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Gli Sbagli di Vostro Onore, di Luigi GrandeLiber Liber

Copertina | Indice | Introduzione | Parte 01 | Parte 02 | Parte 03 | Parte 04 | Note

Parte 03

11.
Il grande malato: il processo penale

NON ELENCHERÒ i casi di errori giudiziari, le vergognose lungaggini di tanti e clamorosi processi, le sentenze che hanno fatto più profonda impressione in questi ultimi decenni all'opinione pubblica e di cui la stampa si è impossessata additandole come gli emblemata non... Triboniani ma dell'inefficienza della giustizia penale italiana. Chi cercasse in queste pagine un quadro di tal fatta ne resterebbe profondamente deluso e non potrei che rimandarlo al libro intitolato Culla del diritto tomba della giustizia del giornalista Corrado Pallenberg, che ho già citato.

Di esso scrive Giuseppe Branca nell'introduzione che l'autore, dopo avere acquisito competenza di diritto e di sociologia, se ne spoglia all'atto dello scrivere allo scopo di fare un libro che possano capire tutti, perdendo così «in tecnicismo quel che acquista in passionalità ed efficacia».

Delle lungaggini dei processi, d'altronde, si parlava già ai tempi di Shakespeare, come ho già ricordato. E dei difetti dell'amministrazione della giustizia in generale ho già detto che lungamente discetta Ludovico Antonio Muratori nel libro più indietro citato, un libro di ben duecentoquaranta anni fa. Ed è così gustoso constatare, leggendolo, che taluni dei difetti additati dal Muratori siano rimasti immutati. La prolissità, per esempio, della motivazione di alcune sentenze, che io chiamerei motivaziopatia. Famosa è rimasta una sentenza di rinvio a giudizio nella quale, in circa cinquecento pagine, si tracciava la vicenda dell'omosessualità nella storia umana dalla civiltà greca a oggi!

No, non sono le lungaggini o altri difetti o certi "risultati" abnormi che fanno del sistema processuale penale italiano qualcosa di patologico. È il codice di procedura penale che non sta più in piedi. L'otre vecchio del codice Rocco, su cui era stato messo vino di produzione anno 1930, una volta ricevuto il vino nuovo derivante dalla Costituzione, si è squarciato da tutte le parti.

Quando ce lo potremo scrollare d'addosso? C'è chi, come me, ha perso ogni speranza di assistere a questo "lieto evento" prima dello spirare del secolo. «È questa una storia che se non fosse vera non sarebbe credibile» sbottò una volta l'on. Dino Felisetti, socialista, quand'era presidente della commissione Giustizia alla Camera[45].

Molti anni or sono, quando ci si cominciò ad accorgere che il codice che regola il processo penale non si accordava più con il "garantismo" previsto dalla Costituzione e che man mano la Corte costituzionale lo andava, se così si può dire, smantellando, si pensò che era necessario varare un nuovo codice, piuttosto simile al processo del sistema anglosassone, e venne così in luce il cosiddetto "schema Carnelutti", dal nome del grande giurista che lo delineò.

Finalmente nel 1974 si arrivò a una legge regolarmente approvata (Legge 1 aprile 1974 n° 108) che dava delega al governo di emanare un nuovo codice di procedura penale, di cui si fissavano i criteri, abbastanza simili a quelli delineati da Francesco Carnelutti. Tempo concesso al governo: due anni. Ma figurarsi se potevano bastare a un governo del nostro Paese! Perciò fu concessa al governo una proroga di altri due anni. Poi ne venne una terza. Allo scadere, quasi, di questa, veniva presentato dall'allora ministro di grazia e giustizia Morlino un disegno di legge, il 31 ottobre 1979, per una quarta proroga, accompagnato, però, da un invito al Parlamento di riconsiderare alcuni punti della legge-delega, pur insistendo nell'affermare che non se ne intendevano intaccare i princìpi-cardine.

C'era, in buona sostanza, un invito a fare, sulla questione del nuovo codice, un "punto e a capo", sebbene nelle intenzioni del ministro Morlino (ma delle "buone intenzioni" si sa quale strada è lastricata) non ci fosse l'intento di accantonare il grave problema. Si può leggere, nella sua predetta relazione al Parlamento, qualche frase preoccupata e che invita a far presto[46].

Ma passano altri...otto anni, senza che nulla succeda e finalmente uno degli ultimi ministri di grazia e giustizia, l'on. Rognoni, imposta una nuova legge-delega al governo per il varo di un nuovo codice del processo penale nel termine (non stupitevi) di dieci mesi! Ma forse di mesi ce ne vorranno ancora...dieci elevato alla ennesima potenza.

Il fascismo se lo fece in quattro e quattr'otto il "suo" codice di procedura penale. L'ultimo che era stato varato in Italia - vale la pena ricordarlo - non aveva ancora vent'anni di vita, era del 1913.

E che codice perfetto, dal punto di vista delle sue mire autoritarie, il passato regime riusciva a farsi! La preminenza - tanto per fare un esempio - data all'accusa rispetto alla difesa, nel codice del 1930 rispetto a quello del 1913, è di tutta evidenza.

L'Italia democratica in quasi quarant'anni di vita non ha ancora raggiunto il traguardo di un codice di procedura penale nuovo.

È noto che tutti i codici invecchiano e che a volte non bastano più i ritocchi e le modifiche parziali - le cosiddette novellae di giustinianea memoria - e occorre perciò farne uno nuovo di zecca.

Mentre per gli altri codici: il civile, il penale e quello di procedura civile, i ritocchi (e gli interventi della Corte costituzionale che ha "cancellato" ora questa ora quella disposizione) sono stati abbastanza idonei a mantenere in vita strumenti legislativi sufficientemente adeguati alle nuove realtà, per quello del processo penale, che attiene a diritti importantissimi del cittadino - il settore più geloso della sua sfera giuridica! -, la necessità di vararne uno del tutto nuovo si impose come qualcosa di indilazionabile agli occhi di chi aveva a cuore le sorti della giustizia penale italiana, pena la paralisi di essa.

Paralisi. Lo dice un recente ministro di grazia e giustizia.

E credo di non esagerare affermando che mai, forse, da quando gli italiani vivono sotto l'impero delle stesse leggi, è stata così vivamente sentita dall'opinione pubblica l'esigenza di una riforma legislativa, come è avvertito oggi il bisogno d'un mutamento del codice di rito penale. E non sono stati tanto le relazioni dei ministri, i discorsi dei parlamentari, i resoconti dati dalla stampa di congressi e seminari a inserire tale problema fra quelli che più scottano la coscienza popolare, quanto la "cultura" televisiva.

Fin dai primordi della sua esistenza, l'ineffabile tivvù prese a sciorinarci (si era a cavallo fra gli anni '50 e gli anni '60, se non erro) alcuni filmetti di casi processuali, ruotanti attorno alla figura di un abile, pronto e intelligente avvocato. Non vorrei sbagliare dicendo il nome dell'attore, che non ricordo, ma il personaggio credo si chiamasse Perry Mason. Ora quella perrimasonata, presa a piccole dosi, ogni quattro-cinque sere, non passò senza conseguenze davanti agli occhi del disattento "uomo della strada" italiano. (Ultimamente la serial perrymasoniana è stata riesumata).

Mentre nelle sedi specializzate - congressi, riviste di diritto, dibattiti politici - si lanciavano allarmanti S.O.S. sulla disfunzione giudiziaria e si definiva "grande malato" il processo penale italiano (ma i vari medici, da autentici "specialisti" , loro se la suonavano e loro se la ballavano), ecco che la tivvù, zitta zitta, e certo senza precisa intenzione, metteva davanti all'occhio stupefatto dell'annoiato e sonnecchiante telespettatore il sistema giudiziario di un altro paese. E che paese! Gli USA.

Dapprima il telespettatore non ci fece caso. Seguiva il filo della vicenda, si appassionava ai casi del povero malcapitato (sempre, s'intende, innocente) strenuamente difeso da quel dio dei difensori; si arrovellava per trovare lui, in anteprima, la soluzione, il filo dell'intricata matassa; ammirava, magari, la svelta segretaria del difensore; si lasciava sfuggire un risolino di scherno su quel dabben uomo che gli sembrava essere il procuratore distrettuale, destinato a restare, per le regole stesse del semplicistico racconto, con le pive nel sacco.

Stucchevoli, noiosetti - per carità, chi dice di no? - i filmetti perrymasoniani e quelli che vennero dopo, con altri avvocati e altri processi all'americana. Ma essi lavoravano, sotto sotto, senza che l'ignaro telespettatore se ne accorgesse. Perché poteva capitare che lo stesso telespettatore avesse presentato una querela a carico di un suo agente di commercio che si era appropriato degli incassi; o che fosse stato investito da una moto o da un'auto mentre andava tranquillo (o sbadato?) su una striscia pedonale; o che gli fosse stata rifilata una cambiale con firma falsa; o, se dobbiamo fare ipotesi opposte, che fosse stato denunciato per irregolarità amministrative, per lesioni avendo scazzottato un automobilista che lo aveva sorpassato con rischio di fargli perdere il controllo della vettura; o per un'altra, a farla breve, incriminazione qualsiasi. E poteva succedere che, denunziante o denunziato che egli fosse, dopo essere stato interrogato dalla questura o dai carabinieri, da anni non sapeva più nulla del processo che lo interessava e non poteva neanche approssimativamente prevedere non quanto altro tempo sarebbe passato ancora prima che il processo si sarebbe fatto, ma "se" addirittura si sarebbe fatto. Allora, senza nemmeno volerlo, il telespettatore veniva accorgendosi che, alla base dei racconti snocciolati dai sopra decantati filmetti e telefilmerie varie che si sono di anno in anno susseguite, sta un sistema processuale spiccio, rapidamente marciante verso l'accertamento della verità, senza ambagi e preziosità bizantine, senza preoccupazioni di segretezza, ma alla luce del sole, con piena garanzia dei diritti della difesa e di quelli dell'accusa, poste su un piano di assoluta parità. Nascevano e nascono, necessariamente, i confronti. E il pover'uomo, cui è stata rifilata in pagamento una cambiale falsa e cha ha visto già decorrere due o tre anni da quando ha rese le sue prime dichiarazioni alla polizia (in quanto l'istruttoria, cominciata con l'esame della parte offesa ad iniziativa del P.M., tosto risentita dal giudice istruttore - perché nel frattempo il P.M., carico di denunce da impazzire, ne ha rifilate un bel pacchetto, roba semplice e roba complicata a come capita capita, al giudice istruttore perché se la sbrogli lui - è poi proseguita con una perizia grafica, con una controperizia di parte magari, con un confronto, con un interrogatorio dell'imputato previa emanazione di un mandato di comparizione, con l'invio degli atti al P.M. perché rediga le requisitorie scritte, con il ritorno degli atti, col loro comodo, dall'ufficio del P.M. a quello del giudice istruttore, con il deposito di tutti gli atti in cancelleria perché i difensori ne prendano visione, con una memoria difensiva e richiesta di proroga del termine di deposito degli atti - deposito! deposito! sempre deposito: pare che i processi in Italia siano come il legname che deve stagionare - e infine con un'ordinanza [un tempo sentenza: oh, la gran riforma!] di rinvio a giudizio dell'imputato; e qui il lettore può riprendere fiato e io chiudo la parentesi), il pover'uomo, dunque, che non sa se il falsificatore e truffatore sarà una buona volta punito (perché potrebbe capitare, fra capo e collo, a parte gli scherzi, un'amnistia e chi si è visto si è visto!) comincia a chiedersi se la procedura istruttoria, che qualcuno ha persino chiamato perrymasoniana e che noi potremmo chiamare, con più proprietà, di tipo anglosassone, non avrebbe potuto risolvere il suo piccolo, piccolissimo caso, in quindici giorni anziché in tre anni. E avverte che qualcosa azzoppa il processo penale italiano.

Il comune cittadino, lo sbadigliante telespettatore, dunque, da anni e annorum si è accorto che la giustizia penale in Italia non funziona e si chiede, smarrito, incredulo, come non si possa, quando si ha l'esempio di altri paesi che fan meglio di noi (per lo meno mille volte più sollecitamente), rimediare adottando, sic et simpliciter, gli altrui ordinamenti.

Nessuno degli "addetti ai lavori" è rimasto che non avverta l'urgenza e la gravità del problema, nessuno può dire più di non essersi ancora accorto degli scompensi del nostro sistema giudiziario, scompensi che fanno pensare - mi si passi l'immagine - a un carro che si muove con ruote quadrate.

Dinanzi a una situazione del genere non serve a nulla riconoscere che sì, per la verità, andrebbero meglio le ruote rotonde, ma che, d'altra parte, date le difficoltà di smontaggio delle ruote quadrate e le naturali remore, complicazioni, ritardi, squilibri che deriverebbero dal montaggio di quelle rotonde, in fondo in fondo, se si aumentasse il numero di chi tira il carro (altri mille o anche più magistrati), 'sto benedetto carro si potrebbe muovere, santiddio, più speditamente!

Un carro di tal fatta è sempre un trabiccolo difficile da trainare, anche se ci si mettono gli stuoli di schiavi che costruirono le piramidi.

Inutile, dunque, parlare di aumenti di organici e di ritocchi al codice, che sarebbero come aggiustare un po' le ruote quadrate, levigarle, smussare un po' gli angoli, versarvi un po' di olio. Occorre, invece, un codice del tutto nuovo.

Con questo spirito venne stilato il primo progetto preliminare che va sotto la denominazione di "schema Carnelutti".

Subito si scatenarono le discussioni, e gli avversari delle novità vennero allo scoperto attaccando lo schema con fior di argomentazioni. Dotte discussioni, senza dubbio, che meritano tanto di inchini, anche con un cappello piumato. Solo che a me son sempre parse fatte "a freddo", prescindendo cioè dalla catastrofica situazione della giustizia penale italiana. Che se non ha tirato già le cuoia, poco ci manca.

I processi italiani giungono, nelle grandi sedi giudiziarie, e talora anche in quelle piccole (che appunto perché piccole spesso restano senza il numero minimo di magistrati), al momento della loro celebrazione - che brutta parola, che sa di messa e sagrestia, ma è quella in uso - dopo due, tre, quattro e persino cinque anni dai fatti. Quelli di Corte d'assise con imputati detenuti maturano un po' prima, ma quante volte abbiamo sentito dire che i detenuti devono essere rimessi in libertà per decorrenza del termine massimo di detenzione preventiva!

E il governo che ti fa? Allunga i termini con un decreto-legge da tempi d'"emergenza". Ma poi vengono accorciati!

Se si volessero citare processi impantanatisi in complicazioni formalistiche per anni e anni da chi, da una sponda e dall'altra, giudice o avvocato, vive la vita giudiziaria, non si finirebbe più. Casi patologici. Per tutti, a tenere lo stendardo, c'è il processo per la strage di piazza Fontana. Una patacca di vergogna sulla storia politica e giudiziaria italiana.

Ma anche prescindendo dai casi-limite, bisogna riconoscere che tutti i processi italiani sono diventati casi patologici, per il fatto di dover essere portati avanti con un'istruttoria che è, nelle linee generali, segreta e che ha dovuto aprire le porte a tutte le garanzie del sistema accusatorio.

I processi italiani, visti all'estero (man mano che per certi crimini cominciano a venire i nodi al pettine processuale e quindi anche l'opinione pubblica internazionale è interessata) non possono che apparire delle mostruosità. E tali li rende un'istruttoria segreta e scritta - che buffonata sia diventato il segreto istruttorio è sotto gli occhi di tutti! - lunga come un serpente velenoso annidato nel nostro ordinamento. Un'istruttoria spezzata illogicamente in due tronconi, il rito formale e il rito sommario, fra i quali invano il codice detta dei criteri di distinzione, perché il P.M. potrà sempre tenere per sé i processi che preferisce e rimettere al giudice istruttore quelli che non gli garba istruire (e lasciamo perdere di accennare al problema della distribuzione dei processi nelle grandi sedi con stuoli di magistrati istruttori: il principio del "giudice naturale" o "precostituito per legge" di cui parla la Costituzione non riesce a fare capolino). Un'istruttoria che, per sua natura, è tutta impostata a dimostrare a ogni costo la colpevolezza dell'accusato (anche se il buon senso dei magistrati che la conducono sa farne sortire dei proscioglimenti), come dimostra l'effettiva direzione data alla pubblica accusa: il P.M. può, infatti, imporre al giudice istruttore di eseguire tutti gli accertamenti che egli reputa necessari; per contro, il difensore non potrà che fare istanza all'istruttore se vorrà che sia sentito, ad esempio, il tale o il tal altro teste, né potrà sapere che cosa ha detto il teste, se non a istruttoria ultimata. Un'istruttoria, infine, che si contorce, si ripete, che fa e rifà la stessa strada, che è - per riprendere l'accostamento col mondo dei rettili - come un serpente che si morde la coda.

Un troppo lungo studio dei medici che devono apprestare i rimedi credo che possa dare tutto il tempo al malato (la giustizia penale italiana) di spirare. Vogliamo arrivare al punto che nessuno più creda alla giustizia né l'opinione pubblica né chi per essa lavora e si affanna? E la giustizia è morta, se è morta nei cuori e nelle menti.

12.
Custodia preventiva o espiazione anticipata?

È UN PROBLEMA questo che continua a incancrenire, sicché io posso riportare, quasi senza cambiare una virgola, ciò che ne ho scritto circa quindici anni or sono su Il Ponte [47].

«I "tempi lunghi" delle istruttorie penali con imputati in stato di custodia preventiva continuano a venire, penosamente, alla ribalta della cronaca. È di qualche tempo fa la notizia che due detenuti in attesa di giudizio sono riusciti a salire sul tetto del carcere di Santa Maria Maggiore di Venezia (che malinconia, però, queste carceri italiane che, per darsi il nome, scomodano l'intero paradiso, dalla regina di esso ai vari santi, san Vittore, san Francesco, che lo popolano!) e sul tetto, per protesta, i due carcerati sono rimasti per novantasei ore, finché non hanno avuto assicurazione che presto la loro "fame e sete di giustizia" sarebbe stata saziata».

Così esordivo nell'articolo citato in nota, rilevando poi che un detenuto il quale doveva essere giudicato a Roma, si trovava nel carcere di Venezia.

Ma come? Se la custodia preventiva ha per precipua finalità, come si continua a leggere sui trattati di diritto processuale penale, quella di "assicurare la persona dell'imputato al processo" perché sia evitata la sua fuga, innanzi tutto, ma perché l'imputato oltre a essere messo nell'impossibilità di inquinare le prove sia... a portata di mano per l'organo procedente per tutte le necessità dell'istruttoria; se, dunque, la custodia preventiva è, come deve essere, non un provvedimento "afflittivo" ma un provvedimento "strumentale-processuale" (e c'è chi ne ha posto persino in dubbio il carattere giurisdizionale, ravvisandovi invece gli estremi di un provvedimento amministrativo), che senso ha interporre centinaia di chilometri fra l'imputato e l'organo procedente?

Ovviamente alla domanda possono essere date mille risposte. E tutte fondate. Ci può essere eccessivo affollamento in un carcere e meno "popolazione detenuta" (questa è la locuzione burocratica) in un altro. Ci possono essere stati dei fermenti in un carcere, sicché è necessario sparpagliare nei vari istituti i principali autori delle... inquietudini carcerarie. Ci possono essere motivi di salute, collettivi: epidemie, contagi, o individuali: necessità di ricoveri in cliniche specializzate, di interventi chirurgici ecc. ecc. Ma, come ognuno vede, si tratta sempre di motivi amministrativi e mai di ragioni processuali (a meno che un detenuto non abbia a carico un altro processo in altra sede). Né per tali spostamenti si distingue fra condannati e giudicabili.

Ma tutto ciò, tradotto in termini di logica giuridica, non significa altro che l'imputato - privato della libertà personale o perché, per la natura del reato che gli è attribuito, così vuole il codice, o perché così ha ritenuto di dover fare il magistrato che procede a suo carico - è, in effetti, in tutto e per tutto equiparato, nel trattamento, al detenuto in espiazione di pena. Il fatto che egli possa essere spostato da un carcere all'altro, non è che un aspetto del suo assoggettamento allo stesso regime che subisce chi è stato riconosciuto, con sentenza non più impugnabile, autore di un fatto criminoso.

Come il condannato, anche l'imputato in attesa di giudizio deve sottostare a tutte le disposizioni di legge che regolano la vita dell'ambiente carcerario e a tutte le "abitudini" (che non sono poche né sempre belle) della "prassi" penitenziaria. E impronte digitali. E foto segnaletiche (che vanno a finire poi, per sempre, anche in caso di assoluzione, nell'archivio della polizia). E perquisizioni personali, non sempre garbate. E sanzioni disciplinari, se del caso. E trasferimenti con le "delizie" della traduzione ordinaria. Non so davvero in che si distingua il detenuto da processare dal "definitivo", come s'usa dire in linguaggio burocratico-penitenziario, se non nel fatto che veste i panni con cui fu arrestato e non il solito pigiamaccio a rigoni. Pardon, tinta unita: così vuole il nuovo ordinamento penitenziario!

Se, dunque, la realtà delle cose dice che chi si trova in carcere in attesa di giudizio subisce lo stesso trattamento di chi espia pene, dividendone la sorte e la cella (bugliolo compreso, là dove ancora esistesse) e quindi sconta, in pratica, una pena che non si sa ancora se gli sarà o non gli sarà inflitta, è assolutamente un giochetto di parole (nei quali chi si occupa di diritto è particolarmente versato) dire che la custodia preventiva non è affatto una pena e sostenere che la detrazione della carcerazione preventiva sofferta dalla pena complessiva riportata sia dettata soltanto da motivi di equità e di favor rei!

Un'espiazione anticipata non è consona al principio fissato dall'art. 27 comma 2° della Costituzione che solennemente proclama: «L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva». E se vogliamo che le norme costituzionali abbiano sempre più sostanza, che siano addirittura la "sostanza" del nostro vivere civile, la norma suddetta della Costituzione non deve significare soltanto che nessuno - né un pubblico ufficio né una persona privata - possa dare patenti di colpevolezza a chi deve essere ancora giudicato, ma occorre fare in modo che il cittadino, privato della libertà per ragioni strettamente processuali, non sia trattato da detenuto ma da custodito.

Poiché il regime carcerario è quello che è (né la riforma ha fatto poi fare un vero salto di civiltà, come pure sarebbe stato necessario, nelle istituzioni penitenziarie) non resta da sperare che qualche giudice porti la questione davanti alla Corte costituzionale con ben validi e centrati argomenti giuridici che non i brevi cenni qui fatti.

"Considerare", da parte dello Stato, sia da parte degli organi procedenti sia da parte degli uffici amministrativi, non può significare soltanto usare una certa dicitura o scrivere una anziché altra qualifica sul registro delle carceri. Se l'art. 27 della Costituzione significasse soltanto che l'agente di custodia, addetto alla registrazione dei nuovi arrivati in carcere, si deve guardare bene dallo scrivere "condannato" accanto al nome di chi deve essere ancora processato, dice meno che niente. Se tutta la ratio di esso si dovesse cogliere nel divieto fatto al giudice di applicare norme destinate esclusivamente al condannato oppure nell'illeceità da parte di chiunque (della stampa, per esempio) di esprimere anticipati giudizi di colpevolezza, la norma sarebbe ancora un bel niente, o quasi.

La norma deve significare necessariamente di più. Chi si trova ristretto per ragioni, si ripete, processuali - e non dovrebbero entrarci criteri di cosiddetta "pericolosità sociale" tratti dallo stesso fatto attribuito all'imputato - non può subire, assolutamente, per precetto costituzionale, lo stesso trattamento del condannato. Il che significa che non può essere messo insieme agli altri detenuti condannati e che occorre, al posto di quelle "case circondariali" sostituite alle "carceri giudiziarie" ma rimaste sostanzialmente identiche, creare istituti di custodia per soli imputati in attesa di giudizio.

Sarebbe veramente un miracolo (uno di quei magnifici miracoli davanti a cui la Corte costituzionale qualche volta ci ha messo) se un bel giorno la pubblica amministrazione venisse, quanto meno, obbligata a separare immediatamente, mettendoli in istituti diversi, i condannati dai "custoditi" (così li si dovrebbe chiamare); e sorgesse così la necessità di mettere questi in un regime di custodia un po' più libero che non quello dei condannati e in cui i divieti e le restrizioni fossero direttamente - e chiaramente - dipendenti dalle necessità del processo. Anche l'isolamento, sì. Ma per periodi limitati e solo con precise finalità istruttorie. Si ristabilirebbe così il principio che fu già della più alta civiltà giuridica del passato (qualche sprazzo, di tanto in tanto, nella storia del diritto, c'è stato): nullus in carcerem, priusquam convincatur omnino, vinciatur[48].

E, intanto, poiché il potere politico è quello che è, e schiaccia lunghi sonni dinanzi ai problemi processuali e carcerari, poiché non si può prevedere se ci sarà un giudice che porterà la questione davanti alla Corte costituzionale, poiché questa potrebbe propendere, per le mille difficoltà che certo non mi dissimulo, per la soluzione di rigetto, non resta ai magistrati che chinare la testa e continuare su questa strada?

Non è una strada che ci fa onore, vorrei dire ai miei colleghi. Certo non per colpa nostra. Ma non si può scrollare le spalle e continuare a pensare "alla maniera antica": io applico la legge e il resto non è affar mio! Films più o meno recenti (sintomatico fra tutti Detenuto in attesa di giudizio interpretato dal bravissimo Alberto Sordi) hanno messo, pur con le necessarie forzature di un'opera cinematografica, il dito sulla piaga e non mostrano all'estero un volto nostro di "maestri di civiltà giuridica" come pure pretendiamo.

Io penso che, dinanzi ai continui fermenti carcerari, dinanzi a certe, sempre più frequenti, forme patologiche dei processi, qualcosa i magistrati possono pur fare con le leggi che hanno attualmente in mano.

Innanzi tutto si impone un uso più cauto del mandato di cattura facoltativo e un uso più largo - oculatamente, s'intende, più largo - della libertà provvisoria anche nei casi di mandato di cattura obbligatorio, secondo la riforma dell'art. 277 del cod. di proc. pen., in base alla legge che ha preso il nome dal caso Valpreda. Se ci si persuade che l'attuale regime carcerario fa... a pugni con la presunzione di innocenza dell'imputato, da questa persuasione non potrà che scaturire l'uso della custodia preventiva strettamente come strumento processuale, come provvedimento che si esaurisce con il cessare stesso delle necessità processuali.

Occorre poi fare più largo ricorso a uno degli articoli un tempo poco applicato: l'art. 247, che si intitola "Casi nei quali può ordinarsi la custodia in casa", in forza del quale il giudice può disporre che la persona arrestata può essere lasciata in arresto nella propria abitazione. Questo istituto, per ora eccezionale, riceverà più larga applicazione, stando almeno al progetto del nuovo codice di procedura, quando, - speriamo prima del 2000 - andrà in porto.

L'arresto domiciliare per ora è consentito, qualunque sia l'imputazione, nei confronti di una donna incinta o che allatti e di una persona o gravemente ammalata o ultrasessantacinquenne. Ma se si tratta di reati che non prevedono il mandato di cattura obbligatorio e se la persona non è recidiva, risiede nello Stato e non si è data o stia per darsi alla fuga, l'arresto domiciliare può essere disposto per tutti. Una sola condizione pone la legge: che «le circostanze di fatto e le qualità morali dell'arrestato lo consentano» e non mi pare che si tratti di condizione che si verifichi ben raramente. (L'arresto domiciliare ha avuto una reviviscenza nell'ultima "produzione" legislativa penale e sarebbe interessante un'indagine statistica sull'applicazione che se ne sta facendo).

Insomma il dilemma per il giudice deve essere questo: o massima celerità nel processo o, quando ciò è impossibile, un criterio più largo, di quanto usato finora, di favor libertatis.

Se poi, a seguito della riforma carceraria, ora in vigore da parecchi anni, vedremo risolto anche il problema dell'edilizia carceraria e si distingueranno nettamente (senza la soluzione di comodo delle "sezioni" da cui possono sempre discendere mescolanze) gli istituti di custodia da quelli di pena, allora si potrà usare, con la larghezza di oggi, della custodia preventiva. Ma fino a quel momento occorre farne un uso quanto mai cauto e misurato, per non dire eccezionale.

Il collegio cui recentemente è stato demandato il riesame dei provvedimenti restrittivi della libertà in fase istruttoria (chiamato con l'ampolloso nome di "tribunale della libertà") dovrebbe, a mio avviso, tenere anche presente lo stato delle singole carceri e la mancata attuazione della separazione fra "custoditi" e "condannati".

13.
I circondariati

SE SI AVESSE voglia di fare della facile ironia - e non manca la nostra classe politica di offrircene frequenti occasioni - si potrebbe dire che dovendosi chiamare, ora, le carceri giudiziarie "case circondariali" chiamiamo pure "circondariali" i carcerati e siamo a cavallo.

La riforma carceraria, bersaglio dei laudatores temporis acti, che vi vedono non pochi nodi da cui sarebbero derivati grossi guasti alla disciplina carceraria, guardata d'altra parte come una realizzazione ben lontana dall'auspicato traguardo dagli stessi "novatori", è fra tutte le recenti riforme, di cui alcune già in fase di chiara involuzione, quella che sembra aver sortito, a un esame obiettivo, i risultati più modesti.

Eppure essa era indilazionabile. Imposta all'attenzione pubblica sull'onda della "contestazione" dello spirare degli anni '60 e dell'inizio del nuovo decennio, era un passo obbligato cui si era spinti dalla Costituzione stessa.

Le menti illuminate che prepararono il terreno di essa (e mi sia consentito ricordare a questo punto un collega che mi fu carissimo, Girolamo Minervini, caduto sotto i colpi proditori dei terroristi, in un autobus) non potrebbero che esprimere oggi la loro delusione e forse anche sbottare nell'affermazione ironica di cui sopra.

Non è chiamando circondariati i carcerati che si risolve il problema. Un problema grosso e spinoso già di per sé (in qual modo attuare il principio costituzionale che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato?) reso ancor più complicato dalle difficoltà del momento: evasioni, carceri in ebollizione per rivolta, guerre di cosche mafiose ed esecuzioni capitali ordinate da poteri criminosi. E il panorama va completato con il terrorismo che prese di mira il personale di custodia, mentre da parte delle istituzioni, in quella bufera che sembrava scuoterle dalle fondamenta, si rispondeva con le discutibili "supercarceri" per coloro che hanno dichiarato guerra a questo nostro Stato. Uno Stato - è vero - che è tutt'altra cosa dal tipo delineato dalla Costituzione, ma che, appunto perché deve uniformarvisi, merita la nostra solidarietà.

La riforma (legge 26.7.1975 n° 354) è stata, in fin dei conti, un tentativo per fare rassomigliare la realtà al modello costituzionale. C'è riuscita, nel tentativo di "inventare" un carcere degno di uno Stato che si pone a presidio dei diritti inalienabili dei suoi cittadini, in misura abbastanza limitata.

E tuttavia non sono fra chi ritiene che la sostanza di tale riforma sia tutta di non-sostanza, nominalistica cioè ("ti cambio il nome e ti lascio come sei" secondo un antico costume italiano). Lo sforzo di cambiare c'è; ma le buone intenzioni non bastano. Le carceri sono rimaste - e resteranno non so per quanto tempo ancora - il luogo della massima diseducazione del condannato, specialmente se si tratta di un detenuto giovane. Peggio se minorenne.

E veniamo ai punti cardine della riforma.

Per il nome, l'ho già detto, la soluzione si è trovata: si sono distinti gli istituti di custodia preventiva da quelli per l'esecuzione delle pene e da quelli per l'esecuzione delle misure di sicurezza detentiva. Nella prima categoria rientrano le "case circondariali". Cosicché, un bel giorno, i cittadini hanno visto staccare da un portone una piastra metallica o una lastra di marmo con la scritta "Carceri giudiziarie" e applicarne un'altra con la scritta "Casa circondariale", che, badate, non è solo un istituto per la custodia preventiva, perché la legge prevede che può avere "sezioni" di casa di reclusione e sezioni di casa di arresto. E questo senza parlare dell'ultimo comma dell'art. 61, in base al quale "per esigenze particolari" si può, come prima, come si era sempre fatto e come si continuerà a fare, mescolare detenuti in attesa di giudizio e condannati e...buona notte alla buona intenzione di separare chi, per norma costituzionale, va considerato ancora innocente da chi, invece, ha ricevuto dal giudice, con sentenza non più revocabile, quel che gli spetta.

E già, perché il problema andava risolto dal punto di vista edilizio e non e che dall'oggi al domani si possono creare edifici carcerari diversi secondo la tipologia che la nuova normativa prevede. L'edilizia carceraria, si sa, in Italia è per una buona porzione di origine o austriaca o papalina o borbonica e le recenti costruzioni non sono neanche esse un modello in cui la nuova normativa trovi pieno riscontro.

Certo, mi si potrebbe obiettare col Discours sur la métode alla mano che non si può pretendere di abbattere, allo scopo poi di ricostruire, tutto ciò che preesiste: «Non si buttano giù», scrive Descartes, «tutte le case di una città per il solo scopo di rifarle in altra maniera o di rendere le strade più belle». (Poteva mai immaginare il filosofo del dubbio metodico lo sfacelo che avrebbero fatto gli italiani delle loro città nel sec. XX?). Ma si sa che il filosofo in questione aveva una paura matta - e gli si può concedere venia coi tempi che correvano - di poter essere preso per un riformatore religioso o politico (il rogo non era una gran bella prospettiva!) e quindi egli insisteva nel dire che solo del mondo delle sue certezze interiori voleva fare tabula rasa, per poter ricostruire ex novo.

Ma, con buona grazia di tutti i filosofi del passato e del presente, penso che se una cosa c'era da abbattere completamente per poi ricostruirla da cima a fondo, questa era proprio il carcere italiano e il suo ordinamento: muri e regole intendo.

* * *

Primo punto: la vita dentro il carcere (e dài, continuo a chiamarlo carcere, ma credo che tutti continueremo a chiamarlo così). Più o meno come prima le cosiddette "condizioni generali" (art.li 5-12 della legge). Vero è che si distingue fra "locali in cui si svolge la vita", la traduzione di living-room insomma, e "locali destinati al pernottamento", che non bisogna più chiamare (fate bene attenzione!) celle, ma "camere" a uno o più posti. Ma nelle carceri dove c'erano soltanto - e i giudiziari erano tutti o quasi così - celle e corridoi, come si è potuta attuare la distinzione suddetta? L'unico carcere che ho avuto occasione (fortunatamente da giudice di sorveglianza e non da carcerato) di conoscere, quello di Cremona, non ha assolutamente alcuna possibilità di attuare tale distinzione di locali, salvo il ridurre a metà quelli che vi sono ristretti. Difficoltoso, sarà, certo organizzare attività culturali, ricreative e sportive (art. 27). Solita vita: in cella per l'intera giornata e le due ore di aria prescritta (art. 10).

E i buglioli? qualcuno si domanderà. Intanto i buglioli erano via via scomparsi, e, in coscienza, ignoro se ci fossero ancora, al momento dell'entrata in vigore della riforma, carceri con tale "istituzione". La prescrizione, comunque dell'art. 6 di "servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale" lascia credere che, trattandosi di una spesa non ingente, quello che c'era da fare su questo argomento sia stato fatto subito e che dei buglioli si sia già archiviata la memoria.

Della prescrizione, poi, di locali aerati e illuminati e non eccessivamente affollati ("un numero non elevato" dice la legge, ma tutto è relativo) rallegriamoci pure. Ma son cose che non si risolvono a colpi di articoli di legge, ma a colpi di miliardi di lire. La riforma avrebbe dovuto passare attraverso un ampio programma di edilizia carceraria.

Una vita carceraria più umana, comunque, prescrivono le nuove norme: non più mezzi di coercizione fisica a fini disciplinari, ma solo per evitare danni allo stesso soggetto e a cose o persone e sotto controllo del sanitario (art. 41); non più trasferimenti a fini disciplinari, ma sistemazione dei ristretti in istituti vicini alla famiglia; non più censura sulla posta se non eccezionalmente e con provvedimento motivato del magistrato; maggiori contatti con l'esterno. Un paradiso? No, s'intende. Ma un purgatorio, concetto che ben s'attaglia a un luogo di espiazione. L'interessante è che non si faccia del carcere italiano "riformato" un infernale paradiso o un paradisiaco inferno, un ossimòro cioè, l'accoppiamento di un sostantivo con un aggettivo di significato contrario. Che non diventino le patrie galere (e quel "supercarceri" mi dan tanto di quel sospetto!) degli ossimòri (o se preferite pronunciare alla greca: ossìmori) carcerari. Una faccenda, cioè, che di nome sia un che di perfetto e nella sostanza sia tutt'altra cosa.

* * *

Secondo punto: il lavoro dei detenuti. Questo è un cardine, forse "il" cardine della riforma. Non andrebbe confinato nel limbo delle buone intenzioni. Già l'aver modificato, però, la dizione del progetto, che parlava di lavoro "assicurato", nella dizione attuale della legge, "deve essere favorita" la destinazione al lavoro dei detenuti, è un gran brutto segno.

Giustamente il legislatore ha rifiutato la concezione di lavoro forzato, accettando invece quella del lavoro-segno di riscatto o di volontaria collaborazione (sebbene sia dichiarato obbligatorio) all'opera di rieducazione: "Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato. Il lavoro è obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro" (2° e 3° comma dell'art. 20). Né sembri una contraddizione: il condannato, dice la legge, è destinato a un lavoro, ma è il suo atteggiamento verso il lavoro che lo porterà a fruire dei nuovi benefici, regime di semilibertà e liberazione anticipata.

Concettualmente il discorso non fa una grinza. Chi non si sentirebbe di sottoscriverlo? Chi non potrebbe rallegrarsi di tale riforma? ma è alla realtà che penso e al problema da dove... tirar fuori il lavoro, "secondo i desideri e le attitudini" dice sempre l'art. 20, dei condannati. La modesta, o nessuna, attrezzatura di quelle che ora bisogna chiamare case circondariali, con annesse sezioni di casa di reclusione e casa di arresto, in sostanza le carceri giudiziarie di prima, tali e quali, per quello che concerne l'organizzazione di attività lavorativa, è stata un ostacolo insormontabile per la realizzazione piena di questo intento della legge.

Il progetto della riforma (il disegno di legge cioè che porta la data del 1972 e il n° 538) prevedeva espressamente che anche i detenuti in attesa di giudizio potessero fare richiesta di essere adibiti al lavoro. La disposizione è passata nel testo della legge in maniera implicita, in quanto la destinazione al lavoro concerne i detenuti in generale (i condannati e quelli che io chiamo - e così si dovrebbero chiamare - i custoditi).

Ma figurarsi! Se è già difficile riuscire a combinare una qualche attività lavorativa per i condannati, non parliamo ne poi per quelli che sono in attesa di giudizio, che sono la metà, non scordiamocelo, della popolazione detenuta in Italia.

Si può essere perciò certi che, a riforma avvenuta da oltre dodici anni, la metà dei detenuti italiani continua a vivere nel pernicioso ozio di sempre. E per l'altra metà, mi taccerete di indulgere troppo all'immaginazione, se tiro a indovinare dicendo che non più di un terzo è sistemato in un lavoro?

Se il lavoro dei detenuti doveva essere il pilastro della riforma, ognuno può vedere che ne è venuta fuori una ben fragile costruzione.

Comunque, poiché non è giusto sorvolare sui lati positivi della legge, mi corre l'obbligo di precisare che è stata impedita ogni possibilità di sfruttamento, stabilendo che il compenso del lavoro non può essere inferiore ai due terzi delle specifiche tariffe sindacali e la durata è quella prevista dalle leggi vigenti in materia di lavoro, riposo festivo ecc.; è pure garantita la tutela assicurativa e previdenziale. Tre decimi del compenso sono devoluti alla Cassa per il soccorso e l'assistenza alle vittime del delitto.

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Terzo punto: la specificità del trattamento. Un ottimo principio, questo: a condannato diverso diversa "cura" per ricuperarlo alla società. Le medicine? Così la legge (art. 15 comma l °) le elenca: istruzione, lavoro, religione, attività culturali, ricreative e sportive. I ricostituenti? Pronta la legge risponde: opportuni contatti con il mondo esterno e rapporti con la famiglia. Con medicine e ricostituenti si traccia un "programma di trattamento". Ne parla, non troppo, alla fin fine, diffusamente l'art. 13, fornendo elementi che restano un tantino nel vago: "osservazione scientifica della personalità". E gli strumenti? Il programma di trattamento va tracciato all'inizio dell'espiazione della pena e va approvato dal giudice di sorveglianza. Mi si taccerà di essere sospettoso, se dico che il tutto mi puzza un po' troppo di puro e semplice "adempimento burocratico"?

L'istituzione di un "giudice di sorveglianza" con questo unico incarico - e non come quello del passato che aggiungeva questo incarico a una più gravosa incombenza giudiziaria (di solito: l'istruttoria penale) - dà una certa "giurisdizionalizzazione" alla fase dell'espiazione della pena, prima del tutto e ora in larga misura, curata dalla burocrazia penitenziaria. Non si è voluti pervenire a un vero e proprio "processo di esecuzione" affidato interamente nelle mani della magistratura, come pure da qualche parte si era auspicato. Ma l'aver pensato a un magistrato, dispensato da altri compiti, che abbia il compito di sorvegliare su più carceri, è già un buon passo.

Il magistrato in questione ha tra i suoi compiti principali oltre quello di approvare, all'inizio dell'espiazione della pena, il trattamento specifico, quello di decidere sui reclami dei carcerati su varie questioni, di concedere licenze ecc. La sezione di sorveglianza presso la corte d'appello provvede sull'affidamento al servizio sociale, ammissione al regime di libertà e riduzione di pena per la liberazione anticipata. E con questi istituti siamo giunti al

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Quarto punto: la "probation". Gli studiosi del problema da tempo additavano la probation dell'ordinamento anglosassone come il mezzo migliore per il recupero del condannato. La riforma penitenziaria l'ha attuata con l'introduzione di due istituti: l'affidamento del condannato (che non debba scontare una pena superiore ai due anni e mezzo) a un servizio sociale e il regime della semilibertà per chi abbia scontato già metà della pena. Al detenuto ammesso a tale regime potranno essere concesse una o più licenze di durata non superiore nel complesso ai quarantacinque giorni all'anno. Chi torna dalla licenza con un ritardo di non oltre dodici ore si becca una sanzione disciplinare, ma chi oltrepassa tale limite è come se fosse evaso dal carcere e a tale titolo va condannato. Una "trovata" legislativa quest'ultima che non persuade affatto sul piano della cosiddetta ontologia dei reati: equiparare un ritardo a una fuga è quanto mai discutibile.

È infine prevista la liberazione anticipata: la partecipazione attiva del condannato al "trattamento" che mira alla rieducazione è premiata con tagli di pena. Venti giorni di abbuono per ogni sei mesi di detenzione. Abbuono che si perde in caso di sanzioni disciplinari.

Di passata, tanto per completare il quadro dei "benefici", aggiungerò che la legge prevede la rimessione del debito per le spese del procedimento penale ai condannati che avranno dimostrato impegno nel lavoro e senso di responsabilità durante l'espiazione.

Data così un'occhiata alle linee della riforma penitenziaria, e per tirare le somme di tutto quello che fin qui son venuto dicendo, credo che la riforma veramente decisiva sarebbe una sola: abolire le carceri. O ridurne, quanto meno, al minimo la necessità.

So che un'idea del genere può sembrare il sogno di un visionario, ma a me pare invece un traguardo che, per tappe, possa essere raggiunto. Va detto, innanzi tutto, che la metà delle circa trentamila persone ospiti delle patrie galere è in attesa di giudizio ed è noto anche che sono i reati di minore importanza (la cosiddetta "piccola devianza") quelli che portano il più forte contributo di presenze carcerarie. Di recente tali tipi di reati li si è cominciati a chiamare "bagatellari", tirando fuori la locuzione dalle espressioni giuridiche tedesche Bagatellkriminalität e Bagatelldelikte e ai tedeschi, in fatto di concisione e pregnanza dei termini giuridici, bisogna fare tanto di cappello. E anche per quello che dicono sui reati bagatellari, che non differisce molto da quello che dico io.

Occorre, allora che, continuando sulle due strade già intraprese, quella della depenalizzazione (cioè trasformazione di quasi tutte le contravvenzioni in illeciti amministrativi puniti con una sanzione inflitta, in via di massima, dal prefetto) e quella della "pena sostitutiva" (introdotta con la recente legge 24 novembre 1981 n° 689 intitolata "Modifiche al sistema penale"; in base alla quale il giudice può, entro certi limiti, sostituire alla pena detentiva o una pena pecuniaria o la semidetenzione) si abbia il coraggio di abolire la pena detentiva per tutti i reati minori che sono la più gran parte delle previsioni del codice penale e delle altre leggi penali.

Se si riuscisse mai a impostare e a condurre in porto una riforma del codice penale o, per lo meno, con un paio di leggi riformatrici, di novellae per dirla con termine romanistico, le pene per la maggior parte dei reati dovrebbero essere pecuniane: sostanziose multe per tutti i reati che offendano soltanto, o principalmente, il privato e che non destino un vero allarme sociale.

Inoltre la categoria dei reati procedibili a querela di parte, che recentemente è stata estesa, dovrebbe abbracciare altri settori della devianza, il furto per esempio.

Per i reati, poi, che offendono l'intera collettività e che perciò maggiormente incidono sul tessuto della civile convivenza - quelli, per esempio, contro la pubblica amministrazione come il peculato, la corruzione, la concussione occorre escogitare pene nuove, come la destinazione per cinque/ sei anni, previa confisca dei beni e interdizione dai pubblici uffici, a un lavoro modesto. Un lavoro modesto, ma non degradante: mai il rispetto della persona umana andrebbe dimenticato.

I magistrati italiani dovrebbero poter lavorare di fantasia, come quelli inglesi. Ma il legislatore dovrebbe aprire alla loro inventiva un largo spazio di discrezionalità.

Resterebbero poi i crimini veri e propri (e questa locuzione potrebbe essere reintrodotta, riesumandola dal codice Zanardelli), cioè quei reati che denotano nei loro autori una pericolosità sociale tale che la collettività debba necessariamente difendersi e, se del caso, svellere dal proprio tessuto tali cellule malate. Penso a reati come il sequestro di persona a scopo di estorsione, alla rapina a mano armata, all'associazione mafiosa.

Questi crimini, tentando la fusione fra pena e misura di sicurezza, dovrebbero essere espiati in luoghi di lavoro, come le colonie agricole già esistenti.

Una riforma che si muovesse su queste linee (che, se ci si pensa bene, sono meno utopistiche di quanto a tutta prima possa sembrare) ridurrebbe la popolazione ristretta notevolmente e, col tempo, si potrebbero avere soltanto case di lavoro e colonie agricole per i criminali di cui fosse stata, con sentenza definitiva, riconosciuta non soltanto la colpevolezza ma anche la pericolosità sociale, e case di custodia (ma veramente tali) per gli imputati in attesa di giudizio. Se contemporaneamente la riforma del codice di procedura penale abbreviasse i tempi della custodia preventiva rendendo più spedita la fase istruttoria, le persone in stato di restrizione della libertà potrebbero aggirarsi sulle duemila/tremila unità. Si potrebbe mettere un "angelo custode" a fianco di quasi ogni detenuto. Ma, soprattutto, si potrebbero organizzare "luoghi" di custodia sicuri, ma sempre rispettosi della dignità umana, e "luoghi" di espiazione in cui il condannato, criminale e socialmente pericoloso, sgobbi e trovi, se possibile, attraverso il lavoro, la via della redenzione.

Sull'utilità della pena detentiva è da tempo che la scienza ufficiale penalistica è entrata in crisi e non è mancato, fra i più recenti studiosi, chi ha avuto il coraggio di chiamare utopia punitiva la pretesa dello Stato di far vedere a chi ha sbagliato il sole a scacchi per un certo periodo di tempo e di aver così risolto il problema[49].

In conclusione, tuttavia, non posso non condividere i pensieri che ha espresso Nicolò Amato, attuale direttore generale degli Istituti di prevenzione e pena (la cui fermezza non disgiunta da umanità si è avuto occasione di apprezzare durante la recente "rivolta" avvenuta nel penitenziario di Porto Azzurro); egli nell'articolo apparso su "La Repubblica" dal significativo titolo Un carcere senza chiavi così concludeva: «Fra il tutto illusorio dell'utopia ed il nulla deludente della rassegnazione, riusciremo alla fine a cogliere il riscatto della speranza possibile?»[50]

14.
Lo Spielberg e il rigetto del carcere

ME LO SON chiesto più volte, particolarmente nei numerosi viaggi all'estero: qual è, oggi, il vero senso della parola "italianità"? La risposta più chiara me lo son data a Brno, in Cecoslovacchia.

A vederla così addosso a Brno, da lontano, la fortezza dello Spielberg, si pensava che fosse facile arrivarvi, ma sbaglio più volte strada. Finalmente imbocco la strada giusta. È dedicata a Silvio Pellico: Pellicova e, appena imboccatala, ci sentiamo meno stranieri, quasi di casa. Troviamo all'ingresso altre due o tre macchine di italiani in sosta e più in là addirittura un pullman targato Firenze.

Perché sì, tutti, tutti noi italiani, ci siamo stati qui con la fantasia e se un caso o l'altro ci porta in questa città (che un tempo si chiamava Brünn), non possiamo non salire su questa collina. Ci siamo stati da bambini con il libro di lettura di quarta o quinta elementare, dove certo non poteva mancare l'episodio dell'amputazione della gamba a Maroncelli e dell'offerta della rosa fatta al chirurgo («"Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine". Quegli prese la rosa e pianse». E tutti noi, bambini, piangemmo).

Ci siamo stati poi da ragazzi, alunni delle medie, con il testo intero de Le mie prigioni. Ce le siamo immaginate queste tetre prigioni per inquadrarvi l'indimenticabile, viva figura del carceriere Schiller, per percepire i discorsi che, fra le urla dei secondini, il Pellico riusciva a scambiare con Antonio Oroboni, per assistere all'abbraccio casuale fra i due, per sentire il pianto del Pellico per la morte dell'Oroboni e gioire della sua esultanza quando gli viene dato per compagno di cella il Maroncelli.

Forse tutti noi italiani ci siamo tornati, con l'inconscio, nel corso della nostra vita, tutte le volte che abbiamo sentito parlare di un carcere politico e deprecato le condanne subite per le idee professate. Lo Spielberg resta per noi il prototipo della prigione politica e non pochi di noi lo hanno anche considerato, forse, il lontano antenato dei campi di sterminio nazisti. (Ma questi furono, invece, cosa ben più trista e barbarica, poiché l'antigiuridica e nefasta legge del più forte, secondo cui l'appartenente a "razza inferiore" doveva soccombere sotto il tallone del campione della "razza pura", fu più inumana di una legge sia pure tirannica che, se condanna e uccide, lo fa in difesa di un ordinamento giuridico vigente).

Mentre il ricordo dell'adolescenza mi affiora vivo, mentre mi rivedo dodicenne chino su quell'indimenticabile libro, provo, varcando la soglia della fortezza, come una stretta al cuore e un nodo di commozione sale alla gola. Lo sguardo cade intanto su una grande lapide scritta in lingua italiana, proprio all'ingresso delle carceri: «Spilbergo non sarà più inferno di vivi né infamia del secolo, ma reliquia di martiri e monumento di virtù patria, a cui converranno un dì pellegrine le redente generazioni». Così Vincenzo Gioberti nel Primato morale e civile degli italiani. Autentica profezia.

Ma non siamo solo noi a venir qui pellegrini. Un gruppo di visitatori cecoslovacchi, con guida, ci precede. Inutile accodarci a loro. Non capiremmo una sillaba della spiegazione. Ma all'ingresso, non so come, veniamo subito riconosciuti per italiani e ci viene offerta, gratis, una breve delucidazione scritta nella nostra lingua.

Apprendiamo così che lo Spielberg risale all'undicesimo secolo, quando era un castello dei signori della Moravia, che fu poi trasformato in fortezza nel 1742.

Le prigioni hanno due settori sotterranei. Il più basso, le cui celle stavano al di sotto del livello dell'acqua del fossato, fu fatto chiudere dall'imperatore Giuseppe II. Vi venivano rinchiusi i colpevoli dei delitti più atroci e ivi, incatenati al buio, mentre gocce d'acqua battevano costantemente sulle loro teste, lasciati impazzire o morire. Ma le prigioni che il monarca illuminato aveva fatto chiudere per la loro esecranda inumanità, vennero riutilizzate dai nazisti per fucilare i patrioti cechi e una recente lapide, coperta di corone e fiori, ne ricorda i nomi. Vi si scorgono, inoltre, celle di recente costruzione, anche questa opera dei nazisti.

Il secondo settore sotterraneo, che è piuttosto un seminterrato (il Pellico, però, lo chiama senz'altro sotterraneo) è quello che veniva utilizzato per i condannati politici. In ogni cella c'è una lapide che ricorda uno o più ospiti, finché si giunge a una cella amplissima - certo ricavata dall'abbattimento delle pareti di più celle - e qui corone con il nostro tricolore circondano una grande lapide in cui sono incisi i nomi di tutti i Carbonari qui reclusi. Sono una cinquantina. Accanto al nome la data dell'entrata e quella dell'uscita o della morte. Un quarto circa risulta morto in prigione e non pochi in giovane età, come l'Oroboni.

Si è impietriti dinanzi a tanto cumulo di dolore, dinanzi al ricordo di tante infelici sorti umane, di cui quelle del Pellico e del Confalonieri, a tutti più note, non sono che piccola parte.

Vi sono nelle successive celle altre lapidi con liste di nomi di prigionieri politici ungheresi, polacchi, cechi. Ma nessuna lista di nomi supera quella degli italiani. Idealmente lo Spielberg è nostro. E non solo perché Silvio Pellico lo ha indissolubilmente legato alla nostra letteratura, ma perché esso fu soprattutto calvario di italiani; il calvario su cui tanti figli d'Italia dovettero salire perché il nome Italia non fosse più un'espressione geografica e perché noi, oggi, lo potessimo portare, senza albagìa, ma con serena dignità, in giro per il mondo. Ecco il significato di "italianità": sapersi appartenenti a un popolo che ha saputo soffrire per divenir "popolo".

E un altro significato m'è parso di cogliere ancora e la lezione; proviene sempre da Silvio Pellico, da uno degli ultimi capitoli de Le mie prigioni: «Pur troppo, la più parte degli uomini ragiona con questa falsa e terribile logica: "Io seguo lo stendardo A, che sono certo essere quello della giustizia; colui segue lo stendardo B, che son certo essere quello dell'ingiustizia: dunque egli è un malvagio". Ah no, o logici furibondi! Di qualunque stendardo voi siate, non ragionate così disumanamente! Pensate che partendo da un dato svantaggioso qualunque (e dov'è una società o un individuo che non abbiano di tali?) e procedendo con rabbioso rigore di conseguenza, è facile a chicchessia il giungere a questa conclusione: "Fuori di noi quattro, tutti i mortali meritano d'essere arsi vivi". E se si fa più sagace scrutinio, ciascun de' quattro dirà: "Tutti i mortali meritano d'essere arsi vivi, fuori di me"».

"Italianità": essere portatori di un messaggio di rifiuto di ogni forma di intolleranza.

Ma i pensieri che principalmente mi suscita la visita allo Spielberg riguardano i problemi della carcerazione. A un giudice non può accadere diversamente. Il "rigetto" dell'idea del carcere mi si profila chiaramente e mi convinco che la pena restrittiva della libertà è da superare. Che una pena debba corrispondere a un'infrazione della legge (di quella particolare legge, per la precisione, la cui osservanza è assicurata comminando una pena) ci appare, per lunga tradizione, così evidente che non ci accorgiamo neanche della tautologia. Una legge è penale quando minaccia, per la sua inosservanza, una pena e la pena è ciò cui la legge affida, con il suo profilarsi minaccioso, l'osservanza dei suoi più importanti precetti da parte dei consociati. Un circolo vizioso, come ognuno può vedere. Un serpente che si morde la coda. La scienza giuridica ne è piena.

E la filosofia serve poco. Senza pene per chi sbaglia una società umana non si regge in piedi: la constatazione è di tutta evidenza, per ogni tipo di società e per ogni epoca della storia umana.

E tolta di mezzo la pena capitale (nei paesi, almeno, che hanno fatto tesoro dell'insegnamento di Cesare Beccaria), eliminate per la loro inciviltà quelle corporali (taglio della mano, esposizione alla gogna, vergate e staffilate), riservate quelle pecuniarie alle infrazioni più lievi della legge penale, le istituzioni statali moderne dell'intera umanità non conoscono, in fondo, altro tipo di pena che quella della privazione della libertà personale. Privazione che può coprire l'intero arco della vita, una notevole porzione di essa fino a periodi di così modesta entità che quasi non varrebbe la pena di scomodare le strutture carcerarie.

Nella sostanza delle cose, in tutto il mondo, la pena detentiva è un corrispettivo, commisurato all'entità del reato, con cui la società offesa vuole che si saldi il conto della injuria, nel senso etimologico di fatto contrario (in) al diritto (jus). Non più dunque la primitiva pena della legge del taglione: uccisione per uccisione (ma la pena di morte persiste in non pochi paesi!), occhio per occhio dente per dente; ma una pena che mortifichi il principale bene dell'essere umano, la sua libertà (già così ampiamente ristretto da mille condizionamenti), in misura temporale quantitativamente corrispondente alla gravità del reato. Pena-ritorsione: tale nella sostanza, sempre, ovunque. È inutile che i trattattisti di diritto penale ci girino attorno. Il diritto positivo - o, se volete, lo storto effettivo - non ci offre altro tipo di pena che il tantundem, il quantum per riequilibrare il piatto della bilancia. Questo hai fatto e questo ti spetta. Paga con la privazione della tua libertà per tot anni tot mesi e tot giorni e il piatto della bilancia si rimetterà in equilibrio. E dopo? E che cosa vuoi che gliene importi di ciò che farai, quando avrai saldato il conto, al carabiniere che ti ha arrestato, al giudice che ha misurato col bilancino il tempo di detenzione che per giustizia ti spettava, al secondino che ti ha custodito, allo Stato, alla società in buona sostanza?

E del concetto, un tempo solo vagheggiamento di filosofi e quasi utopistico, di "pena-emenda" che dobbiamo farne? La Costituzione, come è noto, l'ha accolto in via primaria, esclusiva, oserei dire. «Le pene», stabilisce l'art. 27 comma 3°, «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Quest'ultima parte, sì, è rimasta una massima da "manuale di pii propositi" né la recente riforma carceraria è riuscita a tradurre in realtà la benché minima parte di questo precetto costituzionale. Precetto. Obbligo per gli organi dello Stato. Altro che pio proposito, altro che norma programmatica!

Io non credo sia mai accaduto che un periodo, lungo o breve, di restrizione della libertà, senza una contemporanea "cura", sia mai riuscito ad arrecare una sostanziale modifica di quelle componenti interiori che hanno determinato un essere umano al crimine. Se la modifica, l'effettivo recupero cioè alla volontaria, spontanea quasi, sottomissione ai precetti essenziali della civile convivenza propria della maggior parte dei consociati, si è qualche volta verificata (in un Chessmann, per esempio, per cui la sua esecuzione nella camera a gas fu un vero "omicidio legale" smisuratamente infame!), io sono incline a credere che non è stato mai merito dei sistemi "redentori" della detenzione. Si è sempre trattato, invece, di "cure" personali, attraverso la narrativa, la poesia, l'arte, lo studio, l'apertura comunque di orizzonti culturali e spirituali.

Le carceri non possono fare altro che allenare a crimini futuri quelli che criminali vi sono già entrati e sviluppare l'inclinazione al crimine in chi non avesse ancora ben delineata dentro tale molla interiore. Quante volte tutto questo è stato detto e scritto!

Il perenne stato rivoltoso - a volte latente a volte in fase esplosiva - di tutte le carceri del mondo non è altro che la denuncia più piena della loro inidoneità a svolgere la funzione sociale, cui ipocritamente si fa finta di credere che siano destinate, il recupero del condannato alla società, il suo passaggio, la sua promozione da "deviante" a "osservante". Ci vuole tanto a convincerei una volta per sempre, tutti, tutti, studiosi del problema, giuristi, magistrati, uomini politici, sociologi, che il sistema della pena restrittiva della libertà, così com'è, va visto come un grande fallimento? E come una delle radici (forse non secondaria) del recente terrorismo?

Che fare allora?

Certo il pensiero di chi cerchi qualcosa, in via alternativa, che sostituisca il carcere non può che correre all'"ergoterapia". Nel lavoro la cura.

Lavori forzati, qualcuno obietterà. Torniamo ai "bagni penali"? Ed è chiaro che se si scivola nella retorica che nel lavoro obbligato si può trovare la libertà, e magari uno, senza volerlo, la frase se la traduce, fra sé e sé, in tedesco: Arbeit macht frei... subito un brivido gli ripercorre la schiena, perché vengono in mente i lager nazisti, nel cui ingresso, appunto, la frase stava scritta, e si profilano all'orizzonte, freschi e, forse, ancora vitali, gli arcipelaghi gulag.

Abbiamo, noi uomini del secolo XX, sporcato talmente tutto, infangato ogni istituzione... da non riuscire, su certi argomenti, a parlare più.

Carcere no. Campi di lavoro nemmeno. Gente, che dobbiamo fare?

Siamo su una strada sbagliata, questo è certo. Né io ho forze utopico-fantastiche tali da immaginare, con una certa concretezza, anche se sempre in sede di "fantagiustizia", qualcosa di diverso per la società futura.

Colonie agricole in zone spopolate del Terzo Mondo? Squadre che, lavorando sotto l'egida dell'ONU, cerchino di strappare al deserto nuove zone da coltivare per combattere così lo spettro della fame nel mondo? Lavoratori impiegati in sede internazionale per la ricerca di fonti energetiche vecchie e nuove - per risolvere (ma con un po' di giustizia!) il problema degli approvvigonamenti energetici? Truppe (e perché non chiamarle così?) apprestate per servizi civili e subito distaccate in tutte le parti del globo dove avvenissero calamità?

E lasciate che la mia immaginazione si fermi a quest'ultima "fanta-pena"... I giudici di tutti i paesi della terra direbbero ai criminali: «Ebbene, sì, hai sbagliato, ma con un periodo di anni tot, mesi tot e giorni tot ti riscatti, saldi il conto e ritorni pulito e guarito... un periodo di "servizio civico", perché solo soccorrendo chi soffre si impara a usare quel rispetto verso la persona umana che il crimine ha distrutto». Li si inquadra sotto una disciplina di tipo militare (ma senza eccessi militareschi), li si veste con una certa uniforme (dignitosa), gli si dà un distintivo dell'ONU e li si invia a portare viveri e medicinali alle popolazioni che ne abbisognano, a spalare le macerie che i terremoti disseminano sulla terra, a ricostruire le città distrutte, ad arginare i fiumi, a soccorrere gli alluvionati, a prestare soccorso alle popolazioni che fossero colpite da disastri ecologici o nucleari (Harrisburg, Seveso e Chernobyl dovrebbero bene insegnarci qualcosa!).

In Italia, poi, per lo stato di dissesto del nostro sistema idro-geologico, la normale "popolazione detenuta" che si aggira sulle trenta/trentacinquemila persone (di cui solo metà in espiazione di pena e l'altra in attesa di giudizio) basterebbe appena appena per tener pronte squadre di soccorritori. In attesa della "normale" catastrofe naturale annuale, i condannati potrebbero essere assegnati all'ANAS per riasfaltare strade e autostrade.

Qualche cosa, insomma, di diverso occorre studiarlo. È tutto sbagliato, direbbe Bartali, tutto da rifare.

È inutile illudersi di creare una società nuova (con le riforme a contagocce, con le riforme precipitose, con la rivoluzione...lenta, con quella accelerata e sanguinaria, con la sovversione mettendo al timone la classe operaia o chi diavolo volete voi) se non pensiamo di risolvere il problema: che pena dare a chi sbaglia. Ci sono delle strade obbligate, senza percorrere le quali, non si arriva a un consorzio umano migliore.

Gli uomini sono uomini e si ammazzeranno, per mille ragioni diverse, sempre l'un l'altro, aggrediranno il patrimonio altrui o collettivo con l'astuzia o con la violenza; non desisteranno dal commettere stupri. Che ne facciamo di questi violatori della civile convivenza? Ammazzarli no, mille volte no. Incarcerarli per tutta la vita, nemmeno. Unica soluzione: restituirli alla società liberati dai fermenti che li hanno trascinati sulla via del crimine.

Ma come? Mediante la privazione della libertà, fra le sbarre come belve feroci allo zoo (che, fra parentesi, è sbagliato anche per le bestie), certamente no.

Pensiamoci. È necessario cambiare rotta.

15.
Un viaggio iniziato dall'Orecchio di Dionisio

SE AVESSI potuto (o saputo) compilare un diario della mia vita di giudice - e un limitato tentativo in tal senso sono stati i miei racconti apparsi, fra il 1961 e il 1965, sul settimanale Il Mondo - avrei potuto intitolarlo Viaggio dall'Orecchio di Dionisio allo Spielberg. Molte considerazioni sui problemi della giustizia e sulle sue gravi manchevolezze sono, infatti, collegate a determinate località che m'è capitato di visitare.

Ma l'inizio del viaggio devo ricercarlo a Siracusa, nell'"Orecchio di Dionisio".

Credo, infatti, che tale "viaggio" di addetto ai lavori nel settore della legge, di uomo chiamato ad applicare il diritto ai casi di altri uomini, sia cominciato molto prima che mettessi piede, da neofita, in un'aula di giustizia. Cominciato, cioè, interiormente, per "vocazione" come si suol dire, espressione che non è priva di un tantino di retorica. Direi meglio: per una specie di preveggenza.

Se dovessi riacciuffare la mia prima intuizione sulla miseria della giustizia umana e, soprattutto, la mia prima percezione dell'"obiettiva nefandezza" di un sistema punitivo che rinchiude gli esseri umani in gabbie come animali feroci; se in altri termini volessi ricercare il germe dei pensieri che mi si sono delineati con assoluta precisione quando visitai, come ho già detto nel capitolo precedente, lo Spielberg, penso che dovrei rifare una gita a Siracusa, e rifarla come allora da quattordicenne, alunno di quarta ginnasiale.

Sbiaditi sono i ricordi dell'impressione prodotta dalle colonne doriche della cattedrale-tempio-greco, dalle catacombe, dalla Fonte di Aretusa, dalla stessa singolare topografia della città. Più vivo invece il mio interesse di ragazzo, quando nel corso della visita delle latomie e giunti alla fenditura della roccia denominata "Orecchio di Dionisio", il cicerone batté su una tavoletta e stracciò poi un foglio e il suono venne fortemente amplificato da quell'enorme cornetta acustica.

Dopo, la solita spiegazione: qui il tiranno Dionisio o Dionigi di Siracusa faceva rinchiudere i prigionieri, politici soprattutto, in modo da sentire, mettendosi nella piccola apertura che è in alto in fondo alla grotta, persino le parole sussurrate dai prigionieri.

Leggenda, si sa. La grotta, artificiale come artificiali sono le altre grotte dette latomie che erano cave di pietra, è lunga una settantina di metri e si chiude in alto a sesto acuto. La sua forma richiama notevolmente il condotto uditivo dell'orecchio umano. Si racconta che sarebbe stato il Caravaggio a dargli il nome di Orecchio. Il pittore avrebbe visitato la grotta insieme a un archeologo siciliano, tale Vincenzo Marachello, nel 1586, forse mentre era in viaggio verso Malta, e di tutti i personaggi della Siracusa greca gli sarà tornato in mente il più noto, il tiranno Dionisio.

Mi fu detto già allora, in quella gita, che nelle latomie erano stati rinchiusi i prigionieri ateniesi dopo la sconfitta subita ad opera dei Siracusani, ai tempi della Guerra del Peloponneso. Oppure appresi la cosa sul mio libro di storia?

Tucidide, al libro VII della sua poderosa narrazione, ci espone questa forsennata impresa decisa dagli Ateniesi - poco dopo la Pace di Nicia che doveva durare dieci anni e non durò neanche, si potrebbe dire, l'éspace d'un matin - di mandare aiuto ai Segestani in lotta contro i Selinuntini, alleati a loro volta dei Siracusani. Dice lo storico che gli Ateniesi non sapevano nemmeno bene dove fosse collocata e quanto fosse grande quest'isola denominata Sicilia, dove viveva gente della loro stessa lingua e razza, sia pure mescolata ad altre razze (ed è così che Tucidide tenta una storia dei primi abitatori della Sicilia).

Alcibiade si fa infuocato propagandista dell'avventura, che non saprei chiamare, con linguaggio moderno, diversamente da "imperialistica". Lo scapato discepolo di Socrate se la cavò poi, come si ricorderà, dal rotto della cuffia, perché dopo essere partito a capo di tale spedizione venne accusato del sacrilegio della mutilazione di certe erme e venne richiamato in patria.

Nicia, che aveva decisamente contrastato l'avventura - era quello che aveva da poco stipulato la pace con Sparta - dovette assumere il comando della spedizione e fu poi il maggior capro espiatorio dell'impresa, perché i Siracusani, sconfittolo, lo mandarono a morte.

Ed ecco come Tucidide ci ha tramandato le sofferenze dei prigionieri ateniesi incarcerati nelle latomie: «Quelli che erano nelle latomie furono nei primi tempi trattati dai Siracusani con grande durezza. Gettati in quella cava dirupata, molti in così breve spazio, prima soffrivano enormemente per il sole e il caldo soffocante, così allo scoperto com'erano; poi sopravvennero le notti autunnali che, al contrario, erano fredde; e i cambiamenti di temperatura provocarono nuove malattie. Costretti dalla mancanza di spazio a soddisfare tutte le necessità in quel luogo ristretto, e per di più con i cadaveri che lì l'uno sull'altro, s'accumulavano, di chi moriva per le ferite o per gli sbalzi di temperatura, o per altre consimili cause, si sprigionavano fetori insopportabili. Erano poi tormentati dalla fame, insieme, e dalla sete, poiché, durante otto mesi, i Siracusani non passavano loro che una cotila[51] d'acqua e due di grano al giorno per ciascuno. Insomma, di tutte le sofferenze che si possono immaginare, per uomini caduti in quella tomba, nessuna fu risparmiata. Eppure, per settanta giorni circa essi vissero così ammucchiati; poi, ad eccezione degli Ateniesi e di quei pochi di Sicilia e d'Italia che avevano partecipato alla spedizione, tutti gli altri furono venduti. Benché sia difficile stabilirlo con esattezza, tuttavia i prigionieri furono non meno di 7.000»[52].

Se ne ha avuti Hitler di maestri e predecessori!

Certo, comunque, che a me ragazzo in quella mia gita a Siracusa nessuno parlò di tali sofferenze di esseri umani trattati peggio che animali. E tuttavia una certa impressione deve avermi fatto il pensiero che in quelle cave potessero essere stati gettati degli uomini. Tuttavia l'impressione più profonda fu quella di quell'enorme orecchio con cui potevano essere ascoltati i discorsi dei prigionieri.

Ne fui talmente scosso che mi apparve fin da allora mostruosa ogni forma di violazione del segreti dei discorsi altrui. Ma credo che mi si sia delineato anche un mio personale "rigetto" verso ogni forma di imprigionamento e di limitazione della libertà, ogni forma di pena e di sofferenza inflitta a un essere umano, checché questo abbia fatto.

E certo allora per la prima volta debbo essermi rivolta la domanda: ma se non è giusto violare la libertà di nessun uomo, se non è giusto far soffrire infliggendo pene a espiazione di errori, come si può mantenere la convivenza fra gli uomini che hanno bisogno, attraverso la punizione dei delitti, di trovare quella sola remora che può distoglierli dal delinquere?

Non voglio dire, s'intende, che a quattordici anni fossi capace di formulare una domanda così precisa - domanda a cui non saprei rispondere nemmeno ora - ma un pensiero simile deve essersi attorcigliato dentro di me. E, chiaramente persuaso che nella vita sarei stato soltanto poeta e letterato, me ne distolsi rapidamente, rimanendo ben lontano dall'idea che un giorno, per mestiere, avrei giudicato i miei simili e inflitto a essi pene e carcere.

Quante altre volte, nel corso dell'adolescenza e della prima giovinezza e fino a quando cominciai a metter mano, a venticinque anni, fra "carte giudiziarie", i pensieri sulla giustizia mi hanno arrovellato. Poco? Tanto. Chissà.

Ma da quando ho cominciato il mio "viaggio" nel mondo giudiziario, tali pensieri non mi hanno lasciato mai. E di qualcuno di tali pensieri ho tentato, di tanto in tanto, la traduzione in scritto, o delineando un racconto tratto da un "caso" o affrontando, in un articolo di giornale o in un breve saggio su una rivista, un problema giuridico.

La mia inclinazione alle humanae litterae poteva, però, produrre l'effetto di accontentarsi di astrazioni (la fantagiustizia) - e spesso l'impulso al disimpegno per convergere verso l'otium letterario è stato forte in me - ma il giudice che operava nel concreto e con un senso vivissimo, sempre, della realtà, il narratore che traeva da qualche caso giudiziario trattato spunti per i suoi racconti, il saggista che ha affrontato singoli problemi giuridici, si sono mescolati talmente in me che ogni separazione sarebbe, se non impossibile, certo arbitraria.

Operatore del diritto, dunque, mi pare di essere stato sempre, anche in quegli scritti che appartengono al settore della letteratura. E, come tale, sono sempre portato a parlare della giustizia "in senso stretto".

Ma io ho appartenuto a quella categoria di magistrati, ormai non più ristretta a pochi elementi come un tempo, che ritiene non potersi parlare assolutamente di giustizia in senso stretto (quella, per intenderci, che attuano - o non attuano affatto, a volte - i tribunali) senza che si abbia presente, come suprema istanza, direi meglio: come categoria immanente, la giustizia "sociale", quella, cioè, non soltanto astrattamente enunciata nell'uguaglianza di tutti di fronte alla legge, ma che si sforza anche di attuare l'uguaglianza sostanziale e che ha trovato espressione nel secondo comma dell'art. 3 della nostra Costituzione, di cui fu ispiratore, come è noto, Lelio Basso: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Né è, badate, questo dettato costituzionale un proposito, un'aspirazione, un chimerico sogno. Ci fu un momento (durato circa un quindicennio, un "momento" un po' lunghetto per la verità) in cui, mentre i poteri politici si disinteressavano completamente della carta fondamentale (era stata fatta? e dunque che se ne stesse lì senza rompere le scatole... della ricostruzione e dell'imminente "miracolo economico"), gli studiosi di diritto e, soprattutto, i giudici di ultima istanza erano orientati a vedere nella Costituzione un "manuale di pii propositi". E, per la verità a guardarsi intorno e a leggere poi gli articoli della Costituzione, non si potevano non fare amarissime e pessimistiche considerazioni, cadendo in una posizione di stallo scetticistico.

Accadde anche a me di scrivere, in un libro di racconti e divagazioni di tantissimi anni fa, che era inutile affannarci a cercare... con la lanterna il "diritto al lavoro" nella carta costituzionale. Commentando il progetto dell'art. 1, che venne poi sfrondato e reso più asciutto e pregnante nell'attuale dizione («L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»), scivolavo un tantino nell'ironia.

Ma la Costituzione ha continuato a lavorarci dentro, tutti, quasi inavvertitamente, giorno per giorno. Come un vino che si butta giù manco fosse acqua, reputandolo un vinello, ma che ti fa sentire dopo il suo effetto. E non sono il primo io che paragona la nostra Costituzione al vino. Un vino che più invecchia e più diventa buono. E parlo, si capisce, della Costituzione-sostanza, non della Costituzione-forma, tipo le disposizioni sul bicameralismo, sul modo di elezione del presidente della Repubblica e via discorrendo, disposizioni che possono anche invecchiare e venire, quando occorra, cambiate.

Oggi non si ricorre più alla distinzione a lungo sbandierata dalla Cassazione fra norme precettive e norme programmatiche della carta costituzionale (semmai si parla di norme non ancora pienamente attuate), sicché le ultime venivano guardate dal giurista formatosi alla scuola del "positivismo giuridico" (ciò che è scritto nella legge è scritto e il resto è puro diletto intellettualistico) come una simpatica, pregevole e, tutto sommato, apprezzabile aspirazione avveniristica dei nostri soloni democratici post-fascisti.

Si sa, dunque, oggi che non c'è sillaba della carta fondamentale che non obblighi gli operatori di diritto a un atteggiamento fattivo, a un comportamento concreto[53].

La categoria dei magistrati che un tempo si autodefiniva "classe sacerdotale di Temi" e se ne stava, estatica, in contemplazione davanti alla bellezza razionale dello "Stato di diritto", reputando una stortura e quasi una bestemmia la critica marxiana che vedeva nello Stato liberale-ottocentesco "il comitato d'affari della borghesia", si è persuasa (un suo settore, quanto meno) che il giudice oggi non ha da "conservare" un insieme di leggi che tutelano e garantiscono l'immobilità di un certo assetto sociale, ma è spinto dalla Costituzione stessa - dal sostrato stesso di tutte le leggi - a modificare lo stato di cose esistenti.

È parso, perciò, ai giudici di cui condivido le idee e le cui lotte, nella misura in cui m'è riuscito possibile, ho cercato di partecipare, che "l'elevazione del proletariato e l'eliminazione delle disuguaglianze di classe" potessero - e dovessero - essere prese a base concreta dell'operare del giudice. Così la lotta contro il "lavoro nero" (lavoro a domicilio occulto, lavoro subappaltato) e la repressione degli "omicidi bianchi" e delle condizioni subumane di lavoro (ambienti antiigienici, rumorosi, nocivi alla salute) sono saltati a un posto primario fra i compiti assegnati a un giudice[54].

Certo l'eliminazione delle disuguaglianze di classe, attraverso un livellamento del tenore di vita, sebbene appaia una tendenza abbastanza presente nei vari strati sociali attuali (l'operaio che ha acquisito un habitus comportamentale piccolo-borghese, il piccolo e medio borghese che sogna ostentazioni da alta borghesia e spesso si indebita per afferrare brandelli di sogni) non mi pare che sia un traguardo di prossima realizzazione né nelle società con struttura economica liberal-capitalistica né in quelle del "socialismo reale" (o, come sarebbe più giusto chiamarle, del socialismo immaginario e dell'oppressione effettiva).

L'ideale della nascita di una nuova classe, la "borghesia del lavoro" che fondesse in una la classe borghese e quella operaia resta per me, come per tanti altri, un sogno giovanile scaturito dalle "promesse" che pare potevano trarsi dalla Resistenza. Non prevedevamo, negli anni dell'immediato dopoguerra, la sostanziale restaurazione che sarebbe seguita. Mi pareva di poter scorgere, nel lontano 1947, il profilarsi dell'epilogo di quella lotta che ha riempito di sé la storia del sec. XIX e di tanta parte del XX: la lotta fra proletariato e borghesia. Se il moto proletario, scrivevo in un articolo (Attualità di un verso oraziano che è una delle mie prime cose pubblicate) può paragonarsi all'avanzare di una forza giovane e barbara sopra il mondo civilizzato e disfatto della borghesia, si può già dire che Graecia capta ferum victorem cepit. Intravedevo, cioè, la vittoria della borghesia sul proletariato, ma una vittoria raggiunta, come quella della Grecia su Roma, con le armi dello spirito e del progresso. Illusioni giovanili, evidentemente.

Ma forse giocava anche un ruolo sotterraneo in ciò che scrivevo il rifiuto di pensare a un capovolgimento dei rapporti di forza fra classi attraverso la violenza e gli orrori di una rivoluzione armata. In me, come in tutti quelli della mia generazione, che si erano visti bruciare gli anni della prima giovinezza dalla guerra, c'era un inestinguibile bisogno di pace che ci faceva guardare all'avvenire come a un'epoca di mite progresso. Dicevamo con Virgilio: aspera tum positis mitescent saecula bellis. Sconfitto il nazifascismo, che bisogno mai ci sarebbe stato per l'umanità di lotte e di sangue?

Le vicende interne del nostro Paese e maggiormente gli avvenimenti mondiali non tardarono a smentire le aspettative. Così tutti coloro che ci eravamo fatti grandi illusioni (e che non siamo per rivoluzioni violente) abbiamo capito che il cammino della nostra società verso la giustizia sociale era ancora aspro e irto di difficoltà e ognuno, che non avesse voluto rinunziare al proprio ideale di miglioramento del consorzio umano, doveva svolgere il suo ruolo in tale diuturna lotta e farsi portatore del suo personale, anche se modesto, contributo.

Ed ecco, così, sorgere la problematica, tipica della storia della magistratura degli anni '50 e '60, della funzione del giudice nella società. Problematica che è già percepibile ne Il diario di un giudice di Dante Troisi e trova svolgimento negli scritti di Dino Greco, di Adolfo Beria d'Argentine, di Piero Pajardi, di Pasquale Emilio Principe, del compianto Marco Ramat (per non citarne che alcuni) su giornali e riviste.

Efficacemente sintetizzatrici di questa "ricerca della propria identità" da parte dei giudici della Repubblica democratica italiana mi sembrano le succose righe che ebbe a scrivere Marco Ramat nella sua lettera premessa a mo' d'introduzione al mio romanzo L'onore[55].

È ovvio che il "nuovo" giudice, che si era delineato nelle pagine dei magistrati scrittori e saggisti e che cominciava già a prendere corpo nell'attività giudiziaria concreta, cominciava a farsi domande come questa: che senso ha infliggere anni di galera a chi aggredisce il patrimonio altrui, quando c'è da una parte chi si consente sprechi sardanapalici, che offendono anche la parsimonia dei più, e dall'altra chi ha avuto avverso ogni condizionamento iniziale della vita nel suo processo formativo? Non sarebbe più equa una pena mite, possibilmente sospesa, abbinata con uno sforzo "serio" di recupero mediante "serie" istituzioni di assistenza, un tentativo di inserimento del condannato nel tessuto sociale? E che senso ha infierire contro lavoratori in lotta che, nelle loro agitazioni, possono avere anche violato una o più norme del codice penale, quando nello stesso testo del codice il giudice può trovare gli strumenti anche della clemenza oltre che della giustizia? E non si trova, per tali casi, innanzi tutto, l'indicazione nell'art. 133 del cod. pen. che detta i criteri per adeguare la pena al fatto, per poter evitare che la pena sembri una vendetta di rappresentanti della classe al potere contro chi le si rivolta e far sì, invece, che se pena deve essere, appaia come un monito a frenare, nella giusta lotta operaia, gli impulsi a travalicare nel caos? E tutto ciò che rientra nelle azioni del movimento operaio non implica di per sé, in caso di azioni previste come ipotesi di reato - e ove non possa applicarsi una discriminante come la legittima difesa o lo stato di necessità - la concessione dell'attenuante prevista dal n° 1 dell'art. 62 del cod. pen.: «l'avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale»?

Nel farsi queste e altre domande (il cui elenco riempirebbe forse interamente questo libro) il giudice "nuovo ed eretico" sapeva di entrare in vivo contrasto con la mens tradizionale della magistratura italiana, resa manifesta soprattutto dalla giurisprudenza della Cassazione. E per fare un esempio si può stare all'ultima domanda, quella che riguarda i motivi di particolare valore morale o sociale. È palese a ognuno, anche al non giurista, che il legislatore (né ha importanza che la fonte delle norme del codice Rocco sia stata fascista, quando si dice "legislatore" si parla del "volere della legge" quale è nel momento attuale) il legislatore, dunque, parla alternativamente di valore morale o di valore sociale. Usa, cioè la "o" disgiuntiva e alternativa non la "e" congiuntiva e coordinativa. Quindi i motivi, che hanno determinata l'azione integrante gli estremi di reato, non devono necessariamente essere, per potersi applicare l'attenuante, insieme rispondenti ai princìpi dell'etica ed essere apprezzabili dal punto di vista "sociale".

Eppure nelle applicazioni fattene dai giudici il morale e il sociale viene sussunto in un'unica sfera indistinta, come emerge dalle massime della Cassazione.

Un interprete, invece, spoglio da preconcetti e alieno dall'adagiarsi nell'immobilismo delle massime cristallizzate - segno autentico di reazionarismo - non può assolutamente ritenere che l'aggettivo "sociale" sia usato dal legislatore come un completamento, una coloritura dell'aggettivo "morale". Si tratta di ipotesi del tutto distinte. E "sociale" non deve affatto significare, come ha detto e, purtroppo, ostinatamente ripetuto la Cassazione, «motivi che corrispondono alle direttive e alle finalità della comunità "organizzata" e sono quindi conformi ai "presenti" ordinamenti sociali» (le virgolette sono mie e non della massima, ma ne svelano il contenuto estremamente conservatore). I motivi di particolare valore sociale sono quelli (e in qualche sentenza è stato riconosciuto) che mirano a creare una società più giusta. Rientrano insomma nel dettato costituzionale e nel suo dinamismo sociale implicito.

Gli esempi di un'interpretazione, opposta a quella conservatrice, aderente al testo e pure estremamente moderna e consona ai tempi ma, quel che più conta, direttamente ispirata ai princìpi costituzionali, potrebbero continuare. Ma se dall'interpretazione letterale (grammaticale e lessicologica) si passa, per altre norme quando ciò appaia necessario, all'interpretazione logica, sociologica, storico-evolutiva, i casi di divergenza fra un'applicazione della legge fatta con la testa rivolta al passato e un'applicazione fatta con lo sguardo proteso verso l'avvenire, non si contano più.

Errore sarebbe - e forse qualcuno c'è caduto - fare discendere dal lavoro di interpretazione "progressista" la taccia di "politicità" del giudice.

Il giudice è uomo come tutti gli altri ed è condizionato nell'operare dalle proprie idee politiche e dalle proprie preferenze sul tipo di strutture socio economiche. Ma deve sforzarsi di non travalicare dai propri compiti e di lasciarsi guidare sempre dalla carta costituzionale, senza mai forzare, sovvertendo magari il significato delle leggi per amore di una sua ideologia politica.

 
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