiva, la quale pareva
dianzi ed era il genere più insulso e più freddo dell'arte. Ed in
ciò, come in tante altre cose, è giovata la fotografia, poiché ha
mutato lo scopo della pittura prospettica, che prima era la fedeltà
materiale, e che ora è la fedeltà quasi a dire morale.
Le navate, le absidi, le cappelle, le nicchie della chiesa di San
Marco erano invase da decine di pittori, vecchi con la bella barba lunga
e giovinotti di primo pelo: non mancavano sette od otto signore. Tutti
facevano le loro divozioni all'arte. Chi s'arrovellava nell'imitare le
larghe vòlte a mosaico, cercando di seguirne via via tra i Santi
allampanati e gli Angeli stecchiti, le tinte dell'oro, che secondo la
luce, le ombre, le penombre, i riflessi mutano dal giallo al rosso, dal
rosso al verde, dal verde al nero; chi s'era messo dinanzi ai pulpiti
bizantini e studiava il lustro dei marmi; chi si stillava il cervello
nello scortare del pavimento a quadrelli, a formelle, a pavoni, a
mostri, a intrecci d'ogni maniera e ondulato come le acque calme del
mare; chi nelle vesciche voleva trovare i toni cupi e misteriosi delle
alte conche ai lati del coro, dove nel buio brilla qualche striscia di
sole e luccica qualche macchia dorata; chi sentiva invece la pace
maestosa e solenne del tempio; chi; non badando ad altro che allo sfarzo
delle materie e delle forme, non ricordava che le pompe del passato;
chi, ingenuo, intendeva alla semplicità candida e casta.
Altri pittori s'erano, lungo il Canalazzo, nell'aperta laguna o
nell'angolo remoto di qualche rio, accomodato il loro studiolo in barca,
e ad ogni gesto facevano dondolare il cavalletto. Altri si fermavano a
coppie in certi campielli a ritrarre la vera di un pozzo, la punta di un
alberello, che sbucava sopra un muricciuolo rosso, le finestre delle
casupole, dalle quali, tenute in fuori con due lunghi bastoni, pendevano
sulla fune la camicia cenciosa e la gonnella bucata di qualche popolana,
coi capelli arruffati e gli occhi curiosi, che guardava in giù
canticchiando.
Un celebre acquerellatore dipingeva intanto sulla carta il bel quadro
della Processione, dopo avere fatto uno studio così perfetto della
fondamenta col suo selciato sconnesso, delle case coi loro pèrgoli, del
ponte storto che scorta, dei gradini della riva, verdastri lì dove
l'acqua ora li bagna, ora li lascia a secco d'un verde
arcimaledettissimo a trovare, del battello, delle piccole increspature
del canale riflettenti tutti i colori della tavolozza, uno studio così
perfetto che vale quasi più del dipinto. Ma se per mostrare agli altri
ciò che si sente occorre tanto genio e così lungo studio, per vedere a
Venezia con i propri occhi i quadri già fatti e vederli ammirabilissimi
non occorre altro che avere un briciolo di fantasia. Mettetevi al basso
di un ponte, alla riva di un canale, all'angolo di un campiello
qualunque e, avendo un poco di pazienza, vedrete che nuove scene vi
comporranno dinanzi questi tre elementi vivi dell'arte: i monelli, i
barcaiuoli e le donne.
I pittori non istudiano abbastanza la donna. Hanno visto per altro
che i zendali, i domino bruni, le mascherine incipriate, le gentildonne
sensuali della scuola che sta per finire, figuravano la natura veneziana
come i Piombi ed i Pozzi rappresentano la verità storica. Non diciamo
che così i Pozzi ed i Piombi, come le femmine cincischiate e leccate
dei pittori vecchi - s'intende vecchi di questo secolo - sieno cose
tutte bugiarde; ma le impressioni che un dabben uomo riceve nei
sotterranei e sotto i tetti del Palazzo Ducale, toccando le gravi
catene, contemplando la pietra, sulla quale il carnefice nel buio
tagliava il capo dei condannati, e calpestando la soglia della
porticina, da cui il corpo monco era gettato in barca per venire sepolto
nel Canal dei Marrani, così fatte impressioni sono romanzesche e false,
quando non vengono mitigate e raddrizzate da una conoscenza più larga,
più effettiva del vero. Di Venezia certi storici, facendosi complici
dei poeti, e certi pittori, credendo di seguire, poverini! le tradizioni
gloriose del passato, avevano costrutto in fantasia una città teatrale
da gonfii drammi e da tetre ballate, dove i colori letterarii erano,
come i colori pittorici, stridenti e stonati. Tra quegli artisti pesanti
pareva una serena eccezione Natale Schiavoni, il quale i colmi seni e le
spalle morbide delle sue mezze figure, che si somigliano tutte, sfumava
nel vapor latteo, non senza una certa grazia pudicamente carnale. Ma i
giovani d'oggi guardano invece, o vorrebbero almeno guardare dritti alla
natura.
C'è a Venezia due tipi femminili molto diversi: quello roseo e
carnoso delle donne del Giorgione, delle Veneri di Tiziano, e l'altro
bruno e magro, che i pittori non hanno ancora celebrato. Nel primo i
capelli di un biondo rossastro, gli occhi del color del cielo o del
mare, l'incarnato delle guance, il corallo delle labbra, le nevi del
seno e tutte le altre qualità blande fanno della bellezza qualcosa di
placidamente materiale, dove la poesia sonnecchia. Il secondo tipo ha il
seno modesto, i capelli corvini, gli occhioni neri segnati sotto con due
sfumature livide, le labbra strette, il naso leggermente aquilino, e la
carnagione scuretta sparsa di macchiettine verdastre. Se i denti sono
candidi e regolari, cosa difficile a trovare in Venezia, questo secondo
tipo è potente. Ha in sé come una fiamma concentrata, che rende vivaci
i gesti, la parola, gli sguardi, il sorriso. E ha un fondo di mestizia;
e si lascia andare agli affetti con una sincerità scivolante, che
toglie quasi alla passione il sapor di peccato. L'amore in Venezia nasce
dalle ondette della laguna, dalle cadenze labbiali del tenero dialetto:
non è più né spirituale, né sensuale: è fatale.
E le donne camminano stupendamente. Forse - non lo sappiamo -
l'andare grandioso e pittoresco delle popolane viene dagli scialli, che
portano sulle spalle o sul capo, non puntati da spilli, ma tenuti fermi
al petto con le mani, sicché i fianchi in quella fasciatura si
disegnano netti; o forse viene dallo scendere i ponti, che obbliga la
persona a tenersi un poco incurvata col seno innanzi e colle spalle
indietro, mentre le sottane formano un bell'arco di strascico sui
gradini; o forse viene dalla frequente necessità del camminare lenti
nelle vie, o forse dal non portare il maledetto busto imprigionatore del
corpo, ond'è che le membra restano più libere, i movimenti più
sciolti, e le linee del torso girano più naturali su quelle delle
anche.
È singolare come la donna e l'uomo a Venezia paiano, tanto
nell'aspetto quanto nell'animo, più naturali che non negli altri paesi,
e pure più complessi. Sono lagrimatori e festivi, espansivi e
maliziosi. Hanno molto dell'ingegno, qualcosa dello scetticismo
ateniese. Il sarcasmo sfiora ad ogni istante le loro labbra, ma senza
livore, senza cattive intenzioni, così per indole o per giuoco; tanto
che il forestiere è molto spesso impacciato nel conoscere se un
Veneziano parli da senno o per burla. Il sarcasmo è una parte della
loro saggezza e disgraziatamente della loro pigrizia. Si contentano di
capire le cose al volo; quanto al farle è un altro paio di maniche. Per
operare non bisogna dubitare; per non dubitare non bisogna vedere delle
questioni tutti i lati ugualmente, e indovinarne troppo i vantaggi ed i
danni.
Molte sere, mentre splendevano le stelle e il vaporetto del Lido
mandava il suo fischio, sentimmo cantare sulla Riva degli Schiavoni una
canzone popolare, che ci sembra il ritratto di quella ironia veneziana,
la quale si torce persino contro se stessa. In coda ad ogni quartina il
ritornello serio, grave, bene armonizzato, diceva: Viva l'Italia e la
libertà, e a un tratto una sola voce nasale, fessa, stonata,
interrompeva con un Ma secco, e ripigliava dopo una pausa:
Se spera che i sassi
Deventa paneti,
Perché i povareti
Se possa saziar.
(Viva, ec... Ma!)
Se spera che el caldo
Principia in genaro
E senza tabaro
Poder caminar.
(Viva, ec... Ma!)
Se spera che adesso
No nassa più tose,
Perché le morose
Se possa sposar.
(Viva, ec... Ma!)
Se spera, se spera
Che el nostro Governo
No deva in eterno
Le tasse lassar.
(Viva, ec... Ma!)
Se spera, e sperando
Ne capita l'ora
De andar in malora
Col nostro sperar.
Coi barcaiuoli, come s'è detto per le donne, i pittori vecchi
facevano dei còsi rettorici, trasformando il gondoliere o in un
rematore sentimentale, che aveva le grazie da ballerino di teatro,
oppure in un pescatore Chioggiotto, che sembrava una specie di
Masaniello o di can barbone. Nel vero i due tipi del barcaiuolo
veneziano, quello di casada e quello di traghetto, si dividono in molte
varietà curiose, che noi abbiamo avuto la bella fortuna di contemplare
a nostro agio durante un'adunanza della Società di Mutuo soccorso fra i
servitori di barca, batellanti e traghettanti. Credevamo di risalire i
secoli, di trovarci per magia in un angolo della Sala del Gran
Consiglio, e di ascoltare i discorsi dei vecchi patrizii, che parlavano
anch'essi in dialetto e alla buona e brevi e succosi. Il buon senso
pratico del popolo veneziano ci si rivelò intiero nelle discussioni di
questi barcaiuoli, i quali, smessa per un poco l'ironia, ragionando di
cose che importavano a tutti, diventavano uomini d'affari e calmi
diplomatici.
Vi era il Polentina, cantore e chiosatore dell'Ariosto e del Tasso,
con la sua barba nera brizzolata di bianco, la testa mezzo calva, la
carnagione abbronzita, simile alla patina rossastra e screpolata di un
quadro antico. La sua faccia al primo aspetto ha qualcosa di sinistro,
quasi di truce, come alcuni ritratti del Tintoretto; poi, come in quei
ritratti, a poco a poco dal moto delle labbra - le labbra nei ritratti
del Tintoretto si muovono - e dall'umidore dello sguardo splende il
raggio d'una bontà mansueta. Alle sue orecchie pendevano due anelli
d'oro, dai quali pendevano alla loro volta due triangoletti pur d'oro,
dondolanti a ogni gesto.
C'era un vecchio di settant'anni, dritto; portava il pizzo bianco:
oratore pieno di saggezza, ma di voce stentorea e di parola impetuosa.
Raccontano che nel quarantotto pacificasse con un discorso Nicolotti e
Castellani, le due fazioni di Venezia, che d'allora in poi, salvo i
molti pettegolezzi e qualche scappellotto dopo le regate, vivono in
santa pace. I volti da Carpaccio, sbarbati, col naso grosso, gli zigomi
prominenti, il mento largo, si alternavano ai volti da VanDyck, pallidi,
di barbetta rossigna, di occhi profondi e languidi, nel fronte
meditabondi. La ruvidezza maschia e libera dei traghettanti contrastava
con le livree a bottoni dorati, dei gondolieri aristocratici, ben rasi
il volto.
Non c'era, pur troppo! il gondoliere della Divina Commedia, Antonio
Maschio, che ha studiato il Convito, il Volgare Eloquio, la Vita Nuova,
tutto Dante, e conosce le opere sesquipedali de' suoi commentatori, e ha
sul Poema una propria teoria, intorno alla quale tenne delle pubbliche
conferenze e stampò dei libri; chiosatore dotto e sottile, parla in
toscano con garbo: dovrebbe essere professore, membro di Accademie,
cavaliere. Figlio di un biadaiuolo di Murano, in bottega andava frugando
nella carta da far cartocci; gli piacevano più le righe corte che le
lunghe, e aveva letto così qualche sonetto del Petrarca e alcune ottave
dell'Ariosto e del Tasso. Un dì gli caddero in mano i fogli staccati di
tre canti del Purgatorio; lesse e non capì nulla; corse da un vecchio
prete dell'isola, che gli spiegò bene o male il grosso delle cose;
vogò subito a Venezia a comperare con pochi soldi il Poema senza note.
Allora il nostro barcaiuolo, innamorandosi del mistero, esaltandosi in
ciò che intendeva e ancora più in ciò che non intendeva, netto da
ogni preoccupazione, s'andò creando nel cervello un concetto intiero
della filosofia e della geografia della Commedia, ruminandolo da sé
solo, finché gli venne regalato un commento, e poté un po' alla volta
confrontare le proprie idee con le faticose ricerche degli eruditi.
Nel sessantacinque voleva andare alle Feste dantesche di Firenze; ma
non avendo il permesso della Polizia austriaca, camminò di soppiatto
fino al Po, sperando di trovarvi una barca. Trova invece i gendarmi; si
getta in fiume nudo, col suo fardello degli abiti sulle spalle e il
volume di Dante; il fardello sprofonda, Dante sprofonda; egli stesso,
dopo sovrumani sforzi per toccare l'opposta riva, è lì lì per
annegarsi; lo ripescano; lo riconsegnano agli Austriaci; è maltrattato,
messo in prigione e dopo un pezzo, quando Dio volle, liberato. Il suo
rammarico era questo solo, di non avere potuto assistere all'onoranza
del suo Poeta. Oggi è alla Banca nazionale, gondoliere.
Ma in quella adunanza, dove il Maschio dunque non c'era, dovevano
discutere, tra gli altri affari, la domanda di un socio fondatore, il
quale, mettendo innanzi i beneficii resi alla Società, chiedeva una
gratificazione. Un bell'omone grande e grosso, col viso tondo tra il
gioviale e il solenne - somigliava al maggiordomo della Cena di Paolo -
chiede la parola e dice:
"Far el ben e po domandar el compenso xe perder el dirito a la
riconoscenza. Mi a quel sior ghe verzo la mia povara casa: el vegna a
magnar, se el ga bisogno, e a bevar da mi; ma dei soldi de la Società
no sepol darghe un boro".
Tutti consentirono nella opinione del buon uomo, votando coll'alzare
la mano, eccetto uno, che diceva di avere un reumatismo al braccio
destro:
"Ciò, parché non votistù? E se gavesse una dogia?".
Allora il presidente, un signore in cappello a cilindro, molto
prosaico, pose in discussione l'indirizzo di non sappiamo quale Società
di operai, il quale puzzava di demagogia ed al quale bisognava
rispondere. Un barcaiuolo si rizza, e discorre così:
"Ghe xe dei intriganti che ne monta la testa a nualtri, tanto
per far del ciasso e per pescar nel torbio. I fa finta de credar che
brusando le fabriche i operai ghe guadagni, e rovinando i altri i se
faza signori. No i rovina i paroni, e eli i more de fame. Ma sti
intriganti no ga altro fin che quelo de condur el popolo a la miseria, a
la disperazion; parché alora quel revolton, che i voria far de tuto e
de tufi, deventaria più facile".
Mentre l'oratore pronunciava queste parole il Polentina crollava il
capo, scuotendo i suoi orecchini, e aggrottava le ciglia. Noi lo
credevamo un comunista arrabbiato. Domanda la parola, e grida:
"El dise ben: paroni e operati xe tuti una famegia".
Insomma, poveri i Veneziani, che devono abitare a Venezia! La
consuetudine li ha da far quasi ciechi a tante gioie dell'intelletto e
della vista, a tante disinteressate emozioni del cuore. Il loro orecchio
non bada più, è vero, alle terribili oscenità ed alle laide
bestemmie, che barcaiuoli, monelli, donne del popolo pronunciano ad ogni
frase, discorrendo placidamente fra loro; non bada alle particole, di
cui la gente abbastanza civile infiora così per vezzo ogni periodetto
delle proprie ciarle. Ma i loro occhi non si fermano forse più a un
fregio bisantino, a un intrecciamento arabo, ad una nuvola riflessa
nelle onde, alla macchia rossastra di un muro in rovina od ai rappezzi e
tacconi di un bel putto biondo, magretto e mezzo nudo, che porge
sorridendo la mano per domandare uno scheo. Può restar loro la voglia
sotto i portici delle Procuratie nuove, in faccia alle Procuratie
vecchie e avendo alla destra il palazzo dei Dogi, di compiacersi in
quelle ciance, delle quali cinquecent'anni addietro si lagnava messer
Francesco Petrarca. Il cantore di Laura si scagliò contro "la
troppa libertà del parlare, per la quale in Venezia, più che in altro
luogo qualunque, gli uomini onesti dagli infami, i dotti dagli
ignoranti, i forti dai vili, i buoni dai malvagi sono impunemente
vituperati". Si vede che il pettegolezzo non è cosa recente su
questa terra mortale. E il Petrarca aveva amato con fervore Venezia: le
aveva regalato una preziosa parte de' suoi libri; s'era molto
compiaciuto che nelle feste per la vittoria di Candia il Doge l'avesse
fatto sedere alla sua destra in cospetto di tutto il popolo, sulla
loggia che sovrasta alla porta maggiore della basilica di San Marco;
aveva invitato a tornare ospite suo nel suo palazzo della Riva degli
Schiavoni, messer Giovanni Boccaccio, scrivendogli: "Tu conosci per
prova quanto soavi e dolci riescano le notturne passeggiate sul
mare".
Anche il fiero Dante fu allettato dalla vaghezza della singolare
città. Se non restasse una sua epistola a Guido da Polenta, si direbbe
ch'egli non avesse guardato in Venezia ad altro che all'arzaná, dove
bolle la tenace pece, da lui in tre terzine dipinto; ma, dopo aver
raccontato a Guido, del quale era in quei di ambasciatore presso i
Veneziani, che in faccia al Consiglio, poiché ebbe principiato la sua
orazione in latino, gli fu mandato a dire "che cercasse di alcuno
interprete o che mutasse favella" ond'egli mezzo tra stordito e
sdegnato cominciò a parlare in italiano, e capivano poco anche di
questo; dopo avere notato che non si maravigliava di tanta ignoranza e
accennato ai "vituperosissimi costumi dei Veneziani ed al fango
della loro sfrenata lascivia", chiude l'epistola col dire: "Mi
fermerò qui pochi giorni per pascere gli occhi corporali naturalmente
ingordi della novità e vaghezza di questo sito". Dante dovette
parere a quegli astuti e pieghevoli senatori un ambasciatore
disgraziatissimo: rigido, impaziente, altero, dispettoso. E di tale
cattiva impressione da lui prodotta sul Consiglio, s'accorse certo il
poeta fiorentino, e il suo malumore lo fece abbondare nelle accuse non
giuste.
Si può prestare più fede ad un placido ed imparziale francese,
Michele di Montaigne, che andò a Venezia nel 1580, quando vi dipingeva
Paolo e il Tintoretto e vi scolpiva Alessandro Vittoria. Veronica
Franco, la famosa cortigiana poetessa, gli mandò a regalare un suo
volume di Lettere. Egli diede due scudi al messo; ma è gran peccato che
non ne dica di più. Nelle donne non trovò "cette fameuse beauté
qu'on attribue au Dames de Venise"; e pur vide "les plus
nobles de celles qui en font traficque", nelle quali più che
d'ogni altra cosa si maraviglia in quella sua vecchia ortografia:
"d'en voir un tel nombre faisant une dépense en meubles et
vestemans de princesses".
I broccati, i damaschi, il bisso, la porpora, i pizzi, i merletti, le
stoffe d'oro e d'argento, i velluti, le sete, le perle, le pietre
preziose, ogni splendore, ogni fasto della vita mondana aveva la sua
influenza sull'indole dell'arte. L'amore delle tinte vivaci era antico
nei Veneziani: già prima del XII secolo il loro colore favorito fu
nelle vesti il turchino, tanto che i Romani dicevano Turchino per
Veneto. E l'arte bisantina e l'arte araba e l'arte moresca e l'arte
tedesca e l'arte fiamminga si diedero convegno nella città delle lagune
per compiere l'orgia del bello. I gastaldi delle Arti avevano un bel
decretare, che nessuno potesse vendere quadri, fuorché quelli "che
avranno zurado l'arte, intendendo che loro sia habitatori de Venetia et
a loro sia licito vender ne le loro botteghe et non in altro
luogo"; quella che il Montaigne chiama la presse des peuples
etrangers vinceva coteste paurose esclusioni. Lo Shakespeare fa dire ad
un mercante Veneziano, che, soffiando sul brodo della zuppa per
raffreddarla, egli pensa alle sue navi, volanti in tutti i mari con le
loro ali di tela. E mentre i Veneziani si spandevano così nel mondo
conosciuto, gli stranieri si concentravano in Venezia. Nel 1505 il
Senato fece ricostruire il Fondaco dei Tedeschi da un Girolamo tedesco.
Questo eclettismo, questo sensualismo, questo splendore dell'arte
veneziana e nello stesso tempo questo suo carattere eminentemente
veneziano, spiegano la sua straordinaria forza affascinatrice. È una
ghirlanda di fiori olezzanti; è una collana di pietre preziose. E una
cosa lasciva e imponente. |