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Gli Sbagli di Vostro Onore, di Luigi GrandeLiber Liber

Copertina | Indice | Introduzione | Parte 01 | Parte 02 | Parte 03 | Parte 04 | Note

Parte 01

1.
L'altra faccia di Temi

L'ESPRESSIONE "la cosca della giustizia" mi è riaffiorata improvvisamente dai recessi della memoria in occasione dell'intervento di Leonardo Sciascia, con una pubblica dichiarazione, circa un "potere", non propriamente legittimo, che potrebbe scaturire, o era scaturito, dagli organismi sorti per la lotta contro la mafia.

Questa discutibilissima espressione, con la quale ho voluto iniziare questo lavoro, mi è tornata in mente con la voce di mio padre. E, da magistrato, da magistrato siciliano (sebbene pių di quarant'anni vissuti nel Nord-Italia abbiano creato un'insuperabile cesura fra me e l'isola dove sono nato), dapprima ne sono rimasto turbato e, quasi, ferito!

Mi sono ricordato, però, che evidentemente mio padre, visceralmente antifascista (con mio gran disappunto perché anch'io, come tutti i ragazzi del "ventennio", intonavo osanna al "fondatore dell'impero"), parlando di "cosca della giustizia" si riferiva a certe manifestazioni e decisioni della magistratura di allora e, molto pių probabilmente, alle decisioni del tribunale speciale per la difesa dello Stato, di nefanda memoria.

Gli organi statali, dunque, che devono rendere giustizia, possono immafiarsi e organizzarsi in una specie di cosca? Certamente. La storia stessa delle origini remotissime della mafia che altro sta a significare se non questo: che alcuni strati sociali, non trovando quella giustizia che si attendevano dalle strutture giudiziarie, dovevano, per proteggere i propri pių elementari diritti, la vita stessa a volte, appoggiarsi a una giustizia extra legem, al favore di un "potente" locale, al detentore di una forza che potesse contrastare o sostituirsi a quella del potere legittimo dello Stato, comunque si chiamasse, Vicerè spagnolo o Regno delle Due Sicilie, potere, o lontano e svagato, o presente e prevaricatore.

Sovente nella storia umana, e nei riverberi che la storia lascia sulle creazioni letterarie, si è parlato della giustizia come di una dea, di una promanazione di Giove stesso, della pių sicura e chiara manifestazione del Dio di Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, di ciò di cui si ha sete e che Gesų ha assicurato sarà saziata. Ma due sono le facce della giustizia.

Come la luna anche la dea della giustizia ha un'altra faccia oltre a quella visibile, ed è una faccia bieca e oscenamente diversa da tutte quelle raffigurazioni ideali che pittori e scultori - Giotto, per esempio, nella Cappella degli Scrovegni, tanto per nominarne uno, ma dei pių grandi - le hanno dato impersonandola in una donna serenamente bella e maestosa con la spada in una mano e la bilancia nell'altra.

Quella faccia bieca, un tempo occultata come quella non visibile della luna per l'occhio terrestre, oggi non può pių essere tenuta nascosta e se appare, come innumerevoli volte è apparsa nel corso della tribolata storia umana, non può pių essere esorcizzata come un fantasma infernale da mettere in fuga e dimenticare, ma va illuminata per essere combattuta.

I greci chiamavano Temi la dea della giustizia, figlia o sposa di Zeus (si sa quanto la mitologia sia variabile presso i vari poeti). Era comunque emanazione della somma divinità. L'idea che il rendere giustizia sia connesso a una funzione divina è propria di tutti i popoli, a cominciare dalle civiltà pių antiche e vi resta connaturata fino ai nostri giorni. I sinonimi giustizia e Temi sono tutt'oggi indifferentemente usati e l'espressione "sacerdoti di Temi", per indicare i magistrati, quasi a sottolinearne la sacertà delle funzioni, abbastanza frequente non pių di qualche decennio fa, non può dirsi che sia del tutto scomparsa. Ha rivelato, tale espressione, un'inconsueta vitalità, perché è sopravvissuta all'idea dell'investitura divina del potere regio, travolta allorché si imposero le idee che prepararono la rivoluzione francese e il sorgere dello "Stato di diritto". Sacerdoti, dunque, li si vuole i giudici e immuni da errori.

Ma chi è che non sbaglia nell'esplicare il proprio lavoro o nell'assolvere alle proprie funzioni? Anche il prete, dice il proverbio popolare, nel dir messa. E se si tentasse di penetrare nel senso popolaresco, nella portata di saggezza comune che tale proverbio contiene, verrebbe messa in luce la "sacralità" della parola, che non può essere diversa da come deve essere. Si pensi, per esempio, alle precise parole che, nei primordi della storia del diritto, agli albori del diritto romano, come di qualsiasi altro diritto, dovevano essere pronunciate perché si potesse raggiungere un determinato effetto giuridico. Guai a non pronunciare quelle parole fissate dalla consuetudine: se io volevo comprare uno schiavo, dovevo dire: «Hunc ego hominem meum esse aio ex jure Quiritum» [2]. E se la lingua mi si imbrogliava e mi dimenticavo un pezzo della formula? Peggio per me, il contratto non si perfezionava. Era la parola l'essenza di tutto. Sacra. Mezzo di cose sacre. E dunque a maggior ragione - secondo il buonsenso popolare - le sacre parole che il sacerdote pronunzia nel rito della messa raggiungono il massimo della sacralità ed è quasi una jattura che tali parole non siano dette come devono essere dette. Del resto non è molto lontano da questi concetti l'insegnamento in merito della Chiesa per quanto si riferisce alla formula che compie il miracolo della transustanziazione, cioè la trasformazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo.

Eppure, dice il proverbio, anche il prete può sbagliare; il sacerdote, anello di congiunzione fra Dio e l'uomo, che con quelle precise parole compie il miracolo eucaristico, può errare.

Chi, dunque, è immune dai rischi dell'errore, chi è così perfetto da non inciampare mai in uno sbaglio?

Né il chirurgo che, sbagliando, può spedire all'altro mondo il malato, né il medico che, errando nella diagnosi, può aggravare la malattia dell'assistito, né l'avvocato che, inciampando nei trabocchetti dei termini processuali o scivolando sulle molte bucce di banana che i codici presentano, compromette un'importante causa civile del proprio cliente, né l'ingegnere che, non avendo studiato bene la natura del terreno su cui la progettata costruzione avrebbe dovuto sorgere, casa o diga che sia, può provocare con la sua negligenza una disgrazia di proporzioni enormi... né qualsiasi altro professionista, artigiano, impiegato, uomo d'affari, operaio.

Perché non dovrebbe, dunque, essere soggetto al pericolo dello sbaglio anche il giudice?

Ma gli sbagli dei giudici hanno un maggior peso nella vita della collettività, non offendono o danneggiano soltanto una persona o un gruppo di persone, offendono l'intero gruppo sociale che nell'attuazione della giustizia ha uno dei suoi principali motivi di coesione. Ogni raggruppamento umano sente l'esigenza elementare che regni la giustizia fra i propri consociati, e di un'amministrazione della giustizia da parte di qualcuno che si ponesse al di sopra delle parti in lite, si profilò la necessità fin da quando gli esseri umani, consociandosi in clan, uscirono dallo stato belluino.

La decisione errata del giudice, il colpevole assolto o, peggio, l'innocente condannato, il torto in una vertenza fra eredi, fra vicini, fra due parti qualsiasi, trionfante sulla ragione, una situazione economica compromessa da un incauto sequestro, una lunga carcerazione inutilmente sofferta (e si potrebbe continuare nell'esemplificazione) sono il sovvertimento di uno dei pilastri su cui la società umana ha bisogno di reggersi.

E, se lo sbaglio è volontario, se il giudice è la diretta emanazione di un potere tirannico che opprime i dissidenti, se il giudice fa parte di una cricca di potenti in lotta con altra cricca, se il giudice è asservito a una fazione politica e di quella esprime, nei suoi deliberata, le direttive, se il giudice è servo degli isterismi della folla, se il giudice è "merce d'acquisto" e si lascia comprare con denaro o con altri vantaggi, allora la parola giustizia è una beffa e i congegni che pretendono di amministrarla non producono altro che ingiustizia.

Ma spesso lo sbaglio può essere involontario. L'innocente può essere stato condannato per un'accusa rivelatasi poi calunniosa. Il torto in una vertenza civile può essere stato premiato da una sentenza vittoriosa per la prevaricazione di una parte: documenti falsi, testimonianze comprate. Il sequestro, dannosissimo per un'azienda, può essere stato capziosamente richiesto presentando una situazione inveritiera. E così via.

Ma, allora, se chi sbaglia paga, come vuole un altro proverbio che la saggezza popolare ci appresta, non dovrebbe pagare anche il giudice i propri sbagli? E come li dovrebbe pagare?

Questo è uno dei problemi che ha creato la risposta data dagli elettori al referendum, che era diretto all'amplificazione della responsabilità del giudice. Si mirava cioè a far pagare al giudice gli sbagli grossolani, e a pagarli di tasca propria: in modo cioè che il danneggiato da un'errata decisione potesse chiamarlo in giudizio a risarcirgli il danno. E questa è la conseguenza del risultato del referendum.

In parole un po' pių tecnicamente precise occorre dire che, in base alle abrogate disposizioni, contenute nel codice di procedura civile, il giudice rispondeva civilmente soltanto nel caso di comportamenti dolosi oppure allorché, senza un giusto motivo e nonostante diffida, non compiva un atto del proprio ministero.

Gli uomini politici che sono ricorsi al mezzo del referendum volevano, in sostanza, che venisse introdotta la responsabilità del giudice per "colpa grave". Ma ottenuto ciò con la risposta degli elettori, il problema degli sbagli del giudice si può dire risolto?

E se il primo sbaglio del giudice fosse l'essersi scelto come lavoro quello del giudicare?

Si potrebbe pensare che io lo chieda a me stesso per quella scontentezza propria di ogni essere umano verso la professione o l'attività scelta e verso la singola condizione, di cui tanto efficacemente ci ha lasciato un quadro il poeta Orazio nella sua prima notissima satira. No, la domanda e il problema hanno un carattere generale.

Sono, allora, un giudice-penitente? Non saprei in coscienza rispondere con assoluta, trasparente sincerità. O anziché penitente dovrei dire pentito, per essere in sintonia con quest'epoca in cui trionfa il "pentitismo" con tutti i suoi risvolti discutibili, quando non, addirittura, infami?

«Che cos'è un giudice-penitente?», si chiede il protagonista monologante (o meglio dialogante con un interlocutore di cui sono sottintesi gli interventi) del lungo racconto di Albert Camus La chute, che è, come forse si ricorderà, un avvocato parigino che s'imbatte ad Amsterdam in uno sconosciuto cui narra la propria storia. «Alcuni anni fa ero avvocato a Parigi, un avvocato abbastanza noto, a dir il vero. M'ero specializzato nelle nobili cause... mi bastava fiutare il minimo odor di vittima su un accusato perché le mie maniche si mettessero in moto... ero sorretto da due sentimenti sinceri: la soddisfazione di trovarmi dalla parte del giusto e un istintivo disprezzo per i giudici in genere. Disprezzo che in fin dei conti forse non era così istintivo: adesso so che aveva le sue ragioni. Ma, visto dall'esterno, assomigliava piuttosto a una passione. Non si può negare che, almeno per il momento, occorrono i giudici, no? Tuttavia non riuscivo a capire come un uomo si proponesse da sé per esercitare questo compito strabiliante» (il corsivo è mio) [3].

Il lungo racconto, che rientra pienamente nella tematica propria dell'esistenzialismo e nella visione pessimistica della vita, si conclude con l'affermazione che occorre farsi penitente, cioè mostrare i propri vizi e difetti («tutte le mie virtų», dice infatti il protagonista, «avevano un rovescio») per poter divenire poi giudici degli altri. Ed "essendo tutti giudici, siamo tutti colpevoli".

Il primo sbaglio di un giudice, dunque, potrebbe essere, a ben guardare, quello di avere scelto come mestiere proprio questo compito del giudicare gli altri (che si potrebbe esercitare solo in quanto ci considerassimo tutti colpevoli e quindi penitenti), questo compito, da alcuni chiamato addirittura "missione" e paragonato a un sacerdozio - "i sacerdoti della dea Temi, della dea Giustizia", qualcuno, e non senza retorica, ha chiamato i giudici - che il grande scrittore francese, premio Nobel, definì addirittura strabiliante nel senso (a me pare di dover intendere) di "superiore alle forze umane".

Non credo sia capitato solo a me fra i giudici, nel corso della propria carriera, di aver desiderato di possedere una capacItà sovrumana, quasi divina di penetrazione nel vero e di attuazione del giusto in ogni situazione o problema sottoposto al proprio esame. Ma tutti, salvo qualche elemento presuntuoso, assai raro, posso dire per la mia lunga esperienza di vita giudiziaria, abbiamo sempre sentito che questa capacità sovrumana ci mancava e che a guidarci dovevano esserci solamente la legge (bouche de la loi, bocca della legge chiamano i francesi il giudice), la sua retta interpretazione, il buonsenso e un po' di conoscenza del cuore umano.

Pentito, dunque, della mia vita di giudice? Non direi. Ma penitente, sì, forse. Ma in un senso meno duro di quello proposto da Camus. Cioè non autoaccusarsi per poter poi accusare e giudicare gli altri. Ma partire da un esame di coscienza, da un consuntivo della propria vita di giudice per capire meglio i mali della giustizia.

Se voglio tentare di cogliere, di riafferrare i miei primissimi pensieri su ciò che deve regolare una normale vita associata delle «umane belve», per dirla col Foscolo, se riscavando nei miei ricordi, non dico freudianamente rimossi ma certo travolti dai vari casi della vita, dovessi riacciuffare la mia prima intuizione sulla miseria della giustizia umana e sulla necessità di lottare, di votarsi per la sua realizzazione, dovrei risalire molto indietro. All'impressione indimenticabile, per esempio, che mi produsse la vista di tre giovani ammanettati, e con una catena che li legava l'uno all'altro, condotti da due carabinieri nell'ufficio ove io avevo appena cominciato la mia carriera giudiziaria.

Erano imputati di rapina e si era nel 1945, a guerra da poco finita, quando imperversava la delinquenza e, con tutte le armi rimaste in giro, si era fatta precaria la vita dei pacifici cittadini. Eppure un moto spontaneo di pietà sorse nel mio animo, ma soprattutto sentii ribollire antiche idee rimuginate negli anni della prima giovinezza: sulla nefandezza di un sistema che, per punire la violazione delle regole della civile convivenza e per creare un deterrente contro la devianza, non sa trovare altra soluzione che ingabbiare gli esseri umani, come belve nello zoo.

Ma ben pių gravi - mi venni via via accorgendo - sono state e sono le nefandezze compiute in nome della giustizia.

Č questo un momento in cui la "classe" dei magistrati non gode buona... stampa, principalmente perché non ha dalla propria parte il favore della stampa. Troppo pesano a suo carico, presso tutti coloro che orientano, attraverso i mass-media, la pubblica opinione, gli arresti di giornalisti che avevano rivelato notizie destinate a restare segrete, almeno per un certo tempo. E ancor pių hanno offuscato l'immagine di coloro che amministrano giustizia i provvedimenti di interdizione temporanea dell'attività giornalistica emanati nel corso di un procedimento penale (quando vige la presunzione di innocenza dell'imputato) e non a conclusione di esso. Questo è un caso di applicazione del "diritto" che si risolve in un chiaro "storto", perché si traduce in una grave remora alla libertà di stampa.

Si aggiungano le "tirate d'orecchie" da parte del presidente della Repubblica ai componenti togati del passato Consiglio superiore della magistratura, al quale era parso che sua funzione fosse anche difendere da aggressioni verbali o scritte del potere politico l'indipendenza politica della magistratura.

Si mettano in ultimo in conto i processi che hanno diviso (e dividono ancora) gli italiani in colpevolisti e innocentisti, specie nei confronti di personaggi di larga popolarità, tipo Enzo Tortora, e infine i processi che hanno visto certi assassini "pentiti", o delatori che dir si voglia, uscire del tutto indenni dalle sanzioni della legge.

E si avrà così un'immagine assai deteriorata dell'attuale e di quelli che un tempo si chiamavano enfaticamente suoi sacerdoti. Non si pensi che, proprio a causa di questo certo discredito che, credo immeritatamente, vela l'immagine della magistratura oggi, io mi proponga di fare il "difensore d'ufficio" della categoria cui ho appartenuto e ancora idealmente appartengo. La magistratura italiana non ha bisogno di difensori d'ufficio né io ho alcun titolo per assumere tale ruolo.

Dirò, invece, che non essendomi sentito mai "sacerdote" e poiché i miei pensieri, quando li ho tradotti in scritti, sono stati sempre una critica al sistema, andrò proprio in cerca di tutto ciò che si possa addebitare al giudice. Non senza però controbattere quei luoghi comuni imprecisi che si sono formati, non giustificatamente, sull'amministrazione odierna della giustizia.

Sì, è vero, giudicare è un compito che supera la capacità umana. E confesso che qualche volta sono stato indotto a ritenere che né io né alcun altro avremmo dovuto "autoproporci", per usare l'espressione di Camus, per tale funzione.

Ma allora se fosse uno sbaglio autoproporsi per questa strabiliante funzione - per stare sempre alle espressioni dello scrittore francese - e se tutti ne rifuggissero, come potrebbe la società umana fronteggiare la necessità che qualcuno giudichi condannando o assolvendo e dando ragione all'uno o all'altro fra due contendenti?

«Non si può negare che, almeno per il momento, occorrono i giudici, no?». Per il momento? Ma è, dunque, ipotizzabile un mondo fatto da esseri umani, e non da creature angeliche, in cui non ci siano delitti da punire e controversie da dirimere? No. Ed allora è necessario che la giustizia non si risolva nel proprio contrario (l'ingiustizia) o in un'immagine sgangherata di essa (la disgiustizia) o in mera utopia (la fantagiustizia). Ed è bene, perché questo sia quanto pių possibile evitato, ricordare qualche caso, antico ma pur sempre presente nella memoria collettiva, in cui l'ingiustizia ha trionfato. Casi che possono giustificatamente chiamarsi "nefandezze di Temi".

2.
Temi: dea o bagascia

LA PIŲ ATROCE offesa che può subire una collettività, sia essa una tribų del paleolitico o quel complicatissimo sistema sociale moderno che chiamiamo Stato, è che coloro cui sia stato affidato il compito di rendere giustizia fra i consociati diano frutti adulterati, producano ingiustizia invece che giustizia.

Perciò la suprema aspirazione di ogni società umana è, ed è sempre stata, quella di avere giudici giusti e incorruttibili; insensibili a raccomandazioni, pressioni, isterismi della folla, immuni da simpatie, da sete di potere e, persino, da ambizioni personali che possono distoglierli dalle loro funzioni o, peggio, fuorviarli. Giudici, insomma, al di sopra di ogni sospetto. Possedere, in una parola, I Giudici Integri del pittore fiammingo Van Eyck.

E poiché non tutti, suppongo, potrebbero ricordarsi di questo capolavoro del Rinascimento fiammingo-borgognone - quel Rinascimento coevo a quello fiorentino del 400 che proprio dalla scuola dei fratelli Hubert e Jan Van Eyck prende le mosse - immaginerò di trovarmi, insieme ai miei lettori, nella cattedrale di San Bavone di Gand, nell'ultima cappella laterale di destra, ad ammirare il celebre polittico dell'Adorazione dell'Agnello mistico. Ecco, la pala, grandissima, ci viene dapprima presentata chiusa. Due ante la coprono. Ma anche le ante sono coperte da pitture e costituiscono una specie di introduzione alla scena rappresentata. In basso il donatore, tale Joos Vyd, e sua moglie; al centro, in chiaroscuro, san Giovanni Battista e san Giovanni Evangelista; pių su l'Annunciazione, e infine due profeti e due sibille che annunciano la venuta dell'Agnello redentore del mondo. Poi, ad ante aperte, una scena di una bellezza da restare senza fiato. In alto Dio in gloria con Maria e il Precursore ai due lati. Gruppi di angeli bellissimi, dall'uno e dall'altro lato, con in mano i pių diversi strumenti, che sembrano cantare davvero. Alle estremità Adamo ed Eva, la causa della caduta per cui fu necessaria la Redenzione, in realistica nudità che forse simboleggia la miseria loro e di tutto il genere umano da loro disceso. Sono questi i sette pannelli della parte superiore del polittico. La parte inferiore è composta da cinque pannelli e forma un'unica scena: l'Adorazione dell'Agnello da parte di chi meglio ha impersonato la virtų: i patriarchi, i santi vescovi e confessori, le vergini e i martiri. I due pannelli inferiori di destra rappresentano gli eremiti e i pellegrini guidati da un gigantesco san Cristoforo. E infine nei due pannelli inferiori di sinistra sono raffigurati due gruppi di personaggi a cavallo, quello dei CavalIeri di Cristo e quello, appunto, dei Giudici Integri.

Come è noto, il pannello dei Giudici Integri fu rubato nel 1934 ed è stato sostituito da una copia [4].

La stessa pittura fiamminga che ci offre l'immagine dei giudici integri, anche se falsi come dice Camus, ci ha tramandato quella del giudice corrotto e della sorte che si meriterebbe.

Si tratta di due bellissimi quadri oggi esposti al museo comunale di Bruges, opera di Gerard David (1460-1523) che raccontano la vicenda di Cambise e Sesamne. Che Erodoto, quasi en passant, mentre ci sta narrando le gesta di Dario e non del suo predecessore sul trono di Persia, ci espone sbrigativamente così (Libro V, cap. 25): «Detto ciò, Dario si mise in viaggio verso Susa in compagnia di Istieo, dopo aver stabilito come governatore di Sardi suo fratello Artafrene nato dallo stesso padre e aver nominato Otane comandante delle truppe della regione costiera.

«Il padre di costui, Sisamne, che era uno dei giudici reali, era stato sgozzato per ordine del re Cambise, perché, per denaro, aveva emesso una sentenza ingiusta; quindi gli era stata strappata dal corpo tutta la pelle, che tagliata e ridotta in varie strisce di cuoio, era stata distesa sul trono dal quale, seduto, soleva rendere giustizia.

«Quando ne ebbe fatto ricoprire il trono, Cambise, al posto di Sisamne, che aveva fatto uccidere e scuoiare, nominò giudice il figlio di lui, raccomandandogli di non dimenticare mai su qual trono sedeva per amministrare la giustizia». [5]

La vicenda è stata, poi, pių volte rinarrata e qui basti citare il novelliere veneziano Sebastiano Erizzo (1525-1585), il quale esercitò funzioni giurisdizionali nel pių alto organo giudiziario della Serenissima, il Consiglio dei Dieci, e pubblicò nel 1567 le Sei giornate, in cui si narrano trentasei avvenimenti nella solita "cornice" di sei giovani che si incontrano a Padova e si alternano nell'esposizione di sei vicende a testa che «contengono», come dice il sottotitolo, «ammaestramenti nobili ed utili di morale filosofia».

Venendo, poi, alla letteratura contemporanea non si può passare sotto silenzio - né sembri semplice omaggio da amico ad amico - il bellissimo recente romanzo di Diego Curtò, che dalla tragica e meritata sorte di Sisamne prende il titolo e ad essa, nell'intreccio, fa espresso richiamo. [6]

Ma se la letteratura greca ci ha tramandato, attraverso Erodoto, il ricordo e la punizione di un giudice corrotto, ci ha tramandato anche, e attraverso la voce di un poeta, l'amarezza di chi ha subito l'affronto di una sentenza ingiusta, "comprata" dall'avversario. Č la voce di Esiodo, che ci giunge subito dopo quella di Omero - subito, s'intende, uno o due secoli dopo -, quando l'ispirazione poetica non deve pių necessariamente volgersi alle gesta degli eroi o alle mitiche avventure di navigatori, ma può già cercare il suo terreno nel quotidiano. Le opere e i giorni è il titolo di uno dei poemi pervenutici sotto il nome di Esiodo ed esso è proprio dedicato al fratello Perse che, in una causa ereditaria contro Esiodo, aveva corrotto con doni i giudici: si tratta dei sette magistrati supremi della città di Tespie in Beozia, la pių vicina al villaggio di Ascra, i quali svolgevano anche funzioni religiose.

«O Perse, pòniti bene in mente questo», esordisce quasi all'inizio il poemetto, «e la Contesa che gioisce del male non ti distolga l'animo dal lavoro per farti stare a spiare i tribunali e a prestar orecchio alle liti». E pių oltre: «Già infatti dividemmo l'eredità, e tu, derubandomi, molte cose arraffasti, corrompendo i giudici, divoratori di doni, i quali consentono di emettere tali sentenze». E poco dopo il duecentesimo verso (il poemetto è di poco pių di ottocento esametri, se vi si deve includere anche il calendario religioso che qualche critico ritiene spurio), così esclama il poeta: «O Perse, pòniti bene in mente queste cose e, dando retta alla giustizia, scòrdati della violenza; agli uomini, infatti, il Cronide dettò questa legge: è proprio dei pesci, delle fiere, dei volanti uccelli divorarsi l'un l'altro, perché non esiste giustizia fra loro; ma agli uomini diede la giustizia, che è cosa di gran lunga migliore». E ai giudici, che pių di una volta il poeta chiama "divoratori di doni", rivolge questo ammonimento: «O giudici, pensate anche voi a questo fio: vicino e in mezzo agli uomini, gli Immortali osservano quanti con inique sentenze si tormentano l'un l'altro non curando il timore degli Dei. Tremila e pių, infatti, sulla terra nutrice di molti, sono gli Immortali inviati da Zeus, custodi agli uomini mortali [specie di Angeli Custodi, per pensarli in termini di religione attuale], dei quali appunto osservano le cause e le opere nefande; essi, vestiti d'aria, si aggirano per tutta la terra. V'è anche la gloriosa vergine Dike, generata da Zeus e venerata dagli Dei che abitano l'Olimpo; quando qualcuno, offendendola, l'oltraggia, essa subito si asside supplice presso il Padre, il Cronide Zeus, e denuncia l'animo ingiusto affinché il popolo plachi la follia dei giudici che meditano inganni e piegano lei altrove pronunciando tortuosi giudizi. Tenendo presente ciò, operate rettamente, o giudici, divoratori di doni, e dimenticatevi per sempre delle vostre inique sentenze»[7].

La storia, dunque, e la letteratura che ne è vivido specchio, ci hanno tramandato immagini di giudici quanto mai inquietanti. Anzi spesso l'immagine di un giudice assolutamente giusto è collocata nel mito o addirittura figurata come giudice dell'oltretomba, così come Radamanti, mitico re cretese, figlio di Zeus ed Europa, e fratello del pių noto re mitico cretese Minosse, che Dante poi collocherà, come una specie di giudice-diavolo, all'assegnazione del cerchio cui è destinata ogni anima dannata: «Giudica e manda secondo che avvinghia». Con la coda, s'intende, essendo diavolo.

Se la cultura classica colloca nel mito e nell'oltretomba il modello del giudice giusto, quella ebraica, supporto in larghissima misura della civiltà cristiana, ha il suo modello di giudice giusto in una figura di monarca che è circondato da un'aura quasi fiabesca, Salomone. Vale la pena rileggere nella Bibbia (Libro I dei Re, cap. 3, v. 16) l'episodio del famoso giudizio che questo pare voglia insegnare, che il giudice, per giudicare rettamente, deve saper leggere nel cuore di chi è sottoposto al suo giudizio.

«Allora due meretrici vennero a presentarsi davanti al re. Una delle due disse: "Permetti, signor mio! Io e questa donna abitavamo nella medesima casa, e io partorii nella camera dov'ella pure stava. E il terzo giorno dopo che ebbi partorito io, questa donna partorì anch'ella; noi stavamo insieme, e non v'era da noi alcun estraneo; non c'eravamo che noi due in casa. Ora, la notte passata, il bimbo di questa donna morì, perch'ella gli si era coricata addosso. Ed essa, alzatasi nel cuore della notte, prese il mio figliuolo d'accanto a me, mentre la tua serva dormiva, e lo pose a giacere sul suo seno, e sul mio seno pose il suo figliuolo morto. E quando m'alzai la mattina per far poppare il mio figlio, ecco ch'era morto; ma, mirandolo meglio a giorno chiaro, m'accorsi che non era il mio figlio ch'io avevo partorito". L'altra donna disse: "No, il vivo è il figliuolo mio e il morto è il tuo". Ma la prima replicò: "No, invece, il morto è figliuolo tuo e il vivo è mio". Così altercavano in presenza del re. Allora il re disse: "Una dice: questo ch'è vivo è il figliuolo mio, e quello ch'è morto è il tuo; e l'altra dice: no, invece, il morto è figliuolo tuo e il vivo è il mio". Il re soggiunse: "Portatemi la spada!". E portarono una spada davanti al re. E il re disse "Dividete il bambino vivo in due parti e datene la metà all'una e la metà all'altra". Allora la donna di cui era il bambino vivo, sentendosi commuover le viscere per amor del suo figliuolo, disse al re: "Deh, signor mio, date a lei il bambino vivo, e non l'uccidete, no!". Ma l'altra diceva: "Non sia né mio né tuo; si divida!". Allora il re, rispondendo, disse: "Date a quella il bambino vivo, e non l'uccidete; la madre del bimbo è lei!". E tutto Israele udì parlare del giudizio che il re aveva pronunziato, e temettero il re perché vedevano che la sapienza di Dio era in lui per amministrare la giustizia».

Miti, personaggi nati dalla fantasia popolare, aneddoti quasi fiabeschi di giustizia perfetta: perché? Ma perché la realtà è stata assai spesso ben diversa dal sogno collettivo dell'assoluta perfezione del giudizio.

Certo la letteratura ha, forse, talora esagerato nel dipingerci figure meschine di giudici, ma la ragione di un tale sfavore verso chi, lungo i secoli, ha assolto questo difficile compito del giudicare, non può non cercarsi che in risultati molto insoddisfacenti nell'amministrazione della giustizia.

Si potrebbe dire, è vero, che l'arte dei poeti, narratori e commediografi meglio si è potuta esplicare sul negativo che sul positivo e che i giudici "integri" non siano solo usciti dal pennello di Van Eyck ma siano esistiti davvero.

Del giudice disonesto, e anche ignorante e un po' infingardo, la pių efficace e divertente rappresentazione è quella contenuta in una notissima commedia di Heinrich von Kleist, La brocca rotta (Der zerbrochene Krug). Adam, il giudice di un villaggio olandese, ha tentato un'avventura notturna con una ragazza, Eva, che gli ha resistito e, scoperto senza essere però riconosciuto, dal fidanzato della ragazza, le ha prese di santa ragione. Nel tafferuglio è andato rotto un orcio di un certo valore, di cui la madre di Eva chiede il risarcimento, con querela proposta davanti al giudice; anche perché è certa che il "rompibrocche" è stato Roberto, il fidanzato della ragazza, che avendo compiuto l'amorosa "impresa" notturna, deve ora sposarla. Il processo si svolge alla presenza di un consigliere di giustizia venuto da Utrecht per ispezionare l'ufficio del giudice e Adam, nonostante il suo continuo ricorso alle pių sfrontate menzogne (è un po' Falstaff e un po' Tartuffe ha scritto qualche critico), è come assediato dalla verità, finché la ragazza lo accusa chiaramente.

In letteratura, insomma, il giudice non gode di... buona reputazione, persino quando assolve con impegno il proprio compito. Si pensi per esempio al giudice istruttore di Delitto e castigo, Porfirio Pietrovitc. Č del tutto evidente che Dostojewskij non ha voluto presentarci un personaggio simpatico, perché, sebbene persegua lo scopo di individuare l'autore di un delitto, ricorre a metodi che appaiono un po' subdoli. Né migliore pittura ci ha lasciato Albert Camus ne L'étranger del juge d'istruction, il quale sembra chiudere del tutto la propria mente alla minima comprensione del gesto dell'accusato.

Non parliamone, poi, se lo scrittore abbia un motivo di risentimento contro la categoria dei giudici per essersi magari trovato sotto processo. E il caso, appunto, di Gustavo Flaubert, il quale trascinato sul banco degli accusati come autore di Madame Bovary, sebbene poi assolto, non dimenticò mai l'amaro boccone [8].

E così, quasi senza volerlo, dalla figura del giudice in letteratura sono giunto a parlare dei giudici che si sono dedicati alla letteratura ed e giusto, a questo punto, fermare un po' l'attenzione sul pių notevole e pių, meritatamente, noto fra i magistrati-scrittori, Dante Troisi.

Nelle varie letterature, come dicevo pių su, il giudice non gode in genere di molta simpatia e di buona reputazione e, perché questo cambi, occorre arrivare a Il diario di un giudice, perché ivi, attraverso la penna amara e lo stile secco e nervoso di Dante Troisi, il giudice si apre, si offre - oserei dire - indifeso, quasi nudo e spoglio della propria toga, con la sua interiore sofferenza e con il proprio sdegno represso e celato, ai propri lettori.

Ma alla fine del diario, lo sdegno represso si traduce in sarcasmo: «Domani sarò a Roma, ad assistere, per la prima volta, a un'udienza della Corte Suprema di Cassazione: mi dicono che se ne esce soggiogati, definitivamente posseduti dalla brama di avanzare nella carriera e sedersi in quell'aula». [9]

Ma questa e altre frasi del diario Dante Troisi le scontò amaramente, perché si ebbe il coraggio di metterlo sotto procedimento disciplinare e gli fu inflitta la censura, che è un provvedimento che lascia traccia nella carriera di un dipendente statale. Tanto che, quando fu la volta della promozione di Troisi a magistrato d'appello, la censura saltò fuori davanti al Consiglio superiore della magistratura ma un consigliere - come mi venne poi confidato - saltò con un «Cosa? Ricordare quella censura per avere scritto il libro pių bello che sia uscito dalla penna di un magistrato?».

Č merito di Dante Troisi l'aver presentato, nel campo della narrativa, un'immagine credibile di giudice onesto e tormentato dalla sua funzione, immagine che fa dimenticare tutte le altre che hanno lasciato traccia nelle varie letterature, a causa di non pochi giudici corrotti che hanno attraversato la storia umana.

Del resto dai tempi di Esiodo, che parlava di giudici "divoratori di doni", si può arrivare fino a quelli del filosofo Francesco Bacone, che ricoprì la carica di Lord Cancelliere sotto la Regina Elisabetta I. Č noto che il filosofo fu rimosso dalla propria carica proprio per avere accettato doni dalle parti in giudizio. Ma pare che si trattasse di cosa "spiegabile coi costumi venali del tempo" [10].

3.
Recordève del povero fornareto

CON QUESTE parole "Recordève del povero fornareto", pronunciate in quello che noi oggi chiamiamo dialetto veneziano ma che era la "lingua" di una grande potenza del tempo[11], il segretario del Consiglio dei Dieci, massimo organo giurisdizionale penale di Venezia, ammoniva i consiglieri prima che pronunciassero ogni sentenza, per guardarsi dai pericoli di un processo soltanto indiziario, quand'anche sussistesse la confessione dell'accusato, che di solito era ottenuta con la tortura.

Di questo errore giudiziario, avvenuto nel 1507, venne conservato il ricordo finché esistette la repubblica di Venezia. Il fatto fornì l'argomento al drammone ottocentesco Il fornaretto di Venezia di Francesco Dall'Ongaro, riproposto in varie versioni popolaresche, anche sotto forma di romanzo e, in seguito, soggetto di pių di un film. Di esso conserviamo una relazione secca e asciutta di un giurista di qualche secolo fa, compilatore di un trattato di procedura. Sentiamola:

«Fu ritrovato in tempo di notte da Ministri in Venezia un cadavere con un coltello trentino in petto, appresso di cui stava in piedi osservandolo un Pistore, che teneva una vagina al fianco. Estratto da' Ministri il coltello dalla ferita, e fatta osservazione che s'accomodava aggiustatamente alla vagina del Pistore, fu condotto nella forza della Giustizia; posto alla tortura, e a forza di tormenti confessò il non commesso delitto, e stante la confessione pagò la pena non meritata con l'ultimo supplicio. Di lì a pochi giorni fu un bandito ritenuto con l'alternativa della forca. Questo avanti di morire si confessò reo di quell'homicidio e dichiarò l'infelice Pistore innocente. Per la stravaganza di tal caso decretò l'Eccelso Consiglio dei Dieci che qualunque volta, che si trattasse di materia di indizi in detto Eccelso Tribunale, dovesse dal Secretario esser ad alta voce aricordato il caso del Pistore; formalità ch'anco di presente vive in viridi observantia». [12]

Il proceduralista Morari, nel dare questa versione dell'ingiusta condanna a morte di un innocente, si limitò a sfrondare di tutti i fronzoli costruitivi attorno dalla fantasia popolare, o diede la versione "ufficiale" del potere oligarchico veneziano, che doveva salvare l'onorabilità del proprio tribunale supremo e, cosa ben pių seria, l'onore di uno dei propri componenti cui la voce popolare faceva risalire il delitto?

Vediamo ora la versione dei fatti nel dramma di Francesco Dall'Ongaro (1810 - 1873), il quale, cultore com'era del folklore veneziano (basti ricordare i suoi Canti popolari e gli Stornelli di carattere patriottico), doveva aver certamente attinto alla tradizione orale popolare.

Il fornaretto in questione, o pistore come si diceva allora, si chiama nel dramma Pietro Tasca, mentre nella tradizione "dotta" (raccolta dal Manzini) è P. Fariol, garzone in questa e figlio del fornaio in quello.

Egli è innamorato di una giovane, Amelia, che fa da cameriera presso una famiglia patrizia, quella del membro del Consiglio dei Dieci, Lorenzo Barbo. Una mattina di buon'ora, mentre fa il suo giro per calli e campielli per la consegna del pane, trova un cadavere. Č quello del nobil uomo Alvise Gnoso, che egli conosce e verso il quale ha una certa inimicizia, sia perché ha attentato all'onore della sorella di Pietro, sia perché egli ritiene che abbia messo gli occhi adosso alla sua amorosa. In effetti il dongiovanni Alvise Gnoso se la intendeva con la moglie del Barbo, Clemenza.

Mentre il fornaretto è titubante accanto a quell'uomo ucciso, sopraggiungono i poliziotti veneziani (i Ministri come li chiama il proceduralista citato che magari non poteva immaginare quale alta carica statale un giorno quella stessa parola avrebbe designato) e senza tanti complimenti lo portano al fresco, che può essere stato anche "caldo", se lo rinchiusero nei Piombi allora di recente costruzione.

Amelia, la fidanzata del fornaretto, per proteggere la padrona, interrogata, fa credere che l'Alvise veniva da lei nelle sue visite notturne. Così viene trovato il "movente". La confessione sotto tortura addossa definitivamente il delitto al giovane Pietro che subisce la pena capitale. Quando il patrizio Lorenzo Barbo confessa di essere stato lui l'autore del delitto, la sorte dell'infelice fornaretto è giunta all'epilogo.

Il dramma fu rappresentato con molto successo nel 1855 al teatro Carignano di Torino. «La figura del padre, Marco Tasca», così scrive Guido Mazzoni [13], «interpretata mirabilmente da Gaetano Gattinelli, uno dei pių valenti attori della Compagnia Reale Sarda, vi campeggiò a linee forti nello spasimo dell'adoperarsi per l'assoluzione, e nel grido finale quando al figliuolo sente resa giustizia dopo che è morto: "Ma egli è morto. Giudici! Chi me lo rende?"... Quando uno dei Dieci, Lorenzo Barbo, finalmente confessa che egli, non Pietro Tasca, uccise per gelosia chi gli corteggiava la moglie, ma la confessione è tarda, ché già l'infelice è stato giustiziato, si ha dalla lettura l'impressione che il Dall'Ongaro voleva; e, innanzi, il contrasto fra la gentildonna Clemenza e la cameriera Annella [sic!], quella colpevole di amore per l'ucciso, questa ingenuamente innamorata del presunto uccisore e sospettata di essere causa dell'omicidio, le scene fra Lorenzo e Clemenza, fra Lorenzo e Marco, il conflitto negli animi del marito omicida, e della moglie a sentirsi scoperta, con un rapido succedersi di scene vivaci che rappresentano coloritamente Venezia oligarchica, fanno un dramma il quale tuttora regge anche alla luce della ribalta».

Se fra le due versioni, quella ufficiale-procedurale e quella popolare, divenuta poi letteraria, della vicenda di Pietro, il fornaretto, io dovessi scegliere al lume di ragione, propenderei per questa seconda. Per questa semplice ragione, di cui troveremo pių avanti qualche altro esempio, che per il "buon nome" della giustizia, il potere, fosse esso rappresentato da un monarca o da un gruppo di oligarchi, ha sempre cercato di nascondere, coprire in qualche maniera o, per lo meno, minimizzare gli errori giudiziari.

Quanti sono stati, nella storia umana, gli innocenti condannati a morte e la cui innocenza è emersa dopo l'esecuzione della sentenza? Forse innumerevoli. L'ineliminabilità del pericolo dell'errore giudiziario ha sempre, e fin da tempi molto antichi, assillato le menti pių vigili e i cuori non chiusi all'umana comprensione. E ciò che pių atterrisce le coscienze è l'irrimediabilità dell'errore giudiziario quando la pena è stata la morte.

Non è, tuttavia, questo, l'argomento principale che usa Cesare Beccaria contro la pena di morte, nel suo piccolo prezioso libro, [14] cui arrise, e a ragione, un larghissimo successo e non solo in Italia. Nelle pagine che vi dedica, anzi, il carattere della irrimediabilità è dato per scontato. L'argomento basilare del Beccaria è tipico della cultura illuministico-giusnaturalistica dell'epoca: il potere dello Stato deriva dalla rinuncia a porzioni di libertà di ciascuno dei consociati, ma il potere di disporre della propria vita i consociati non possono averglielo conferito. Segue, poi, quello ampiamente trattato, della mancanza di efficacia della pena di morte nel distogliere dal delitto.

Non c'è pių nella procedura d'oggi l'obbligo di ricordare ai giudici il pericolo dell'errore giudiziario; non si dice pių "Recordève del povero fornareto". C'è invece l'obbligo di dire che si son "visti" o "letti" uno o pių articoli di legge. Ma a volte la legge serve da "schermo" per chiudersi alla comprensione.

Te lo insegnano fin da primo giorno che metti piede, giudice principiante (uditore è l'esatta denominazione) o giovane avvocato, in un'aula di giustizia, che la legge è la legge (dura lex sed lex), come sta scritta, come l'ha voluta il legislatore, come la rende chiara una corretta interpretazione e che il resto sono chiacchiere, fantasie, soprassalti umorali. E se la resa - l'applicazione cioè dello schema astratto della legge al caso concreto che si ha in mano - è buona, se non la fa a pugni, insomma, con quel minimo di senso del giusto e dell'ingiusto che ognuno ha dentro, bene. E se no, che si impicchi la giustizia.

Allora afferri bene, per la prima volta, il senso, sostanzialmente meschino, dell'espressione "diritto positivo"[15], che all'università magari ti è parso filosofico o ti sfuggiva o ti ha fatto addirittura incespicare in un esame.

Ci si rifugia così nella fantagiustizia. Dopo la science-fiction si è inventata ora anche la justice-fiction? ci si stupirà. E non bastava, forse, la fantapolitica? Una fuga dalla realtà e nient'altro che questo?

Nel corso della sua invo-evoluzione, la specie umana ha continuato a fantasticare nella ricerca di criteri che servissero a individuare il concetto - il concetto che si è spesso ritenuto eterno e immutabile - di giustizia e non si è stancata mai di studiare le modalità di attuazione concreta nella società dell'astratto principio del bonum et aequum. La filosofia giuridica e la problematica del processo, l'una come ricerca del concetto astratto, l'altra come studio degli strumenti di attuazione di esso, ha sempre affaticato la mente umana.

Basta scorrere un manuale di storia della filosofia del diritto per convincersene. E si dovrà constatare che i giusfilosofi hanno sempre voluto far risalire la ricerca del loro concetto di giusto e di ingiusto quanto pių è possibile a un principio sommo, perdendosi così nelle nuvolaglie della speculazione pura che a me non pare lontana dai regni della fantasia.

Lo scollamento fra la realtà delle cose umane (e particolarmente la res judiciaria) e la ricerca dei filosofi del diritto mi pare che emerga chiaramente nelle pagine di un filosofo del diritto e magistrato, che mi fu immensamente caro, Ferdinando D'Antonio: «L'idea pura di giustizia è qualcosa di troppo alto, e, riconosciamolo pure, di troppo astratto per le menti comuni e non preparate alle aspre conquiste filosofiche, di guisa che il collegamento tra le norme di diritto razionale o razionalizzato e quella idea rimane nascosto ai pių. L'ideale sotto la veste di un dover essere produttivo di benefici effetti all'umanità dolorante s'ammanta di luce fortissima, conquide ed esalta, risveglia e trascina. L'umanità s'appresta a sorpassare qualunque ostacolo col miraggio di quell'ideale, anche se questo non può presentarsi in nessuna forma concreta; non si sostanzia in alcuna norma con contenuto fisso. Anzi l'ideale di giustizia non ha quella decisa delineazione in che si scorge l'idea di giustizia, non ha oltre la forma un'esistenza reale sia pure incipiente. L'ideale di giustizia si presenta senza alcuna precisa formulazione, e non ha alcuna esistenza reale».[16]

Che il concetto di giustizia - lo si volesse chiamare idea o ideale e si introducessero o meno sottili e scolasticistici distinguo fra l'una e l'altro - si perda nelle astrattezze delle pure costruzioni mentali, non è, dunque da oggi che viene riconosciuto. Ma forse nessun'epoca, quanto la nostra, ha avuto modo di porre in crisi tutte le proprie certezze, di applicare il concetto di relatività, desunto dall'ordine fisico-cosmico, alla realtà politico-sociale-giuridica, di sentirsi immersa in un mare di dubbi, sì da dover concludere che, allo stesso modo come è solo sapere la coscienza di nulla sapere, così è sola verità la certezza dell'inesistenza di verità perennemente immutabili. Nessun'altra epoca, dunque, pių della nostra può meglio afferrare il carattere fantastico e utopistico delle meditazioni, degli studi, dei progetti sulla giustizia, si intenda questa nel significato pių proprio e ristretto di criterio ideale per impedire e reprimere fa devianza dalle norme e per dirimere le controversie (la giustizia della giurisdizione insomma), che in quello pių ampio di equità delle situazioni socio-economiche e dei rapporti umani nella loro globalità (giustizia sociale).

E non è una particolare inclinazione allo scetticismo del momento che attraversiamo che ci fa ascrivere quelle meditazioni, quegli studi, quei progetti al genus della fantasia. Č la mobilità di tutto che ce lo impone. La società ci si muove sotto le mani, mentre su di essa vogliamo operare; il mondo ci cammina sotto i piedi, mentre su di esso vogliamo influire; la realtà socio-economica ci muta sotto gli occhi, mentre ne analizziamo i diagrammi.

E così, nello stesso tempo che un progetto di riforma è stato portato a faticoso compimento, l'istituzione da riformare si è mutata e il nuovo vestito non calza pių su di essa. O, intanto che si studia il problema (in che maniera, tanto per fare un esempio, si deve organizzare il processo in materia di controversie di lavoro e sindacali), ecco che la realtà del mondo operaio e sindacale è mutata e gli studi sono sopraffatti dal dinamismo sociale. O, infine, mentre si medita e riflette su una visione generale, cambiano tutte le componenti del problema.

No, non è stata una fuga dalla realtà per me la fantagiustizia nel corso dei circa trentacinque anni in cui ho percorso quasi l'intera scala della carriera giudiziaria. Né il rifugio in una nicchia filosofica.

Niente "fantasgiustizia" dunque! Occorre guardarsi dal fantasticare stando lontani dalla realtà: la giustizia su questa terra è un sogno e il giudice fa quel che può. No! Ogni errore, anche piccolo, ogni ritardo ingiustificato, ogni cervellotica applicazione della legge, nel mare magnum dei poteri discrezionali del giudice, offende la collettività.

Certo lo sbaglio del giudice, di cui maggiormente si preoccupa l'opinione pubblica - e di questo problema passo subito ad occuparmi - è che l'innocente possa essere condannato, ma anche dal piccolo errore va preservata l'amministrazione della giustizia.

4.
Assassinii con la spada della giustizia

QUELLA spada che l'iconografia tradizionale mette in mano alla personificazione della giustizia, mentre tiene nell'altra una bilancia, può dunque commettere degli assassinii? Sì, ci risponde Voltaire, colui che lottò su due fronti, lungo il secolo dei "lumi", contro la superstizione e il fanatismo in nome della "Dea Ragione" e contro i privilegi e l'assolutismo in nome della "Dea Giustizia". Č appunto lui che usa, proprio all'esordio del suo Trattato della tolleranza, questa espressione.

«L'assassinio di Calas, consumato a Tolosa con la spada della giustizia il 9 marzo 1762, è uno dei pių singolari avvenimenti degni dell'attenzione nostra e dei posteri».[17]

Ed ecco come narra i fatti quest'uomo singolare, il cui vero nome era Franįois-Marie Arouet, che se non è il personaggio pių rappresentativo del sec. XVIII, come pure è stato sostenuto, è certo quello che maggiormente lo riempie di sé, e non soltanto per il lungo arco della sua vita (1694-1778) ma per la sua straordinaria "presenza" nella società del tempo: amato e odiato quant'altri mai, osannato e corteggiato persino da principi e monarchi ma anche vilipeso (specialmente dai cattolici oscurantisti) e perseguitato fino a essere imprigionato pių volte in Inghilterra.

Jean Calas, racconta Voltaire, era un onesto negoziante sessantottenne di Tolosa, da tutti ritenuto un buon padre di famiglia. Sebbene protestante calvinista, come anche sua moglie e i suoi figli, aveva accettato di buon grado la conversione al cattolicesimo di uno dei figli, Louis, e teneva da circa trent'anni presso di sé una domestica cattolica zelante.

Uno dei figli del Calas, Marco Antonio, spirito inquieto, che inutilmente aveva tentato di entrare negli affari o di esercitare l'avvocatura (per la quale occorreva il certificato di cattolicità), avendo un giorno perduto al gioco il suo denaro, si impiccò in casa. II cadavere fu scoperto dal fratello Pietro e da un giovane di Bordeaux che era ospite della famiglia Calas quel giorno e amico del suicida. Essi avvertirono subito i rappresentanti della giustizia.

E mentre i genitori del suicida erano in lacrime, una folla di fanatici cattolici attorniò la casa dei Calas e si levarono grida ostili con l'accusa che il giovane era stato strangolato dalla famiglia perché aveva deciso di convertirsi al cattolicesimo e poi, per simulare un suicidio, appeso alla corda. Presto fra il popolo tolosano - di cui qui Voltaire stigmatizza il fanatismo, ricordando che veniva ogni anno celebrata come una festa la ricorrenza del massacro di quattromila ugonotti avvenuta a opera dei tolosani cattolici - l'accusa fu certezza. Il corpo del suicida fu inumato in chiesa e venerato come quello di un santo, mentre l'intera famiglia Calas, domestica cattolica compresa, nonché il giovane ospite che si chiamava Lavaisse, vennero imprigionati.

A questo punto, scrive Voltaire, la condanna a morte di Jean Calas parve cosa sicura, perché non c'era bisogno di prove ma bastava l'offesa alla religione.

Non so se, come scrive il prefatore che ho citato in nota, il grande polemista francese abbia, a favore della sua tesi, leggermente alterato qualche particolare. Ma se è vero che il corpo fu trovato senza alcuna ammaccatura o ferita e per giunta con accanto il vestito ripiegato, le prove non potevano essere altro che il fanatismo e l'oscurantismo.

I tredici giudici erano divisi, finché i pių favorevoli alla colpevolezza del Calas convinsero gli altri che, mandando al supplizio il vecchio, egli non avrebbe resistito ai tormenti della ruota e sotto i colpi dei carnefici avrebbe confessato il suo delitto e la complicità degli altri. E con un voto di maggioranza, un voto solo (qui Voltaire non può fare a meno di ricordare che ad Atene occorrevano cinquanta voti oltre la metà perché si pronunciasse un giudizio di pena capitale), viene decisa la morte di Jean Calas. Ma l'uomo, pur fra i supplizi, non confessa e spira sulla ruota chiamando Dio a testimone della sua innocenza e pregandolo di perdonare ai suoi giudici.

Le incongruenze della tesi colpevolista ritornarono alla mente dei giudici: l'impossibilità che il Calas, da solo, avesse potuto materialmente commettere il crimine, strangolando un vigoroso giovane di ventott'anni e impiccandolo poi, donde la necessità che il resto della famiglia avesse partecipato; l'impossibilità che vi avesse partecipato una serva cattolica che aveva allevato quel giovane da bambino; l'inammissibilità che il Lavaisse, amico del giovane, venuto da Bordeaux, si fosse reso complice del delitto. E poi: «Come mai una tenera madre avrebbe alzato le mani sul suo figliuolo? E come mai costoro avrebbero potuto strozzare un giovane forte come tutti loro messi insieme, senza una lotta lunga e violenta, senza grida atroci che avrebbero richiamato tutto il vicinato, senza ripetute percosse, senza lividi, senza abiti lacerati?»[18]. I giudici, imbarazzati, «furono costretti a emettere una seconda sentenza in contraddizione con la prima, e a liberare la madre, il figlio Pietro, il giovane Lavaisse e la serva: ma uno dei consiglieri fece osservar loro che tale sentenza smentiva la prima, e che si condannavano da sé: infatti tutti gli accusati erano sempre stati insieme nel tempo in cui si supponeva compiuto il parricidio, e quindi il proscioglimento di tutti i sopravvissuti dimostrava inoppugnabilmente l'innocenza del padre di famiglia giustiziato. I giudici, allora, decisero di sbandire il figlio Pietro Calas. Ma quel bando sembrava non meno incoerente e assurdo di tutto il resto: perché Pietro Calas era o colpevole o innocente del parricidio; se era colpevole bisognava suppliziarlo come il padre; se era innocente, non bisognava sbandirlo. Ma i giudici, sbigottiti dal supplizio del padre e dalla commovente pietà con cui era morto, si figurarono di salvare il proprio onore facendo credere che graziavano il figlio; come se far codesta grazia non fosse un'altra prevaricazione; e si persuasero che il bando di quel giovane povero e senza sostegno non avrebbe avuto seguito, e che quindi non era una grande ingiustizia rispetto a quella che avevano avuto la disgrazia di commettere»[19] .

Come completamento del salvataggio dell'onore della giustizia, vengono commesse altre infamie: le figlie vengono chiuse in un convento e la madre spogliata da ogni avere.

Ma un figlio del Calas si è rifugiato a Ginevra, l'anti-Roma delle confessioni riformate, e l'abominevole delitto commesso dall'intolleranza cattolica a Tolosa trova ampia risonanza. Voltaire, il patriarca di Ferney, che è alle porte di Ginevra, si "impossessa" dell'affaire, come poi fra poco pių di un secolo farà Zola dell'affaire Dreyfus, prende contatto con il Calas bandito, Pietro, e non consente che la famiglia Calas venga sacrificata come una vittima sull'altare dell'onore della magistratura. Mette in moto tutti i suoi mezzi e le sue conoscenze, mezza Europa a dirla in breve. Fa assumere da tre celebri avvocati la tutela della vedova Calas per ottenere la revisione del processo. Riportare in vita l'infelice Calas, scrive Voltaire, è impossibile, «ma si posson rendere esecrabili i giudici». E ci riuscì per tutti i secoli a venire, consegnando alla posterità, nel frattempo che stigmatizza l'errore giudiziario, le sue preziose riflessioni su quell'abominevole aspetto che, lungo i secoli, a cominciare dai primi, ha purtroppo assunto la sublime religione fondata da Cristo a causa dell'intolleranza.

Quanto alla conclusione procedurale dell'affaire, va precisato che, all'unanimità, il Consiglio di Stato parigino dichiarò innocente la famiglia Calas e riabilitò la memoria della povera vittima. Un provvedimento straordinario di Luigi XV attribuì alla famiglia a titolo riparatorio una cospicua somma.

Il fanatismo cattolico, tuttavia, non s'acquietò ed esiste tutta una letteratura anti-Calas; c'è stato uno scrittore e proceduralista che si è occupato di ricercarla, Franco Cordero. Il quale addita in Joseph de Maistre il massimo rappresentante dell'ideologa reazionaria e antivoltairiana di indirizzo cattolico e così ne sintetizza il pensiero in materia di errore giudiziario: «Siccome i boia colpiscono "il delitto", quale ente metafisico, l'istituto rimane santo malgrado eventuali lapsus in cui sia caduto chi giudica: défaillances occasionali senza rilievo nelle mappe dell'Essere; e poi siamo cauti sui cosiddetti abusi; "sono pių rari di quanto pensiate, senonché l'opinione pubblica, al minimo dubbio, sfida l'autorità e così viene avidamente bevuta ogni voce che insinui sospetti"; "mille passioni individuali rinfocolano l'impulso collettivo". Insomma, al pubblico labile, fatuo, male informato, sfuggono gli arcana iustitiae... Sta pensando al caso Calas. Tetragono e logorroico: non consta che Jean Calas fosse innocente; "nulla è meno provato, signori", ma colpevole o no, cosa importa? "che muoiano degli innocenti, è una sciagura come tante"»[20].

No, la condanna a morte di un innocente è tutt'altro che una sciagura come tante. E basterebbe una sola condanna capitale di un innocente, una sola per ciascun secolo, perché tutto il cammino della giustizia ne resti infangato. E non sono persuaso, come De Maistre, che si tratti di lapsus e che siano stati così rari da non doversene preoccupare.

L'intolleranza religiosa o razziale e il fanatismo continueranno a esigere vittime da sacrificare come agnelli. E si troveranno sempre i crimini da attribuire agli agnelli da sacrificare. Così come fu trovato per Sacco e Vanzetti - e in un paese che si ritiene presidio della libertà umana, gli USA - il delitto per incriminarli perché pagassero all'intolleranza altrui le proprie ideologie politiche. Da ricordare sul caso il bel film di Giuliano Montaldo.

Spesso, però, non è stato l'isterismo delle folle, l'intolleranza religiosa o la superstizione, come nel caso dei processi alle "streghe", a spingere sul patibolo esseri innocenti, ma la bieca volontà di un tiranno, per il quale i giudici non furono altro che docili strumenti della sua inumana prepotenza.

Si può trovare, nella storia dei secoli passati, un esempio pių patente di quello degli ignominiosi processi e delle condanne al rogo che subirono i Templari a opera del re di Francia Filippo IV il Bello? L'infame azione non fu passata sotto silenzio da un grande contemporaneo, Dante Alighieri, il quale vi accenna brevemente nel canto XX del Purgatorio (vv.91-93):

«Veggio il novo Pilato sì crudele,
che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele».

Chi parla è l'anima purgante di Ugo Capeto, il fondato re della dinastia dei Capetingi, che dapprima adopera espressioni di esecrazione per l'impresa compiuta in Anagni da Filippo di Nogaret e Sciarra Colonna su mandato di Filippo IV, il famoso "schiaffo di Anagni" in danno di Bonifacio VIII (ma il re di Francia fu ben pių che un Pilato nell'insulto a colui che, sebbene suo nemico, era pur sempre per Dante il vicario di Cristo). E poi con i versi sopra riportati paragona l'autorità del monarca francese a una nave pirata che irrompe nel Tempio, e ciò esorbitando dalla sua competenza, perché il "decreto" contro i Templari poteva essere emanato dal pontefice e non dal re.

Non possiamo dire se Dante fosse venuto o meno a conoscenza della "procedura" usata dal re francese, che invece apprendiamo da un cronista dell'epoca, Giovanni Villani. «Fuori di Parigi a Santo Antonio e parte a San Luis di Francia, in un grande parco, chiuso di legname, 56 dei detti tempieri fece legare ciascuno a un palo, e cominciare a mettere loro il fuoco dai piè alle gambe a poco a poco, e l'uno innanzi all'altro ammonendogli, che quale di loro volesse riconoscere l'errore e i peccati loro apposti potesse scampare... ma niuno di loro il volle confessare, ma con pianti e grida scusandosi come erano innocenti e fedeli cristiani, chiamando Cristo e Santa Maria e li altri Santi, e col detto martirio tutti ardendo e consumando, finirono la loro vita»[21].

Ma quale fu la ragione di tanto accanimento da parte di Filippo IV e come, a grandi linee, si può delineare l'atroce vicenda?[22].

Gli storici alla prima domanda non danno altra risposta che questa: le casse del regno di Francia erano vuote e invano era stata aumentata la pressione fiscale, occorreva procurarsi una "entrata straordinaria" e l'ordine cavalleresco-monastico dei Templari era ricchissimo. Č stato tramandato che, all'epoca in cui il re di Francia mise gli occhi sui loro beni, questi consistevano di circa novemila fra case, castelli, baliaggi, cioè uffici di balivo o giurisdizionali, commende con relative rendite terriere, priorati. Il capitale mobiliare era calcolato in 150.000 fiorini d'oro e nel carico d'argento che potevano trasportare dieci muli. Č anche accertato che i Templari facessero dei prestiti ai vari re e principi e che il re di Francia fosse un loro debitore.

Che un ordine cavalleresco-monastico sorto, come quello dei cavalieri di S. Giovanni (poi divenuto di Malta), per la protezione dei pellegrini che andavano nei Luoghi Santi e per la difesa di questi, possa essere diventato così ricco a noi moderni può fare una certa impressione. Ma se consideriamo le conquiste effettuate in occasione delle crociate e i vari lasciti, si può ritenere che l'ordine era diventato una vera potenza finanziaria internazionale e, quando nulla era rimasto della dominazione occidentale, a seguito delle crociate, nei territori del Libano e della Palestina, si può anche essere d'accordo che l'ordine non aveva pių gli scopi militari e religiosi per cui era sorto agli inizi del sec. XII per iniziativa dI Ugo di Payens. Qualche storico vi aggiunge, come cofondatore dell'ordine, anche il nome di Goffredo di Saint-Omer.

Sebbene l'ordine fosse esteso in quasi tutta l'Europa occidentale (in Germania e nell'Europa Orientale dominava invece l'ordine dei cavalieri teutonici), esso aveva in Francia la sua sede principale. Un intero quartiere di Parigi, il Tempio, appunto, gli apparteneva e godeva di "diritto d'asilo", cioè era sottratto alla giurisdizione civile. Si ricorderà che proprio nella "torre del tempio" furono prigionieri, durante la rivoluzione, Luigi XVI e la sua famiglia. Ma forse è pių notevole ricordare che nel Tempio, presso coloro che avrebbe poi perseguitato, si era rifugiato il re Filippo in occasione di una sollevazione popolare nel 1300.

Probabilmente le voci di empietà e di immoralità nei confronti degli appartenenti all'ordine dovevano circolare da qualche tempo. Al re bastò approfittarne. Si diceva, per esempio, che loro, in cerimonie segrete, adorassero una "testa" misteriosa[23]. Del tutto fantasiosa poi era l'accusa che i Templari sputassero sulla croce, dopo averla rinnegata (ter abnegabat et horribili crudelitate ter in faciem spuebat eius: per tre volte, asseriva questa calunniosa accusa, il templare ricusa la croce e per tre volte ci sputa sopra); l'accusa di adorazione di idoli si collega forse a quella della "testa". E, infine, l'accusa che i Templari praticassero la sodomia, era facile metterla su, sol che si pensi che non v'è comunità strettamente unisessuale e chiusa ai contatti con l'altro sesso in cui non faccia capolino l'omosessualità o, per lo meno, si sospetti che vi serpeggi. Che fossero smodatamente ricchi e lontani dalla povertà evangelica (ma era l'epoca in cui dire che Cristo e gli Apostoli avevano insegnato la povertà passava per un'eresia) nessuno lo contestò ai Templari. Eppure era stata la causa della loro rovina.

Formulata una serie di capi d'accusa, il Bello sferrò l'attacco e fece arrestare il gran maestro dell'ordine, Giacomo di Moley, e pių di un centinaio di cavalieri. Invano, prima di questo gravissimo passo, il papa Clemente V, che è il primo della serie dei papi avignonesi e segna l'inizio dell'asservimento della sede pontificia alla monarchia francese, aveva tentato di correre ai ripari proponendo la fusione dell'Ordine con quello dei cavalieri di S. Giovanni, che, nato col compito di curare i pellegrini in Terra Santa che si fossero ammalati manteneva (e mantiene tuttora come Sovrano Ordine Militare di Malta), funzioni ospedaliere. Il provvedimento della fusione non poteva fare raggiungere all'avido re il proposito che si era prefisso, che era quello di incamerare i beni dell'Ordine, previa una sentenza di condanna.

Il tribunale dell'Inquisizione si mise così all'opera. Alla sua trista opera. Tribunali sia civili che ecclesiastici avevano allora pių o meno la stessa procedura: torturare gli indiziati. Se venivano strappate sollecitamente delle confessioni, con la promessa del perdono, queste servivano poi come prove contro gli altri. A chi non confessava venivano applicati ulteriori tormenti, tanto che ben trentasei ne morirono sotto tortura. All'"istruttoria" (se la si volesse chiamare così) pių volte partecipò il re stesso e come sia stata tramandata tale "solerzia" del re-boia dai cronisti del tempo lo si è visto sopra nel citato brano del nostro Villani. Uno studioso dei primi del sec. XIX raccolse gli atti di tale processo: Raynourd, Monuments historiques rélatives à la condamnation des chevaliers du Temple, Paris, 1813.

L'eco di quella ferocia inquisitoria dovette giungere fino al papa e, per quanto fantoccio nelle mani di Filippo, Clemente V credette giusto protestare, ma il re lo mise a tacere inviandogli una settantina di cavalieri confessi che ripeterono la loro confessione al papa. E, suppongo, ottennero (sarebbe pių esatto dire: comprarono) la loro salvezza dal rogo.

I processi e le condanne al rogo continuarono inesorabili negli anni successivi, e non soltanto a Parigi e nella sola Francia e si suppone che non pochi dei perseguitati si salvarono mediante la fuga. Intanto, dato che l'Ordine aveva radici in varie parti d'Europa, processi intentati altrove, fuori della Francia cioè, erano finiti con assoluzioni; sicché la questione fu una delle pių dibattute sul finire del Medio Evo.

Il papa, infine, si decise a convocare un concilio che ebbe inizio a Vienne, città non lontana dalla sede papale di allora, nell'ottobre del 1311; ma i lavori non parevano indirizzarsi verso la soluzione desiderata dal re, che era la condanna di tutto l'Ordine. L'intervento del re nel febbraio 1312 ruppe gli indugi e, con bolla pontificia, l'Ordine fu soppresso, sia per "sospetti" di eresia sia per la sua inutilità rispetto agli scopi originari, e si dichiarava che i beni meglio sarebbero stati utilizzati... a profitto del nome cristiano! Cioè dovevano essere devoluti agli Ospitalieri. Niente di tutto questo. Filippo, come ha precisato il Salvemini, continuò a godere le rendite dei beni immobili, distrusse tutti i registri contabili, dove risultavano i suoi debiti con l'Ordine e, oltre alle ricchezze incamerate, si fece anche pagare dagli Ospitalieri duecento mila lire tornesi a... saldo dei suoi crediti!

Non molto dopo veniva condotto al rogo il gran maestro Giacomo di Molay, il quale affrontò il supplizio, si racconta, con estrema dignità ma anche invocando la mano di Dio sia sul re sia sul papa che gli aveva tenuto bordone. Qualcuno, nella morte del re e del papa Clemente V, avvenuta nello stesso anno, 1314, in cui il gran maestro era stato arso vivo, non ci vide una semplice coincidenza.

Ma se Hitler, nell'epoca nostra, ha superato in ferocia e in forsennato disprezzo dell'essere umano tutti i tiranni del passato, i re-boia come Filippo il Bello, i persecutori, gli inquisitori, i giudici che condannavano al rogo le streghe, e ogni altro malvagio che si sia servito del potere per offendere e opprimere, io ritengo che anche nel settore "assassinii con la spada della giustizia" la nostra epoca detenga la palma e abbia superato ogni altra epoca con le "purghe staliniane". E per una semplicissima considerazione: che nei processi del 1936 condotti dal pubblico accusatore Andrej Vyšinskij (professore di diritto penale all'Università di Mosca: che schifo fanno certi giuristi!), gli accusati, Sinoňev in testa, si dichiaravano pentiti del loro tradimento e sembravano, come scrive uno storico, «pronti ad addossarsi colpe anche maggiori di quelle contestate dal procuratore generale»[24].

«Kamenev», prosegue lo storico citato in nota, «incolpò indegnamente non solo se stesso ma anche altre persone. A prescindere da una sparata retorica finale ("Chiedo che questi cani impazziti siano fucilati tutti quanti") Vyšinskij condusse l'accusa con tono calmo. Nessun difensore fu ammesso al processo. Tutti gli accusati furono condannati dal supremo tribunale militare alla pena massima, la fucilazione, e giustiziati il 25 agosto 1936. Questo primo grande processo propagandistico destò enorme impressione nell'Unione Sovietica e all'estero. L'opinione pubblica sovietica giudicò provata la colpevolezza degli accusati. Nell'Europa occidentale invece si avanzavano gravissimi dubbi sulla giustizia amministrata dai tribunali sovietici, benché fossero stati diffusi da Mosca resoconti stenografici del processo. Ciò che riusciva assolutamente incomprensibile era l'arrendevolezza, per non dire lo slancio, con cui i condannati si erano addossati le accuse».

I processi contro i "nemici del popolo" continuarono, come è ben noto: il processo "dei diciassette" (23-30 gennaio 1937), fra cui numerosi generali dell'Armata Rossa, il processo "dei ventuno" (2-13 marzo 1937), la cui vittima pių nota fu Bucharin e, infine, le epurazioni senza sosta effettuate da Berija.

Come si spiega, ci chiediamo noi occidentali, questo "zelo" nell'autoaccusarsi. Ce lo spiega, una volta per sempre, il libro Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler. L'accusato viene sottoposto a un lavaggio del cervello per cui infine si persuade che per il suo bene, per il bene del partito e della causa del proletariato, per il trionfo della rivoluzione bolscevica non c'è altro mezzo che dichiararsi traditore!

5.
L'ombra di una colonna

ACCENNANDO al romanzo di Koester - che, pubblicato in Italia nell'agosto 1946, servì a molti giovani a far capire che cosa fosse il "paradiso" sovietico, vaccinandoli per sempre da utopici sogni collettivistici - si tocca il genus del "romanzo-inchiesta giudiziaria", cui appartengono non pochi libri della letteratura presente e passata che, forse, assai pių dei trattati ci dicono che cosa è e che cosa dovrebbe essere la giustizia.

Al genere (lungi da chi scrive l'idea di...risuscitare i generi letterari, ma, per comodità, della locuzione penso possa servircisi) appartengono non pochi libri di Sciascia, I pugnalatori per esempio, e quello che, narrando di un processo per stregoneria, maggiormente merita menzione in queste pagine: La strega e il capitano, che uscì dapprima a puntate sul Corriere della Sera e poi in volume. Leonardo Sciascia vi narra il pietoso caso di una certa Caterina Medici, cui brevemente fa riferimento il Manzoni nel suo grande romanzo allorché ci parla del protomedico Ludovico Settala; il quale, mentre all'insorgere della famosa peste del 1630, aveva dimostrato un certo acume, si comportò proprio da imbecille qualche anno prima, asserendo che i disturbi di cui soffriva un suo assistito erano da attribuirsi ai malefici stregoneschi della serva Caterina. Torturata e resa persuasa, attraverso gli strazi, che aveva avuto contatti "carnali" con il demonio, non poteva che finire sul rogo.

Lo stesso Sciascia attribuisce la qualifica di "romanzo-inchiesta giudiziaria" al libro di Manzoni meno letto dagli italiani (e pensare che il Manzoni del romanzo, degli Inni Sacri, dei Cori delle tragedie e del Cinque Maggio è il crocevia di quasi tutta la cultura italiana, quando non è stato... la croce degli anni scolastici).

Si tratta, come ognuno avrà ben capito, della Storia della Colonna Infame, in cui il Manzoni, dopo aver ripercorso le tappe del processo contro gli untori, stigmatizza l'infamia compiuta dalla giustizia del tempo mandando a morte degli innocenti e che credette, addirittura, di immortalarsi erigendo una colonna con un epitaffio commemorativo là dove era stata abbattuta la casa di uno degli "assassinati con la spada della giustizia", Giangiacomo Mora.

Per una descrizione materiale della colonna e relativamente alle circostanze del suo abbattimento ci si può rifare a quanto ne scrive Francesco Cusani, traduttore della storia della peste del 1630 scritta in latino dal canonico Giuseppe Ripamonti, che fu la principale "fonte" del Manzoni.

«Questa Colonna di granito con basamento di ceppo, ed una palla in cima, sorgeva all'angolo sinistro della via detta la Vedra dei Cittadini entrando dal corso di San Lorenzo, precisamente rimpetto all'attuale farmacia Poratti. Monumento sciagurato d'errori pių dei tempi che degli avi nostri, la Colonna Infame durò in piedi 148 anni, e fu sempre guardata con ribrezzo ed esecrazione»[25].

Il solerte traduttore non ci dice nei confronti di chi sorgeva tale esecrazione. Nei primi tempi, s'intende, nei confronti dei condannati, ma poi, quando con il passare degli anni si cominciò a capire qualche cosina di pių sulle epidemie e si fu certi che gli untori erano sicuramente innocenti, perché la peste non si può fabbricare ad hoc[26], l'esecrazione si spostò sui giudici.

Il nome dei magistrati che resero questo...capolavoro di giustizia si possono leggere ancora sotto l'iscrizione in latino che era stata apposta sulla colonna e che ora si trova nel museo del Castello Sforzesco, iscrizione che così traduce il Cusani: «Qui dov'è questa piazza sorgeva un tempo la barbieria di Gian Giacomo Mora il quale congiurato con Guglielmo Piazza pubblico commissario di sanità e con altri mentre la peste infieriva pių atroce sparsi qua e là mortiferi unguenti molti trasse a cruda morte questi due adunque giudicati nemici della patria il Senato comandò che sovra alto carro martoriati prima con rovente tanaglia e tronca la mano destra si frangessero colla ruota e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati poscia abbruciati e perché nulla resti d'uomini così scellerati confiscati gli averi si gettassero le ceneri nel fiume a memoria perpetua di tale reato questa casa officina del delitto il Senato medesimo ordinò spianare e giammai rialzarsi in futuro ed erigere una colonna che si appelli infame lungi adunque lungi da qui buoni cittadini che voi l'infelice infame suolo non contamini. Il primo d'agosto MDCXXX.

Marc'Antonio Monti, pubblico presidente della Sanità. G. Battista Trotto, presidente dell'amplissimo Senato. G. Battista Visconti, capitano di giustizia».

Nella nota posposta all'edizione della Storia della Colonna Infame (Sellerio, Palermo, 1981), nella stessa nota in cui chiama tale libro "romanzo-inchiesta giudiziaria", Leonardo Sciascia rammenta un'osservazione del Foscolo relativa all'ammirazione espressa dallo scrittore inglese Joseph Addison per il bel latino usato in quell'epigrafe, senza informare su quell'"infelice avvenimento". Dice Sciascia: ma a che prendersela con lo svagato viaggiatore Addison, interessato al bel latino, quando neanche il bell'italiano del Manzoni ha smosso le coscienze degli italiani contemporanei e posteri?

Ma, con molta probabilità, la coscienza che infame non era la colonna e l'azione dei condannati, ma quella sorta di giustizia che aveva arrotato degli innocenti, dovette sorgere a poco a poco, certo un bel po' dopo che il Ducato di Milano era passato dal dominio spagnolo a quello imperiale austriaco. Tanto che si dubita se il Parini sapesse o meno dell'innocenza degli untori e il traduttore Cusani è persuaso che il poeta partecipasse ancora dell'errore. Non così, invece, il Manzoni che scrive: «Era questa veramente l'opinion del Parini? Non si sa; e l'averla espressa, così affermativamente bensì, ma in versi, non ne sarebbe un argomento; perché allora era massima ricevuta che i poeti avessero il privilegio di profittar di tutte le credenze, o vere, o false, le quali fossero atte a produrre un'impressione, o forte, o piacevole. Il privilegio! Mantenere e riscaldar gli uomini nell'errore, un privilegio! Ma a questo si rispondeva che un tal inconveniente non poteva nascere, perché i poeti, nessun credeva che dicessero davvero. Non c'è da replicare: solo può parere strano che i poeti fossero contenti del permesso e del motivo».

Intenzionato a non lasciargliene passare una al Manzoni e a scovare tutte le sue inesattezze e qualche discutibile asserzione, il Cordero, nel citato libro che è tutto una filippica antimanzoniana, polemizza anche su questo passo che concerne il Parini.

Ma come mai il poeta tanto amato e venerato dal Foscolo si interessò della Colonna Infame? Ce lo spiega, meglio di chiunque altro, il traduttore Cusani. Domenico Balestrieri, poeta dialettale milanese, amico del Parini e quasi suo coetaneo (1714 - 1780), tradusse, lavorandoci, ahilui, ben diciassette anni, La Gerusalemme Liberata in milanese; in una nota alla stanza 70 del canto VIII del poema tassesco (in abito...meneghino) ci conservò un frammento «d'un Sermone Chiabreresco e del pių fino gusto, Orazione che l'abate Parini, degnissimo R. Professore d'Eloquenza, ha recitato in un'accademia pubblica. Si figura in esso d'incamminarsi al Tempio di San Lorenzo, vivamente esprimendosi in questa guisa». Il frammento, che non consta soltanto dei nove endecasillabi citati dal Manzoni, contiene anche la traduzione in versi dell'epigrafe della Colonna Infame e, presentando la personificazione dell'Infamia, non vuol dire altro che il poeta rifugge dall'infamia e cerca la gloria. Argomento del "sermone" non erano evidentemente gli untori e l'abominevole processo che avevano subito.

Ma, intanto che il Parini vi poetava sopra con altri intenti, c'era (secondo il racconto del Cusani) chi vedeva in quella colonna un ricordo di atrocità che disonorava Milano e pensava al modo come rimuovere materialmente quella specie di "pena accessoria", come l'ha chiamata argutamente e con linguaggio giuridico moderno, un mio collega[27].

Ed è a questo punto che la Gerusalemme Liberata in abito meneghino con i versi del Parini in nota ti gioca un ruolo imprevedibile per la sorte materiale della colonna. Il poeta Balestrieri manda il suo lavoro al barone di Sperges, ministro plenipotenziario a Vienna per gli affari d'Italia, e al barone spiacque che si facesse menzione di una "infausta memoria"; la voce girò fra le persone colte di Milano, tanto che il Balestrieri, trovandosi a pranzo dal conte di Firmian, governatore della Lombardia, gliene parlò e il Firmian sottopose la questione della rimozione materiale della colonna agli altri membri del governo e allo stesso arciduca Ferdinando. Scovata una vecchia legge, secondo cui i monumenti di infamia non si dovessero pių restaurare se minacciavano di cadere, il governo fece in modo che si raccogliessero le firme degli abitanti della zona in una petizione di rimozione del decrepito "monumento" ridotto davvero, come scrive il Cusani, in cattivo stato.

La petizione fu passata al Senato, che, non volendo disapprovare una decisione di circa un secolo e mezzo prima, negò il proprio assenso per ben tre volte, ma il governo la fece abbattere lo stesso nottetempo. E il 1° settembre 1778 fu redatto l'atto ufficiale della distruzione della colonna.

Ciò che aveva impedito al Senato milanese, quell'organo giurisdizionale che aveva la presunzione di paragonarsi alla divina giustizia (Senatus judicat tamquam Deus), di dare il proprio assenso per la rimozione di un monumento che ricordava ormai una palese ingiustizia era l'"intangibilità dell'onore dell'organo giudicante", era lo stesso feticcio che Voltaire tentò di abbattere rendendo esecrabili i giudici del processo a Jean Calas.

E fu anche ciò che impedì a una delle menti pių acute dell'illuminismo milanese, Pietro Verri, di pubblicare in vita un libro che avrebbe potuto procurargli celebrità tanta quanta ne procurò a Cesare Beccaria il famoso Dei delitti e delle pene.

Pietro Verri ebbe in mano gli atti del processo a carico degli untori (per la precisione le argomentazioni difensive dell'avvocato di don Giovanni Padilla, che erano state stampate) e da lì trasse la convinzione che la condanna a morte di quegli innocenti era dipesa dall'uso "processuale" della tortura. Il libro che scrisse, Osservazioni sulla tortura, inizia seguendo minuziosamente le fasi del processo: il sospetto, gli interrogatori, le torture, le chiamate in correità, le ulteriori torture per "purgare" l'infamia e così via. Prosegue poi precisando come presso i romani la tortura era riservata agli schiavi e agli infames (ed è allora che nasce la famigerata questione della purgazione dell'infamia) e notando poi come, nel corso dei secoli, la tortura divenisse un uso generalizzato e addirittura minuziosamente studiato dai vari "dottori" che avevano costruito, a giudizio del Verri, sul nulla o ben poco che si trova nei "Digesta" giustinianei in materia di tortura, tutto un cumulo di prescrizioni. Il Verri, perciò, condanna recisamente questi giurisperiti delle età passate per aver "legittimato" l'uso della tortura per estorcere confessioni.

Il libro, se pubblicato nel periodo in cui ancora si discuteva se sopprimere o meno con atto sovrano l'uso della tortura, avrebbe potuto avere una larghissima eco. Ma mentre il primo a muoversi per la soppressione era stato Federico II il Grande di Prussia, il Senato di Milano, fatto su ciò consultare dall'imperatrice Maria Teresa, aveva espresso parere contrario.

Presidente del Senato milanese era il padre di Pietro, Gabriele Verri. E fosse rispetto, fosse vero e proprio metus reverentialis, rispetto cioè commisto a paura, il Verri non seppe decidersi in vita alla pubblicazione del libro. Il mito, dunque, dell'onore del potere giudiziario esercitò anche sul Verri il suo nefasto influsso.

Non ebbe, invece, preoccupazione alcuna di salvare il prestigio dei magistrati il Manzoni, ché anzi l'oggetto principale del suo sdegno, in quella che egli chiamò modestamente "appendice" del romanzo, sono i giudici che condannarono i pretesi untori. E, a tutta prima, tenendo fra le mani la breve opera del Manzoni dedicata al processo contro gli untori, ci si chiede perché mai egli non l'abbia inserita ne I Promessi Sposi. E davvero non sembra molto persuasivo, dopo l'accenno che fa il Manzoni all'opera di Pietro Verri, quel suo: "Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di trattarla con l'estensione che merita".

No, non fu questione di "spazio narrativo" o la preoccupazione di inserire nel già ampio romanzo una troppo lunga digressione. Il problema era invece - e bene lo ha notato Sciascia nella nota già indicata - che l'ignominia di un processo concluso con il supplizio di innocenti era una "deviazione" dall'assunto del grande romanzo. Il quale, come tutti ben sanno e come costantemente si ripete, e un grande fiume che scorre verso una inequivoca foce: la fede nella divina provvidenza. E di questa "deviazione" è manifesta spia ciò che dice il Manzoni proprio nell'introduzione alla Colonna Infame: «...proviamo, insieme con l'orrore e con la compassion medesima, uno scoraggiamento, una specie di disperazione». E pių oltre, ancora pių chiaramente si aggiunge: «Il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza o accusarla». E da questo dilemma terribile il cattolicissimo Manzoni esce solo in una maniera, accusando i giudici, arrotandoli spiritualmente come essi avevano materialmente fatto arrotare persone condannate per un "reato impossibile".

Per la verità il concetto di reato impossibile, nel campo della scienza giuridica penalistica, concerne quell'attività, censurabile dal punto di vista etico, che si prefigge la commissione di un illecito senza raggiungere l'intento (ed è, perciò, che la legge non può condannare tale azione) o per inidoneità dell'azione, per esempio sparare con una rivoltella caricata a salve contro qualcuno con l'intenzione di ucciderlo, oppure per inesistenza dell'oggetto del reato, come per esempio sparare contro un cadavere ritenendo che si tratti di persona ancora viva.

Ma davvero non saprei trovare altra categoria giuridica per inquadrarvi il reato di "confezionare la peste" di cui furono imputati gli untori e per il quale furono mandati al patibolo.

Non così oggi, s'intende, perché non la sola peste, ma qualsiasi altra malattia potrebbero spargere le armi batteriologiche. Ma allora pensare che la peste potesse essere confezionata da un nemico politico o da un gruppo di uomini che si fossero messi a congiurare col diavolo era davvero un frutto di fantasie esaltate.

Eppure i "dotti" di quel tempo ci credettero fermamente al "contagio manufatto". Ma la loro "dottrina" era del tipo di quella di don Ferrante (e, per obiettività, bisogna anche dire che rassomigliava tanto a quella dei nostri giorni in fatto di radioattività e di conseguenze a breve o a lungo termine dopo il disastro di Chernobyl). Chi non si ricorda di questo singolare personaggio dei Promessi Sposi?

Non sono i casi di due fidanzati le cui nozze sono ostacolate da un signore prepotente ciò che fanno il fascino (quante volte ci è stato ripetuto!) del capolavoro manzoniano, né tanto meno lo scopo "edificante" che si sottende alla grande costruzione: che la divina provvidenza ha pur sempre nelle mani il filo delle vicende umane, ma sono gli infiniti pregi della narrazione a rendere il libro punto focale di tutta la nostra storia letteraria e crocevia, ripeto, da cui la cultura italiana passerà sempre.

Fra questi pregi è stato sempre indicato il felice disegno di tutti i personaggi minori. Felicissimo è quello di don Valeriano Ferrante, il quale, come è ben noto, filosofeggia sulla peste e si chiede, alla luce dei filosofemi del tempo, se la peste sia "sostanza" o "accidente", concludendo a fil di logica (del suo tempo) che non essendo né l'una né l'altro, la peste non esiste.

Va da sé che il personaggio don Ferrante non può, per esigenze d'arte, che morire di peste[28].

Qualche dubbio sull'esistenza di confezionatori di peste avanza, ma con una certa cautela, lo storico contemporaneo Giuseppe Ripamonti, uno storico abbastanza obiettivo e di solito acuto e bene informato e della cui cronaca, perciò, abbondantemente si servì il Manzoni nella stesura dei capitoli XXXI e XXXII del grande romanzo. Che non sono, è bene ricordarsene, una digressione (come, in fondo, poteva essere la poi soppressa storia delle vicende turpi e penose della Monaca di Monza); e se la peste non è il deus ex machina, come pure si è scritto, che risolve l'intreccio del romanzo, è fuori di dubbio che la carestia, le vicende belliche che la causano, il tumulto in cui si trova coinvolto Renzo Tramaglino e infine la peste sono parte essenziale del tessuto narrativo, di cui la storia scritta dal Ripamonti (e tradotta dal Cusani) fornì non pochi fili. E sentiamolo nella traduzione del suddetto Cusani:

«Il primo e fondatissimo sospetto degli unguenti sparsi dall'umana malizia per creare od alimentare la peste, nacque allorché fu visto in tutta la lunghezza della città le pareti delle case a destra e a sinistra contaminate qua e là di grandi macchie. Ciò accadde il 22 aprile (scil. del 1630) allo spuntare del giorno, che era sereno, cosicché ognuno vedea chiaramente co' proprj occhi tali macchie. Alcuni che uscivano pei loro affari sull'albeggiare le videro; poi altri che eccitarono i passanti ad esaminarle, finché cresciuta la curiosità v'accorse il popolo in folla. Erano codeste macchie sparse e sgocciolanti in diverse guise, come se alcuno avesse imbevuta una spugna di marcia, appiccicandola alle pareti. Anche le porte delle case e gli usci qua e là scorgevansi bruttate da quell'aspersione. Funesto delitto di recente commesso quasi per insultare il popolo, e che io pure andai a vedere»[29].

Eppure, a dispetto di queste macchie viste con i propri occhi, nelle pagine del Ripamonti serpeggia qualche dubbio. Del resto, a onor suo, il dubbio sull'esistenza degli untori sfiorò anche il cardinale Federico Borromeo. E Manzoni riferisce anche che Ludovico Antonio Muratori aveva sentito dai suoi "maggiori" che v'era chi non credeva all'esistenza della "peste manufatta", ma accettava supinamente l'opinione dei pių e così, conclude il Manzoni, il buon senso veniva messo in fuga dal senso comune.

Ma allora le macchie che certamente furono viste? Si trattò della spiritosaggine di qualche signorotto buontempone? Però, in tal caso, lo scherzo di cattivo gusto avrebbe dovuto essere organizzato da una specie di "congiura di buontemponi", perché le macchie furono viste a Lodi, a Cremona e a Pavia. O la sporcizia di quel tempo era tale che un abbaglio collettivo era facile prenderlo? Se poi si pensa che spesso i muri di queste città della pianura padana sembrano trasudare umidità, si può esser certi che macchie di umido e macchie di sporco erano una cosa comunissima e bastò l'isteria collettiva, per vedere ciò che, magari, non si era visto mai ma che pure era sempre esistito, per attribuire questa presunta "novità" a uomini che avevano stretto un patto col demonio. E del resto proprio su questo punto, l'arrivo a Milano di Satana in persona, l'arcivescovo di Magonza ebbe a interrogare per lettera quello di Milano.

Quel che è certo - e quel che è peggio - è che la popolazione di Milano, che pure dapprima non voleva neanche sentire parlare di peste e bisognò ricorrere all'eufemismo di febbri pestilenti, quando fu certa del contagio per il diffondersi e l'aumentare della morìa (specie dopo la processione, per invocarne soccorso, con il corpo di san Carlo, "mitrato il teschio" precisa un po' macabramente Manzoni), non ebbe pių dubbi sull'esistenza degli untori e volle istericamente dei capri espiatori.

I giudici, sull'onda dell'isteria collettiva, riuscirono a trovare le vittime predestinate, i "mostri", ottennero la loro confessione mediante ripetute sottoposizioni alla tortura e condannarono a morte (una morte, come si è già detto, atroce) dapprima due innocenti, quelli "immortalati" nella colonna; Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza, poi diversi altri. Innocenti, senza dubbio, checché venga cianciando Fausto Nicolini nel libro Peste e untori del 1937 e qualsiasi cavillo giustificatorio procedurale per i giudici scovi il Cordero nel recente La fabbrica della peste. Innocenti, perché noi sappiamo che il reato era impossibile nel senso pių pieno - ancorché metagiuridico - della parola.

Casca qui a proposito un breve cenno su come si svolsero le cose, senza alcuna pretesa, s'intende, di ripercorrere le tappe del processo, come fece dapprima Pietro Verri, come ripeté poi con maggiori dettagli giuridici il Manzoni circa un secolo dopo e, infine, dopo pių di un altro secolo, con una precisione procedurale impressionante, Franco Cordero.

Premesso che la gente vedeva untori dovunque (e basti a tal proposito ricordare gli episodi che, sulla scorta del Ripamonti, narra nel capitolo XXXII il Manzoni) accadde che una mattina di principio d'estate, che era però piovosa, il 21 giugno di quell'anno di disgrazia, per Milano, 1630, una donna, una popolana, affacciatasi da una finestra di casa che si apriva in un cavalcavia, vide un tale che, con calamaio e penna in una mano, con l'altra andava toccando il muro. Subito sorge il sospetto nella donna, che si chiamava Caterina Rosa (il Verri precisa meglio: Caterina Rosa Trucazzano); sospetto e non altro. «Mi viene in pensiero...» è infatti la sua dichiarazione agli atti processuali. E poiché l'uomo uscendo dal vicolo aveva salutato un tizio, si riesce a risalire al preteso untore, che è Guglielmo Piazza, un commissario di sanità, un impiegato cioè di basso rango in tempo di peste, che prendeva nota dei morti per farne ritirare i corpi dai monatti.

Una volta in mano alla "giustizia" (chiamiamola pure così), si fece presto a scoprire nelle sue dichiarazioni pretese contraddizioni, il che legittimava l'uso della tortura. La prima "inverisimiglianza" o, meglio, la prima scusa che trovò il capitano di giustizia (una specie di giudice istruttore di oggi) fu che il povero Piazza non sapeva dire i nomi delle persone con cui aveva parlato quella mattina.

Il Piazza non regge ai tormenti e "confessa" di avere usato l'onto. Se dichiara, gli si dice, chi gliel'ha fornito, potrà beneficiare dell'impunità promessa dal Governatore del ducato di Milano a chi denuncia i "fabbricanti" di peste. E il Piazza fa il nome di un barbiere che abita proprio nel vicolo dove si pretendeva di averlo visto ongere, il Mora. A furia poi di altre contraddizioni, di inverisimiglianze, di "purgazione" dell'infamia, di confronti fra il Piazza e il Mora, si continuano a fare altre chiamate in correità, come diciamo attualmente, in pratica si tirano in quella pania altri innocenti. Di cui alcuni possono anche essere stati dei gran farabutti, lenoni e specie di bravacci, come osserva il Nicolini e come gli fa eco il Cordero, ma del reato di "confezionamento di peste" con relativi batteri possiamo esser certi che erano innocenti, perché di un tale reato (o abominio che dir si voglia) solo oggi si può essere colpevoli fabbricando armi batteriologiche e l'addebito si può fare solo alle superpotenze e a chi le governa.

Fra quei farabutti-innocenti merita una rapida citazione un certo Baruello il quale (viene quasi da ridere a questo punto, se non fosse tutto tremendamente tragico!), per sfuggire alla tortura, si finge indemoniato, per cui occorre chiamare un prete esorcista; ma si salvò poi dal patibolo non tanto per questa invenzione quanto per essere morto di peste.

Ma il motivo, chiedono gli inquisitori, il "movente" per stare sempre nell'ambito del lessico attuale, per il quale tali uomini si erano indotti a procurare morte agli altri? Siccome il barbiere Mora aveva pasticciato una specie di antidoto contro la peste, ecco che, ammalandosi tanta gente, egli può smerciare meglio il suo "elettuario", questa la risposta. Figurarsi se quelle gran teste di giudici ("lavoravano al meglio" osa scrivere Il Cordero) si potevano acquietare a una simile spiegazione. Qua ci voleva una congiura politica per spiegare tutto. E che scrive, infatti, il Ripamonti (sempre nella traduzione del Cusani)? «A molti era entrata nell'animo la persuasione che la peste fosse seminata e diffusa per frode dai prìncipi congiurati, affine d'invadere la città e il territorio di Milano con buon esito, dopo che invano l'aveano tentato altrimenti»[30].

Così occorre che gli indiziati nominino una "persona grande". E il barbiere Mora, sotto tortura, chiama in correità, anzi indica come mandante, il figlio del comandante del presidio spagnolo di Milano, don Giovanni Padilla. Tirando dentro un pesce grosso - scrive Manzoni - sperava che avrebbe fatto uno squarcio tale nella rete, in cui si trovavano impaniati, da fare uscire anche i pesci piccoli. Ma questi furono "liquidati" (nel disumano modo che sappiamo) senza indugio e senza neanche pensare alla necessità "processuale" (anche di un processo di trecentocinquant'anni fa!) di mettere a confronto il Mora e il Piazza con il Padilla. Il quale nobile spagnolo rimase sì in carcere, precisamente nel castello di Pizzighettone, per quasi tre anni, ma infine fu riconosciuto innocente e assolto.

E, a questo punto, il Manzoni si chiede se, riconosciuta l'innocenza del presunto mandante, i giudici che avevano mandato all'atroce supplizio dapprima il Mora e il Piazza e poi altri innocenti, non siano stati colti dal rimorso di essere incorsi in un errore giudiziario. «Tutt'altro, almeno per quel che comparve in pubblico...E in quanto a quello che sia passato nel cuor de' giudici, chi può sapere a quali nuovi argomenti sia capace di resistere un inganno volontario, e già agguerrito contro l'evidenza.»[31].

Il Cordero che per terzo, come si è detto, si è preso l'incarico, assolvendolo egregiamente, di esaminare questo orribile e vergognoso processo e che non risparmia critiche al Manzoni (sia per certe "esclamazioni" usate nel libro in questione con un non eccessivo fondamento procedurale, sia anche per tutti gli altri scritti manzoniani di carattere polemico-cattolico, comprese le critiche, un po' fuori luogo, contro lo scrittore di idee laiche Pietro Giannone), è del parere che non i giudici personalmente siano stati colpevoli della nefanda condanna ma il sistema processuale del tempo, affermando che da giudici con i pregiudizi propri dell'epoca e integrati in quel sistema non ci si poteva aspettare altro.

Non è il primo, il Cordero - e si ricordi l'assoluta precisione e puntigliosità formale da professore di procedura penale, quale è, con cui ripercorre tutto il processo contro gli untori - che non dà la croce addosso al giudici di quel processo. Anche il traduttore del Ripamonti, il Cusani, li giustifica e ricorda come rimasero fermi ai loro posti, nel generale scompiglio, adoperandosi di alleviare i danni del contagio, di cui poi il Monti rimase vittima e conclude così: «la condanna degli untori è ella da rimproverarsi all'animo perverso ed alla ignoranza dei giudici, o sì veramente alla triste e quasi inevitabile conseguenza della superstizione de' tempi? A voi, lettori, lo spassionato giudizio!»[32].

Ma prima di rimettere anch'io il giudizio ai lettori (e poiché io sto col Manzoni sono...in buona compagnia), non posso fare a meno di ricordare che Sciascia nel menzionare il parere di Fausto Nicolini, secondo cui di quei giudici che condannarono gli untori tutta Milano venerava l'integrità e l'amore per il bene pubblico, l'ingegno e il coraggio civile, così precisa: «...viene da pensare a quel libro dì Charles Rohmer, L'altro, che è quanto di pių terribile ci sia rimasto nella memoria e nella coscienza di tutta la letteratura sugli orrori nazisti pubblicata dal 1945 in poi: "una dimostrazione per assurdo, in cui è proprio la parte di umanità rimasta nei burocrati del Male, la loro capacità di sentire ed agire come tutti noi, a dare l'esatta misura della loro negatività" [parole, quasi certamente, di Vittorini: nella presentazione editoriale della traduzione italiana]. Non si accorge, il Nicolini, che quel di cui c'è da tremare è appunto questo: che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono "burocrati del Male"; e sapendo di farlo»[33].

E pių oltre conclude: «E secondo il Nicolini quei due gentiluomini che condannarono i presunti untori, il Monti e il Visconti, avevano ingegno, erano onesti. Due qualità che, nel caso, non potevano coesistere: perché è possibile fossero onesti ma imbecilli: o che fossero disonesti essendo intelligenti»[34].

Oh, certo, il Cordero se ne guarda bene dal qualificare intelligenti e onesti quei giudici. Sono, per lui, un miserabile prodotto, un prodotto "necessario", di quei tempi miserabili del neo-oscurantismo (di marca cattolica-controriformistica, ci tiene a sottolineare lo scrittore) del dominio spagnolo in Italia. Ma del resto egli non sembra avere una grandissima stima in generale per i giudici, se, a proposito del dubbio sopra ricordato del Manzoni circa il sorgere di un rimorso nei giudici che avevano mandato a morte i pretesi untori, allorché dovettero assolvere il preteso mandante, esclama: «Ma quando mai i giudici sentono rimorsi?»[35].

Può darsi che il Cordero, oltre ad avere il dente avvelenato con Manzoni, "omileta" cattolico (come lo chiama lui), e con tutta l'apologetica cattolica, ce l'abbia anche con qualche particolare giudice.

Io però, sul punto dell'assenza di rimorsi nei giudici, mi permetto ricordare che Dante nel XIII dell'Inferno (il canto di Pier Delle Vigne e dei suicidi) allude senza nominarlo a un fiorentino suicida e, fin dai pių antichi interpreti della Divina Commedia, si volle ravvisare in tale personaggio dantesco un giudice, tale Lotto Degli Agli, che si tolse la vita perché preso dal rimorso causatogli da una sentenza ingiusta. E solitario come una forca, scrive Attilio Momigliano, si erge a chiusura dell'intero canto quel lapidario verso:

"Io fei giubetto a me de le mie case".

Ma, a parte la discutibilità della boutade sui rimorsi, forse sì, in linea generale, ha ragione il Cordero: pių colpevole dei singoli giudici delle storture (e spesso nefandezze) della giustizia è, in ogni tempo, il sistema processuale.

E se quello dei tempi andati, con confessioni estorte con la tortura e promesse di impunità a chi faceva il nome di veri (o presunti) complici, era quanto di pių vergognosamente lontano si potesse immaginare da una vera giustizia, non è che quello in vigore oggi, sul finire del sec. XX e in un paese che si pretende "culla del diritto" brilli molto per perfezione. Basti pensare a certi cosiddetti "pentiti", all'impunità di fatto concessa a certi assassini, a certe incriminazioni con lunghe carcerazioni preventive... così lunghe da fare impallidire la stessa prigionia di don Giovanni Padilla, capo degli untori secondo l'accusa, nel castello di Pizzighettone.

Sì, è facile che, in generale, il giudice integrato nel sistema (sia questo l'establishment spagnolo-cattolico-controriformistico dei tempi della peste del 1630, sia il quarantennale establishment democristiano attuale, comunque spostato ora a destra ora a sinistra), quando sa di avere rispettato le regole processuali, giuste o sbagliate che siano, si senta sempre la coscienza a posto e non abbia rimorsi.

Però nella temperie odierna, in cui molto pių vivo è il senso critico generale, pių sgombra la mente umana da pregiudizi e pių chiaramente sentito il rispetto che si deve alla persona umana, a qualsiasi persona umana, sarebbe profondamente ingiusto accusare l'intera magistratura italiana di essere il congegno di una macchina (un sistema processuale) che produce ingiustizie, talché, dato il sistema, colpevoli e condanne - come dice sempre il Cordero - non sono che "variabili", si possono cioè... sfornare condanne e colpevoli a piacimento!

No. E a dimostrazione che il sistema - certo non abietto come il processo dei tempi anteriori allo "Stato di diritto" ma pur sempre imperfetto quale quello in vigore - è stato contestato e criticato dall'interno, stanno tutte le pubblicazioni dei giudici scrittori di questi ultimi decenni, sia saggisti sia narratori e poeti. La letteratura, insomma, prodotta dai giudici ha sempre un vivo e doloroso aggancio con il lavoro del giudicare ed è spesso "angoscia" professionale.

E la colonna - credo si possa concludere - che fu abbattuta nel 1778, dopo quasi un secolo e mezzo che era stata innalzata, è sempre presente nella mente del giudice italiano (anzi, penso che non ci dovrebbe essere giudice italiano che non abbia letto il libro del Manzoni) e la sua ombra resta ammonitrice contro l'errore giudiziario.

 
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