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Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Cause di scioglimento della società per azioni e rimuovibilità delle stesse - Capitolo III

Capitolo III - Revoca della liquidazione

 

Il problema della revocabilità della liquidazione

La rimozione della causa di scioglimento:

La delibera assembleare di revoca dello stato di liquidazione.

 

Il problema della revocabilità della liquidazione

La prima questione da affrontare riguardo alla revoca della liquidazione è certamente se essa sia o meno possibile. In altre parole bisogna in primo luogo verificare se la revoca sia o no un atto da assoggettare alla verifica di compatibilità ex art. 2451 c.c. con il procedimento di liquidazione.

Infatti se è vero, come abbiamo visto in precedenza, che una volta verificatasi una causa di scioglimento il procedimento di liquidazione non può essere in alcun modo derogato, perché sarebbe privo di significato un procedimento di liquidazione senza il compimento degli atti ad esso preordinati, è legittimo chiedersi se considerazioni analoghe possano valere anche per il caso di revoca della liquidazione.

Per poter affrontare il tema è opportuno definire in via preliminare cosa si deve intendere per revoca della liquidazione (o meglio dello stato di liquidazione). Si ha revoca dello stato di liquidazione quando si ha il ripristino del normale stato di funzionamento della società, con il ritorno allo scopo lucrativo e la ripresa dell'attività di impresa.

La deroga ad uno o più atti di liquidazione sarebbe un atto interno al procedimento liquidatorio e, persistendo lo stato di liquidazione, avrebbe solo l'effetto di modificare il modo di condurre il processo di liquidazione. Mentre resta fermo in ogni caso il risultato finale che si tende ad ottenere, cioè la fine della società. È ovvio, poi, che la deroga di tutto o di parte del procedimento di liquidazione è da sottoporre alla verifica di compatibilità (ex art. 2451 c.c.) con la finalità dello stesso. Verifica che, come abbiamo visto, non sempre è possibile superare.

Al contrario la revoca dello stato di liquidazione è un atto che si colloca al di fuori del procedimento di liquidazione, con lo scopo di interromperne il percorso. Il risultato finale che si desidera ottenere è esattamente l'opposto di quello a cui porta il procedimento di liquidazione: invece della fine della società, la sua prosecuzione.

La liquidazione non è altro che un sistema di regole che governano un procedimento che porta la società da uno stato di normale funzionamento alla cancellazione. Ogni atto della società che abbia fini liquidativi e influisca sulla liquidazione deve essere confrontato con questo sistema di regole e deve risultare compatibile con esso. La revoca dello stato di liquidazione è un atto con fini estranei a quelli della liquidazione, che si colloca al di fuori del procedimento liquidativo di cui non deve, né può, seguire le regole, perché esso possiede la forza di sostituire queste regole (le regole della liquidazione) con altre (quelle del normale funzionamento).

Quindi, proprio per la sua totale estraneità alla logica della liquidazione, non avrebbe significato pretendere per la revoca dello stato di liquidazione l'impossibile rispetto del principio di compatibilità.

Da un punto di vista esclusivamente logico, perciò non vi sono ostacoli ad ammettere la possibilità di revoca dello stato di liquidazione.

Esaminando invece la questione sotto il profilo giuridico formale, è facile notare che mentre appare certo, perché chiaramente affermato dal codice civile, che per le società di persone lo stato di liquidazione possa essere revocato con la rimozione delle cause che lo hanno prodotto, tale certezza viene meno per le società di capitali.

Infatti, per le società di persone la revocabilità della liquidazione si desume, sostanzialmente per estensione, in assenza di una proposizione restrittiva, dal contenuto dell'art. 2273 c.c., a norma del quale il decorso del termine non scatena gli effetti dello scioglimento (stato di liquidazione) quando i soci continuano a compiere operazioni sociali o, in altro modo, manifestano la volontà di superare il limite di durata imposto dall'atto costitutivo. Discorso identico non può essere fatto per le società di capitali per le quali l'istituto della proroga tacita non è stato previsto. Né è possibile argomentare in via analogica dalla disciplina delle società di persone, stante la diversa struttura organizzativa dei due tipi di società. Osserva, infatti, giustamente la Corte di Cassazione che : "A ciò osta il rigido sistema di formalità "che regola la società .... di capitali, regime di formalità che impedisce "di configurare la cosiddetta "deliberazione tacita", cui in definitiva la "revoca dello stato di liquidazione dovrebbe ricondursi. Ammettere la "revoca tacita dello stato di liquidazione per le società di capitali "equivarrebbe a frustrare tutta la normativa esistente in tema di "funzionamento e di deliberazioni di tale tipo di società".

Tuttavia, anche se non è possibile ricorrere all'argomento dell'analogia con le società di persone, dottrina e giurisprudenza, escluse alcune voci decisamente isolate, ritengono che la revoca della liquidazione sia possibile anche nelle società di capitali purché ne vengano rispettati i formali principi di funzionamento.

Tale convinzione è originata dall'osservazione che la legge si preoccupa di disciplinare almeno un modo particolare di revoca dello stato di liquidazione, quello conseguente alla perdita di porzioni qualificate del capitale sociale. Da ciò si inferisce in primo luogo, che la revoca dello stato di liquidazione non è un istituto alieno all'ordinamento societario voluto dal legislatore, tanto è vero che in quella particolare situazione la revoca della liquidazione è possibile e positivamente disciplinata. In secondo luogo, e soprattutto, che, non essendovi alcuna norma che la vieti, la revoca della liquidazione dovrebbe essere possibile anche in relazione alle altre cause di scioglimento. In questa ottica il silenzio del legislatore viene

correttamente interpretato non come negazione della possibilità di revoca della liquidazione ma come affermazione che il particolare procedimento delineato per porre rimedio alla riduzione del capitale per perdite abbia valore solo in riferimento a questa specifica causa di scioglimento, per il particolare rilievo che essa possiede nell'ordinario svolgersi della vita delle società. Presupposta quindi la possibilità di operare la revoca dello stato di liquidazione occorrerà solo verificare quale sia la corretta procedura da seguire per lo scioglimento provocato da cause diverse dalla riduzione del capitale al di sotto del minimo.

Un ulteriore argomento a favore della possibilità di revocare la liquidazione deriva dalla constatazione che, come si è visto nel capitolo precedente, la maggior parte delle cause di scioglimento promanano dalla volontà dei soci (che si esprime in azioni od omissioni che portano allo scioglimento). Siccome anche durante la liquidazione la società sopravvive e la sua organizzazione continua a porsi come strumento di esecuzione del contratto sociale, in assenza di un preciso divieto, è possibile che i soci, tramite l'assemblea sociale, manifestino la propria volontà di riattivare la società. A questo punto non si vede per quale motivo, essendo la società "cosa" dei soci ed essendo i soci arbitri della vita della società, in assenza di specifici divieti, possa essere loro impedito di tornare sulle proprie decisioni e, compiendo oggi le azioni in precedenza omesse o compiendo oggi azioni di effetto contrario a quelle compiute in precedenza, riportare all'attività la società.

Sul punto si è autorevolmente espressa la Corte di Cassazione. Essa afferma che dalla "concorde volontà (dei soci) può essere pure "revocata la liquidazione intrapresa. Le relative deliberazioni dei soci "che, eliminando la causa di scioglimento o revocando la liquidazione, "manifestano la volontà che la società debba continuare a vivere senza "soluzione di continuità, non danno luogo alla costituzione di un nuovo "ente separato e distinto dal precedente, ma importano la reviviscenza "dell'ente disciolto e il suo ritorno allo stato antecedente il verificarsi "della causa di scioglimento".

Posto, quindi, che sia possibile ritenere legittima la revoca della liquidazione, occorre chiedersi se esistono dei limiti per l'esercizio di tale facoltà e per mezzo di quale strumento essa possa essere attuata.

Un'altra questione da esaminare concerne l'esistenza o meno di termini entro i quali obbligatoriamente debba essere effettuata la revoca della liquidazione.

È facile intuire che, in assenza di disposizioni specifiche, non esiste un particolare termine a quo: dopo l'avvenuto scioglimento ogni momento è utile per revocare la liquidazione.

Più complessa è la questione se esista un termine ad quem, un termine, cioè, oltre il quale la revoca non risulti più possibile.

Sul tema si è pronunciata anche la Corte di Cassazione che ha così espresso il proprio orientamento: "la revoca del provvedimento di "liquidazione di una società e la ripresa dell'attività sociale che può, "nelle forme di legge, essere deliberato dall'assemblea sociale prima "che la liquidazione sia portata a termine, non comporta la "ricostituzione di un nuovo ente distinto e separato dal precedente". Questa decisione, pur rispondendo a questione differente, ribadisce per inciso , in primo luogo la possibilità della revoca della liquidazione, ed in secondo luogo ne fissa il termine. Il limite temporale entro il quale può avvenire la revoca della liquidazione resta individuato dall'espressione "prima che la liquidazione sia portata a termine". E per termine della liquidazione si deve intendere l'inizio della distribuzione del residuo attivo ai soci dopo la redazione del bilancio finale di liquidazione. Questa conclusione, già ricavabile dalle disposizioni specifiche sulla procedura liquidativa (artt. 2453 e 2454 c.c.) è rafforzata dal contenuto dell'art. 2501, 2° comma, c.c. che impedisce alle società in liquidazione, che abbiano già iniziato la distribuzione dell'attivo, di partecipare ad una fusione.

Accertato che la possibilità di revocare la liquidazione ha come riferimenti temporali solo il verificarsi della causa di scioglimento e l'inizio della distribuzione dell'attivo, vediamo ora attraverso quali strumenti quel risultato può essere conseguito.

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La rimozione della causa di scioglimento

La già citata sentenza della Corte di Cassazione, 21 luglio 1960, n. 2068 , stabilisce che la ripresa dell'attività della società deve avvenire "nel rispetto delle forme di legge". Preso alla lettera l'inciso appare banale. Come potrebbe essere infatti possibile revocare la liquidazione con un atto che si svolga in forme contrarie alla legge? In verità l'opinione della Suprema Corte solleva importanti questioni. Non esiste, infatti, nel codice una norma generale che si occupi di disciplinare la revoca dello stato di liquidazione e perciò ogni indicazione in proposito deve essere desunta per via interpretativa. Il problema è quello di individuare quale sia nella pratica la disciplina da applicare.

Sulla questione ci sono state negli anni posizioni diverse che nel seguito saranno analizzate approfonditamente.

La giurisprudenza che ha confermato la possibilità di operare la revoca dello stato di liquidazione si è anche occupata di stabilire quali siano le condizioni necessarie per ottenere tale risultato e ha individuato quale debba essere lo strumento giuridico da adottare.

È oggi fuor di dubbio che per revocare la liquidazione occorra in primo luogo eliminare la causa dello scioglimento.

La rimozione dell'evento che ha provocato lo scioglimento è elemento imprescindibile al fine di ottenere il ritorno alla normale attività dell'ente societario, in quanto la persistenza di una qualunque delle cause di scioglimento mantiene la società in stato di liquidazione e quindi in re ipsa impedisce la ripresa dell'attività.

Alcune delle cause di scioglimento esaminate nel capitolo precedente possono essere raggruppate in categorie e rimosse con modalità identiche. Ciò comporta che quanto diremo per una di esse avrà valore anche per le cause di scioglimento affini.

Tra i diversi criteri utilizzabili al fine di raggruppare per caratteristiche omogenee le differenti cause di scioglimento, vi è certamente quello che fa perno sulla matrice volitiva dalla quale ciascuna causa deriva. Sotto questo profilo è possibile distinguere: a) cause di scioglimento che trovano la loro fonte in una manifestazione di volontà dei soci; b) cause di scioglimento operanti ex lege al verificarsi di ben determinate situazioni; c) cause di scioglimento derivanti da provvedimenti dell'autorità giudiziaria o amministrativa.

Questa classificazione diventa utile perché in base ad essa è possibile determinare in quale modo i poteri dell'assemblea della società siano influenzati dallo scioglimento, e di riflesso quindi, quali siano le possibilità di arrivare alla rimozione della causa che lo ha determinato.

Il decorso del termine

Questa causa di scioglimento appartiene senza dubbio al primo gruppo, in quanto essa è espressione della chiara volontà dei soci di far terminare la società nel particolare momento identificato in sede di costituzione. In tale situazione non è configurabile alcuna limitazione ai poteri dell'assemblea. Una volta stabilito che la liquidazione è revocabile, per la delibera che rimuove la causa di scioglimento non si pone alcun problema di compatibilità con lo stato di liquidazione. La norma dell'art. 2451 c.c. parla infatti di compatibilità con riferimento alle delibere destinate ad operare all'interno del procedimento di liquidazione (aumento del capitale o sua riduzione per esuberanza, spostamento della sede, ecc.).

Se, infatti, la revoca della liquidazione è in linea di principio atto possibile, la causa di scioglimento consistente nello spirare del termine può essere facilmente rimossa con l'assegnazione alla società di un nuovo termine di scadenza. E poiché il termine iniziale era stato fissato nell'atto costitutivo occorrerà provvedere ad una modifica dell'atto costitutivo.

Come osservato in precedenza non esistono nel codice regole che disciplinino in via specifica la rimozione delle cause di scioglimento e la revoca della liquidazione. Sarà allora necessario procedere secondo i principi generali.

Nelle società in stato di normale funzionamento, qualora si voglia introdurre una modifica dello statuto si provvede alla convocazione di un'assemblea straordinaria che, con le maggioranze previste dagli artt. 2368 e ss., delibera la modificazione. Nel caso in esame ci si può chiedere se lo stato di liquidazione influenza la regola del normale funzionamento assembleare. La risposta non può che essere negativa. Infatti non appare possibile ipotizzare un metodo per modificare lo statuto sociale che non passi attraverso la deliberazione dell'assemblea. Né vi è motivo di ritenere che l'assemblea che modifica lo statuto possa non essere un assemblea straordinaria. D'altra parte nessuna norma condiziona questo iter operativo alla permanenza o meno della società in stato di normale funzionamento, né alcuna norma, in caso di stato di liquidazione, impone comportamenti differenti.

Sarà quindi l'assemblea straordinaria della società a manifestare la volontà dei soci di proseguire l'attività nonostante l'avvenuto verificarsi della causa di scioglimento, attraverso una delibera che, modificando l'atto costitutivo originario, introduca un nuovo termine di durata della società.

La delibera modificativa dell'atto costitutivo è soggetta ad omologazione ed alla pubblicità legale prevista dagli artt. 2436 e 2411 c.c.. Osserviamo a tal proposito che una delibera che si limitasse a revocare lo stato di liquidazione senza alcun riferimento alla causa che lo ha determinato e alla sua rimozione, dovrebbe ritenersi invalida e non omologabile per l'impossibilità in cui verrebbe a trovarsi il Tribunale di esercitare il dovuto controllo sul permanere o meno della causa di scioglimento.

Quanto abbiamo detto fin qui lascerebbe intendere che naturalmente, rimanendo invariata la procedura da seguire per ottenere una variazione statutaria, rimanga invariato rispetto a quanto usualmente accade nelle società in normale funzionamento anche il quorum necessario perché la delibera diretta a rimuovere la causa di scioglimento e a ripristinare l'attività dell'ente sia valida ed efficace. In realtà sul punto per anni si è svolta una accesissima disputa tra gli studiosi, che ha visto prevalere alternativamente sia la tesi che vuole immutato, anche in caso di liquidazione, il funzionamento della società secondo il principio maggioritario, sia quella che vuole che la regola maggioritaria resti travolta al verificarsi della causa di scioglimento dalla necessità che le deliberazioni che hanno incidenza sul diritto del socio alla quota di liquidazione siano adottate con l'unanimità dei voti dei soci.

La questione è di grande complessità e di rilievo assoluto, e la sua soluzione in un senso o nell'altro comporta importanti conseguenze per la revoca dello stato di liquidazione originato da una qualunque delle cause di scioglimento. Proprio per la sua complessità dedicheremo al problema un apposito paragrafo successivo.

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Il conseguimento dell'oggetto sociale

Al fine di rispettare la classificazione delle cause di scioglimento introdotta in precedenza è opportuno scindere le cause di scioglimento relative all'oggetto sociale, di cui al n. 2 dell'art. 2448 c.c., nelle due fattispecie ivi previste. Infatti il conseguimento dell'oggetto sociale, dal punto di vista della matrice volitiva, essendo un fatto di origine interna alla società va distinto dall'impossibilità di raggiungere l'oggetto sociale che è il risultato di un fatto che, il più delle volte, deriva dall'esterno. Il conseguimento dell'oggetto sociale appartiene dunque alla prima categoria dei casi di scioglimento che abbiamo individuato.

Al momento di costituire la società i soci si sono dati un obbiettivo da raggiungere e attraverso l'attività esercitata alla fine il traguardo è stato raggiunto. A questo punto la società non ha più alcuna ragione di continuare a vivere ed entra in stato di liquidazione. I soci, però, possono liberamente decidere di mantenere in vita l'organizzazione che hanno creato affidandole nuovi obbiettivi da perseguire. Questa scelta dipende esclusivamente dalla loro volontà e non è influenzata in alcun modo da accadimenti esterni alla società. Come si vede, rispetto allo scioglimento per avvenuto decorso del termine nulla muta con riguardo al rapporto tra la causa dello scioglimento e il potere dei soci di intervenire su di essa. Anche l'oggetto sociale, come il termine di durata della società, è un elemento del contratto assolutamente disponibile dai soci, che lo determinano liberamente secondo la loro propria convenienza. Resta perciò valido, anche per il conseguimento dell'oggetto sociale, tutto quanto si è detto in precedenza circa la rimozione della causa di scioglimento relativa alla scadenza del termine di durata.

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La sopravvenuta impossibilità di conseguire l'oggetto sociale

Lo scioglimento per impossibilità di conseguire l'oggetto sociale si colloca nel secondo dei gruppi in cui si è deciso di classificare le cause di scioglimento. Qui la causa di scioglimento non appare riconducibile alla volontà dei soci, ma promana direttamente dalla legge, stante il sopravvenire di un fatto relativo alla società ma esterno ad essa, che ne impedisce lo svolgimento dell'attività.

Lo stato di liquidazione dovuto a questo secondo gruppo di cause non può perciò essere revocato con un semplice atto volitivo dell'assemblea, che di per sé non è idoneo a rimuovere l'evento che la legge pone a base dello scioglimento.

Nel caso specifico l'oggetto sociale dovrebbe tornare da impossibile a possibile perché successivamente l'assemblea possa manifestare la volontà dei soci di riportare la società in attività.

In assenza di tale evento, anch'esso esterno, la liquidazione non può essere revocata. Vi osta, infatti, come abbiamo appena detto, il permanere della causa di scioglimento.

È però anche vero che l'assemblea continua a possedere la facoltà di modificare l'oggetto sociale, scegliendone uno nuovo e diverso, proprio al fine di rendere possibile la revoca della liquidazione. Però si tratterà allora non di un rimedio che rimuove la causa specifica di scioglimento (l'oggetto sociale originario continua a rimanere impossibile) ma di una revoca che aggira l'ostacolo dell'impossibilità di conseguire l'oggetto sociale, assegnando alla società un diverso oggetto. In definitiva quindi, in caso di scioglimento causato da impossibilità sopravvenuta dell'oggetto sociale, una revoca pura e semplice dello stato di liquidazione può aver luogo solo se l'oggetto sociale ritorna ad essere possibile.

Quando ciò non si verifica non resta ai soci altra via, per revocare lo stato di liquidazione, che ricorrere al procedimento indiretto della modifica dell'oggetto sociale.

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L'impossibilità di funzionamento o la continuata inattività dell'assemblea

Questa causa di scioglimento appartiene al primo dei gruppi identificati in precedenza. Essa è dovuta alla disfunzione dell'organo assembleare e la revoca della liquidazione deve perciò necessariamente passare attraverso la riattivazione dell'assemblea.

Questo vuol dire che prima che possa essere revocata la liquidazione l'assemblea deve provvedere a dimostrare la propria ritrovata capacità di decidere, prendendosi carico di tutte le necessarie delibere in precedenza omesse. L'assemblea che delibera la revoca della liquidazione è certamente un'assemblea che dimostra con i fatti di essere attiva ed in grado di funzionare, tuttavia una delibera di revoca della liquidazione che non fosse preceduta dalle deliberazioni omesse nel passato non sortirebbe effetto alcuno. Mancherebbe infatti la rimozione della causa di scioglimento. Abbiamo visto in precedenza che la società si scioglie non per il fatto che l'assemblea sia stata genericamente inattiva o incapace di deliberare, ma per il non aver l'assemblea preso quelle specifiche deliberazioni che si ritengono indispensabili al funzionamento della società. Ergo non basta una generica dimostrazione di vitalità dell'assemblea per rimuovere la causa di scioglimento; è indispensabile che l'assemblea, tornata attiva, finalmente deliberi su quei medesimi argomenti sui quali non era stata in grado di deliberare.

Rimossa così la causa dello scioglimento, diventa possibile la revoca dello stato di liquidazione.

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La riduzione del capitale al di sotto del minimo legale

Questa causa di scioglimento appartiene con evidenza al secondo dei gruppi identificati. Certamente, tra tutte, questa causa di scioglimento è una delle più frequenti che sia possibile riscontrare nella pratica. Di ciò il legislatore è consapevole, tanto da aver previsto esplicitamente il modo di arrivare alla revoca della liquidazione da essa causata.

L'art 2448 c.c., al n. 4, prevede che la società si sciolga se il capitale si riduce al di sotto del limite legale ma viene fatto salvo il contenuto dell'art. 2447 c.c.. Ovvero che, se a causa di perdite eccedenti il terzo del capitale, questo si riduce sotto il minimo, gli amministratori devono convocare l'assemblea perché adotti i provvedimenti relativi alla liquidazione già in corso o la revochi trasformando la società o aumentandone il capitale al di sopra del minimo.

È facile vedere nel sistema delineato la stessa struttura osservata con riferimento alle altre cause di scioglimento già esaminate: si ha una causa di scioglimento che pone la società in liquidazione, l'assemblea può quindi decidere di rimuovere la causa dello scioglimento riportando la società all'attività oppure lasciare che la liquidazione segua il suo corso. La particolarità della previsione degli artt. 2448 e 2447 c.c. consiste nel fatto che in essi viene palesato il concetto che lo scioglimento è revocabile e viene individuato un preciso percorso da seguire. Per meglio dire, il legislatore ha previsto un meccanismo che in un certo senso forza i soci a decidere molto in fretta quale sorte dovrà subire la loro società. Non si tratta però di una formulazione neutra, anzi, è molto marcata la spinta a decidere per la prosecuzione della società. Infatti mentre le due alternative per rimuovere la causa di scioglimento vengono chiaramente espresse non si fa menzione della possibilità di proseguire la liquidazione. Nel sistema del codice esiste un chiaro favor societatis, una chiara tendenza del legislatore a facilitare la vita e la sopravvivenza della società, con l'adozione di una serie di meccanismi tali da preservare il più possibile l'organizzazione e l'attività delle società. Nel caso di specie è previsto che l'assemblea debba essere convocata "senza indugio" (termine generico che è da ritenersi più breve dei trenta giorni che l'art. 2449 fissa per le altre cause di scioglimento) e con una chiara indicazione delle delibere da prendere. L'articolo 2447 c.c., come si è detto, risponde solo alla domanda "cosa fare per evitare la prosecuzione della liquidazione ?" e sembra voler indurre i soci a rimettere la società in stato di normale funzionamento, lasciando che la prosecuzione della liquidazione resti una possibilità residuale. Questo schema è esattamente il contrario di quello adottato per le altre cause di scioglimento, per le quali è esplicitamente regolato solo il caso di prosecuzione della liquidazione. Ciò deriva dalla considerazione che in tutte le altre occasioni si ha scioglimento a causa di eventi facilmente controllabili dai soci che con un minimo di attenzione avrebbero potuto evitare che la causa di scioglimento venisse ad esistere (si pensi alla scadenza del termine); oppure a causa di eventi completamente al di fuori della possibilità di intervento dei soci (si pensi al provvedimento dell'autorità governativa). Perciò il legislatore presuppone che nelle situazioni appena indicate i soci abbiano più che altro necessità di sapere come comportarsi per arrivare alla cancellazione della società, non avendo voluto o potuto evitare lo scioglimento. L'evento perdita del capitale è invece un fatto il più delle volte improvviso, dovuto a situazioni non previste, che colpisce società pienamente operanti e i cui soci sono quasi sempre interessati a proseguire l'attività. Ora, poiché la conservazione dell'ente sociale è vista favorevolmente, nel caso di specie, la legge dà maggiore evidenza alla possibilità di impedire la prosecuzione della liquidazione e ne illustra i mezzi. Il codice fornisce quindi la risposta più adeguata alle varie situazioni di scioglimento verificatasi: dove è più probabile la volontà di proseguire la società indica come fare a revocare la liquidazione, dove è più probabile la volontà di arrivare alla cancellazione, illustra quali siano le procedure obbligatorie per arrivare a tale risultato.

Il percorso da seguire per rimuovere la causa di scioglimento dovuta alla riduzione del capitale al di sotto del minimo è dunque evidente ed esplicitato dal codice: occorre una delibera che riporti il capitale al di sopra del minimo o che trasformi la società da società per azioni ad un altro tipo societario, che potrà essere la società a responsabilità limitata ovvero anche una società di persone.

È opinione prevalente che la delibera di aumento del capitale o di trasformazione della società, assunta in sede di assemblea convocata ex art 2447 c.c., sia soggetta alle consuete maggioranze previste per l'assemblea straordinaria.

È da osservare inoltre che i prospettati rimedi per ottenere la rimozione della causa di scioglimento hanno valore anche se attuati in un'assemblea diversa da quella convocata ex art. 2447 c.c.. Qualora infatti i soci in un primo momento non provvedessero alla revoca della liquidazione, e successivamente in base a considerazioni diverse decidessero di darvi corso, nulla cambierebbe: strumento necessario sarebbe pur sempre la ricapitalizzazione della società o la sua trasformazione.

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La deliberazione dell'assemblea

Questa causa di scioglimento è sicuramente inquadrabile nel primo dei gruppi individuati, tanto da poterne essere considerata il prototipo. È infatti questo il caso in cui la causa di scioglimento è solo ed esclusivamente legata alla volontà diretta ed espressa dei soci: la società si scioglie per un preciso atto di volontà dei soci. La rimozione di questa causa di scioglimento non potrà, pertanto, aver luogo che attraverso un nuovo atto di volontà di segno contrario al precedente.

Si ha qui un fenomeno inverso a quello che si verifica negli altri casi di scioglimento. Là, infatti, il ripristino della normale attività dell'ente è conseguente alla rimozione della causa di scioglimento. Qui al contrario, la volontà diretta a ripristinare l'attività è essa stessa rimozione della causa di scioglimento. In altri termini, la delibera dei soci che revoca lo stato di liquidazione elimina ad un tempo anche la causa che l'ha determinato.

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Le altre cause previste dall'atto costitutivo

Poiché le cause di scioglimento volute dai soci ed inserite nell'atto costitutivo e nello statuto della società possono essere di varia natura e di estrema diversità, non è facile stabile in quale modo possano essere rimosse nel caso in cui i soci intendono revocare lo stato di liquidazione da esse prodotto. Sarebbe necessario esaminare singolarmente ciascuna previsione di scioglimento onde individuare il mezzo più opportuno per giungere alla sua rimozione. Non è, tuttavia, impossibile individuare un principio generale al quale attenersi. Come

abbiamo visto in precedenza (cfr. paragrafo 12) le cause di scioglimento introdotte dai soci nello statuto sociale operano secondo il medesimo principio che governa lo scioglimento anticipato per deliberazione assembleare. Esse rappresentano semplicemente la previsione statutaria di un evento al cui verificarsi i soci vogliono che sia collegato, fin dalla fase iniziale del rapporto sociale, lo scioglimento anticipato.

In quanto (almeno nella generalità dei casi) manifestazione della volontà sociale di porre la società in liquidazione, per quanto anticipata addirittura al momento della costituzione, le cause di scioglimento previste dallo statuto si possono collocare nella prima delle tre categorie già delineate, e con queste condividono la caratteristica di essere agevolmente rimuovibili.

In prima istanza i soci dovranno, se possibile, verificare che la causa di scioglimento sia sempre esistente (ad es. se la società si è sciolta per la mancata sottoscrizione di un accordo commerciale tra due soggetti terzi, che poi l'accordo non sia stato sottoscritto). In seconda battuta, se la causa di scioglimento persiste (ad es. la morte di uno dei soci), possono, come avviene nel caso di scioglimento per scadenza del termine, dare corso ad una modifica dello statuto che elimini la clausola predetta. Ciò perché lo scioglimento che si verifica a causa di una clausola statutaria, essendo, come visto, del tutto equivalente ad una manifestazione, sia pure anticipata, della volontà dei soci, può essere superato da una nuova manifestazione di volontà in sede assembleare, a nulla rilevando che la società sia o meno in stato di liquidazione.

Rimossa la causa dello scioglimento e revocata così la liquidazione, la società potrà riprendere la sua normale attività.

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Il provvedimento dell'autorità governativa

Il caso di scioglimento dovuto a provvedimento dell'autorità governativa appartiene senza dubbio alla terza delle categorie individuate. L'atto, infatti, promana da un soggetto estraneo alla società e può essere motivato anche da circostanze che riguardano solo marginalmente la società. I soci non hanno nessuna possibilità di intervento su questa causa di scioglimento, tanto più che la legge prevede che l'assemblea cessi la propria attività. In caso di liquidazione coatta i soci subiscono in realtà una completa espropriazione del loro potere di indirizzo e controllo della società a favore dell'autorità amministrativa che ha disposto il provvedimento di messa in liquidazione.

La liquidazione coatta, a differenza del fallimento, si conclude, per il richiamo dell'ultimo comma dell'art 213 l.f. all'art. 2456 c.c., con la cancellazione della società. Questo fatto comporta come importante conseguenza che, salvo il caso di proposizione ed accettazione di un concordato (che consente alla società di riprendere la propria attività), lo stato di liquidazione dovuto al verificarsi di questa particolare causa non è revocabile per un atto dell'assemblea ma solo per un atto della medesima autorità che ha disposto la liquidazione.

Se l'autorità amministrativa non revoca il proprio provvedimento di messa in liquidazione la società arriverà, al termine dell'intero procedimento, direttamente alla cancellazione e non sarà in alcun momento possibile revocare la liquidazione.

Ciò resta vero anche per il caso in cui la società voglia proporre un concordato. Infatti, ex art 214 l.f., anche la proposta di concordato deve essere preventivamente autorizzata dall'autorità che vigila sulla liquidazione. In assenza di tale autorizzazione, il concordato non può essere proposto e la liquidazione proseguirà il suo corso.

La via del concordato, sebbene questo debba in ogni caso essere sottoposto ad autorizzazione amministrativa, resta comunque l'unica praticabile dai soci per ottenere la revoca della liquidazione. Verosimilmente essa è riservata alle sole società poste in liquidazione coatta a causa di insolvenza, mentre non pare possa attagliarsi al caso di scioglimento per motivi di ordine pubblico, ricorra o meno una situazione di dissesto patrimoniale. Osserviamo che l'art. 200 l.f. introduce una parziale eccezione alla regola della cessazione delle funzioni degli organi societari conseguente al provvedimento di liquidazione coatta. L'eccezione riguarda appunto, la proposizione di un concordato. Esso, infatti, deve essere predisposto dagli amministratori della società, approvato dall'assemblea straordinaria ed omologato, poi, dal Tribunale. Con la sentenza che omologa il concordato gli organi societari tornano alle proprie funzioni e la società riprende la sua attività. Ma è solo con la completa esecuzione del concordato che la causa di scioglimento può dirsi rimossa in via definitiva. Infatti risoluzione e annullamento del concordato comportano la ripresa della liquidazione coatta.

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La dichiarazione di fallimento

Anche questa causa di scioglimento si inquadra nel terzo gruppo. Riveste una notevole importanza perché insieme alla delibera di anticipato scioglimento e alla perdita del capitale oltre il minimo rappresenta una delle cause che ricorrono più frequentemente.

Finché il fallimento è aperto non è possibile revocare la liquidazione della società, né i soci hanno alcuna possibilità di influire sull'andamento della procedura, accelerandola o rallentandola (eccetto il caso di concordato).

Di rimozione della causa di scioglimento può parlarsi solo a fallimento chiuso. Con la chiusura del fallimento, infatti, l'assemblea, e gli altri organi sociali rientrano in possesso dei loro poteri. Tralasciando la questione della convenienza o meno di riportare in attività una società fallita, che il più delle volte ha alle sue spalle una complessa storia di dissesto economico e normalmente esce dal fallimento svuotata di ogni contenuto, sia patrimoniale che organizzativo, vediamo quali sono i casi di chiusura della procedura concorsuale.

L'art. 118 l.f. li elenca così:

  • mancanza di domande di ammissione allo stato passivo
  • pagamento integrale dei creditori e delle spese di procedura
  • ripartizione finale dell'attivo
  • insufficienza di attivo.
  • Ad essi va aggiunto il caso del concordato.

La chiusura del fallimento fa tornare la società, come si suol dire, "in bonis" ovvero cessa lo stato di pignoramento generale causato dal fallimento e la società è reimmessa nel possesso dei propri beni e nel godimento dei propri diritti.

Estinta la causa di scioglimento, anche lo stato di liquidazione dovrebbe ritenersi cessato, con la conseguenza che, almeno a certe condizioni, la società potrebbe riprendere l'attività (specie se esiste un residuo attivo di una certa entità e tale da superare il capitale minimo). Ma proprio su questo punto sia la dottrina che la giurisprudenza manifestano opinioni discordanti che portano ad ipotizzare tre differenti scenari: cessazione automatica dello stato di liquidazione alla chiusura del fallimento; continuazione di quello stato fino alla cancellazione della società; estinzione della società alla chiusura del fallimento.

Cominciando dall'ultima ipotesi, notiamo che una certa giurisprudenza, con lo scopo di introdurre elementi di razionalizzazione del sistema, ha sostenuto che la chiusura del fallimento comporta di per sé sola l'estinzione della società. L'intento è certamente lodevole, ma forza troppo la mano al dettato normativo che in nessun luogo prevede questo effetto del decreto che chiude la procedura fallimentare. Un meccanismo di estinzione automatica della società non è previsto nemmeno dalla disciplina della liquidazione coatta, per la quale, se del caso, agli adempimenti necessari alla cancellazione della società deve provvedere il commissario liquidatore. Resta perciò valida la regola generale che subordina alla formalità della cancellazione (per la prevalente giurisprudenza necessaria ma non sufficiente) l'estinguersi della società.

Assodato che la società permane in vita anche dopo la chiusura del fallimento, il problema si restringe all'accertamento del perdurare o meno dello stato di liquidazione. La questione in sintesi è se, posto che la sentenza dichiarativa di fallimento ha la forza di porre la società in stato di liquidazione, il decreto che chiude la procedura fallimentare, rimuovendone la causa, comporti anche il cessare di quel particolare stato.

In primo luogo appare chiaro che fallimento e liquidazione sono due procedure che, pur avendo diversi punti di contatto, sono estremamente diverse sia per lo scopo perseguito, sia per i mezzi e le modalità con le quali questo scopo viene perseguito, sia per gli interessi che tutelano. La possibilità che il fallimento si chiuda con un residuo attivo anche non liquido (es. fabbricati, attrezzature, beni immateriali) mostra con evidenza che il fallimento non può assorbire in toto la liquidazione.

A sottolineare l'indipendenza reciproca delle due procedure vi è poi il fatto che al quesito se le società regolari possono venire dichiarate fallite anche dopo la cancellazione dal registro delle imprese, e quindi chiaramente al termine della procedura di liquidazione, la dottrina ha risposto, in analogia a quanto accade nel caso di morte dell'imprenditore individuale, che anche per le società è possibile ai

creditori chiedere il fallimento entro l'anno dalla cancellazione, sempre che lo stato di insolvenza si sia manifestato anteriormente o entro l'anno successivo. Con la dichiarazione di fallimento della società la distribuzione del residuo attivo ai soci perde efficacia nei confronti della massa e tale attivo, oltre a quello derivante dalle possibili azioni del curatore, viene acquisito a favore dei creditori.

A ben vedere quindi liquidazione e fallimento sono legate da una corrispondenza solo univoca e non biunivoca: da una sentenza di fallimento discende necessariamente lo stato di liquidazione ma non vale il contrario per cui dall'essere la società in stato di liquidazione non deriva, se non autonomamente e per cause proprie, il fallimento.

Il legame tra l'apertura del fallimento e l'instaurarsi di dello stato di liquidazione si fonda sul preciso disposto dell'art. 2448, 2° comma, c.c.. Non esiste invece una disposizione specifica che disciplini gli effetti del decreto di chiusura del procedimento concorsuale sulla posizione della società. Manca, in altri termini una norma che preveda quale debba essere il destino della società al termine del fallimento: se cioè, perdurando lo stato di liquidazione, questa procedura dovrà proseguire nei modi ordinari fino alla cancellazione della società, oppure se, rimossa la causa che ha determinato lo stato di liquidazione (fallimento), anche questa viene a cadere.

Dottrina e la giurisprudenza sono divise, anche se parte preponderante delle opinioni e delle decisioni appare orientata per l'ipotesi della persistenza dello stato di liquidazione.

A favore di questa tesi può, forse, trarsi argomento dall'art. 120 l.f. che enunciando gli effetti della chiusura del fallimento non parla di revoca dello stato di liquidazione. In nessun luogo del codice poi esiste una norma che regoli tale evenienza e in via interpretativa si sostiene che il silenzio del legislatore non può sottintendere altro che neanche con la chiusura del fallimento lo stato della società muta, non essendo possibile che una simile evento non sia stato espressamente previsto.

Tuttavia la medesima constatazione (il silenzio del legislatore) fornisce argomenti anche ai sostenitori della tesi della revoca automatica dello stato di liquidazione, non essendo tale evenienza esplicitamente esclusa. Si sostiene che la chiusura del fallimento abbia gli stessi effetti della sua revoca, ovvero che fatti salvi gli effetti degli atti legalmente compiuti, tutti gli altri effetti propri della sentenza dichiarativa spariscano. In questo senso la formulazione dell'art. 120 l.f. è considerata ellittica, in quanto indica con la parola patrimonio un insieme di beni e diritti assai esteso, ricomprendente anche lo stato legale in cui la società è venuta a trovarsi a causa del fallimento. Un esempio di questa linea di pensiero è riscontrabile in una sentenza della Corte di Appello di Torino nella quale si sostiene che se alla chiusura del fallimento residua il capitale necessario e sufficiente, la società può riprendere la sua attività e l'eventuale delibera assembleare che accerti l'inesistenza attuale della causa di scioglimento ha valore solo ricognitivo della circostanza che nulla osta a che la società ritorni al suo normale funzionamento.

La dottrina critica la decisione della corte torinese rilevando la mancanza di una indicazione in tal senso nel dettato normativo e le difficoltà che una simile impostazione trova sul fronte della pubblicità legale. La sentenza della corte d'appello riformava la decisione di primo grado del Tribunale di Torino che aderendo all'opinione prevalente, riteneva persistente lo stato di liquidazione (determinato ex lege dalla sentenza dichiarativa di fallimento) anche dopo la chiusura del fallimento per pagamento integrale dei creditori insinuati ed ammessi.

Ed è questa seconda concezione che appare ormai consolidata anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione.

In definitiva quindi è possibile affermare che secondo l'opinione prevalente la chiusura del fallimento non comporta il venir meno dello stato di liquidazione. Per la sua revoca sarà perciò necessaria un'apposita delibera dell'assemblea straordinaria della società.

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Il mancato ripristino, nei termini di legge, del rapporto tra azioni ordinarie e azioni di risparmio alterato a seguito di una riduzione di capitale per perdite

Questa causa di scioglimento appare, per il suo modo di operare, assai simile alla riduzione del capitale al di sotto del minimo legale. Infatti la presenza di azioni a voto limitato introduce una sorta di nuovo limite del capitale minimo: se la società vuole mantenere parte del proprio capitale sotto forma di azioni di risparmio deve prevedere che le azioni senza limitazione di voto siano almeno il doppio di quelle a voto limitato. Quando questo rapporto risulta alterato a causa di perdite, l'alternativa allo scioglimento è l'aumento del capitale in forma

di azioni ordinarie o la riduzione della quota di azioni a voto limitato. Anche questa causa di scioglimento appartiene al secondo gruppo. Essa opera ex lege e la revoca dello stato di liquidazione può aver luogo solo attraverso la rimozione della causa che lo ha prodotto.

Valgono per questa situazione osservazioni analoghe a quelle che abbiamo formulato in relazione al caso di riduzione del capitale al di sotto del minimo.

Resta da evidenziare che in verità il verificarsi di questa specifica causa è assai raro visto che i tempi previsti per giungere all'adeguamento, prima dell'ingresso della società in stato di liquidazione, sono sufficientemente ampi per permettere ai soci di ponderare accuratamente la situazione. Essendo allora la liquidazione un evento voluto è ancor più raro il caso che i soci vogliano in seguito revocarla.

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La dichiarazione di nullità ex art. 2332 c.c.

Questa causa di scioglimento appartiene al terzo dei gruppi che abbiamo individuato, in quanto discende da una pronuncia giudiziaria di nullità della società. Si tratta di un evento esterno alla società e perciò indisponibile dai soci. Una volta pronunciata la sentenza di nullità, la liquidazione non può che avere il suo corso fino alla cancellazione della società dal registro delle imprese.

L'unico rimedio allo scioglimento dovuto a nullità della società è di tipo preventivo. L'art 2332 c.c. dispone, infatti, al quinto comma, che la nullità non può essere dichiarata se la sua causa è stata eliminata per effetto di una modificazione dell'atto costitutivo iscritta nel registro delle imprese. I soci che vogliono evitare la liquidazione (evitare e non revocare) non hanno perciò altra via che quella di modificare l'atto costitutivo rimediando alla carenza di uno dei requisiti elencati al primo comma dell'art. 2332 c.c.. L'eliminazione della causa di nullità, anche se non interrompe il processo accertativo da parte del Tribunale, impedisce la pronuncia di nullità.

Come si vede questa soluzione elimina la causa di scioglimento (pronuncia giudiziale) prima che essa venga ad esistenza e si instauri lo stato di liquidazione. Emessa, invece, la sentenza di nullità non è possibile ai soci revocare la liquidazione per l'impossibilità di eliminare la pronuncia giudiziale che l'ha determinata.

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Società sportive professionistiche

Lo scioglimento di società sportiva professionistica, decretato dal Tribunale in seguito a specifica richiesta della federazione sportiva nazionale alla quale è affiliata la società sportiva, era una causa di scioglimento appartenente alla terza delle categorie individuate. Infatti i soci della società sportiva non avrebbero potuto rimuovere la causa di scioglimento a loro piacimento, in quanto essa dipendeva dal provvedimento del Tribunale stimolato da un ente autonomo ed esterno alla società stessa. Era quindi necessario per poter giungere alla revoca della liquidazione che la federazione sportiva nazionale, ovvero l'unico soggetto dotato di legittimazione attiva, richiedesse la revoca del provvedimento di scioglimento della società. Se il Tribunale avesse accolto la nuova domanda della federazione sportiva, la causa di scioglimento sarebbe stata rimossa e la società avrebbe potuto riprendere la propria attività.

Per revocare quindi lo stato di liquidazione, i soci di società sportive avrebbero dovuto in primo luogo eliminare le gravi irregolarità che avevano indotto la propria federazione a comminare la sanzione dello scioglimento; in secondo luogo ottenere dalla federazione sportiva nazionale la presentazione al Tribunale di una domanda di revoca della liquidazione. Solo quando il Tribunale avesse provveduto a dichiarare il venir meno della causa di scioglimento, la società avrebbe potuto riprendere la propria attività.

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Il mancato adeguamento del valore del capitale ai nuovi minimi stabiliti dalla legge

Lo scioglimento per il non tempestivo adeguamento del capitale sociale ai nuovi minimi stabiliti dalla legge sembrerebbe appartenere al secondo dei tipi che abbiamo individuato, in quanto con la reintegrazione del capitale fino a somma pari o superiore al nuovo minimo dovrebbe venir meno la situazione oggettiva che la legge individua come presupposto dello scioglimento. Occorre, però, osservare che nel caso di specie lo scioglimento è collegato anche allo spirare di un determinato termine, entro il quale è possibile la regolarizzazione ed ha valore soprattutto sanzionatorio nei confronti delle società inadempienti. Proprio rifacendosi a tale valore la giurisprudenza ha più volte negato la possibilità di revocare la liquidazione, dopo la scadenza del termine, osservando che il valore di sanzione del provvedimento è legato appunto allo spirare del termine ultimo per provvedere all'aumento del capitale.

In realtà le successive pronunzie delle Corti d'Appello hanno stabilito che, al pari dello stato di liquidazione causato da ogni altra causa di scioglimento, anche quello derivante dal mancato adeguamento del capitale ai nuovi minimi nei termini utili, è revocabile se viene eliminata, anche con un aumento di capitale tardivo, la specifica causa di scioglimento che l'ha prodotto. In questa interpretazione il termine previsto dall'art. 11 della legge 16 dicembre 1977 n. 904 (in ordine di tempo l'ultimo provvedimento che ha ritoccato l'ammontare minimo del capitale delle S.p.A.) è visto come una facilitazione concessa alle società esistenti per poter più agevolmente provvedere all'aumento del capitale evitando eccessivi sforzi economici in tempi troppo ristretti. Tale termine non avrebbe perciò rilevanza in quanto termine oltre il quale partono effetti sanzionatori, ma avrebbe solo valore sospensivo della normale previsione di scioglimento dovuto all'insufficienza del capitale.

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La delibera assembleare di revoca dello stato di liquidazione

Nei paragrafi precedenti abbiamo visto che per poter revocare lo stato di liquidazione prodotto dal verificarsi di una causa di

scioglimento della società, occorre necessariamente una delibera assembleare che, attraverso la rimozione della causa di scioglimento, renda possibile il ripristino dell'attività dell'ente. Sul punto dottrina e giurisprudenza sono pienamente concordi. Le opinioni invece divergono e la discussione si fa accesa quando si tratta di stabilire quali caratteristiche deve possedere la delibera predetta.

In sintesi la questione verte sulla circostanza se la delibera debba essere assunta con il consenso unanime dei soci o se sia sufficiente la maggioranza prescritta per le delibere che modificano l'atto costitutivo.

Entrambe le soluzioni presentano sotto il profilo pratico vantaggi e svantaggi consistenti. La prima mette il progetto economico, legato alla vita della società, in balia dei soci di minoranza ed introduce elementi fortemente distorsivi, in quanto espone la maggioranza dei soci alle possibili pressioni anche d'un solo socio possessore di un'unica azione. La seconda non è rispettosa della volontà dei soci di minoranza che potrebbero essere costretti, contro la propria volontà, a mettere nuovamente a rischio il capitale economico, investito nella società, che sembrava destinato a ritornare in loro possesso.

La soluzione che molti ritengono più equa e corretta per ovviare agli inconvenienti denunciati potrebbe consistere nel rendere possibile la revoca con delibera maggioritaria, permettendo però ai soci dissenzienti di esercitare il diritto di recesso. Tuttavia questa via d'uscita, volta a conciliare i due estremi tutelando sia il diritto della maggioranza alla libera iniziativa economica, sia il diritto della minoranza a rientrare in possesso del proprio investimento, può essere prospettata solo come proposta de jure condendo, in quanto la lettera dell'art. 2437 c.c. è estremamente chiara e tassativa nell'indicare i casi in cui all'azionista è consentito il recesso. E il caso di revoca della liquidazione non è preso in considerazione.

Non è pertanto possibile, de jure condito, eludere il dilemma se considerare accettabile la revocabilità a maggioranza (con esclusione del diritto di recesso per i dissenzienti) o la tesi che subordina la revocabilità all'unanime consenso degli azionisti. Occorre necessariamente confrontarsi con il problema e decidere quale sia l'esigenza che lo spirito della legge considera prioritaria e maggiormente degna di tutela.

Come in altri casi, anche qui al centro del problema sta un conflitto di interessi tra soci di maggioranza e soci di minoranza, ed è necessario stabilire quale dei due interessi abbia, agli occhi della legge, valore preminente. Occorre, cioè, chiedersi se l'interesse della maggioranza al ritorno della società alla sua condizione di normale funzionamento sia talmente tutelato da consentire il sacrificio del contrapposto interesse dei soci di minoranza alla prosecuzione della liquidazione fino all'estinzione dell'ente e alla liquidazione della quota, o se viceversa la legge non accordi maggiore tutela proprio all'interesse di quest'ultimi a vedere disinvestito il proprio capitale..

Come abbiamo osservato in precedenza, dottrina e giurisprudenza sono oggi pressoché concordi nel ritenere che l'assemblea possa, con una propria deliberazione, revocare lo stato di liquidazione attraverso la rimozione della causa di scioglimento della società.

Ma dopo questo primo passo le opinioni divergono: una corrente di pensiero è del parere che la revoca debba essere disposta con deliberazione assembleare unanime; un'altra ritiene sufficiente una valida deliberazione maggioritaria.

Delle due, la prima è quella che riscuote maggiori consensi e gode del conforto della giurisprudenza della Cassazione, l'altra è minoritaria ma i suoi argomenti hanno tratto nuova linfa da recenti innovazioni normative.

Esaminiamo nel dettaglio le due tesi, cominciando da quella prevalente.

I sostenitori di questo orientamento osservano, in primo luogo, che il verificarsi della causa di scioglimento determina, da un lato, il mutamento dello scopo della società che da lucrativo si trasforma in liquidatorio, dall'altro il sorgere in capo a ciascun socio del diritto ad ottenere la quota di liquidazione, diritto che viene definito per propria natura assoluto e non intaccabile da altra volontà che non sia quella del suo detentore, perciò indisponibile dalla maggioranza degli altri soci. In secondo luogo si fa notare che, non attribuendo la legge ai soci dissenzienti il diritto di recesso, la delibera della maggioranza che revoca lo stato di liquidazione e consente alla società la ripresa dell'attività, lascia i soci predetti privi di qualsivoglia forma di tutela. Si nega, inoltre, che il richiamo all'art. 2447 c.c., nel caso di scioglimento della società per riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale (art. 2448, n. 4, c.c.), abbia valore in riferimento a cause di scioglimento diverse da questa. Ciò perché nella situazione ipotizzata dalla norma la delibera di ricostituzione del capitale o di trasformazione, adottata a maggioranza, interviene prima dell'apertura del procedimento di liquidazione ed opera come condizione risolutiva della causa di scioglimento, mentre negli altri casi non è prevista alcuna condizione risolutiva.

La fattispecie delineata dall'art. 2447 non ha, dunque, validità generale e la possibilità, prevista dalla norma, di revocare con delibera maggioritaria dell'assemblea lo stato di liquidazione, superando il diritto del socio alla propria quota di liquidazione, vale solo per quella specifica situazione, rimanendo precluso l'esercizio di un simile potere negli altri casi di scioglimento.

A ciò si aggiunge che la delibera di revoca della liquidazione, se non decisa dall'unanimità dei soci, appare in contrasto con il disposto dell'art. 2451 c.c., in quanto incompatibile con lo scopo della liquidazione. La norma, infatti, limita i poteri dell'organo assembleare a decisioni compatibili con la procedura di liquidazione, e non v'è dubbio che questa tenda inevitabilmente all'estinzione e non alla riattivazione della società.

Per qualche autore, l'esigenza dell'unanimità dei consensi emerge inoltre dal rilievo che nello stato di liquidazione la delibera è espressione del potere dispositivo dei soci come singoli e non dell'assemblea, ed ha funzione di documentazione formale del consenso di tutti i soci ai fini dell'omologazione, perché ci si trova di fronte ad un atto con valore identico a quello dell'atto costitutivo.

Infine anche la concezione della società come contratto porta facilmente ad affermare che il verificarsi di una causa di scioglimento libera i soci dal vincolo che li unisce. Vincolo che non può quindi essere né modificato né fatto rivivere se non da una delibera assembleare che sia unanime, ovvero che sia espressione del consenso della medesima unanimità dei soci che al contratto di società diedero inizio. Vero è che l'organizzazione giuridica della società, e quindi tutti i suoi organi, assemblea compresa, durante la liquidazione restano in vita, ma ciò al solo scopo di definire i rapporti sociali pendenti, fino alla cancellazione della società dal registro delle imprese.

Quasi tutti gli argomenti che abbiamo appena esposto, favorevoli alla tesi che esige l'unanimità dei consensi per la delibera di revoca dello stato di liquidazione, sono con chiarezza riportati nella motivazione della sentenza della Corte di Cassazione del 21 aprile 1983, n. 2734.

L'opinione minoritaria, quella cioè che ritiene sufficiente per la revoca dello stato di liquidazione una delibera maggioritaria dell'assemblea straordinaria, nega validità alle motivazioni addotte dalla dottrina avversa e introduce nuovi argomenti a sostegno della propria tesi.

Buona parte di questi argomenti sono stati compiutamente esposti e sviluppati in una sentenza del Tribunale di Genova del 1988 che ha deciso in senso opposto alla sentenza della Corte di Cassazione sopra riportata. Sembra quasi che il Tribunale voglia rispondere punto su punto alle argomentazioni della Cassazione.

La prima questione da chiarire, osserva il Tribunale, è che la delibera assembleare, con la quale si dispone la revoca della liquidazione attraverso la rimozione della causa di scioglimento, non è

atto incompatibile con lo stato di liquidazione in cui la società si trova. La revoca della liquidazione infatti non è evento che l'ordinamento considera inaccettabile o impossibile e quindi la rimozione della causa che l'ha prodotto è in sé atto compatibile con la liquidazione, come ha talvolta ritenuto la stessa Corte di Cassazione. Se così non fosse diverrebbe impossibile revocare la liquidazione anche con il consenso unanime dei soci. Infatti quando un atto è definito incompatibile con lo stato di liquidazione, come ad esempio le delibere che in contrasto con la legge autorizzano nuove operazioni, nemmeno il consenso unanimemente espresso dall'assemblea può sanare tale incompatibilità.

Il dettato normativo dell'art. 2451 c.c., secondo cui "le "disposizioni sulle assemblee ..... si applicano anche durante la "liquidazione, in quanto compatibili con questa", pone un limite alle attività possibili durante lo svolgimento della liquidazione, con significato residuale, riferendosi a quanto dal legislatore non specificatamente regolato. Il limite va inteso nel senso che, perdurando la liquidazione, alcune norme applicabili in situazione normale sono da disapplicare o applicare in senso più restrittivo. La prescrizione ha dunque valore endo liquidatorio, opera cioè all'interno del procedimento liquidativo, mentre non ha rilevanza alcuna al di fuori di esso, quando attraverso la delibera di revoca quella procedura viene a cadere. Appare, inoltre, evidente che la norma è posta a tutela del regolare svolgimento della liquidazione in sé e non a tutela del singolo socio, a sua volta garantito solo di riflesso dal regolare svolgersi delle operazioni di liquidazione. La tutela che il socio ottiene ex. art. 2451 c.c. è quindi indiretta, né potrebbe essere altrimenti se non a costo di ipotizzare che la legge dica cose che in realtà non dice, sostituendo un'interpretazione estensiva ad un dettato normativo restrittivo.

Ma l'elemento della teoria "unanimista", contro il quale vengono rivolte le critiche più severe, è certamente il diritto del socio alla quota di liquidazione. In effetti intorno a questo diritto ruota buona parte del ragionamento che esige l'unanimità dei consensi per la revoca della liquidazione. La dimostrazione dell'insussistenza del diritto in oggetto è perciò un'arma estremamente efficace al fine di mettere in crisi quella costruzione. Che al verificarsi della causa di scioglimento sorga in capo a ciascun socio il diritto soggettivo alla liquidazione della quota è affermazione tutt'affatto indimostrata. Si tratta in realtà di uno pseudo diritto, di una costruzione dottrinaria se non addirittura di un volo pindarico, non essendo quel preteso diritto positivamente previsto in nessuna norma. In effetti nessun articolo del codice menziona un tale diritto. Esso trova cittadinanza solo nel pensiero degli autori e nelle sentenze dei giudici. È chiaro invece che i diritti, quando si interpreta la legge per identificarne il contenuto, devono ricevere la medesima attenzione che si dedica ai privilegi: esistono solo se positivamente previsti dalle norme, e non possono essere desunti per via interpretativa perché in tal modo si finisce con l'introdurre nel sistema immotivate disparità di trattamento e limitazioni alla libertà di altri soggetti. Il verificarsi della causa di scioglimento non genera quindi la pretesa alla liquidazione della quota e, cioè, un diritto in senso proprio, ma solo una legittima aspettativa o, se si preferisce, un diritto astratto che solo con l'approvazione del bilancio finale di liquidazione si trasforma in un diritto concreto e quindi indisponibile con una delibera maggioritaria. Fino a quel momento il diritto è solo potenziale e quindi pienamente disponibile dall'assemblea, tanto quanto il diritto alla percezione degli utili durante la vita normale della società (identica è la radice causale dei due diritti). Proseguendo nel ragionamento, si osserva che l'attribuzione del carattere di indisponibilità (pure in sede di assemblea straordinaria) al preteso diritto del socio alla quota di liquidazione non ha ragion d'essere. Ciò avviene, infatti, in via del tutto aprioristica, come assioma sul quale costruire poi la teoria dell'irrevocabilità a maggioranza dello stato di liquidazione. In assenza di un esplicito dato normativo quell'attributo viene cioè assunto e non dimostrato. Ma un'indagine approfondita sul presunto diritto alla quota di liquidazione porta, invece, alla conclusione che esso ha natura del tutto simile al c.d. diritto agli utili che i soci hanno, durante la normale vita della società, quando dopo aver conferito "beni o servizi per l'esercizio in comune di una attività economica" si attendono legittimamente di poterne realizzare lo scopo, ovvero dividere gli utili (art. 2247 c.c.). La posizione del socio nei due momenti (prima e dopo la cessazione dell'attività sociale) può essere delineata agevolmente considerando come si originano i due diritti (all'utile e alla quota di liquidazione) e quale sia il rispettivo significato economico. Durante la vita della società il socio rinuncia al godimento presente dei propri beni conferiti in società, in vista dell'ottenimento dagli stessi, in virtù dell'impiego in una attività economica, di un maggior frutto, e quindi ha una legittima aspettativa di guadagno futuro. Terminata, per un qualunque motivo, l'attività della società il socio abbandona la speranza di ottenere un guadagno ulteriore dall'investimento dei propri beni in quella specifica attività economica e attende il rientro nel proprio patrimonio di quanto inizialmente messo in comune; sorge quindi in lui una altrettanto legittima aspettativa di restituzione di quanto conferito in società. Si ipotizzi, ora, per proseguire nel ragionamento nel modo più semplice (evitando problematiche di fondamentale importanza nella vita reale ma che nel mondo del diritto non trovano alloggio), che esista un mondo economicamente ideale, stabile, senza inflazione o altre perturbazioni economiche, senza imposte. In tale mondo vengano fondate due società identiche che, ugualmente ben gestite, senza fare debiti, ogni anno producano un utile pari ad una certa percentuale del capitale investito. Con un ulteriore sforzo si immagini che tale utile nell'una sia sempre totalmente distribuito e nell'altra viceversa sia sempre mantenuto all'interno della società. Com'è noto, la decisione su quale delle due strade intraprendere spetta unicamente all'assemblea dei soci che decide a maggioranza in sede ordinaria. Il diritto del socio a ricevere gli utili d'esercizio è con tutta evidenza perfettamente disponibile dalla maggioranza assembleare (anche solo dell'assemblea ordinaria). Proseguendo nel ragionamento arriviamo fino al momento in cui i soci desiderano por fine al proprio rischio economico e decidono di liquidare le società, oppure, si badi che nulla cambia, al momento in cui si verifica una qualunque altra causa di scioglimento (esclusa quella prevista ex art. 2448, n. 4, c.c. per la quale il discorso in oggetto può seguire argomentazioni differenti). Osserviamo le due società: nella prima residuerà il solo capitale iniziale, mentre nella seconda oltre al capitale iniziale si avrà la sommatoria di tutti gli utili fino a quel momento conseguiti. Iniziata la fase di liquidazione per il socio nasce il diritto alla propria quota di liquidazione, diritto che per i soci della prima società coincide con il diritto alla restituzione della propria quota di capitale sociale; mentre per i secondi corrisponde, oltre a tale restituzione, anche alla corresponsione, differita rispetto al periodo di conseguimento, di tutti gli utili fino a quel momento accumulati. Supponendo che sia vera l'ipotesi che vuole che arrivati a questo punto solo l'unanimità dei soci possa ottenere che la liquidazione sia revocata, ci si troverebbe di fronte ad una situazione nella quale lo stesso identico diritto del socio trova differenti tutele a secondo che la società sia o meno in stato di liquidazione, senza che alcuna norma del codice tale diversità di trattamento preveda in alcun modo. Il diritto del socio alla corresponsione dell'utile ricavato dall'attività sociale ha il medesimo contenuto patrimoniale e (ovviamente) la stessa natura giuridica sia prima che dopo il verificarsi della causa di scioglimento, non si vede, pertanto, per quale motivo non debba avere anche il medesimo grado di tutela. Infatti, nell'esempio che abbiamo ipotizzato, il diritto alla quota di liquidazione è prevalentemente diritto del socio a ricevere gli utili della attività sociale, e anzi non è affatto azzardato dire che esso sia il medesimo identico diritto che cambia nome con il mutare dello stato della società. Per quale motivo un diritto, il cui contenuto, i cui beneficiari, i cui obbligati non cambiano deve trovare una tutela così radicalmente diversa a secondo dello stato in cui si trova la società ? Nessun autore tra quelli esaminati fornisce spiegazioni in proposito, né la giurisprudenza è più esplicita. L'ordinamento non lascia in alcun luogo trasparire un atteggiamento più protettivo nei confronti del socio quando la società è in stato di liquidazione. Anzi è certamente orientato in favore della prosecuzione della società ove questa opzione appaia anche solo in ipotesi praticabile: ne è prova il meccanismo previsto dall'art. 2446 c.c., per il caso di perdita del capitale superiore al terzo, secondo il quale viene concesso all'assemblea, prima di dover provvedere alla reintegrazione del capitale perduto o allo scioglimento, un termine utile pari ad un intero esercizio sociale, durante il quale sarà possibile adoperarsi per il risanamento. Altrettanto può dirsi a proposito del meccanismo previsto dall'art. 2447 per l'ancor più grave caso in cui le perdite abbiano ridotto il capitale al di sotto del limite legale. Qui, una volta verificatasi la causa di scioglimento, è possibile revocare la liquidazione con una delibera maggioritaria dell'assemblea straordinaria che riporti il capitale al di sopra del limite legale o trasformi la società (la prosecuzione della liquidazione è ipotesi residuale ed implicita), con l'effetto di sanare la situazione di scioglimento dal momento del suo prodursi. Infine, in tema di società di persone, funzione analoga ha il termine di sei mesi per la ricostituzione della pluralità dei soci previsto dagli artt. 2272 e 2323 c.c.

Si osserva, inoltre, che la diversità di regime ipotizzata tra diritto agli utili e diritto alla quota di liquidazione non può farsi discendere dal fatto che la quota di liquidazione comprende anche il capitale a suo tempo conferito; né può dirsi che il legislatore amputi i poteri dell'assemblea a favore del socio a motivo delle speciali cautele solitamente inerenti alle operazioni che coinvolgano il capitale e a tali fini non voglia fare distinzione tra le varie componenti della quota di liquidazione (capitale conferito, rivalutazione di tale capitale, rendimento del capitale, utile conseguito e non distribuito, rivalutazione dello stesso, ecc.). Infatti, nessuno dei motivi che giustificano la particolare attenzione del legislatore alla tutela dell'integrità del capitale può essere invocato nel caso di specie, ove ci si trova di fronte proprio alla situazione opposta: la maggioranza vuole la sopravvivenza della società al realizzarsi di una causa di scioglimento, mantenendo integre tutte le garanzie patrimoniali che il capitale rappresenta, in contrasto con una minoranza (al limite con il possessore di una sola azione) che viceversa desidera il dissolvimento dell'ente.

I fautori della possibilità di revoca della liquidazione con delibera maggioritaria non mancano poi di far osservare che il principio che governa ogni processo decisionale all'interno della società per azioni è quello maggioritario, e non vi è posto alcuno per differenti soluzioni. Il principio maggioritario è indefettibile nel funzionamento degli organi collegiali ed opera persino nelle più gravi ipotesi degli artt. 2332 (nullità dell'atto costitutivo) e 2447 (riduzione del capitale al di sotto del minimo legale) c.c.. A riprova di ciò, e proprio in relazione ad una specifica causa di scioglimento, si fa notare che l'art. 152 l.f. prevede la possibilità della rimozione dello scioglimento della società derivante dal fallimento con la proposizione di un concordato che deve essere approvato dalla semplice maggioranza dei soci. Inoltre non può non apparire illogico che l'ordinamento consenta esplicitamente all'assemblea, con una deliberazione semplicemente maggioritaria, di mutare lo scopo della società, da lucrativo in liquidatorio, mentre non sarebbe, invece, possibile percorrere la medesima strada in senso in inverso, ovviamente in assenza di uno specifico divieto della legge.

Quanto, poi, all'obiezione, pur prospettata, che la mancata previsione del diritto di recesso a favore dei soci dissenzienti dalla delibera di revoca priverebbe questi ultimi di ogni forma di tutela, il ragionamento può essere ribaltato. Se, infatti, l'art. 2437 c.c. limita il diritto di recesso dei soci dissenzienti alle sole modifiche dell'atto costitutivo dalla norma espressamente previste (oggetto, tipo sociale e trasferimento all'estero della sede), ciò significa che in ogni altro caso quel diritto è escluso. Perciò la mancata previsione di un diritto di recesso, nel caso di specie è una ulteriore prova a favore della tesi maggioritaria, in quanto equipara le modificazioni dell'atto costitutivo necessarie per la revoca dello stato di liquidazione ad una qualunque altra modifica di tale atto per la quale il diritto di recesso non sia stato previsto.

Viene perciò respinta l'osservazione che se il legislatore avesse voluto permettere la revoca della liquidazione con delibera maggioritaria, anche per i casi diversi dalla riduzione del capitale al di sotto del minimo legale, avrebbe previsto un meccanismo analogo a quello delineato dagli art. 2447 c.c.. Contro questa obiezione si argomenta che la particolare disciplina di revoca della liquidazione, prevista per il caso di cui al n. 4 dell'art. 2448 c.c., lungi dall'indicare quale sia l'unica ipotesi in cui lo scioglimento possa essere revocato con delibera assembleare maggioritaria, fissa semplicemente il particolare termine e il modo in cui quella specifica causa di scioglimento può essere rimossa, stante la pericolosità di una situazione in cui il patrimonio della società, unico elemento di garanzia delle obbligazioni assunte nei confronti dei terzi, si sia ridotto al di sotto del limite che la legge considera minimo.

Infine, alle obiezioni tratte dal carattere contrattuale della società, si risponde con la semplice osservazione che i contratti associativi appartengono ad una categoria di contratti del tutto autonoma, per la quale le regole normalmente valide per gli altri contratti valgono solo in parte. Non a caso, infatti, i contratti associativi sono specificamente regolati dal codice nel libro quinto "del lavoro", piuttosto che nel libro quarto "delle obbligazioni", ove è contenuta la disciplina generale e quella propria di tutti i contratti nominati. L'obiezione "contrattualista", non tenendo conto della specificità del contratto associativo, finisce col disconoscere anche la più importante caratteristica che lo differenzia dalle altre tipologie contrattuali: il contratto di società può essere legittimamente modificato durante il periodo di vigenza, semplicemente con la volontà della maggioranza (seppure qualificata) dei contraenti, mantenendo valore normativo anche per contraenti dissenzienti, che non hanno nemmeno la possibilità di svincolarsi dal rapporto sociale se non nei casi tassativamente previsti dalla legge. Dunque che il contratto associativo sia contratto (quantomeno nel suo momento formativo) è cosa fuor di dubbio, ma che esso sia regolato da differenti principi e subisca un destino diverso da quello dei normali contratti sinallagmatici è altrettanto indubbio. Senza azzardare troppo si potrebbe arrivare a dire che il contratto di società dopo la sua stipula, cessa di essere un contratto e si trasforma in qualcosa d'altro, soggetto a regole diverse da quelle usuali per gli altri contratti, più elastiche e quindi adatte a permettere la durata nel tempo della società.

In conclusione, occorre osservare che gli argomenti sopra esposti, unitamente alla riflessione su recenti innovazioni normative in tema di fusione di società, sono stati ritenuti convincenti dal Tribunale di Milano, che ha recentemente mostrato l'intenzione di mutare il proprio consolidato orientamento in tema di revoca dello scioglimento di società di capitali. Tale mutamento di orientamento è testimoniato da una circolare informativa, emessa in data 27 marzo 1996 dal Tribunale di Milano, VIII sezione civile, a firma del presidente Dr. Tarantola ed inviata per conoscenza agli ordini professionali. In essa, a pag. 2, è affermato il seguente principio: "è consentita la revoca dello stato di "liquidazione della società, con le maggioranze previste per le delibere "straordinarie, fintanto che non sia iniziata la distribuzione "dell'attivo".

In effetti il ragionamento seguito dal Tribunale è decisamente lineare. Se a tutti gli argomenti sopra riportati si aggiunge l'analisi della nuova disciplina dettata dal codice in tema di fusione, balza all'occhio che la tesi della revocabilità della liquidazione solo con il consenso unanime di tutti i soci non è più ragionevolmente sostenibile.

L'art. 2501 c.c., nel comma aggiunto dal d. legs.16 gennaio 1991, dispone che la fusione tra società è una operazione vietata solo alle società sottoposte a procedura concorsuale e a quelle in liquidazione che abbiano già iniziato la distribuzione dell'attivo. Da ciò si desume che una società in liquidazione che non abbia ancora iniziato a distribuire il proprio residuo attivo può, senza alcun'altra limitazione, partecipare ad una operazione di fusione, prescindendo dalla causa di scioglimento manifestatasi.

La fusione può far confluire le società fuse in una società che si trovi in stato di normale funzionamento, sia nel caso di fusione propria, che porta alla creazione di un soggetto completamente nuovo, sia in caso di fusione per incorporazione, quando l'incorporante è una società in stato di normale funzionamento.

Il risultato pratico di questa operazione è, molto semplicemente, né più né meno che la revoca della liquidazione.

Orbene, poiché la delibera di fusione deve essere approvata dalla sola maggioranza dell'assemblea straordinaria, ci si trova in una situazione per la quale, seppure per via traversa, è possibile rimettere una società che si trovi in stato di liquidazione in uno stato di normale funzionamento, senza il consenso unanime dei soci, bastando per tutte le operazioni inerenti alla fusione la semplice maggioranza dell'assemblea straordinaria.

Quindi, risultando tecnicamente possibile, e ora previsto dalla legge, ottenere la revoca della liquidazione con l'espressione della volontà della sola maggioranza, il Tribunale di Milano ha ritenuto di dover riconsiderare il proprio convincimento che voleva non ammissibile la revocazione a maggioranza della liquidazione.

L'innovazione legislativa viene a minare le fondamenta su cui si reggeva l'opinione prima prevalente e cioè che la revoca a maggioranza fosse implicitamente vietata dal sistema legislativo. Caduta questa premessa, vanno messe in discussione anche altre certezze, che sembravano ormai acquisite, riguardo al diritto del socio alla quota di liquidazione.

Ed infatti il Tribunale di Milano, tornando a chiedersi da cosa si origini tale diritto e quali ne siano le caratteristiche, giunge alla conclusione, già posta in luce dai critici della teoria prevalente, che in nessun luogo del codice esso risulta positivamente previsto.

Di un diritto del socio alla quota di liquidazione, come conseguenza del verificarsi di una causa di scioglimento, può parlarsi solo in astratto, nello stesso senso in cui si parla del diritto agli utili anche prima della delibera di distribuzione. In ogni caso quel presunto diritto perde l'alone di sacralità e di intangibilità del quale era stato rivestito e diventa pienamente disponibile dalla maggioranza assembleare.

Questa è, per dir così, la rivincita dell'opinione minoritaria, che, dopo anni di accese discussioni, vede riconosciute le proprie ragioni e riceve una consacrazione ufficiale dalle prime sentenze della giurisprudenza.

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