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Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Cause di scioglimento della società per azioni e rimuovibilità delle stesse - Capitolo II

Capitolo II - Le singole cause di scioglimento

 

Il decorso del termine

Il conseguimento dell'oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo

L'impossibilità di funzionamento o la continuata inattività dell'assemblea

La riduzione del capitale al di sotto del minimo legale

La deliberazione dell'assemblea

Le altre cause previste dall'atto costitutivo

Il provvedimento dell'autorità governativa

La dichiarazione di fallimento

Il mancato ripristino nei termini di legge del rapporto tra azioni ordinarie e azioni di risparmio alterato a seguito di una riduzione di capitale per perdite

La dichiarazione di nullità ex art. 2332 c.c.

Società sportive professionistiche

Il mancato adeguamento del valore del capitale ai nuovi minimi stabiliti dalla legge

 

Il decorso del termine

Il termine è un elemento obbligatorio dell'atto costitutivo (art. 2328 c.c.) la cui mancanza, pur non essendo causa di nullità della società in quanto non contemplata tra quelle tassative previste all'art. 2332 c.c., ne impedisce l'omologazione.

Il termine deve essere indicato o in una data fissa o in una certa determinata quantità di tempo a partire dal momento della costituzione. Nelle società di capitali non è possibile che il termine sia indeterminato, a differenza di quanto può capitare nella società semplice ove il contratto può non prevedere alcun termine di durata.

Per quanto riguarda la scadenza del termine come causa di scioglimento, occorre osservare che la società entra in stato di liquidazione immediatamente dopo il suo decorso, e l'individuazione del momento esatto da cui decorrono gli effetti dello scioglimento è questione di nessuna difficoltà, bastando ad identificarlo la sola conoscenza della specifica clausola dello statuto sociale che stabilisce la durata della società.

Il verificarsi di tale causa di scioglimento va accertato dall'organo amministrativo con delibera non soggetta ad omologazione ma da depositare ed iscrivere nel registro delle imprese e da pubblicare sul BUSARL.

Qualche questione può porsi, tuttavia, con riferimento agli effetti nei confronti dei terzi della pubblicità legale dell'avvenuto scioglimento.

A tal proposito osserva Campobasso che lo scioglimento dovuto alla scadenza del termine resta opponibile ai terzi anche in mancanza della delibera di accertamento del consiglio di amministrazione e della relativa pubblicità dato che il termine di durata della società risulta dall'atto costitutivo pubblicato. Ciò starebbe a significare che la pubblicità legale dello scioglimento di una società dovuto a decorso del termine potrebbe addirittura essere trascurata, rimanendo l'avvenuto scioglimento opponibile a chiunque. Questa tesi appare del tutto logica ed attendibile, ma rende possibile una interpretazione del quinto comma dell'art. 2449 che suscita perplessità negli studiosi poiché ne svuota di significato il dettato, infatti se in via di interpretazione si afferma che lo scioglimento per decorso del termine è opponibile ai terzi fin dal suo verificarsi, senza bisogno che venga accertato dall'organo amministrativo, il richiamo al numero 1 dell'art. 2448 nella precisa disposizione del comma quinto dell'art. 2449 c.c. resta del tutto privo di significato e valore. Tuttavia l'interpretazione appena prospettata, per quanto acuta, non appare conforme ai principi riconosciuti alla base dell'interpretazione della legge in generale e può essere superata dalla tesi secondo la quale il legislatore, con la pubblicità prevista dall'art. 2449 quinto comma c.c. ha comunque voluto tutelare maggiormente i terzi, anche oltre la soglia della conoscibilità dell'avvenuto scioglimento, costringendo la società a palesare in ogni caso il proprio stato di liquidazione. Si vuole così porre in evidenza la precisa volontà del legislatore di onerare la società di un'attività pubblicitaria, che a stretto rigor di logica sarebbe superflua, e che pone a carico degli amministratori inadempienti una responsabilità particolare e suppletiva. In pratica accade che alla società non può essere opposta la mancata pubblicità del proprio avvenuto scioglimento, in quanto desumibile con altri mezzi alla portata della normale diligenza, ma per la condotta illecita derivante dal mancato adempimento degli obblighi specificatamente posti a loro carico, gli amministratori risponderebbero in via personale dei danni subiti dai terzi colpevolmente o peggio dolosamente indotti in errore.

A parte le considerazioni sopra esposte, non vi è una esplicita prescrizione per il caso in cui l'organo amministrativo non provveda a constatare e a pubblicizzare il verificarsi della causa di scioglimento. Si ritiene, inoltre, che i sindaci non abbiano poteri accertativi e che non possano sostituirsi agli amministratori e provvedere essi stessi all'accertamento della causa di scioglimento e ai successivi adempimenti pubblicitari a norma dell'art. 2406 c.c. In ogni caso essi possono invece convocare l'assemblea, la quale, preliminarmente alle deliberazioni inerenti alla messa in liquidazione della società, accerterà l'avvenuto scioglimento.

Solo prima dello spirare del termine la durata della società può essere modificata con una normale deliberazione dell'assemblea straordinaria la quale, poiché modificativa di una clausola dell'atto costitutivo, è soggetta ad omologazione da parte del Tribunale ed all'iscrizione nel registro delle imprese.

Non è ovviamente ammesso che il termine sia prorogato a tempo indeterminato. Nè è prevista alcuna forma di proroga tacita.

Queste affermazioni sono del tutto pacifiche nell'unanime dottrina.

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Il conseguimento dell'oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo

L'attività (normalmente economica) per il cui esercizio la società si è costituita rappresenta l'oggetto sociale. Esso è un requisito essenziale dell'atto costitutivo: non può assolutamente mancare, neanche nella società semplice, perché non è neppure concepibile (e sarebbe una contraddizione in termini) una società che non abbia un oggetto, quasi che i soci si associassero senza motivo.

Nella prassi si usa distinguere un oggetto sociale statutario da un oggetto sociale reale, di minore ampiezza, contenuto nel primo e che rappresenta l'attività effettivamente svolta dalla società. Tale distinzione non deve trarre in inganno, in quanto non appartiene a nessuna delle categorie giuridiche previste dal codice civile; l'oggetto a cui fa riferimento l'art. 2448, n. 2, è uno solo e si identifica con l'oggetto sociale statutario, solo ad esso occorre fare riferimento nel valutarne il raggiungimento o l'impossibilità di conseguirlo.

Lo scioglimento della società per il conseguimento dell'oggetto sociale o per l'impossibilità di conseguirlo è il retaggio dell'antica tradizione delle società mercantili che avevano come scopo il compimento di singoli, per quanto complessi ed impegnativi, affari, e che gli interessati stessi, per riprendere in pieno la propria autonomia di liberi mercanti, preferivano vedere perire immediatamente e automaticamente dopo il compimento dell'affare.

Viceversa oggi succede estremamente di rado di vedere società sciolte per il raggiungimento dell'oggetto sociale. Il fenomeno costituisce la conseguenza, ovvia e voluta, del fatto che solitamente le società vengono costituite con un oggetto sociale statutario ben più ampio e generico dell'oggetto reale dell'attività aziendale. Altrettanto poco frequente è il caso complementare di impossibilità del conseguimento dell'oggetto sociale, in quanto raramente vengono costituite società che abbiano un singolo affare o progetto come oggetto sociale, oppure un campo di azione tanto limitato da non sopravvivere a eventi originariamente non previsti. Si può insomma dire che lo scioglimento per fatto inerente l'oggetto sociale non avvenga mai per un caso inatteso ma si verifichi solo se fin dal principio tale eventualità rientra nel disegno prefigurato dai soci, i quali possono preferire questo meccanismo implicito ad una clausola di scioglimento esplicitata nello statuto, che con la sua evidenza potrebbe indurre i terzi a comportarsi con atteggiamento più cauto verso una società non destinata a durare nel tempo.

L'impossibilità di conseguimento dell'oggetto sociale non può essere originaria ma deve sopravvenire, altrimenti non sarebbe causa di scioglimento della società ma di nullità della stessa per nullità del contratto in quanto, come detto, non appare concepibile una società priva di oggetto, e un oggetto originariamente impossibile è considerabile come un oggetto inesistente.

Anche il caso in cui l'oggetto divenga illecito per una modifica della legislazione in vigore è assimilabile alla sopravvenuta impossibilità, in quanto l'ordinamento non può, ovviamente, tollerare che esistano enti con lo scopo di perseguire fini non leciti. In tale caso per evitare lo scioglimento, l'assemblea straordinaria potrebbe modificare l'oggetto sociale e consentire ai soci dissenzienti il recesso.

L'avvenuto conseguimento o l'impossibilità sopravvenuta di conseguire l'oggetto sociale deve essere accertata dall'organo amministrativo (non dall'assemblea) con una delibera non soggetta ad omologazione, ma a deposito ed iscrizione nel registro delle imprese ed a pubblicazione sul BUSARL.

L'individuazione dell'ipotesi di conseguimento dell'oggetto sociale è di norma piuttosto agevole, bastando il confronto tra la situazione di fatto e il dettato dello statuto ove l'oggetto sociale sia stato adeguatamente specificato o sufficientemente determinato. Viceversa può essere decisamente più complessa l'individuazione del caso di impossibilità nel raggiungimento dell'oggetto sociale. La sopravvenuta impossibilità di conseguire l'oggetto sociale deve, secondo l'opinione comune, essere oggettiva, assoluta e definitiva (slegata quindi da eventi o situazioni di tipo temporaneo o contingente) e può essere tanto giuridica quanto di fatto, causata cioè da condizioni particolari in cui si ritrova la società.

Nel caso vi sia dissenso sull'effettivo verificarsi della causa di scioglimento sarà necessario un accertamento giudiziale e, come accennato, il criterio al quale pare attenersi la giurisprudenza è quello di ritenere che debbano ricorrere caratteri di assolutezza e definitività tali da rendere inutile ed improduttiva la permanenza del vincolo sociale.

Il momento da cui decorrono gli effetti dello scioglimento non è in alcun modo influenzato dall'accertamento dello stesso. Lo scioglimento infatti opera automaticamente col verificarsi della causa che lo ha prodotto. Sarà preoccupazione degli amministratori, onde evitare di compiere operazioni delle quali sarebbero poi chiamati a rispondere personalmente, affrettarsi a compiere le necessarie operazioni di accertamento e di pubblicità.

Nel caso in cui l'organo amministrativo non provveda alla constatazione dell'avvenuto verificarsi della causa di scioglimento, si avranno conseguenze analoghe a quelle già esaminate in relazione al n. 1 dell'art. 2448 c.c.

Osserviamo, infine, che l'impossibilità di conseguire l'oggetto sociale può essere, sempre che essa sia assoluta e definitiva, rilevata direttamente in sede di omologazione della società o di modifica dello statuto sociale. Nel primo caso si avrà nullità dell'atto costitutivo, nel secondo la non omologabilità del nuovo statuto.

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L'impossibilità di funzionamento o la continuata inattività dell'assemblea

È questa una causa di scioglimento peculiare alle società di capitali, in funzione dell'esistenza e della necessarietà dell'organo deliberante, al contrario di quanto avviene nelle società di persone ove le situazioni di impossibilità di formazione della volontà sociale assumono rilievo sotto il diverso profilo dell'impossibilità del conseguimento dell'oggetto sociale (ad esempio, l'insanabile dissidio tra i soci).

La ratio della previsione di scioglimento della società, per il caso di protratta inattività dell'assemblea, è da ricercare nel fatto che l'ordinamento non ritiene opportuno lasciar sopravvivere un ente di cui neppure i soggetti più interessati (i soci) si occupano. Mentre nel caso di impossibilità di funzionamento dell'assemblea si colpisce un ente la cui vita non si svolge secondo le regole dettate per tutti gli enti analoghi. Si vuole eliminare dalla scena un soggetto anomalo prima che

possa causare danni di vaste proporzioni e si sanzionano con l'eliminazione della società (un eco della giustizia del re Salomone) i soci che non sono riusciti a sciogliere le proprie controversie personali per una proficua utilizzazione della struttura organizzativa creata.

Le assemblee alle quali occorre fare riferimento per valutare l'avverarsi della causa di scioglimento sono quelle in cui debbono essere prese decisioni necessarie per la sopravvivenza della società, quali ad esempio l'approvazione del bilancio di esercizio o la nomina alle cariche sociali. Solitamente si tratta quindi di assemblee ordinarie. Ma può anche accadere, e la circostanza assume analogo rilievo, che la sopravvivenza dell'ente sociale sia subordinata ad una deliberazione dell'assemblea straordinaria (come quando la legge renda obbligatoria per la prosecuzione dell'attività sociale una modifica dell'atto costitutivo).

Si verifica il caso di inattività dell'assemblea quando questa non ha luogo per il persistente assenteismo dei soci. Mentre si ha il caso di impossibilità di funzionamento dell'assemblea quando, pur in presenza di assemblee validamente costituite, risulta concretamente impossibile la formazione (o il raggiungimento) di una maggioranza deliberante, dovuto ad insanabili contrasti tra gli azionisti che impediscano la formazione delle maggioranze necessarie all'adozione delle delibere considerate indispensabili (fenomeno spesso dovuto ad incaute, quanto a volte necessarie, composizioni azionarie paritetiche).

Ciò che deve risultare concretamente impossibile è dunque l'adozione di deliberazioni necessarie ed indispensabili al regolare svolgersi della vita societaria. Tra queste rientrano, come abbiamo più sopra rilevato, sia pure a titolo esemplificativo, quelle di approvazione del bilancio di esercizio e di nomina o sostituzione degli amministratori e dei sindaci. Non basta quindi una mera mancanza di attività in senso inqualificato, occorre che l'inattività dell'assemblea abbia riflessi paralizzanti sulla vita della società e sulla sua normale conduzione. Né, d'altra parte, è causa di scioglimento l'incapacità di decidere dell'assemblea su questioni secondarie, in presenza di valide deliberazioni sulle questioni fondamentali.

In dottrina c'è concordia di opinioni sul punto che l'impossibilità di funzionamento dell'organo assembleare vada valutata con riferimento alle delibere che incidono sul funzionamento della società. Anche in giurisprudenza la questione appare chiara e la fattispecie ben delineata. Due esemplificazioni che si potrebbero definire "classiche" della situazione di impossibilità di funzionamento sono rinvenibili in sentenze dei Tribunali di Cagliari e Roma. Il Tribunale di Cagliari ha disposto lo scioglimento di una società per azioni ritenendo verificata la condizione di impossibilità di funzionamento dell'assemblea a causa dell'astensione dal voto, in sede di approvazione del bilancio, da parte di uno dei due soli soci che detenevano ciascuno il 50% delle azioni. Il Tribunale di Roma ha dichiarato lo scioglimento per impossibilità di funzionamento dell'assemblea di una società la cui assemblea per oltre

un anno non era stata in grado di provvedere alla sostituzione degli amministratori dimissionari, a nulla rilevando che essa fosse riuscita a deliberare su altri argomenti.

Il Ferri osserva che il giudizio sulla continuata inattività dell'assemblea è la constatazione di un fatto, mentre quello sull'impossibilità di funzionamento è frutto di una valutazione assai delicata perché l'impossibilità di funzionamento non deve essere necessariamente assoluta, ma può anche derivare da cause rimovibili, come un permanente dissidio tra i soci.

L'accertamento della situazione di fatto spetta al presidente del Tribunale che provvede con decreto, su istanza dei soci, degli amministratori o dei sindaci (art. 2449 c. 7 c.c.).

Il decreto va depositato ed iscritto nel registro delle imprese e pubblicato sul BUSARL.

Per l'accertamento giudiziale dell'impossibilità di funzionamento dell'assemblea o della sua prolungata inattività non è necessaria alcuna indagine sulle cause che tale situazione hanno originato; ciò perché, oltre al fatto che una simile indagine probabilmente supererebbe i limiti che il giudice incontra in materia di sindacato sull'attività societaria, la conoscenza dei motivi che hanno indotto i soci a comportarsi in un certo modo non modificherà in alcun caso il dato di fatto che l'assemblea non ha provveduto ad adottare le delibere necessarie, e quindi in definitiva non avrebbe influenza alcuna sul verificarsi della causa di scioglimento.

Non è certo agevole determinare il momento dal quale decorrono gli effetti dello scioglimento. Infatti la norma del 2448, n. 3, non definisce un orizzonte temporale entro il quale debba essere verificata l'inattività dell'assemblea o la sua impossibilità di funzionamento. Occorre dunque stabilire un punto fermo intorno al quale valutare i due fenomeni e i loro effetti dissolutori nei confronti della società. Il riferimento obbligato è la necessarietà della delibera che l'assemblea dovrebbe adottare e sulla quale omette di provvedere. Solo in presenza di una delibera necessaria per il corretto funzionamento dell'ente potrà avere inizio, ad opera di uno degli interessati, il procedimento accertativo. Tuttavia se il provvedimento assembleare non ha una sua intrinseca scadenza, sarà il magistrato a determinare il momento a partire dal quale non è più accettabile la mancanza della deliberazione de quo e da quel momento anche un eventuale intervento dell'assemblea sarà da considerare tardivo.

Lo scioglimento è conseguenza di un fatto omissivo (e in quanto tale, più che al preciso istante in cui si compie un'azione, deve essere ricondotto al trascorre di un certo lasso di tempo senza che alcuna azione sia compiuta), ma comunque fatto reale ed obbiettivo, oggettivamente desumibile dall'osservazione della situazione della società.

Una volta constatato che il provvedimento assembleare atteso non è stato deliberato in tempo utile, la società è da considerarsi automaticamente in stato di liquidazione, e il decreto presidenziale semplicemente appalesa e cristallizza questa situazione già prodottasi nei fatti. Posta questa premessa diventa più facile identificare anche il momento esatto da cui decorrono gli effetti dello scioglimento. Non sembra discutibile che, nel caso di un ricorso tempestivo al presidente del Tribunale, il momento esatto dello scioglimento sia da identificare nella chiusura dell'ultima assemblea andata deserta o nella quali i soci non hanno raggiunto un accordo atto a deliberare. Quindi in epoca anteriore alla presentazione del ricorso diretto ad ottenere la declaratoria dell'avvenuto scioglimento. In caso di negligenza di amministratori e sindaci o di disinteresse dei soci, che abbiano lasciato svolgere inutilmente altre assemblee, gli effetti saranno anticipati al momento della chiusura dell'ultima assemblea nella quale il provvedimento atteso sarebbe stato ancora utile e funzionale. A tale momento andranno quindi fatti retroagire gli effetti dello scioglimento, che si ripete, si è già compiutamente realizzato al momento della declaratoria giudiziale.

Gli artt. 2449, comma 7°, e 2450, comma 3°, c.c. dispongono espressamente che per il caso in esame, data la situazione di possibile paralisi in cui si potrebbero venire a trovare gli organi sociali, sia legittimato a ricorrere all'autorità giudiziaria anche il singolo socio, includendo anch'esso nel novero dei soggetti interessati allo sblocco di una situazione di prolungato stallo che il legislatore non ritiene accettabile.

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La riduzione del capitale al di sotto del minimo legale

L'art. 2448 c.c. prevede al n. 4 che la società per azioni si sciolga se il capitale si riduce al di sotto del minimo legale, salvo quanto disposto dal precedente art. 2447 c.c.

L'accertamento e la pubblicità del sopraggiunto stato di liquidazione saranno compiuti con una delibera del consiglio di amministrazione da iscrivere nel registro delle imprese e pubblicare sul BUSARL.

Anche questa è una causa di scioglimento peculiare delle società di capitali. Alcuni autori la inseriscono nella categoria delle cause di scioglimento dipendenti dalla volontà dei soci, data la possibilità che essi hanno di decidere se eliminare gli effetti dello scioglimento con una delibera di reintegrazione del capitale o lasciare che lo scioglimento proceda il suo corso.

Peraltro l'ambito e il modo di operare di questa causa di scioglimento sono tuttora oggetto di discussione. Infatti la pura e semplice lettura dell'art. 2448 c.c. sembra lasciar intendere che nel caso la società abbia subito perdite tali da far scendere in capitale al di sotto del minimo legale essa si trovi automaticamente in stato di liquidazione, a meno che l'assemblea non utilizzi una delle alternative previste dall'art. 2447, preordinate appunto ad eliminare gli effetti dello scioglimento. E cioè una delibera di riduzione per perdite ed il contemporaneo aumento del capitale sociale ad una cifra superiore al minimo legale, oppure la trasformazione della società.

In realtà, la previsione dell'art. 2448, n. 4, c.c. non può essere correttamente interpretata se non si considera che la causa di scioglimento ivi indicata, proprio per il rinvio operato dalla norma alla disposizione dell'art. 2447 c.c., coincide con quest'ultima fattispecie, per cui non qualsiasi riduzione al di sotto del minimo legale è causa di scioglimento, ma solo quella che consegue a perdite che intacchino il capitale nella misura di oltre un terzo, includendo nel computo la totalità delle riserve.

Al riguardo bisogna, infatti, considerare che l'art. 2447 c.c. prevede un'ipotesi particolare rispetto alla categoria generale della riduzione per perdita di oltre un terzo delineata nell'art. 2446 c.c.. Pertanto se è esatto che anche l'art. 2447 c.c. richiede che la perdita sia di oltre un terzo, si deve ritenere che l'art. 2448, n. 4, c.c. sia da interpretare alla luce dell'art. 2447. L'alternativa, e cioè che una qualsiasi riduzione del capitale al di sotto del minimo legale anche se la perdita è inferiore al terzo, costituisca causa di scioglimento, conduce all'illogico risultato che lo scioglimento può essere evitato con la ricostituzione del capitale o la trasformazione del tipo sociale quando la perdita è di oltre un terzo, mentre non può essere evitato quando la perdita è inferiore. In pratica si applicherebbe una sanzione più grave, quale certamente è lo scioglimento della società, ad una situazione meno grave quale è la perdita inferiore al terzo.

Viceversa è decisamente più controverso se lo scioglimento si produca dal momento in cui si verifica la perdita superiore al terzo del capitale e la sua riduzione al di sotto del minimo legale ovvero solo dal momento successivo in cui l'assemblea, appositamente convocata, ometta di provvedere alla reintegrazione o alla trasformazione della società.

Secondo alcuni autori è preferibile la tesi che, nel rispetto dell'iter previsto dall'art. 2447 c.c., collega la causa di scioglimento non al momento in cui la perdita è divenuta conoscibile o all'evento "perdita" in quanto tale, ma alla mancata deliberazione sanante dell'assemblea, secondo un meccanismo analogo all'operare della causa di scioglimento per impossibilità di funzionamento dell'assemblea.

La tesi appare molto aderente alla valutazione degli interessi in gioco, in quanto sottolinea come sia nelle intenzioni del legislatore privilegiare, mediante le varie alternative offerte in caso di perdita del capitale, le ragioni della continuità dell'impresa. Ragioni che sarebbero pregiudicate dalla produzione istantanea degli effetti dello scioglimento, seguito, poi, da una rimozione degli stessi attraverso una deliberazione dell'assemblea a norma dell'art. 2447 c.c..

Ma una consistente parte della dottrina e la giurisprudenza maggioritaria sono orientate in senso opposto. Essi ritengono che la causa di scioglimento si concretizzi nell'evento perdita (qualificata) del capitale sociale e suo ridursi al di sotto del minimo legale, senza alcuna necessità di attendere gli eventuali provvedimenti dell'assemblea e che di conseguenza gli effetti dello scioglimento inizino a decorrere dal momento esatto in cui si è verificato l'evento che ha determinato la perdita.

Tutto ciò sulla base della considerazione che non sarebbe né logico, né nello spirito della norma, far decorrere gli effetti dello scioglimento dal momento successivo in cui l'assemblea ometta di provvedere alla reintegrazione del capitale o alla trasformazione della società. In questo modo infatti si priverebbe di efficacia il principio dell'operatività di diritto delle cause di scioglimento e si rimetterebbe in pratica alla volontà e discrezionalità degli amministratori la fissazione del momento da cui far decorrere gli effetti dello scioglimento, con evidenti riflessi sul regime di responsabilità a cui essi sono sottoposti.

La tesi che lo scioglimento sia originato dal verificarsi non solo della condizione "oggettiva" della perdita qualificata e della riduzione del capitale sotto il minimo, ma anche dalla condizione "soggettiva" della mancanza di una deliberazione di ricostituzione del capitale o di trasformazione della società, rende possibili agli amministratori una serie di atti volti a limitare la propria responsabilità in danno della società e dei creditori e non impedisce alla società, che pure si trova ad essere priva del capitale minimo richiesto dalla legge, di continuare ad operare.

In pratica gli amministratori potrebbero proseguire nella gestione della società in difficoltà senza dover rispondere dei loro atti; potrebbero aggravare ulteriormente la situazione economica della società portando liberamente a termine operazioni rischiose; potrebbero infine anche stabilire da sé, per il proprio tornaconto, il momento dal quale far decorrere la propria responsabilità personale, fissando in maniera opportuna la data di convocazione dell'assemblea. In buona sostanza, la società ed il suo organo gestorio godrebbero ancora della piena libertà di agire, come se la perdita non esistesse e il capitale fosse intatto, fino al momento scelto per chiamare l'assemblea a pronunciarsi sul destino della società.

L'insostenibilità di una simile costruzione appare ancor più evidente se si considera la ratio della previsione normativa sulla responsabilità per le eventuali nuove operazioni degli amministratori di una società in stato di liquidazione. In generale (e a maggior ragione nel caso di specie) il principio che governa l'istituto dello scioglimento della società è senz'altro la considerazione che a una società che non sia in grado di funzionare normalmente, che cioè non offra ai terzi con cui entra in contatto le garanzie patrimoniali e gestionali minime che la legge tassativamente richiede, non deve essere permesso di operare. E poiché ogni divieto deve prevedere una sanzione per chi lo infrange, il legislatore ha ritenuto che per reprimere efficacemente questa specifica violazione dovessero essere colpiti direttamente gli amministratori, i quali si trovano così a rispondere con il proprio patrimonio personale dei danni causati dalle nuove operazioni.

Ora, se la società che non risponde più ai minimi requisiti di legge non può operare e deve essere sciolta, e la responsabilità è la sanzione per chi compie nuovi affari in una società in stato di liquidazione, non avrebbe senso alcuno permettere in primo luogo che una società siffatta possa proseguire indisturbata la propria attività anche per mesi ed in più permettere agli amministratori, che degli eventuali danni dovranno rispondere, di decidere il momento dal quale far decorrere la propria responsabilità.

La tesi che la causa di scioglimento in discorso sia subordinata al verificarsi di una duplice fattispecie, ovvero la riduzione qualificata del capitale e la mancanza di una delibera che lo reintegri o trasformi la società, non sembra poter resistere alle argomentazioni appena svolte. Da qui, perciò, la necessità per la società che il momento esatto in cui si concretizza il passaggio dallo stato di normale funzionamento a quello di liquidazione venga anticipato dalla chiusura dell'assemblea che non abbia deliberato ex art. 2447 c.c. al preciso istante in cui sia stata compiuta ed abbia avuto effetto l'operazione economica che ha consolidato la perdita di oltre un terzo del capitale e la sua riduzione al di sotto del minimo legale.

A questa conclusione si può obbiettare che essa condiziona troppo pesantemente l'operato degli amministratori ed il funzionamento della società. Ma è facile osservare che in primo luogo l'organo gestore non corre alcun rischio di vedersi attribuite responsabilità per aver dato corso a nuove operazioni dopo il formale verificarsi della causa di scioglimento, se di essa non ha avuto cognizione.

Ciò perché se, com'è vero, l'attribuzione ad un soggetto di responsabilità per azioni od omissioni, in relazione al verificarsi o meno di una certa condizione, ha valore solo se il soggetto sul quale tale responsabilità si appunta possa intervenire, verificare, controllare, o quanto meno essere tempestivamente informato sulla situazione dalla quale, appunto, la responsabilità scaturisce, allora anche all'organo amministrativo può attribuirsi una responsabilità ex art. 2449 c.c. dall'istante dello scioglimento solo se ed in quanto abbia potuto avere consapevolezza dell'esistenza ed entità delle perdite.

Non sarà imputabile agli amministratori responsabilità per le "nuove operazioni" prima dell'istante in cui si sarebbe potuto con la normale diligenza (per esempio una delle periodiche verifiche contabili) venire a conoscenza delle perdite e del loro ammontare. Tale preciso momento quasi mai potrà coincidere con il momento dell'effettivo scioglimento ma, come normalmente accade, sarà successivo, e a volte anche di molto. Tuttavia nessuna ignoranza potrà essere invocata dagli amministratori oltre il momento in cui viene predisposta la bozza di bilancio. Operazione che squarcia ogni velo sull'effettività della perdita subita dalla società.

In secondo luogo, si può osservare che se la norma dell'art. 2448, n. 4, ha lo scopo di impedire che operino sul mercato soggetti strutturalmente non più in grado di offrire le necessarie garanzie patrimoniali e di funzionamento, allora una società che ha subito perdite tali da intaccare gravemente il capitale ed azzerare le riserve, deve essere risanata senza indugio alcuno oppure fermata, prima che possa creare danni irreparabili al tessuto economico in cui è integrata. E quest'ultima esigenza è talmente forte da giustificare una compressione anche cospicua della libertà di agire dell'imprenditore società e dei suoi organi. In definitiva è ai soci che spetta ogni decisione: se essi sono ancora interessati a proseguire nella conduzione dell'azienda sociale provvederanno subito a rimuovere gli effetti dell'intervenuto scioglimento, rimettendo la società in gradi di operare, altrimenti proseguirà il suo corso la procedura di liquidazione.

Per completezza non si può trascurare una terza interpretazione dell'art. 2448, n. 4, c.c., propugnata da Schermi. L'autore sostiene che le deliberazioni di cui all'art. 2447 c.c. essendo dettate a salvaguardia della permanenza in attività dell'ente, abbiano il valore di condizioni sospensive negative dello scioglimento, in modo tale che il verificarsi della causa (perdita qualificata del capitale sociale e riduzione dello stesso al di sotto del minimo legale) non determinerebbe automaticamente lo scioglimento della società ma solo l'inizio del periodo in cui è ancora possibile eliminarne le conseguenze attaverso una deliberazione assembleare (reintegrazione del capitale o trasformazione della società). Trascorso invano tale lasso di tempo senza che l'assemblea sociale abbia provveduto ex art. 2447, lo scioglimento, per il verificarsi della condizione sospensiva, diventerebbe operativo, e con un effetto retroattivo al momento in cui la perdita qualificata abbia portato il capitale al di sotto del minimo legale.

Una certa influenza del tipo di interpretazione testè esposta è rintracciabile in parte anche in alcune sentenze. Prima, tra tutte, quella della corte di Cassazione del 28 giugno 1980, n. 4089, che per risolvere un problema reale opera un tentativo di conciliazione delle due teorie interpretative principali. La Corte sostiene che senza dubbio lo scioglimento della società avviene con il solo e semplice venire in essere di una perdita tale da ridurre il capitale sociale di oltre un terzo e sotto il minimo legale, ma aggiunge che la reintegrazione del capitale o la trasformazione della società sono eventi che eliminano lo scioglimento ex tunc operando come condizioni risolutive dello scioglimento.

Si è a lungo discusso se le regole dettate per il caso di perdite eccedenti il terzo del capitale che lo riducano al di sotto del minimo legale siano valide anche per il caso in cui il capitale venga totalmente azzerato dalle perdite. Questa ipotesi, che a prima vista può sembrare una specie della precedente (se la società si scioglie per la perdita di oltre un terzo, a maggior ragione dovrà sciogliersi per la perdita dell'intero capitale), in realtà presenta la significativa differenza che una volta azzerato il capitale, perde di significato l'espressione dell'art. 2447 c.c. "aumento". Qui, infatti, non si tratterebbe di aumento ma di ricostituzione integrale. Gli autori che escludono l'applicabilità dell'art. 2447 c.c. in caso di perdita totale del capitale, più che di una questione lessicale si preoccupano però dei riflessi che l'azzeramento del capitale produce sulla qualità di socio e del fatto che l'applicazione della norma citata finisce col trasformare il diritto di partecipazione in un mero diritto di opzione; con la conseguenza che, se non esercitato, estrometterebbe il socio dalla società annullando il suo diritto alla quota di liquidazione. Essi ritengono pertanto che la ricostituzione integrale del capitale e quindi l'uscita dallo stato di liquidazione esigono, nel caso di specie, il consenso della totalità dei soci. Numerose pronunzie giurisprudenziali e gran parte della dottrina criticano questa interpretazione e ribadiscono che il caso di integrale perdita del capitale è comunque ricompreso nella previsione dell'art. 2447. Anche questa causa di scioglimento può dunque essere sanata nei modi consueti con una normale delibera maggioritaria.

Ricordiamo infine che la questione generale se la delibera di reintegrazione del capitale o di trasformazione della società debba essere presa all'unanimità o con le maggioranze prescritte dagli artt. 2368 e 2369 c.c. è da tempo risolta in dottrina e giurisprudenza con una chiara opzione verso questa seconda soluzione.

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La deliberazione dell'assemblea

La delibera assembleare che statuisca lo scioglimento anticipato della società comporta una modificazione dell'atto costitutivo e pertanto è soggetta al controllo omologativo del Tribunale, all'iscrizione nel registro delle imprese e alla pubblicazione sul BUSARL come ogni altra delibera modificativa dello statuto sociale.

La sede assembleare nella quale può essere adottata la delibera di scioglimento anticipato è ovviamente, quella straordinaria, con l'osservanza delle formalità e con le maggioranze previste per questa dallo statuto o, in mancanza di specifiche previsioni, dagli articoli 2365 e ss. c.c.

Questa causa di scioglimento corrisponde, mutatis mutandis, a quella prevista dall'art. 2272, n. 3, c.c., per la società semplice e per le società di persone in genere, con l'espressione: "per volontà di tutti i soci". L'adattamento alla realtà delle società di capitali comporta solo l'applicazione del principio maggioritario, per il quale anche in occasione di scelte sicuramente modificative dell'originario contratto sociale non è necessaria l'unanimità ma solo la qualificata maggioranza prevista dalla legge o dallo statuto.

L'origine della possibilità per i soci di sciogliere a proprio piacimento la società è certamente medioevale. Addirittura era all'epoca consentito al socio, data la particolare avversione tipica del periodo per i vincoli a tempo indeterminato, di "disdire" unilateralmente la società. Con l'evolversi degli istituti questa causa di scioglimento si è affinata fino a raggiungere l'attuale formulazione differenziata per le società di persone e di capitali.

La ratio che giustifica il diritto dei soci a eliminare dalla scena giuridica ed economica la propria società, fa riferimento all'esegesi dell'art. 41 della Costituzione, il quale stabilisce che "l'iniziativa economica privata è libera". Si ritiene che il diritto di iniziativa economica comprenda non solo il se, il come ed il quando esercitare una impresa, ma anche il non esercitarla ovvero il diritto di porvi fine. La limitazione espressa nei successivi commi dello stesso articolo, (l'iniziativa economica) "Non può svolgersi in contrasto con l'utilità "sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla "dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni "perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata "e coordinata a fini sociali", rendono controverso se il potere della maggioranza dei soci di porre fine alla vita della società sia assoluto ed insindacabile o trovi delle limitazioni che rendano possibile nell'interesse dei soci di minoranza o di terzi un sindacato giudiziario della relativa deliberazione.

Secondo Campobasso appare chiaro che non esiste un diritto individuale dell'azionista al mantenimento in vita della società per la durata fissata nell'atto costitutivo. Ne è conferma il fatto che per la delibera di scioglimento anticipato la legge non richieda alcuna motivazione. Da ciò è lecito desumere che la delibera predetta non è sindacabile nel merito dall'autorità giudiziaria. In giurisprudenza i casi nei quali il Tribunale ha decretato la nullità o la non omologabilità della delibera di scioglimento si riferiscono a situazioni nelle quali l'elemento caducante della delibera era elemento formale o esterno alla delibera in sé, come ad esempio la mancanza di previsioni in ordine alla necessaria fase di liquidazione, oppure la nullità di precedenti delibere a cui la delibera di scioglimento era intimamente connessa, oppure la mancata previsione nell'ordine del giorno dell'assemblea dell'argomento scioglimento della società.

Non è azzardato ritenere che una parola definitiva sull'argomento sia stata espressa dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 29 maggio 1986 n. 3628. Vi si afferma, infatti, che fatta salva l'impugnativa per abuso o eccesso di potere, "la deliberazione di "scioglimento di una società, che sia stata adottata dai soci nelle forme "legali e con le maggioranze all'uopo prescritte, può essere invalidata "(......) sotto il profilo dell'abuso o eccesso di potere (........), mentre "all'infuori di tali ipotesi, resta preclusa ogni possibilità di sindacato in "sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla "suddetta decisione".

Di Sabato concorda con la sentenza della Suprema Corte e sottolinea che ai casi di sindacabilità da essa previsti sono da aggiungere le ipotesi del conflitto di interessi e della violazione degli obblighi di buona fede e correttezza nei rapporti reciproci tra i soci.

Sempre secondo il Di Sabato si deve inoltre escludere che limitazioni alla volontà sociale possano derivare dai rapporti con i terzi.

Tornando all'art. 41 della Costituzione, al quale abbiamo più sopra fatto cenno, occorre ora verificare se esistano delle norme specifiche che al principio costituzionale conferiscano un contenuto precettivo e compressivo della libertà del soggetto economico in nome del superiore principio dell'"utilità sociale".

In questa ottica, al quesito se il potere dispositivo dell'assemblea possa essere limitato da interessi esterni alla società è ragionevole dare risposta positiva.

Il primo degli interessi esterni la cui tutela, espressamente prevista, implica un limite al potere deliberativo dell'assemblea, appare il diritto dei dipendenti alla conservazione del posto di lavoro. Ove, infatti, la deliberazione di anticipato scioglimento non sia basata su elementi oggettivi e possa essere configurata come comportamento antisindacale del datore di lavoro secondo l'art. 28 del cosiddetto Statuto dei lavoratori, si avrà nullità dell'atto deliberativo.

Una ulteriore impossibilità giuridica di deliberare lo scioglimento della società si desume dalle disposizioni delle leggi cosiddette "di salvataggio": esemplarmente la legge 3 aprile 1979, n. 95 (cosiddetta legge Prodi) per l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Essa dispone che l'imprenditore titolare di imprese che superino determinati limiti dimensionali e contemporaneamente si trovino in uno stato di palese crisi con un indebitamento qualificato superiore a determinati limiti, debba subire d'ufficio o su istanza di una serie di possibili soggetti interessati, una procedura di spossessamento dell'esercizio dell'impresa e della possibilità di richiedere il proprio fallimento. Tutto ciò a prescindere dall'esistenza o meno di uno stato di insolvenza e dall'esistenza di una perdita anche solo parziale del capitale.

Può perciò accadere che l'assemblea di una società, per il ricorrere dei presupposti di applicazione della legge 95/79, si trovi nell'impossibilità giuridica di deliberare lo scioglimento anticipato e dare inizio alla procedura di liquidazione volontaria, con la conseguente privazione per l'imprenditore società del proprio diritto di dismettere l'impresa.

Un altro esempio (anche se relativo ad un singolo caso ben circoscritto) di interesse pubblico impeditivo dello scioglimento della società si ritrova nel dettato del d. l., 31/12/76, n. 877, convertito nella legge 26/2/77, n. 48. Esso stabilisce che sia "sospeso fino al 31/03/77 "nei confronti delle società ed aziende del gruppo EGAM "l'applicazione dell'art. 2447 del codice civile". Ciò nella pratica ha avuto l'effetto di disapplicare anche l'art. 2448, n. 4, c.c. e quindi di impedire la messa in liquidazione della società.

Fatte salve le ipotesi sopra indicate, in generale nulla osta a che l'assemblea decida, con le modalità previste, l'anticipato scioglimento della società. E nel caso di specie la determinazione del momento dal quale decorrono gli effetti è estremamente semplice: essendo la delibera elemento costitutivo della causa di scioglimento, gli effetti decorreranno senza dubbio dalla data stessa della delibera o, meglio ancora, dalla data, sempre indicata nella delibera, dalla quale l'assemblea vuole abbia inizio la messa in liquidazione della società. Infatti l'assemblea può procrastinare di qualche tempo lo scioglimento, in attesa, ad esempio, della conclusione di un particolare affare.

Di norma alla delibera di anticipato scioglimento della società è accompagnata quella di nomina dei liquidatori. Questa seconda delibera è del tutto autonoma dalla precedente, tanto che non è soggetta al vaglio del Tribunale, ma (come la delibera che modifica la composizione dell'organo liquidatorio) solo al deposito, all'iscrizione nel registro delle imprese ed alla pubblicazione sul BUSARL.

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Le altre cause previste dall'atto costitutivo

È opinione comune che i soci, nella stesura dello statuto possano solo arricchire le fattispecie estintive del rapporto sociale e giammai ridurle o affievolirne la portata.

Ciò premesso notiamo che la previsione legislativa della possibilità per i soci di determinare che la società si estingua in seguito al verificarsi di una condizione da loro stessi individuata è in realtà assai poco sfruttata. Ciò perché la fissazione di ulteriori cause di scioglimento mal si concilia con il ruolo economico che normalmente svolge la società per azioni, costituita assai di rado per il compimento di singoli affari, o lo sfruttamento di particolari occasioni economiche. Normalmente le società per azioni vengono costituite per durare a lungo nel tempo, con una struttura in grado di adattarsi ai cambiamenti dell'ambiente esterno e proseguire, appena ve ne sia la possibilità, nella creazione di nuova ricchezza a favore dei soci.

Esistono tuttavia esempi di clausole statutarie di scioglimento che fanno riferimento a situazioni tra loro estremamente varie. Alcune sono spesso semplicemente migliori specificazioni delle cause di scioglimento già previste dalla legge ed hanno lo scopo di superare le normali incertezze intorno al loro verificarsi o di agevolarne l'accertamento. Altre sono ritagliate su misura intorno alla realtà economica o sociale della società a cui si riferiscono e possono riguardare:

  • il venir meno di determinati contratti, licenze, concessioni o brevetti;
  • il verificarsi di eventi eccezionali, prevedibili ma non attesi;
  • la morte o altri eventi di interesse sociale che accadano a uno o più soci;
  • eventi che accadano ad altre società in qualche modo collegate.
  • la chiusura in perdita di un certo numero di esercizi o il raggiungimento di un tetto massimo prefissato di perdite
  • il verificarsi di particolari eventi (guerre, calamità)

L'unico limite che l'autonomia privata incontra nell'ideazione di possibili cause di scioglimento è la possibile violazione di norme inderogabili di legge.

Sicuramente il primo limite da non valicare è il principio dell'operatività di diritto delle cause di scioglimento.

Sempre in tema di scioglimento il Bolaffi osserva, a proposito della società semplice ma l'osservazione è parzialmente valida anche per la società per azioni, che la clausola che contenesse la rinuncia dei soci alla possibilità dell'anticipato scioglimento non avrebbe un reale effetto vincolante. Infatti la deliberazione di anticipato scioglimento è essa stessa modificativa dell'atto costitutivo e sottoposta alla maggioranza qualificata dell'assemblea straordinaria, quindi una delibera di anticipato scioglimento implicitamente ha anche valore abrogativo della previgente clausola limitativa.

L'effetto delle clausole statutarie che prevedano cause di scioglimento atipiche sono, ovviamente, identici a quelli delle cause tipiche.

Il verificarsi della causa di scioglimento deve essere accertato dal consiglio di amministrazione con delibera soggetta ad iscrizione nel registro delle imprese e a pubblicazione sul BUSARL.

Per il caso in cui l'organo amministrativo non provveda, si rimanda a quanto già detto per la causa di cui al n. 1 dell'art. 2448 c.c..

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Il provvedimento dell'autorità governativa

L'art. 2448, 2° comma, prevede un'ulteriore causa di scioglimento della società: il provvedimento dell'autorità governativa. La legge infatti può stabilire, per le società che abbiano come scopo sociale l'esercizio di determinate categorie di imprese, una particolare causa di scioglimento. Tale causa si concretizza in un provvedimento dell'autorità governativa, o di altri enti amministrativi che da essa promanano, il quale dispone lo scioglimento della società per motivi di interesse pubblico o per manifesta insolvenza e la sua conseguente liquidazione coattiva.

La società oggetto del provvedimento governativo si trova in stato di liquidazione dal momento in cui il provvedimento viene emanato. Entro 10 giorni dalla data di emissione esso deve essere pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica a cura dell'autorità emittente ed entro 15 giorni dalla comunicazione alla società deve (il compito è degli amministratori) essere depositato in copia autentica per l'iscrizione nel registro delle imprese e, ancora, pubblicato sul BUSARL (art. 2449, 7° comma, c.c.).

La disciplina generale della liquidazione coatta amministrativa è contenuta negli articoli 194 - 215 della legge fallimentare e nelle leggi speciali che la prevedono per i singoli enti. La disciplina speciale prevale su quella generale, con l'eccezione di alcune norme che il legislatore qualifica come inderogabili.

L'istituto della liquidazione coatta amministrativa risale ad epoca ormai remota; esso rappresenta la concreta manifestazione dell'idea che appartenga allo Stato anche il dovere di indirizzare l'economia nazionale e quindi il diritto e il potere di influenzarne il naturale corso anche con interventi di tipo dirigistico. Nato come mezzo per limitare i danni derivanti dall'insolvenza di enti pubblici operanti nel settore creditizio, la liquidazione coatta ha con il tempo espanso la propria sfera di influenza inglobando numerosi altri settori economici ed estendendo i propri effetti anche sui soggetti di diritto privato. Vertice di questa espansione fu l'originaria codificazione del 1942, nella quale, con la previsione di un ordine corporativo comprendente ogni attività d'impresa, si assoggettava ogni imprenditore alla disciplina della liquidazione coattiva, se tale misura fosse stata ritenuta opportuna nell'interesse della produzione o per evitare danni all'economia nazionale.

Ridimensionato, con l'abolizione dell'ordinamento corporativo, il potere di intervento dello Stato sull'impresa, restano in ogni caso assoggettabili al procedimento di liquidazione coatta amministrativa, sostitutiva o alternativa al fallimento e alla liquidazione volontaria, una comunque cospicua serie di imprese. In esse la legge, stante il riflesso che il loro dissesto o una liquidazione mal condotta possono avere sul corretto funzionamento dell'economia nazionale, vede preponderante, in confronto con il rispetto delle regole del mercato e della libertà di iniziativa economica, l'interesse dello Stato. Interesse che si vuole tutelare con l'obbligo che la procedura di liquidazione sia retta da un organo nominato da un ente governativo che abbia anche il compito di sorvegliarne lo svolgimento. Rientrano nel novero delle imprese soggette a questo tipo di procedura le imprese di credito, di assicurazioni, di gestione fiduciaria dei patrimoni, i consorzi e le associazioni di cooperative, i consorzi industriali obbligatori e le società per azioni verso le quali lo Stato abbia crediti notevolmente superiori al capitale azionario.

La liquidazione coatta amministrativa, al pari del fallimento, è un procedimento concorsuale organizzato tenendo conto dell'interesse della generalità dei creditori, ma, poiché ha scopi diversi dalla semplice tutela dei creditori, a differenza del fallimento, è sottratto alla competenza dell'autorità giudiziaria per essere affidato ad una autorità amministrativa, ritenuta dal legislatore più idonea a perseguire tali scopi.

Durante la procedura di liquidazione la società ovviamente sopravvive, gli organi sociali non vengono disciolti ma cessano di operare ed è loro impedita qualsiasi forma di ingerenza nell'attività liquidatoria.

La chiusura della liquidazione coatta è regolata dall'art. 213 l.f.. All'ultimo comma la norma prevede che una volta terminata la liquidazione, con l'approvazione del bilancio, del conto della gestione e del piano di riparto, il commissario liquidatore possa chiedere la cancellazione della società. L'espressione utilizzata dal legislatore "se del caso" è certamente da intendersi non tanto come espressione di discrezionalità, per cui il commissario liquidatore può chiedere la cancellazione se lo ritiene opportuno, quanto come un indicazione di necessarietà dell'azione se l'impresa sottoposta a liquidazione è stata esercitata in una delle forme per le quali il richiamo all'art. 2456 c.c. ha significato. Non si deve infatti dimenticare che la legge fallimentare fa genericamente riferimento ad imprese, senza specificare in quale forma esercitate. Solo le successive previsioni legislative si può dire abbiano costruito un sistema nel quale le imprese assoggettabili a liquidazione coatta possono essere organizzate pressoché solo in forma di società di capitali (ad esempio gli istituti di credito o gli enti assicurativi).

Lo scopo di tale prescrizione è piuttosto evidente. Non è desiderabile che un impresa liquidata coattivamente possa continuare ad esistere al termine della procedura. Poiché, infatti, la procedura è volta all'eliminazione, sotto il controllo dell'autorità amministrativa, dei soggetti che è interesse pubblico interrompano la propria attività, occorre anche provvedere alla cancellazione della società dal registro delle imprese se si vuole che l'ente cessi di esistere. Il richiamo all'art. 2456 c.c. non è previsto per il fallimento proprio perché, pur sottostando entrambe le procedure al principio della concorsualità, sono differenti gli interessi che tutelano. Il fallimento ha lo scopo di soddisfare al meglio i creditori mentre la liquidazione coatta quello di eliminare ordinatamente soggetti non più ritenuti, per motivi di interesse pubblico, idonei ad operare.

Il provvedimento governativo quindi, non solo scioglie la società, ma addirittura, se non interviene un concordato ad interrompere la procedura di liquidazione coatta, la conduce all'estinzione.

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La dichiarazione di fallimento

A norma degli art. 5 e seguenti l.f., quando un imprenditore si trova nell'incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, con sentenza pronunciata in camera di consiglio viene dichiarato fallito dal Tribunale competente.

La sentenza dichiarativa di fallimento ha, come accennato in precedenza, tra gli altri, l'effetto di sciogliere la società. È facilmente intuibile la ragione per la quale l'insolvenza di una società è causa del suo scioglimento: l'ordinamento non può tollerare che continui ad operare un ente palesemente non in grado di adempiere con regolarità alle proprie obbligazioni. Quindi, oltre ad assoggettarlo ad una particolare disciplina della liquidazione del patrimonio, ispirata a criteri di equità di trattamento (e di sacrificio) tra tutti i creditori, si preoccupa di portarlo sulla strada dell'estinzione, compiendone il primo e decisivo passo.

Durante il fallimento gli organi sociali vengono privati della possibilità di amministrare i beni sociali ma non vengono sciolti. Infatti è possibile che l'assemblea deliberi un concordato fallimentare e agli amministratori resta la rappresentanza legale della società e, quindi, una serie di incombenze che la legge non pone espressamente in capo al curatore (es. dichiarazione ICIAP o dichiarazioni all'INPS) in quanto spettanti al legale rappresentante della società.

La sentenza dichiarativa del fallimento deve essere iscritta nel registro delle imprese e pubblicata sul BUSARL a norma dell'art. 2449 c.c.. Inoltre l'art. 17 l.f. dispone che un'estratto della sentenza sia notificato al debitore e nel caso di società anche al legale rappresentante, al curatore, ai creditori istanti, sia affisso alla porta esterna del Tribunale, comunicato al Pubblico Ministero, alla cancelleria del Tribunale nella cui circoscrizione la società sia stata costituita ed infine pubblicato sul Fogli degli Annunci Legali della provincia.

Altre disposizioni e la consuetudine delle cancellerie delle sezioni fallimentari prevedono che tale notizia sia inviata anche alla camera di Commercio, al consiglio e all'archivio Notarile, agli uffici dell'amministrazione finanziaria dello Stato (Ufficio Imposta sul Valore Aggiunto, Direzione regionale delle entrate, Direzione compartimentale delle dogane) ed infine alle poste affinché venga eseguito quanto prescritto dall'art. 48 l.f.

Questo articolato sistema di pubblicità legale è reso necessario dal fatto che gli effetti della sentenza dichiarativa del fallimento si producono a partire dal momento del suo venire ad esistenza con il deposito presso la cancelleria del Tribunale. È quindi necessario fornire la massima informazione ai terzi onde evitare che possano interagire con la società fallita ignorandone l'intervenuto fallimento.

Anche lo scioglimento della società avviene con decorrenza immediata dal momento del deposito della sentenza dichiarativa.

Come già visto per il caso del provvedimento governativo che dispone la liquidazione coatta amministrativa, la sentenza dichiarativa di fallimento anche se non sospende gli organi sociali ne riduce le funzioni. Analogamente viene avviata una liquidazione delle attività e delle passività sociali ad opera di un organo esterno alla società (il curatore) e sotto la guida ed il controllo del Tribunale e di un giudice delegato.

L'aspetto che maggiormente differenzia la disciplina dei due istituti riguarda viceversa il momento della chiusura della procedura. Mentre infatti la chiusura della liquidazione coatta comporta l'estinzione della società, altrettanto non accade per il fallimento, alla chiusura del quale la società continua ad esistere.

Esamineremo in un paragrafo successivo le considerevoli implicazioni di questo fatto.

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Il mancato ripristino nei termini di legge del rapporto tra azioni ordinarie e azioni di risparmio alterato a seguito di una riduzione di capitale per perdite

La riduzione del capitale per perdite, quand'anche non incida sul capitale in misura tale da ridurlo al di sotto del minimo legale, può comunque provocare lo scioglimento della società se l'ammontare delle azioni di risparmio e delle azioni con voto limitato risulta superiore alla metà del capitale sociale residuo e il corretto rapporto non venga ristabilito entro i termini previsti dall'art. 15, comma 8°, della legge 216/74, e cioè tre mesi se la parte di capitale rappresentato da azioni ordinarie si è ridotto a meno di un quarto, due anni negli altri casi.

Il motivo per cui la legge prevede una sanzione tanto pesante nei confronti delle società nelle quali sia stato semplicemente violato il rapporto numerico tra azioni ordinarie e azioni a voto limitato è piuttosto evidente. Il legislatore, con l'istituzione delle azioni di risparmio e a voto limitato, ha voluto fornire alle società un ulteriore mezzo per attingere al pubblico risparmio ed ottenere finanziamenti e capitale di rischio per l'impresa. Tuttavia al fine di evitare abusi è stata introdotta una serie di limiti e di controlli sulla qualità dell'emittente delle azioni a voto limitato. Il controllo è assicurato dal fatto che solo le società quotate in borsa hanno diritto di emettere simili titoli e questo garantisce che su di esse vengano esercitati tutti i poteri di sorveglianza che spettano alla Consob. Il limite è costituito dalla previsione legale che il valore nominale delle azioni a voto limitato non può mai superare il 50 % del capitale sociale. La ratio di questa norma è chiaramente quella di mantenere integro il principio che chi vuole prende le decisioni deve rischiare in proprio.

Se infatti fosse possibile non rispettare la proporzione tra azioni a voto limitato e azioni ordinarie si avrebbe che, in caso di perdite, a reggere le sorti della società sia chiamata una esigua minoranza del capitale di rischio, portatrice delle azioni ordinarie, mentre la restante parte, diventata proporzionalmente maggioritaria, non avrebbe voce in capitolo con palese violazione del principio sopra enunciato.

L'evento che causa lo scioglimento è certamente il mancato ripianamento delle perdite con il conseguente ritorno al rapporto di almeno due a uno tra le due diverse categorie di azioni, entro il termine stabilito dalla legge. In questo contesto quindi, il momento da cui decorrono gli effetti dello scioglimento è ravvisabile nell'inutile decorso del termine di due anni (o tre mesi) dalla data in cui il capitale si è ridotto per le perdite.

Per ciò che riguarda l'esatta individuazione del momento in cui si sono verificate le perdite che hanno inciso sulla consistenza del capitale sociale ci sembra possibile richiamare quanto già detto per la causa di scioglimento di cui all'art. 2448, n. 4. Appare infatti evidente che la questione è perfettamente identica, con l'unica differenza che rispetto alla fattispecie delineata dalla norma citata si ha una proroga di tre mesi o due anni.

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La dichiarazione di nullità ex art. 2332 c.c.

L'art. 2332 c.c. prevede, al quarto comma, che la sentenza che dichiara la nullità della società per azioni debba contemporaneamente nominarne i liquidatori.

La lettera del comma citato lascia quindi intendere che a seguito della pronuncia di nullità la società debba essere considerata in stato di liquidazione, ciò perché altrimenti non avrebbe senso la contestuale nomina dei liquidatori. La dottrina pressoché unanime accoglie questa interpretazione.

La sentenza dichiarativa della nullità della società ha valore di accertamento costitutivo. Tale valore si desume dagli effetti che la sentenza produce. Effetti che, una volta ottemperate le formalità pubblicitarie, hanno validità erga omnes.

Non essendo, però, previsto alcun meccanismo per l'immediata o provvisoria esecutività di tale sentenza accertativa, essa diventa efficace con il suo passaggio a giudicato. Pertanto la società nulla si viene a trovare in stato di liquidazione esattamente dal momento del passaggio in giudicato della sentenza. Appare inoltre chiaro, dalla preoccupazione che il legislatore dimostra nel disciplinare gli effetti della sentenza dichiarativa, che essa ha efficacia ex nunc e lascia del tutto inalterati gli atti compiuti in precedenza in nome della società.

È importante sottolineare che le cause di nullità della società non sono affatto configurabili come ulteriori cause di scioglimento, in aggiunta a quelle previste dall'art. 2448. Infatti, mentre le cause di scioglimento operano ex lege ed immediatamente per il solo fatto di essersi verificate, le cause di nullità portano allo scioglimento della società solo indirettamente per il tramite di una sentenza che dichiari la nullità della società. In altre parole, mentre in presenza di una qualunque delle cause di scioglimento la società si scioglie, in presenza di una qualunque causa di nullità, la società non si scioglie fino al momento in cui non intervenga una sentenza definitiva che ne dichiari la nullità: non è la causa di nullità che pone la società in stato di liquidazione, ma la sentenza che questa nullità accerta. Tant'è vero che fino al momento in cui la sentenza dichiarativa della nullità non è passata in giudicato, la società esiste ed opera del tutto normalmente. Né esiste alcuna prescrizione affine a quella contenuta nell'art. 2449 c.c., che ponga una responsabilità a carico degli amministratori per le operazioni compiute in nome della società nulla. Inoltre la società può addirittura sanare la propria situazione di nullità apportando, ad esempio, le necessarie modifiche allo statuto sociale.

Lo scioglimento derivante dall'accertata nullità ha, senza dubbio, un valore sanzionatorio nei confronti della società e, soprattutto, dei soci che per lo svolgimento dei propri affari hanno costituito una società priva di uno dei requisiti che la legge impone. Come abbiamo visto in precedenza l'ordinamento non tollera che possa continuare ad operare un ente che non risponda ai requisiti minimi richiesti per la sua validità o che si sia costituito in modo difforme da quanto previsto dalla legge. La reazione è quindi nella direzione dell'eliminazione del soggetto dalla vita giuridica ed economica.

L'aver individuato nello scopo sanzionatorio la ragione dello scioglimento della società per la nullità dell'atto costitutivo consente a qualche autore di pensare che ai soci sia sottratta la possibilità di intervenire nella liquidazione della società. Altri, più correttamente, rileva che il procedimento di liquidazione, in assenza di una deroga esplicita, si deve svolgere secondo le regole consuete, e quindi resta nella disponibilità dei soci che possono sostituire i liquidatori o addirittura revocare la liquidazione nel caso sia possibile rimuovere la causa di nullità.

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Società sportive professionistiche

La legge 23 marzo 1981, n. 91, ha introdotto nell'ordinamento societario italiano la nuova figura della "società sportiva professionistica". In pratica la legge ha disposto che solo i sodalizi organizzati in forma di società di capitali possano esercitare l'attività sportiva a livelli professionistici. Il professionismo o meno di un determinato livello di pratica sportiva viene definito dalle singole federazioni sportive nazionali.

Gli interessi, non solo economici, che ruotano attorno alla pratica dello sport sono enormemente cresciuti negli ultimi anni nel contesto sociale italiano e hanno raggiunto una dimensione e una rilevanza di tale evidenza che è inutile ogni sottolineatura ulteriore. Stante

l'importanza che l'attività sportiva ha assunto, il legislatore ha ritenuto necessario provvedere alla tutela di un tale patrimonio con un meccanismo agile ma allo stesso tempo efficace. Tale meccanismo è stato identificato nell'obbligo per i sodalizi esercitanti una delle attività sportive considerate professionistiche di adottare, per lo svolgimento della propria attività, la forma della società di capitali. Come contrappeso delle maggiori difficoltà organizzative che la variazione della forma societaria comporta, viene istituito un nuovo tipo di contratto di lavoro di valore generale che definisce con chiarezza ed univocità, facendolo uscire dalla zona d'incertezza ed ombra in cui con il passare degli anni era precipitato, il rapporto tra lo sportivo professionista e la società sportiva. Inoltre, in aggiunta alle consuete cautele legate alla forma societaria sono stati previsti ulteriori controlli sugli atti di maggiore rilevanza da esercitarsi da parte delle federazioni sportive nazionali.

Il sistema è condivisibile, in quanto se la forma della società di capitali è ritenuta portatrice di sufficienti garanzie per la gestione della gran parte dell'attività economica della nazione, sarà ancor più adatta, con l'aggiunta di ulteriori cautele e controlli, per la gestione del fenomeno sportivo, importante ma in valori assoluti decisamente non confrontabile.

È opportuno sottolineare che il sodalizio sportivo, adottando la forma di società di capitali, ne adotta in pieno anche il modello organizzativo, senza eccezione di sorta. Questa conclusione è ormai condivisa da consolidata giurisprudenza e dottrina.

Quindi la società sportiva professionistica è soggetta esattamente alle medesime cause scioglimento a cui sono soggette tutte le normali società di capitali. In più, nell'ottica di dare efficacia e reale potere di incidere sulla vita dell'ente ai controlli a cui dette società sono soggette, l'art. 13 della citata legge 91/81 aveva definito una ulteriore e precipua causa di scioglimento. Se infatti l'autorità sportiva, identificata nella federazione a cui risulta affiliata la società sportiva, avesse riscontrato gravi irregolarità di gestione, tali da compromettere il funzionamento della società, o da distorcere le finalità prettamente sportive della società e dell'ordinamento speciale di cui fa parte, o da mettere in pericolo il corretto svolgimento della pratica sportiva, essa aveva la possibilità di richiedere, con ricorso motivato, al competente Tribunale la messa in liquidazione della società.

Nel caso in cui il Tribunale avesse accolto la richiesta e pronunciato lo scioglimento, la società ed i suoi soci non avrebbero perso comunque nessuna delle prerogative ad essi appartenenti. La liquidazione della società sportiva non era prevista come liquidazione amministrata, ma in tutto e per tutto uguale a quella di qualunque altra società di capitale, non essendo state in alcun modo previste procedure differenti. La coattività della liquidazione si fermava quindi al solo provvedimento di scioglimento.

Gli effetti dello scioglimento sarebbero decorsi dal momento in cui il provvedimento costitutivo dell'autorità giudiziaria avesse assunto valore esecutivo.

Pur abrogato l'art. 13 nella sua vecchia stesura, una ulteriore particolarità della società sportiva, con riguardo al suo scioglimento si può riscontrare nel fatto che essendo esse obbligatoriamente costituite per il solo scopo di svolgere attività sportiva e le attività ad esse connesse o strumentali, nel caso in cui la federazione sportiva di appartenenza decidesse una esclusione dal diritto alla disputa dei campionati, la società si troverebbe in stato di liquidazione per l'impossibilità sopraggiunta di raggiungere l'oggetto sociale. Ma questa fattispecie è pienamente aderente a quella usuale per le altre società di capitali, trattate al precedente paragrafo 8.

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Il mancato adeguamento del valore del capitale ai nuovi minimi stabiliti dalla legge

Una causa di scioglimento transitoria è la previsione legislativa di un nuovo valore minimo per il capitale sociale, maggiore di quello precedentemente vigente.

Non si da ovviamente il caso opposto, in quanto un eventuale abbassamento dei limiti minimi di consistenza del capitale sociale lascerebbe le società del tutto indifferenti, con tuttalpiù la possibilità di ridurre la consistenza del proprio capitale.

I motivi per cui, quasi periodicamente, è opportuno siano emanate disposizioni di questo tipo sono fondamentalmente due: il primo è aggiornare i valori del minimo capitale necessario ai livelli significativi nel mondo reale, in cui l'inflazione, erodendo il valore nominale della moneta, svuota il capitale sociale della funzione di tutela patrimoniale dei terzi e di segnale della capacità di funzionamento. Il secondo è invece quello di pervenire alla definitiva eliminazione con la cancellazione ordinata d'ufficio, di società da tempo ferme e del tutto abbandonate per le quali non si è provveduto, per i più vari motivi, alla formale attivazione della liquidazione; una sorta di barriera selettiva che elimina anche dalla vita giuridica i soggetti già dimostratisi incapaci di sopravvivere nella vita economica.

L'ultima occasione in cui tale condizione si è verificata risale alla legge 904 del 16/12/77 che ha previsto l'innalzamento dei minimi di capitale per le società per azioni da Lit. 1.000.000 a Lit. 200.000.000, imponendo come termine per l'adeguamento ai nuovi minimi la data del 30 aprile 1981.

Qui è il medesimo provvedimento legislativo, modificante l'importo dei capitali minimi, a determinare gli effetti del mancato adeguamento. Solitamente la società è posta nell'alternativa o di trasformarsi in società di altro tipo o di sciogliersi secondo modalità specifiche e peculiari alla situazione.

L'art. 11 della legge citata prescrive infatti che "in caso di "inosservanza delle disposizioni del comma precedente la società si "scioglie e gli amministratori devono entro un mese convocare "l'assemblea per le deliberazioni relative alla liquidazione. In difetto di "convocazione o quando siano decorsi due mesi dalla convocazione "senza che l'assemblea abbia provveduto, il liquidatore è nominato "d'ufficio con decreto del presidente del tribunale......".

Il momento da cui decorrono gli effetti dello scioglimento, in questo caso, è perfettamente ed univocamente individuato dal dettato legislativo nella data entro la quale la disposizione deve essere attuata. Dalla mezzanotte e un minuto del giorno successivo tutte le società che non abbiano provveduto ad innalzare il proprio capitale oltre il nuovo minimo o a trasformarsi sono sciolte ex lege e si deve provvedere alla loro liquidazione.

In più, visto lo scopo per il quale è stata emanata la legge, sono previsti particolari termini decisamente stringenti entro i quali iniziare il procedimento di liquidazione. Le società per le quali i soci non hanno voluto provvedere da sé alla liquidazione nel termine stabilito riceveranno ex lege un liquidatore nominato dal presidente del Tribunale il quale provvederà alle necessarie operazioni fino alla cancellazione dell'ente.

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