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Gli Sbagli di Vostro Onore, di Luigi GrandeLiber Liber

Copertina | Indice | Introduzione | Parte 01 | Parte 02 | Parte 03 | Parte 04 | Note

Parte 02

6.
Il problema dell'errore giudiziario

MA SI PUÒ dire mai, parlando di Alessandro Manzoni, di aver concluso il discorso? E, dovendo parlare ora del problema giuridico e morale che pone l'errore giudiziario, sotto il duplice profilo su come evitarlo e su come, quando è stato commesso, ripararlo, non posso che tornare ancora al Manzoni della Colonna Infame. E cercare di trame qualche insegnamento validissimo ancora oggi. Ché gli sbagli dei giudici non appartengono solo al passato. Innanzi tutto il primo insegnamento, tale da servire come presidio contro l'errore giudiziario, che ci dà l'opera manzoniana riguarda la promessa di impunità, che, s'intende, non può essere fatta né oggi né allora (però nel processo contro gli untori secondo il Manzoni la promessa di impunità non fu usata correttamente) dal giudice ma da chi detiene il potere: nel sistema democratico dal potere legislativo, il Parlamento.

Il promettere l'impunità a un indiziato, ove spifferi i nomi dei suoi veri (o presunti) correi o mandanti, a parte il carattere di delazione che qualcuno vi ravvisa, se non addirittura (a parere di qualche severo critico) di fellonia, a parte cioè ogni considerazione morale su di essa e accettandone la sostanza come mezzo per sconfiggere il crimine, può certamente essere causa di fuorviamento di giudizi.

Ciò che il Manzoni ci ha insegnato, dunque, deve anche oggi far riflettere il legislatore sull'ampia possibilità che una promessa di impunità (o un risultato di impunità, attraverso un gioco di attenuanti come nella legge "sui pentiti", o per essere pių esatti legge 29 maggio 1982 n. 304) possa condurre a estendere accuse infondate a persone innocenti.

Nel processo contro gli untori si partì da un solo indiziato e, via via, attraverso un gioco mostruoso di chiamate in correità, l'accusa fu estesa a un innocente dopo l'altro. L'ombra, perciò, che butta ancora la colonna, che io chiamerei manzoniana, non solo ricorda al giudice italiano il trabocchetto dell'errore giudiziario - nel quale si può cadere assai pių facilmente di quanto non si creda - ma dovrebbe anche rendere cauto il potere legislativo nell'elargire promesse di impunità a chi fa il nome di correi o di mandanti. La legge sui pentiti, di cui ho citato sopra gli estremi, fu "legislazione di emergenza". Forse è meglio dimenticarla. E oso sperare che non si parli di "pentitismo" per mafia e camorra o per qualsiasi altro fenomeno criminoso.

E veniamo al secondo insegnamento che ci dà ancora questa piccola-grande opera del Manzoni. La strada pių sicura e pių dritta per arrivare all'errore giudiziario è, per un giudice, l'uso scorretto della procedura. E anche l'uso non cauto. Il sistema procedurale di cui legittimamente si servivano i giudici del processo contro gli untori prevedeva l'uso della tortura dell'indiziato. Ma come fu usato?

L'indignazione contro il sistema della tortura come mezzo per estorcere confessioni era già stata espressa dal nonno materno del Manzoni, Cesare Beccaria, che chiama, la tortura «infame crogiuolo della verità» e, assai spesso, occorrerebbe aggiungere, crogiolo di menzogne o della verità che vogliono gli inquisitori-aguzzini. Ma il teorico che combattè l'uso della tortura con ampiezza di argomenti fu Pietro Verri, il quale non pubblicò in vita - è vero - le sue Osservazioni (le pubblicò poi, postume, nel 1804 come una nota a un altro inedito del Verri, Pietro Custodi nella raccolta Scrittori Classici Italiani di Economia Politica) ma già da tempo egli veniva raccogliendo le sue idee contro l'uso della tortura, tanto che nel 1761 in un almanacco (il Settecento è il secolo degli almanacchi) intitolato Mal di milza pubblicò una specie di indovinello in cui parla la personificazione della tortura: «Io sono una regina, ed abito fra gli sgherri; purgo chi è macchiato, e macchio chi non è macchiato; son creduta necessaria per conoscere la verità, e non si crede a quello che si dice per opera mia. I robusti trovano in me salute, e i deboli trovano in me rovina. Le nazioni colte non si sono servite di me, il mio imperio è nato nei tempi delle tenebre; il mio dominio non è fondato sulle leggi, ma sulle opinioni di alcuni privati».

I "privati" di cui parla il Verri erano i giurisperiti che avevano disquisito sulle modalità della tortura. Ed è su questo punto che le idee del Manzoni divergono da quelle del Verri, che nelle "sottigliezze" inventate dai "dottori" vede l'origine del tristo sistema processuale da lui combattuto.

Manzoni, infatti, condanna certamente la tortura in generale, ma si erge anche, anzi soprattutto, contro l'uso illegale di essa, con la sua dignitosa ma sferzante analisi del processo contro gli untori.

Ed è questo il grande pregio della Storia della Colonna Infame (nè ci sarà mai...barba di pignolo processualista a cancellare questo pregio) l'avere additato agli occhi dei propri contemporanei e dei posteri che un pregiudizio popolare e un'isteria collettiva, fatti propri dai giudici, possono portare costoro, attraverso una distorta applicazione della legge processuale, a mostruosi errori giudiziari. Il Manzoni, partendo dallo studio dei processualisti della cosiddetta età intermedia (quella cioè che precede le moderne codificazioni) e dando un saggio della sua non comune cultura giuridica, difende i giurisperiti dei secoli passati dall'accusa del Verri di avere avallato, e quasi inventato, l'ignominioso uso della tortura. Ché, anzi, essi dettando delle regole tendevano a sottrarre l'applicazione della tortura al mero arbitrio dei giudici. «Č difficile infatti che uomini i quali considerano una generalità di casi possibili, cercandone le regole nell'interpretazion di leggi positive, o in pių universali ed alti princìpi, consiglin cose pių inique, pių insensate, pių violente, pių capricciose di quelle che può consigliar l'arbitrio, ne' casi diversi, in una pratica così facilmente appassionata. La quantità stessa de' volumi e degli autori, la molteplicità e, dirò così, lo sminuzzamento progressivo delle regole da essi prescritte, sarebbero un indizio dell'intenzione di restringer l'arbitrio, e di guidarlo (per quanto possibile) secondo la ragione e verso la giustizia; giacché non ci vuol tanto per istruir gli uomini ad abusar della forza, a seconda de' casi. Non si lavora a fare e a ritagliar finimenti al cavallo che si vuol lasciar correre a suo capriccio; gli si leva la briglia, se l'ha»[36].

Ma i giudici, nel caso del processo contro gli untori, anziché trovare freni nelle massime giurisprudenziali che di secolo in secolo si erano tramandate per imbrigliare l'uso della tortura, vi ricorsero, secondo il Manzoni, illegalmente. Disapplicarono cioè le leggi processuali del loro tempo e chiusero gli occhi di fronte alla verità, che era l'innocenza di quei poveri infelici, che emergeva continuamente nel corso del processo.

Potremmo dire col Manzoni che noi oggi «non abbiamo, né timor d'unzioni, né furore contro untori, né altri furiosi da soddisfare», ma il ricordo di errori giudiziari antichi e di giudici-boia (così li bolla il Manzoni, ricordando che un giurisperito aveva affermato di non aver visto applicare la tortura per tre volte all'accusato nisi a carneficibus: se non da giudici-boia) può ancora servire da remora ai giudici di oggi, allorquando un caso di isteria collettiva può profilarsi e si è sospinti dal "furore" verso scorciatoie processuali e alla disapplicazione delle regole che la legge detta appunto a tutela dell'accusato.

E, si badi, che anche una norma procedurale, regolarmente prevista dal codice, non usata con la dovuta cautela, può sfociare in un arbitrio che conduce all'errore giudiziario. Che di pių legittimo da parte di un magistrato dell'ordinare l'arresto di un testimone in pubblica udienza, allorché egli dica il falso o sia reticente? Ma il codice prevede anche che il testimone se ritratta va assolto. Non può allora accadere che un testimone, sospettato ingiustamente di aver detto il falso o di aver taciuto il vero, di fronte alla minaccia di una condanna (e non è questa una "tortura morale"?) si induca a far propria la "verità" preconcetta del giudice?

Due fratelli litigano per ragioni di interesse. L'uno, nel diverbio, colpisce l'altro e lo ferisce. Il ferito scompare e si nasconde (e neanche poi tanto lontano), mentre il feritore viene arrestato e processato per omicidio e occultamento di cadavere. Invano si presentano due testimoni che assicurano di aver visto il "morto" ben vivo. Sono subito arrestati per falsa testimonianza. Rischiare di essere condannati, si dicono i due poveracci, per essere testimoni del vero? E ritrattano. Il preteso omicida viene condannato a quattordici anni di reclusione e ne sconta sette, la metà. E Il caso del contadino siciliano Salvatore Gallo[37].

Le vie, dunque, che conducono all'errore giudiziario sono (come quelle della provvidenza) infinite, ma, ripeto, è attraverso una pretesa "verità" o una "certezza" preconcetta, forte tentazione a non usare cautamente una regola procedurale, che ci si arriva dritti dritti.

E come si può riparare l'errore giudiziario quando viene scoperto? Mi si conceda, a questo punto, il ricordo di un mio viaggio. Arrivando a Reims, nella città dove, per antica tradizione, venivano incoronati i re di Francia, si corre tutti a vedere la cattedrale, che, sopravanzando per la bellezza architettonica e per le sculture, quasi tutte le altre cattedrali gotiche di Francia (e non è dir poco!), fa quasi dimenticare ogni altro monumento esistente in quella città.

Ma un'occhiata Place Royale la merita, una bomboniera settecentesca di grande eleganza, con al centro una statua a Luigi XV. L'iscrizione lo vanta principe pacifico, il che non è poi così vero. Ma a me il ricordo che abbia ascoltato, almeno in questo, Voltaire, elargendo una somma riparatoria alla famiglia della vittima di un errore giudiziario, Jean Calas, lo rende un po' meno sgradevole di tutti gli altri Luigi di Francia.

Quand'è che si cominciò a formare fra gli studiosi del diritto e, in particolare, del processo penale la convinzione dell'ineliminabilità del pericolo dell'errore giudiziario che quasi per forza stessa di cose (testimonianze false, una distorta rappresentazione della realtà, documenti alterati, abbagli collettivi e così via) si accompagna all'amministrazione della giustizia? Forse fin da tempi remotissimi, ma è sempre il secolo "dei lumi" che pone questo problema e agita la questione della riparazione non pių soltanto come un indennizzo ad personam per longanimità sovrana, come era stato per la famiglia Calas e come era avvenuto anche prima in Francia, nel caso di un altro innocente condannato a morte, tale Lebrun accusato di avere ucciso una certa signora Mazel, la cui memoria fu riabilitata nel 1694. Ed ecco che alla convocazione degli Stati Generali, che darà com'è noto il segno d'avvio alla rivoluzione francese, il ministro guardasigilli ebbe a riferire di un'ordinanza regia dell'anno prima (1788) in cui le riparazioni per gli sbagli della giustizia venivano previste in linea generale. Se ne discusse ancora nel corso della rivoluzione e in un progetto di codice (code d'istruction criminelle) si era prevista la creazione di "fondi di soccorso" per le vittime di errori giudiziari.

A un principe "illuminato", Leopoldo di Toscana, spetta il merito di avere per primo in Italia affrontato il problema, stabilendo che l'ammontare delle condanne pecuniarie dovesse servire come fondo per indennizzare coloro che, "senza dolo o colpa di alcuno" ma "per certe combinazioni fatali" fossero stati processati, incarcerati e poi riconosciuti innocenti; quindi, si deve ritenere, anche nel caso che non ci fosse stata condanna "definitiva" ma soltanto carcerazione in attesa di giudizio.

Pių vago era il disposto, venuto qualche anno dopo, nel 1819, nel Regno delle Due Sicilie, secondo cui veniva creata una cassa in cui dovevano confluire ammende, cauzioni ecc. e che doveva servire a "ristorare" gli "innocenti perseguitati per errore o calunnia nei giudizi penali". Ma il decreto per fare funzionare tale cassa non venne mai. E il vizio delle buone intenzioni e delle mancate attuazioni trapassò così dal Regno delle Due Sicilie all'Italia unita sabauda, all'Italia fascista, all'Italia postfascista e democristiana, che forse sarebbe bene chiamare "Repubblica delle Quattro Sicilie".

Nel primo codice di procedura penale dell'Italia unita non ci fu alcuna previsione per le vittime degli errori giudiziari, ma il problema continuava a essere dibattuto, come documentano gli atti parlamentari anteriori al 1913, quando fu emanato il nuovo codice del processo penale. Notevole è quanto ebbe a dichiarare uno dei migliori ministri guardasigilli che l'Italia umbertina abbia avuto, Giuseppe Zanardelli, il quale, mentre c'era chi riteneva pericoloso rendere lo Stato responsabile dell'errore giudiziario, indicò nelle difficoltà economiche la remora per il progetto, auspicando che migliorate le finanze statali (pia illusione!) si sarebbero potuti destinare i proventi delle pene pecuniarie «al santo e nobile scopo di indennizzare le vittime degli errori giudiziari e, in ispecie, del carcere preventivo» (relaz. minist. al Progetto di codice penale, 1887).

Il codice del 1913 accoglie il principio della riparazione dell'errore giudiziario (né va sottaciuto che fra gli studi che anteriormente concorsero all'accoglimento del principio ce n'è uno, del 1906, di quell'Alfredo Rocco che avrebbe legato il suo nome ai codici penale e di procedura penale del tempo fascista); ma l'accoglie in misura assai limitata, cioè l'indennizzo viene concesso a chi si trova in queste condizioni: condannato e poi riconosciuto innocente con una sentenza che annulli la prima, che abbia scontato almeno tre anni di pena, che non abbia riportato altre due o pių condanne a pena detentiva, che non abbia dato causa, per dolo o colpa grave, all'errore del giudice, e che, infine (ed è questo ciò che rende modesto l'istituto come innovazione guridico-morale), versi in condizioni economiche precarie.

L'idea base di Alfredo Rocco che l'indennizzo a chi fosse rimasto vittima di un errore giudiziario non era un diritto, ma un atto umanitario a titolo di soccorso, dimostrando cioè lo stato di bisogno suo e della famiglia, trapassò dritta dritta nel codice del 1930 che porta il suo nome.

Fino all'avvento della Costituzione repubblicana, dunque, o per essere esatti fino alla legge che attuò il principio costituzionale, di indennizzo per errore giudiziario si poteva parlare soltanto: a) quando a una condanna definitiva era seguito un giudizio di revisione che aveva annullato la condanna; b) quando l'innocente condannato versava in stato di bisogno.

L'art. 24 della Costituzione, che all'ultimo comma prevede appunto che la legge "determina le condizioni ed i modi per la riparazione degli errori giudiziari", trovò attuazione (dopo pių di dieci anni dall'emanazione della nostra Magna Charta!) con la legge del 23 maggio 1960 n. 504. Con tale legge scomparve il criterio delle condizioni di bisogno o indigenza economica, necessarie per ottenere la riparazione e l'istituto cambiò così radicalmente aspetto: non si tratta pių di una "munifica elargizione" del potere, ma di un diritto, cui corrisponde un dovere dello Stato.

Non è qui - data la natura divulgativa di queste pagine - il caso di passare in rassegna tutte le teorie che hanno cercato di chiarire e inquadrare in una categoria giuridica questo dovere di risarcire il danno[38]. Basterà qui accennare alla teoria contrattuale (che si ricollega al Contratto sociale di Rousseau), per cui è come se lo Stato avesse violato per colpa il patto stipulato con i privati, condannando l'innocente, o alla teoria del rischio proprio della funzione o a quella, pių aderente alle moderne concezioni dello Stato, che esiste una responsabilità dello Stato sia per atto lecito sia per atto illecito del funzionario statale (s'intende che l'ingiusta condanna non deve essere imputabile al giudice, perché in tal caso il discorso cambia ed è ciò di cui si parlerà pių oltre nel capitolo sulla "responsabilità del giudice").

Fra le varie teorie escogitate per individuare la natura giuridica del dovere dello Stato di risarcire il danno da errore giudiziario, se dovessi scegliere propenderei per quella che vede discendere tale dovere dalla necessità che tutta l'attività statuale, e in particolare quella giurisdizionale, sia conforme ai principi di giustizia e aderente a quelle linee di rettitudine e di rispetto della persona umana che sostanziano la Costituzione.

Due sono, per la legge in vigore, i requisiti perché possa sorgere il diritto alla riparazione pecuniaria da parte dello Stato: a) che alla condanna irrevocabile sia seguito un giudizio di revisione di tale condanna (nelle modalità e forme previste dal codice di procedura penale) concluso o con l'assoluzione o con una condanna meno gravosa di quella annullata; b) che colui, il quale è stato condannato per errore, non sia stato causa o concausa di questo errore o per dolo (cioè che abbia consapevolmente ingannato il giudice, che è un'ipotesi piuttosto fantagiuridica!) o per colpa grave, cioè non abbia usato quel minimo di diligenza che usa una persona comune, per esempio non fornendo una prova decisiva che avrebbe attestato la sua innocenza e che solo lui sarebbe stato in grado di fornire.

Non si pensi che il giudizio di revisione (lo chiarisco, ovviamente, per quei lettori che non si sono mai interessati di problemi di procedura penale) sia una specie di "quarto grado", che segua al giudizio di primo grado (pretore o tribunale), appello, e corte di cassazione; no, perché ci sia la possibilità di instaurare un giudizio di revisione, dopo che tutto l'iter normale processuale era stato percorso, occorre che salti fuori qualcosa di nuovo, per esempio, come nel caso citato pių su, che una persona ritenuta morta si scopra invece che è viva, oppure che siano sopravvenuti o scoperti ex novo degli elementi che conclamino l'innocenza del condannato, o che la condanna sia dipesa da falsità già di mostrate per tali.

Č chiaro, dunque, che la legge attuale non prende minimamente in considerazione il caso di una lunga carcerazione preventiva (e le lunghe carcerazioni non sono pių eccezione ma regola) seguita da un proscioglimento in istruttoria o da un'assoluzione in giudizio. E il tenere una persona in carcere priva della libertà e soggetta a tutte le sofferenze che il regime carcerario comporta, a volte per uno o pių anni, ove questa persona venga riconosciuta non colpevole, come va chiamato? Non si addice a un caso del genere (che è tutt'altro che un caso raro) il termine di "errore giudiziario"? Dobbiamo rassegnarci a pensare che si tratta di una pura "fatalità"?

C'è stato, in passato, qualche studioso che vedeva nell'errore giudiziario qualcosa di paragonabile alle... calamità naturali! E, come in caso di terremoti, alluvioni e altri disastri naturali, lo Stato soccorre chi ne è stato colpito, così soccorre anche chi fosse rimasto vittima di un errore giudiziario. E, allora trattandosi di una calamità, ecco che un Luigi XV elargiva un soccorso riparatorio alla famiglia Calas. No, concezioni del genere non sono oggi accettabili. Ebbene, per la carcerazione preventiva ingiustamente sofferta non soccorre neanche la concezione della calamità! E lo Stato se ne può uscire con uno "scusi tanto"?

A volte può essere stata distrutta la reputazione di un uomo, travolti i suoi affari, compromessa definitivamente la sua situazione economica, spezzata addirittura la sua vita.

Questo è un problema che la classe politica non può pių rimandare alle calende greche, che va affrontato e risolto in una maniera e nell'altra. E se già Zanardelli, ben cento anni fa, non trovava poi che fosse utopistico estendere il concetto di errore giudiziario anche alla carcerazione preventiva ingiustamente sofferta e vedeva per l'attuazione di un progetto soltanto remore di carattere finanziario, non le tirino fuori oggi scuse del genere i governanti attuali!

Né si pensi semplicisticamente che basta accorciare i termini di carcerazione preventiva e tutto è risolto. Basta con questa fisarmonica di allungamento e accorciamento della carcerazione preventiva che ha caratterizzato quest'ultimo periodo di legiferazione!

Il problema della riparazione dell'errore giudiziario va, dunque, reimpostato con nuovi criteri, affiancandolo all'altro della responsabilità del giudice.

Ma quando si parla di "sbagli del giudice" non si è certo finito con l'esame della questione dell'errore giudiziario.

Vi sono tanti altri problemi che l'opinione pubblica, in questi ultimi tempi, sente che "inquinano" l'operato del giudice, per esempio la politicizzazione della magistratura, il protagonismo dei giudici con pretori e pubblici ministeri... d'assalto, la crisi della "certezza del diritto", conflitti fra stampa e magistratura che si riverberano, addirittura, in una frizione fra il capo dello Stato e l'organo di autogoverno dei giudici, il Consiglio Superiore della Magistratura.

Ma cos'è allora? Č in crisi, poiché si parla di crisi istituzionale e di necessità di riforme istituzionali, è in crisi la base stessa su cui poggia la Repubblica, il sistema politico, la carta costituzionale?

7.
Costituzione, riforme istituzionali, caffè scorretti

MA CHE COS'Č che non va bene in questa nostra Costituzione? Cos'è tutto 'sto gran parlare di "riforme istituzionali" che vengono delineate come la panacea di tutti i mali della nostra travagliata macchina statale? E, davvero, modificando tre o quattro articoli della carta fondamentale - facendo, che so?, eleggere il presidente della Repubblica non pių dal Parlamento in seduta congiunta ma dai cittadini direttamente, o modificando il nostro bicameralismo per renderlo un tantino pių efficiente e svelto nel varare le leggi, col dare al senato un certo settore dell'attività legislativa e alla camera dei deputati un altro, o, infine, riassettando il congegno con cui va sostituito un governo a un altro, per evitare crisi extraparlamentari o crisi al buio - si ritiene di raddrizzare le infinte storture che azzoppano la nostra vita pubblica?

Non voglio, per l'amordiddio, minimamente contraddire ciò che, in un'intervista al quotidiano La Repubblica, di qualche anno fa ha puntualizzato Massimo Severo Giannini. L'illustre maestro di diritto pubblico - amministrativista soprattutto ma anche costituzionalista - indica in alcune imperfezioni e lacune (disposizioni vaghe sui partiti, sui sindacati ecc.) della nostra Costituzione una non secondaria fonte dell'inefficienza della macchina statale. Tutte, nessuna esclusa, le condivido le indicazioni del prof. Giannini e di cuore auspico che a uomini come lui sia affidato il compito di rattoppare le falle di questa barca su cui navighiamo e che fa acqua da tutte le parti. Ma resto persuaso che è della Costituzione-sostanza e non della Costituzione-forma che dovremmo preoccuparci di pių e che la seconda ce la possiamo rimescolare come vogliamo, ma della prima dobbiamo fare veramente il fulcro della nostra civile convivenza. E tale traguardo non può dirsi ancora raggiunto.

Quando parlo di Costituzione-sostanza intendo il substrato giuridico che ha elevato, per la prima volta, lo Stato italiano alla dignità di vero Stato di diritto (sulla carta, s'intende). Mentre è Costituzione-forma tutto il complesso di norme che regolano i congegni, i meccanismi mediante i quali si esplica la vita degli organi supremi dello Stato stesso. Ora di questo insieme di norme - che poi è tutta la parte II della Costituzione -, di tutte queste strutture e impalcature (un parlamento fatto così o cosà, un governo che non caschi a ogni sternuto di segretario di partito, un capo dello Stato con pių poteri o con meno poteri) possiamo, in fondo, fare quello che vogliamo. Si fa per dire: perché per cambiare anche una virgola della Costituzione occorre la procedura che vi si prevede all'art. 138: le leggi, cioè, "sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione".

Mi pare, perciò che tutto il gran parlare di "riforme istituzionali" si è risolto in un'abbuffata di logomachie e che, se un giorno con una legge costituzionale, si arrivasse a modificare un qualche articolo della Costituzione, ciò non potrà avvenire che per una miracolosa convergenza di intenti e su qualche punto che imponga la modifica come un'assoluta necessità.

E allora pensiamo alla sostanza. E tale sostanza è nella parte prima della Costituzione, nella materia cioè che viene condensata sotto la denominazione "diritti e doveri dei cittadini" e che è stata distribuita in quattro diversi titoli: a) i rapporti civili che prendono in considerazione i diritti fondamentali che appartengono alla persona umana in quanto tale e che non sono perciò "concessi" dallo Stato ma soltanto "riconosciuti"; b) i rapporti etico-sociali che riguardano l'inserirsi dell'individuo nella famiglia, nella scuola e nelle varie istituzioni sociali; c) i rapporti economici che si enucleano sull'attività produttiva; a) i rapporti politici che configurano diritti e doveri del cittadino in relazione alla sovranità popolare.

Non voglio pedantescamente passare in rassegna i primi cinquantotto articoli della Costituzione né mettermi a fare l'insegnante di "educazione civica" (materia non insegnata nella scuola italiana, perché, dicono gli "addetti", manca il relativo registro e, incredibile dictu, il potere di assegnare un voto specifico ai ragazzi) ma mi preme soltanto porre in rilievo che quando dico che un vero Stato di diritto, cioè non di sola facciata, per la prima volta in Italia, si è delineato con la Costituzione repubblicana, mi riferisco a tutto questo insieme di norme che assoggettano il comportamento dei pubblici poteri nei confronti dei cittadini (non pių sudditi) a regole precise, che dovrebbero essere inviolabili.

E, con maggiore specificità, mi riferisco ai "diritti del cittadino" per antonomasia, cioè al primo gruppo di norme poste sotto il primo titolo e che hanno come necessario e implicito presupposto la proclamazione dell'inviolabilità di tali diritti fatta dall'art. 2 e l'affermazione del principio di uguaglianza avanti alla legge, principio che non può soffrire eccezione alcuna per tutta una serie di situazioni che l'art. 3 elenca: il sesso, la razza, la religione, la lingua, le opinioni politiche, le condizioni sociali.

Occorre, proprio, ricordarli questi articoli della Costituzione che vanno dal 13 al 28? Essi dovrebbero essere così, direi, connaturati in noi (penetrati nella nostra testa, perché imparati fin dalla prima infanzia insieme ai rudimenti del leggere e dello scrivere) che ogni riferimento ad essi dovrebbe apparire un pleonasmo. Ma mi si conceda di accennarvi. Essi garantiscono la libertà personale e ne delineano i limiti soltanto nella potestà punitiva dello Stato e con il rigoroso rispetto delle norme del processo penale; stabiliscono l'inviolabilità del domicilio, del segreto epistolare e di ogni altra forma di comunicazione; assicurano infine le seguenti altre libertà: di movimento del cittadino nel territorio della Repubblica con potestà di uscirne e rientrarvi, di riunione e di associazione, di coscienza e di culto, di pensiero e delle sue pubbliche manifestazioni.

Se si confronta questa enunciazione delle libertà fondamentali con ciò che vi corrisponde, all'incirca, nello statuto albertino, si dovrà ammettere che questo delineava uno Stato di diritto ancora imperfetto; le libertà tutelate, infatti, erano solo quella della persona, del domicilio e della stampa e - quel che è pių grave - la garanzia costituzionale accordata a tali libertà era vaga e imprecisa, in quanto mancavano criteri idonei a impedire eventuali arbìtri del legislatore, il quale, trattandosi di costituzione flessibile (e non rigida come quella della nostra repubblica) poteva modificarla con legge ordinaria, tanto che il regime fascista poté travolgere sia lo spirito che la lettera dello statuto albertino, che mi pare fosse il solo merito per cui la monarchia sabauda potesse legittimarsi come vera unificatrice (e non per virtų di imprese militari, ché quelle furono fortunate combinazioni, ma per apporto di valori ideali) di questo nostro squinternato Paese. O coacervo di patrie, che sia.

A differenza, poi, dello statuto albertino la nostra Costituzione, nell'enunciare le libertà che spettano alla persona umana in quanto tale, ha abolito preventive autorizzazioni di polizia estendendo corrispondentemente le garanzie giurisdizionali, onde i limiti che le libertà incontrano devono discendere da atto motivato del giudice. E nell'ambito del riconoscimento dei massimi, ineliminabili diritti della persona umana, superando largamente il vecchio statuto, la Costituzione ha sancito l'abolizione della pena di morte, come anche la dichiarazione di presunzione di innocenza degli imputati e l'obbligo della riparazione dei danni da errori giudiziari.

La Costituzione, infine, ha subordinato l'emanazione di leggi restrittive delle libertà fondamentali al verificarsi di ipotesi che sono tassativamente previste per motivi di sicurezza o di sanità e sempre che le leggi abbiano carattere di astrattezza e di generalità. Purtroppo, in questi ultimi tempi, per motivi di sicurezza pubblica, si è fatto ricorso a leggi restrittive delle libertà fondamentali (come il fermo di polizia o il potere di effettuare, in casi determinati, perquisizioni domiciliari per blocchi di edifici) che illustri studiosi hanno dichiarato al limite dell'incostituzionalità, ma che io preferisco considerare del tutto incostituzionali.

L'alba, dunque, di uno Stato di diritto questo nostro, non sempre fortunato, Paese l'ha vista sorgere soltanto nel 1948 e, onestamente, non si può disconoscere che il cittadino italiano, dal punto di vista delle garanzie costituzionali, non ha davvero che cosa auspicare di pių di ciò che, per legge suprema e immodificabile (o, almeno, non facilmente modificabile) dello Stato, gli appartiene come suo inalienabile, per dir così, "patrimonio giuridico".

Ma allora? Che c'è di sbagliato nella nostra vita pubblica, se capitano episodi che ci sorprendono, ci disturbano, ci allarmano a volte? E perché mai, tralasciando il problema, che non vorrei definire "falso" ma quanto meno "non-vitale", delle riforme istituzionali (se le facciano, se son capaci, gli alambiccatori della politica), mi son messo a... disquisire di Costituzione-sostanza? Perché ho voluto fare questa breve scorsa (forse un po' troppo da manuale scolastico) dei princìpi sommi della nostra carta costituzionale e con non poca - mi si creda - sincera preoccupazione?

C'è che le regole della nostra Costituzione, a quarant'anni quasi dall'entrata in vigore, non si sono ancora tradotte in regole minute di vita e in comportamenti burocratici, direi capillari. Se, infatti, dell'enunciazione astratta dei diritti del cittadino che, si ripete, pių estesi e meglio garantiti non potrebbero essere, si passa alle varie applicazioni concrete, non si potrà negare che esistono grosse mende, deviazioni, tralignamenti, perché la Costituzione non sembra perfettamente scorrere, come una linfa vitale (tale dovrebbe essere!) nelle strutture minute, ma tanto importanti, dello Stato: la burocrazia, la polizia, la magistratura stessa.

Prendiamo a esempio il settore pių geloso e delicato dei diritti del cittadino, quello della libertà da vincoli e della restrizione di tale libertà a causa dell'esercizio della giurisdizione penale. Come ognuno sa, il cittadino può essere privato della sua libertà quando, in attuazione di quella che viene chiamata "pretesa punitiva dello Stato", sia stato riconosciuto con sentenza non pių revocabile reo di un fatto delittuoso e condannato o alla privazione perpetua della libertà (ergastolo) o alla perdita di essa per un certo, giudizialmente determinato, lasso di tempo.

Ma la privazione della libertà può avvenire anche per ragioni processuali, mentre il processo è in via di formazione, e quando, si badi bene, il cittadino "inquisito" è a tutti gli effetti, per norma costituzionale da considerare ancora innocente. Č questa la cosiddetta "custodia preventiva" o, come si dice ora, "cautelare".

Ora, nella realtà carceraria, c'è una sostanziale differenza fra il detenuto in attesa di giudizio e il detenuto in espiazione di pena? Negativamente hanno risposto molti studiosi del problema e, per quel che può valere, negativamente rispondo anch'io, oggi come tanti anni fa (v. il mio articolo sulla rivista Il Ponte, febbraio-marzo, 1973, pių oltre riportato e intitolato Custodia preventiva o espiazione anticipata?) .

E la riforma carceraria del 1975 ha effettivamente realizzato un diverso trattamento fra il cittadino ancora "innocente", e custodito per ragioni processuali, e quello dichiarato colpevole che sta pagando Il suo conto verso la società? Un altro mio scritto, ancora sulla stessa rivista (ottobre 1982), intitolato Da carcerati a circondariati: una riforma da riformare contiene la mia risposta negativa. Lo scritto, con qualche ritocco, è anch'esso pių oltre riportato.

Ma, quel che è peggio, ormai è divenuto costume della stampa e dei mass-media di dare "patenti di colpevolezza" ai cittadini inquisiti, e quindi ancora innocenti. Il grande risalto che si dà all'incarceramento per ragioni processuali di personaggi in vista, mentre sotto silenzio spesso, o al massimo con una fugace menzione, passa la scarcerazione dello stesso, risulta nella realtà concreta una sentenza di condanna emessa da coloro che orientano l'opinione pubblica.

Mandati di cattura e comunicazioni giudiziarie? si chiede il cittadino quando sente parlare di "tangenti" versate ai pubblici amministratori per favorire un'impresa anziché altra? Ma ben gli sta, si risponde. Generali che "dirigono il traffico" dell'evasione fiscale e della frode in danno dello Stato? Ma giusto, in carcere!, esclama tutto felice, strofinandosi le mani, il tartassato onesto contribuente. Comunicazioni giudiziarie a tutti i componenti del Consiglio superiore della magistratura, perché si son fatti portare, durante le discussioni, troppi caffè (magari con la panna e -c'è da sospettarlo - accompagnati da "maritozzi" tanto in uso a Roma)? E queste comunicazioni partono da un ufficio su cui proprio il Csm sta indagando! A questo punto l'onesto cittadino si rifiuta di capire. E io non posso che indicargli, per capirci qualche cosa, l'articolo di Silvio Bertocci sul numero di marzo-aprile '83, della rivista Il Ponte dal titolo Il fallito "golpe" del "venerabile" procuratore.

Ma, a parte il "golpe" gallucciano (sul quale non posso fare a meno di riferire la seguente barzelletta circolante per i tribunali italiani: «Ma cos'è successo ai componenti del Consiglio superiore?» «Hanno preso un caffè scorretto»), non può negarsi che il frastornato cittadino italiano, di fronte a tante cose che non riesce a capire, credulone com'è, fa cenni di ampio consenso se, su un giornale o alla TV, sente un "capopopolo" parlare della necessità di frenare certe intemperanze di alcuni pubblici ministeri "d'assalto" (un tempo lo erano i pretori!).

Calma, e rileggiamoci quello che c'è scritto nell'art. 101 della Costituzione: "I giudici sono soggetti soltanto alla legge". Nelle disposizioni che seguono poi troveremo la garanzia costituzionale dell'indipendenza del magistrato. Garanzia che non è data al magistrato per assicurargli una posizione di privilegio o, peggio, di irresponsabilità, ma unicamente a tutela dei diritti del cittadino.

Ma come si può mai pensare che un magistrato possa fare onestamente (cioè "senza guardare in faccia a nessuno") il proprio dovere, quanto egli fosse "politicamente controllato" - che è cosa ben diversa da "politicamente orientato" - allorché deve procedere contro rappresentanti della classe politica? Come è ipotizzabile un pubblico ministero "dipendente" da un organo politico, se a questo ingranaggio della macchina giudiziaria spetta il dovere di procedere ogni qual volta vi sia una notitia criminis (e notitia si traduce con notizia, quindi anche un sospetto, un sussurro e così via)? Ma un magistrato che avesse promosso un'azione penale - come è suo dovere - nei confronti di un uomo politico, di un rappresentante del Palazzo, un'azione penale che finisca poi, come può capitare, con un'assoluzione, come potrebbe salvarsi dalle ritorsioni della classe politica, cui ha pestato i calli, se non avesse nella Costituzione stessa il presidio della sua indipendenza?

Non è, quindi, attraverso una riforma dell'istituto del pubblico ministero volta a farne la longa manus dell'esecutivo (come qualcuno ipotizza e come certi trattatisti di procedura non disdegnano di tratteggiare) che può passare l'iter della formazione di un costume processuale di cui i princìpi costituzionali siano la bussola. Non sono i pubblici ministeri "intemperanti" o i giudici istruttori dal mandato di cattura "facile" o i pretori (se ancora ce ne sono) "d'assalto" che rendono impervie le strade della giustizia vera. Č che non si è riusciti ancora a creare un congegno unitario processuale e una relativa "prassi" aderente alla Costituziole-sostanza.

Si pensi, per esempio, a quello che io ritengo lo "scandalo supremo", lo scandalo di cui dovremmo vergognarci tutti: non c'è "comunicazione giudiziaria" per un fatto o per una persona di un certo rilievo che non sia data in pasto all'opinione pubblica. Ma come? La "comunicazione giudiziaria" fu... un'invenzione del legislatore "garantista" che ha stabilito la doverosità di informare subito la persona inquisita per un fatto qualsiasi (sia pure a seguito di una denuncia infondata) che si sta indagando sul suo conto. E fu stabilito che tale avviso dovesse essere segretissimo, tanto che la raccomandata parte dagli uffici giudiziari in busta "anonima" (che dico "busta"? su un foglio che poi viene piegato e dall'esterno risulta tutto bianco: non vi dico lo "studio" approfondito che ci fecero a suo tempo gli uffici del ministero di grazia e giustizia per "inventare" questo stampato che dentro fosse una comunicazione giudiziaria e all'esterno risultasse un involucro senza alcuna intestazione!). Neanche il postino doveva sapere di che si trattava e, meno che mai, il portiere della casa di abitazione dell'inquisito!

Deprecabile costume che si è creato nella prassi: il segreto è diventato quello di Pulcinella.

Allora? Imbavagliare la stampa e i mass-media? Neanche a pensarlo minimamente. Č il processo penale, il nostro codice di procedura, intendo, che è diventato uno strumento assolutamente "penoso". Occorre che il nuovo codice di procedura (messo in cantiere da circa un trentennio e che la classe politica non è riuscita a... partorire: gli ultimi bastoni fra le ruote li mise Morlino) sappia contemperare la necessità di informare l'opinione pubblica e la tutela dei diritti del cittadino inquisito. Occorre, in poche parole, una fase istruttoria pubblica e orale che deve seguire immediatamente all'eventuale privazione della libertà del cittadino per ragioni processuali. L'istituzione del "tribunale della libertà", nonostante il pomposo nome, si è risolta, come molti abbiamo subito sospettato, in un pannicello caldo di fronte alla cancrena che affligge la giustizia penale.

Quanto alla "comunicazione giudiziaria", data la pessima prova che ha dato finora, occorre riformarla seriamente. Ma la "riforma" non dovrebbe consistere nel cambiamento soltanto del nome. Si è già proposto di chiamarla in modo diverso. Il che è poco.

Se poi i "garantisti" - categoria a cui, lo confesso, appartengo anch'io, ma io sono per il garantismo di sostanza - fossero per il mantenimento dell'istituto della comunicazione giudiziaria, allora si stabilisca che chiunque dia notizia, con stampa, radio, televisione o quant'altro, di una comunicazione giudiziaria sia punito con una salatissima multa e il magistrato o funzionario che abbia violato il segreto sia destituito immediatamente.

Il vigente art. 262 cod. pen. (rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione) non pare, con la minaccia della reclusione non inferiore a tre anni, che eserciti oggi molta dissuasione. Sopprimerlo? Da pių parti se ne chiede la soppressione o la modifica, perché si ritiene che il "diritto di cronaca" debba prevalere.

Sul problema gravissimo del cittadino semplicemente inquisito, contro cui è incivile che vengano emesse autentiche "condanne" da parte degli organi di informazione (tale è in fondo una notizia comunicata attraverso la TV o su un giornale a tiratura nazionale), occorre studiare e trovare un'equa soluzione che contemperi il diritto primario del cittadino a essere considerato "innocente" fino a sentenza non pių revocabile e il non meno sacrosanto diritto della collettività a un'informazione completa e non distorta.

Penso, per esempio, al recente assassinio del premier svedese Olaf Palme di cui fu sospettato un tizio; ma nessuno ne seppe mai il nome, l'anonimo fu poi rilasciato. Se gli altri ci riescono a raggiungere questi traguardi di civiltà perché non dovremmo riuscirci noi?

8.
Magistratura sotto accusa

L'ACCENNO, nel precedente capitolo, al grosso problema del come contemperare il diritto di cronaca con il diritto che ha il cittadino inquisito di essere considerato innocente, con la connessa necessità di mantenere il segreto istruttorio, mi induce a parlare di recenti frizioni fra la stampa e la magistratura e di ciò che è stato additato da qualcuno come uno dei difetti della funzione giurisdizionale, il "protagonismo dei giudici", che ha un duplice aspetto: imporre la volontà del magistrato nei difficili equilibri fra i vari poteri dello Stato e mettersi in mostra.

Due parole su questo secondo aspetto, perché esso va subito liquidato. Che possano esistere fra i magistrati, cui il caso ha rimesso nelle mani processi clamorosi, alcuni che amino dare "spettacolo di sé" , è questione sulla quale non intendo minimamente fermarmi. I vanitosi esistono in ogni categoria professionale ed è pacifico che non costituiscono, certo, la regola fra i magistrati. E, d'altra parte, cosa si dovrebbe fare per impedire che un magistrato, cui è toccato istruire un processo con risonanza nazionale o dirigere un dibattimento che, come alcuni recenti, ha echi internazionali, venga alla ribalta della cronaca? Imporre alla stampa di tacere i nomi dei giudici? Sarebbe un'idea assurda. Tanto varrebbe fare indossare ai giudici una toga con il cappuccio su cui ci siano solo due buchi per gli occhi, come certe confraternite di penitenti medioevali!

No, non è alla risonanza che possa fortuitamente avere il nome di un magistrato, anziché di un altro, che si pensa quando si parla di "protagonismo". Č del prevaricare di un potere sull'altro che si ha paura, tanto che si è persino parlato, come di un'incombente jattura, di "governo dei giudici".

Da che cosa può nascere questo, che è certamente un pericolo non corrispondendo all'assetto costituzionale dello Stato? In una corretta democrazia ogni potere dello Stato, il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario, non deve esorbitare dai compiti propri di ciascuno. Né, per l'inattività di uno di essi, un altro gli si può surrogare. Se, per esempio ed è appunto a questo che si pensa quando si parla di governo del giudici - il potere legislativo non affronta e risolve, emanando una legge, una determinata questione, non è pensabile che il potere giudiziario (che poi è esercitato da ogni singolo giudice per quel singolo caso che ha l'obbligo di giudicare) non può comportarsi come se fosse il legislatore.

Non affronterò qui il problema, che è uno dei pių dibattuti fra gli studiosi di diritto, delle lacune che l'insieme delle leggi necessariamente presenta. Sono questioni da "specialisti" e non a loro sono dirette le mie pagine. Qui basterà dire che è universalmente riconosciuto che qualsiasi ordinamento di qualsiasi popolo presenta sempre, anche se si presume di avere ipotizzato tutti i casi possibili e immaginabili della realtà umana, qualche lacuna, per cui il giudice nel regolare un certo caso non previsto dalle leggi non sa a che santo votarsi per risolverlo. Dice il codice svizzero: si regoli il giudice come se fosse lui il legislatore. E lo stesso ripete il codice di diritto canonico (cioè il diritto della Chiesa cattolica come ente sovrano che ha poteri su tutti i battezzati nella fede cattolica). Il nostro ordinamento, nelle preleggi che precedono gli articoli del codice civile, detta dei criteri (analogia, princìpi generali) su cui non è il caso di soffermarsi.

Il problema, invece, è quello di un'esigenza pubblica, cui non si provveda da parte del potere politico: esecutivo e legislativo. Per esempio (preferisco esempi di una chiarezza estrema): il problema dell'inquinamento dei fiumi. Mentre gli altri Stati europei hanno da tempo affrontato con leggi il problema, l'Italia - diciamo meglio: i suoi governanti - comincia a regolamentare il problema degli scarichi industriali e di quelli degli insediamenti urbani soltanto... l'altro ieri, si potrebbe dire. E a quale grado di rovina siano ridotti i mari che circondano il nostro Paese è cosa ormai che nessuno pių ignora. Di fronte a così colpevole negligenza della classe politica, ecco che la magistratura riesce a scovare una legge che in qualche maniera - con un'interpretazione un tantino stiracchiata - possa combattere l'inquinamento dei fiumi: la legge sulla pesca. Si è dovuto ricorrere a una legge che tutela i pesci per poter arrivare a tutelare gli uomini! Un chiaro, nobile direi, esempio questo in cui il giudice è corso a colmare un vuoto di potere e di leggi. Ma se la magistratura ha dimostrato viva sensibilità di fronte a grossi problemi, nei cui confronti la classe politica si è lavata le mani o per inerzia o per sordità mentale, non possiamo assolutamente dire che questo è un metodo giuridicamente corretto.

Pretori che lottano, senza una vera arma legislativa in mano, contro l'inquinamento; pretori che, avendo in mano una legge nuova del processo civile, cioè la legge sulle cause di lavoro, ne fanno un'applicazione così rapida che quasi scandalizza o, qualche volta, qualche applicazione un po' cervellotica (il lavoratore licenziato perché se la intende con la moglie del datore di lavoro viene rimesso sul posto di lavoro e... di sollazzo); pretori che rimettono con una continuità impressionante questioni davanti alla Corte costituzionale perché dica se questa o quella legge sia conforme ai principi della "carta fondamentale"; pretori che si fanno zelanti iniziatori di accertamenti di grande rilievo! Ed ecco nata la locuzione "pretori d'assalto". Ai quali, però, pur con le dovute riserve per qualche caso un po'... eterogeneo, va dato atto che hanno concorso a rinnovare tutto l'ordinamento giuridico, sollecitando la Corte costituzionale a frequenti interventi innovatori e, qualche volta, smuovendo le stagnanti acque della vita pubblica del nostro Paese.

Casca qui a proposito una breve parentesi per chiarire la natura di un certo provvedimento, che la legge affida esclusivamente al pretore. Si tratta del cosiddetto "provvedimento d'urgenza" previsto dall'art. 700 del codice di procedura civile.

Allorché occorre tutelare un proprio diritto e si può fondatamente prevedere che, percorrendo le normali vie legali, per la lungaggine propria di queste, quel diritto resterà definitivamente compromesso, allora si ricorre al pretore, il quale emette un provvedimento provvisorio che impedisca al diritto che si vuole tutelare di venire travolto. Č chiaro che in questa previsione della legge non rientrano ovviamente i diritti di natura patrimoniale, perché il patrimonio può essere sempre reintegrato con il tantundem monetario. Si deve trattare del pregiudizio per un qualche diritto personale o reale, che sia - come si esprime la legge - "imminente o irreparabile". I casi di pregiudizio imminente e irreparabile possono essere infiniti, come infinitamente varia e complessa è la realtà dei rapporti sociali. Ma a volte si è sentito parlare di qualche applicazione di questo disposto di legge per lo meno discutibile. Si pensi, per esempio, al recente provvedimento di un pretore che stabiliva il "numero chiuso" per la facoltà di medicina all'università di Roma, provvedimento così discusso dall'opinione pubblica, che ha fatto incorrere il magistrato che lo emanò in una sanzione disciplinare inflittagli dal Csm.

Ma del problema della "responsabilità disciplinare" del magistrato sarà bene parlare nel capitolo a ciò destinato.

E veniamo, invece, all'argomento pių su accennato della frizione recentemente verificatasi fra l'esercizio di un potere del giudice da una parte e l'esercizio del giornalismo, che si riverbera su una delle principali, forse la pių delicata, delle libertà di uno Stato veramente democratico, la libertà di stampa.

La frizione nasce dapprima dalla necessità che ha il giudice di mantenere il segreto su un determinato accertamento istruttorio e dal compito proprio del giornalista di informare, sicché egli ha, si direbbe, il dovere professionale (cui corrisponde, per altro un diritto della collettività di essere informata) di superare fin dove possibile il segreto.

Ed ecco che il giudice gli contesta il reato di cui all'art. 262 del cod. pen.: "rivelazione di notizie di cui sia stata vietata la divulgazione" e, poiché tale reato è stato commesso con l'abuso (ragiona sempre il giudice) della professione giornalistica, scatta l'art. 30 del cod. pen. che prevede la pena accessoria dell'interdizione da una professione. E, quel che è peggio, si reperisce, sempre nel codice, l'art. 140 il quale dà la facoltà al giudice di applicare la sanzione della sospensione dalla professione in via provvisoria e in pendenza di processo. Chi può dire che il giudice non abbia fatto applicazione corretta della legge, in questo caso? Della legge-lettera, direi però. Non della legge-spirito, che bisogna sempre vedere illuminata e vivificata dai princìpi costituzionali. Forse si dovrebbe ripetere (se occorre anche cento volte) che la sola bussola per tutti è la Costituzione, ma soprattutto per il giudice.

Ché, infatti, se si pensasse quale prezioso e delicato strumento di vera democrazia sia la libertà di stampa, si vedrebbe che chiudere la bocca a un giornalista (che avrà magari violato il segreto istruttorio) e mentre il processo è ancora in corso, e quindi è da considerare "innocente", è veramente qualcosa che turba quel sistema di equilibri fra i vari poteri dello Stato, gruppi sociali e attività professionali su cui deve reggersi il sistema democratico che chiamiamo "pluralistico" . In casi, come quello sopra delineato, che non sono stati rarissimi in questi ultimi tempi, l'opinione pubblica - che è certamente guidata, e diciamo pure "orchestrata" dalla stampa - ha visto una manifestazione di qualcosa che confina con la prevaricazione da parte del giudice, anche se attuata con strumenti previsti dalla legge.

Ma, fortunatamente, a dare ragione a me e a tutti coloro che la pensano come me, guardando alla legge-spirito, è giunta una sentenza della Cassazione, pronunciata sul finire dell'86 la quale ha stabilito che il giornalista può essere sospeso dalla professione solo quando abbia violato gravemente l'etica professionale, con lesioni dei suoi doveri - scrive testualmente la Cassazione - "determinate da un comportamento produttivo di danno sociale, quale conseguenza della persistente disapplicazione del principio costituzionale del rispetto della pari dignità sociale di tutti i cittadini". Dunque per una semplice violazione del segreto istruttorio assolutamente no. La suddetta sentenza ha, perciò, annullato la sospensione del giornalista Piero Pratesi, ex direttore di Paese Sera, inflittagli dal giudice di primo grado e confermata da quello d'appello.

Resto, tuttavia, del parere, pur apprezzando molto questa recente decisione della Cassazione, che il giornalista debba essere sospeso, quando ne è il caso, dall'Ordine di cui fa parte e non dal giudice. E del resto, già in tempi lontani, nel 1972, il guardasigilli Gonella aveva proposto un disegno di legge in tal senso. Ma la cosa non ebbe alcun seguito.

Ma che dire poi quando la stampa attacca un magistrato con accuse "ad personam" e il giornalista, a seguito di querela del magistrato attaccato, venga condannato per reato di diffamazione? Se poi il giornalista scrive su un foglio di partito e il partito è quello del presidente del consiglio dei ministri, le cose si avviano a diventare... affare di Stato.

Può, infatti, accadere - ed è quello che è accaduto - che il capo del partito, che è anche il capo del governo, si dichiari pubblicamente solidale col giornalista condannato.

E tale dichiarazione, ancorché espressa da segretario di partito, suoni come intimidazione nei confronti dei magistrati, perché proveniente dal capo dell'esecutivo.

E l'organo di autogoverno dei giudici, il Csm, voluto dai "padri" costituenti proprio per togliere la magistratura dalle dipendenze dell'esecutivo, può in un caso come questo prendere in esame - e, se del caso, esprimere il proprio dissenso - le dichiarazioni del presidente del consiglio dei ministri?

No, ha detto il presidente della Repubblica, Cossiga. L'esecutivo e il suo capo rispondono del suo operato davanti al Parlamento. E qui dimissioni da parte di tutti i componenti del Csm togati. Ritiro delle dimissioni. Dichiarazioni del presidente della Repubblica, che è, come tutti sanno (o dovrebbero sapere), anche presidente del Csm. Ma la "pace" non è tornata.

Questo episodio di contrasto fra i poteri dello Stato, che ha avvelenato la fine del 1985 e l'inizio del nuovo anno, ha lasciato un po' di amaro nell'ambito della magistratura, che, sia pure velato, si può cogliere nella chiara e minuziosa esposizione dei fatti dovuta alla penna di Livio Pepino[39].

E allora? Dove sta il difetto? Criticare una sentenza, sia o non sia ancora una "cosa giudicata", deve considerarsi attività lecita (e a volte anche auspicabile) del giornalista; ma insultare il magistrato no. E quanto a chi eserciterà poteri pubblici, è bene che stia nell'ambito di tali poteri e non ne esorbiti. Intendo, cioè, dire che lo stesso uomo politico non può pretendere di avere due facce, quella dell'uomo di governo e quella dell'uomo di partito e attribuire le sue parole ora all'una ora all'altra sua faccia. Non è che stando seduti in una sede di partito di via del Corso si possa dire quel che, invece, stando seduti a Palazzo Chigi non sarebbe corretto dire.

Tuttavia non è che quanto accaduto abbia fatto correre rischi alle nostre istituzioni, né credo che si sia determinato un pericolo per l'indipendenza della magistratura.

Qual è il vero pericolo per questa indipendenza, che è uno dei beni primari della vita sociale? Č che il giudice intimidito dal potere politico abbia delle esitazioni, delle remore, delle perplessità quando deve procedere penalmente a carico di un rappresentante del potere politico e giunga fino alla distorta applicazione della legge.

La cronaca di questi quarant'anni di democrazia, che pure ha registrato una serie sconfinata di scandali per irregolarità commessi da detentori di potere, non ci ha offerto, fortunatamente, casi di giudici asserviti a un generalizzato potere corrotto. Direi, anzi, che la frequenza degli scandali dimostra, quando si tenga conto che nei regimi autoritari gli scandali vengono soffocati, che la nostra democrazia anche se non in "buona salute", non vede almeno il rapporto fra i vari poteri dello Stato in condizioni patologiche.

Del resto contro l'operato della magistratura qualche critica è stata avanzata non per non essersi mossa contro i vari uomini politici accusati di irregolarità ma, al contrario, per essersi qualche volta mossa troppo precipitosamente e, a volte, per avere emesso mandati di cattura, poi seguiti da proscioglimenti e scarcerazioni.

Il "mandato di cattura facile" è una delle accuse che pių frequentemente vengono mosse ai giudici e qualcuno la vede come un aspetto proprio del "protagonismo dei giudici". La tentazione è facile: c'è un uomo in vista cui si attribuisce, fondatamente o meno (il che poi si vedrà) un certo illecito? Allora, proprio perché è un personaggio noto e per dimostrare che il giudice non guarda in faccia a nessuno, lo si sbatte subito al fresco. Il giudice che cadesse in siffatta tentazione farebbe un uso quanto mai scorretto dei suoi poteri. E allora sì, si potrebbe parlare di mandato di cattura "facile" e aggiungerei anche "abnorme".

Il controllo, però, immediato e rapido (per i tempi propri della giustizia italiana si potrebbe chiamare "fulmineo") che oggi la legge consente sui provvedimenti restrittivi della libertà personale, nella fase istruttoria del processo, attraverso il cosiddetto "tribunale della libertà", premunisce largamente il cittadino inquisito dal pericolo del mandato di cattura "facile". E non si può dire, onestamente, che sia questo un "nodo" dei problemi che l'amministrazione della giustizia presenta.

Non tutti, dunque, i rilievi mossi contro la magistratura in questi ultimi tempi, rilievi e lagnanze che stanno alla base dei referendum proposti da un gruppo di partiti con lo slogan di una "giustizia pių giusta", hanno un indiscutibile fondamento. Un esame obiettivo delle varie questioni fa, piuttosto, addossare alla classe politica molta della responsabilità che si vorrebbe attribuire ai giudici.

9.
La disgiustizia

E VENIAMO ora all'adattarsi del giudice alla disgiustizia e al "panorama" che essa offre.

Mi spiego meglio. Non parlo di ingiustizia, della negazione cioè di quel valore sommo che l'essere umano avvertì fin dal suo primo associarsi in tribų e che ogni forma di potere apparso sulla terra ha preteso di aver sempre perseguito e vantato persino di aver realizzato. lo parlo di disgiustizia e, con questo termine di mia invenzione, indico non una ingiustizia preordinata, voluta, pravamente architettata (e la storia umana e il mondo stesso attuale ne sono pieni!), ma una giustizia che non riesce a essere se stessa, che si affanna a realizzarsi e resta sempre sconfinatamente lontana da quel minimo traguardo che la renderebbe degna del suo nome.

Un panorama della "disgiustizia italiana" riempirebbe interi volumi e, del resto, basterebbe raccogliere le varie geremiadi dei procuratori generali della Cassazione, quando compiono quel rito sfarzoso e inutile (che quasi stava per tramontare ai tempi della "contestazione" ma che ora ha ripreso vigore) dell' inaugurazione dell'anno giudiziario.

Scorrendo i discorsi degli ultimi anni mi appare notevole quello dell'anno 1982, pronunciato da Sofo Borghese, magistrato che ho sempre stimato, ancor prima che arrivasse al "vertice". Da tale discorso, non apocalittico, ma sincero, lucido, sereno, viene fuori un panorama di una diffusa arteriosclerosi della funzione giurisdizionale nella sua globalità, sicché resta inappagata quella domanda di giustizia che si fa sempre pių ampia e articolata, man mano che pių chiara si fa nella coscienza della collettività la dignità de cittadino di uno Stato democratico. E ne sorge un invito perentorio alla classe politica: "Basta con le parole!". Ma che il nostro sia un paese sitibondo di giustizia, di una sete che viene da molto lontano, ancora non è entrato bene in testa ai nostri governanti.

E vediamo ora in quanti aspetti si articola la disgiustizia.

* * *

La disgiustizia tributaria. Non desterà sorpresa, spero, se inizio la rassegna dell'incapacità dei congegni giudiziari nell'attuare il principio di dare a ciascuno e pretendere anche da ciascuno il suo (suum cuique tribuere) partendo dal prelievo fiscale della ricchezza privata per le esigenze collettive.

Uno dei punti in cui pių sensibile si è fatta la coscienza del cittadino d'oggi è il precetto, in larga misura irrealizzato, imposto dalla Costituzione della Repubblica all'art. 53: "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva". Persino sui francobolli è stato scritto, quasi fosse un aforisma creato a diletto dei filatelici!

Ben poco un tempo la collettività si accorgeva dell'inosservanza di tale precetto, in quanto, in fondo in fondo, si costituiva tutti un fronte unico opposto al Fisco, apparendo del tutto lecito alla comune morale cercare di sottrarsi, fino al limite massimo possibile, alle pretese spesso vessatorie dello Stato di prelevare denaro dalle tasche dei cittadini. In tempi remoti Cesare Beccaria si chiedeva perché mai la violazione della legge fiscale "non produce infamia nella pubblica opinione"[40] e ne additava la causa nell'incapacità del privato, quando non è direttamente toccato nel patrimonio da un fatto o quando può averne addirittura vantaggi presenti, di pensare al danno pubblico: al "danno fatto al principe" dice Beccaria.

Ma, con la riforma tributaria del 1973, quando con la creazione del "sostituto d'imposta" (di colui, cioè, che è obbligato a fare la ritenuta per conto dello Stato sui pagamenti effettuati a lavoratori dipendenti e a prestatori d'opera autonomi) si è attuata la possibilità di un prelievo totale - almeno teoricamente - della ricchezza privata, cioè di una percentuale dal reddito da lavoro di ciascuno, allora il fronte comune anti-Fisco è caduto.

Chiari, così, sono emersi gli squilibri fra chi non sfugge nemmeno per una delle nostre miserabili e sempre pių spennacchiate lirette all'imposizione tributaria (i lavoratori dipendenti dallo Stato, dagli enti pubblici e da tutti i grandi complessi industriali ed economici), fra chi sfugge solo per una modesta parte (i dipendenti da piccole aziende, i prestatori d'opera autonomi e quelle categorie economiche che hanno l'obbligo di rilasciare la ricevuta fiscale) e chi, infine, ha ancora l'antica e amplissima possibilità e comodità di farla in barba al Fisco (liberi professionisti, commercianti, artigiani e affini)... e se non sfugge neanche in minima misura dichiarando al cento per cento i suoi introiti, allora prendiamo subito nota su un libro d'oro del nome di costui e dei suoi simili o incidiamone su bronzo nelle pubbliche piazze le generalità. Ma non credo che si consumerebbe molto bronzo.

Si dirà che la "sensibilità" del cittadino a reddito fisso, della maggioranza cioè degli italiani, per la giustizia impositiva è un po' interessata e non è nata da mero amore per la Patria, da sviscerato rispetto per questa Repubblica e da adamantino senso civico. E che si è acuita ancor pių per le cosiddette "fasce di reddito" che si riverberano sui diritti assistenziali.

Non importa. Positivo è che tale sensibilità sia sorta. Negativo invece che lo Stato non riesca, nonostante qualche ministro delle finanze sembra essercisi messo d'impegno, a fare in modo che tutti i cittadini paghino per quello che realmente guadagnano.

Un passo notevole in questo senso sono stati i registratori di cassa e soprattutto la migliore e pių incisiva formulazione della norma sull'accertamento induttivo.

Quanto mai negativo, poi, è vedere le minacce di sanzioni penali agli evasori fiscali (che spesso sono anche grandi esportatori clandestini di valuta) restare o inattuate o raramente attuate, sì da causare titoloni sui giornali, come le grida di manzoniana memoria.

«In carcere, in carcere», potrebbe dirmi un qualsiasi Renzo Tramaglino, «vanno sistemati, e di corsa, gli evasori fiscali!». E subito un dottore Azzeccagarbugli chicchessia gli potrebbe leggere, per calmare la sua agitazione e rassicurarlo, una delle tante grida (di cui l'ultima però, quella del luglio 1982, pare abbia finalmente cambiato le cose). Se poi il Tramaglino volesse sapere di pių, come mai, nonostante così spaventose sanzioni minacciate, nessuno in Italia dei grandi evasori (o, diciamo con pių prudenza, di quelli che sospettiamo di essere tali) sia andato a finire in galera per un congruo numero di anni, onestamente io dovrei togliere la parola all'Azzeccagarbugli e spiegargli con franchezza che il giudice penale (almeno fino all'entrata in vigore del decreto-legge 10 luglio 1982 n° 429) poteva applicare la sanzione restrittiva della libertà solo quando la violazione della norma fiscale fosse stata definitivamente accertata.

E lungo era ed è il cammino di un definitivo accertamento, detto appunto "definitivo" perché non può pių essere messo giudiziariamente in discussione. Il che avviene, in pratica, quando è esaurito il procedimento del contenzioso tributario, che il cittadino sospettato di evasione apre con un ricorso a una commissione tributaria di primo grado; che prosegue, nel caso la decisione non lo soddisfi, con un appello a una commissione di secondo grado; che può portare avanti, nel caso di soccombenza anche in grado di appello, davanti alla commissione centrale sedente a Roma, una specie di Cassazione del processo tributario; e questo senza dire che si può, dopo, ricorrere ancora alla Cassazione vera e propria, a norma dell'art. 111 della Costituzione "per violazione di legge" che è una "categoria" così ampia da poterci fare star dentro, se ci si affida a un abile avvocato, un infinità di sottili imperfezioni. E posso poi, in ultimo, dimenticare di rammentare al Tramaglino che c'è sempre, nel corso del procedimento tributario, la possibilità di ricorrere alla Corte costituzionale, sollevando una questione di illegittimità costituzionale, che, per andare avanti basta che sia "non manifestamente infondata"?

E questo sarebbe niente se le commissioni tributarie fossero, come dovrebbero essere, dei tribunali operanti a pieno ritmo. Esse sono invece una delle solite soluzioni dell'"arrangiarsi all'italiana". Vi si lavora, infatti, a part time, in quanto i componenti sono tutta gente "in tutt'altre faccende affaccendata": magistrati, funzionari statali, avvocati e professionisti. E i ricorsi giacciono in Italia a decine di migliaia. Con quanto beneficio per l'attuazione di un po' di giustizia fiscale ognuno può bene immaginare.

Né ci si districa dal lavoro, se non inventando di tanto in tanto dei condoni fiscali, che cassino un po' di controversie e facciano prendere respiro a questa scalcagnata giurisdizione a mezzo servizio. Un condono come quello contenuto nel recente decreto-legge pių sopra indicato, con il quale lo Stato intona l'inno nazionale: «Cu ha avutu ha avutu ha avutu, cu ha datu ha datu ha datu, scurdammuci u passato, simmo 'i Napule paisa'».

Ma la caduta della "pregiudizialità" del processo tributario rispetto a quello penale - mi obietterebbe a questo punto il Tramaglino, fattosi esperto, a furia di praticare coll'Azzeccagarbugli, in locuzioni giuridiche -, questo "aggiustamento di tiro" arrecato con il decreto-legge in questione non dovrebbe dare un colpo di timone a questa imbarcazione così male navigante fra i flutti dell'evasione fiscale?

Č quello che spero, risponderei. E subito quell'ingenuone: "Io l'ho sempre detto che la c'è la giustizia a questo mondo!". E io non vorrei, a questa uscita di Renzo Tramaglino del tutto identica a quella che fa ne I promessi sposi, riportare l'ironica e amara osservazione de1 Manzoni. Ma non potrei nascondergli le mie perplessità.

Innanzi tutto quelle che andranno a finire davanti ai tribunali penali saranno le evasioni emergenti ictu oculi (per esempio le omesse dichiarazioni e le manifeste falsificazioni di documenti contabili) mentre le evasioni abilmente architettate continueranno a prosperare. Secondo: caricare di altro lavoro i tribunali senza avere assestato, prima, il processo penale e l'ordinamento giudiziario mi pare un grave errore politico, che non fa sperare per nulla bene.

* * *

La disgiustizia amministrativa. Fra ciò che Amleto elenca, nel famoso monologo che inizia con To be or no to be, come cause che dovrebbero consigliare a ciascun essere umano di farla finita con l'esistenza, se non ci fosse la paura dell'aldilà, vengono additate anche le lungaggini della giustizia e le sopraffazioni che compie la pubblica amministrazione. Shakespeare dice esattamente the law's delay e the insolence of office, ma non mi pare di essere stato troppo lontano dai concetti espressi dal grande drammaturgo neanche traducendo un po' liberamente la seconda espressione.

Ma se poi insolence of office e law's delay si mettono oggi insieme, se cioè un tale ha subito un torto da parte di un ufficio pubblico (in un concorso, nel rapporto di lavoro di impiegato statale, nella richiesta di una concessione edilizia, di una qualsiasi altra concessione, di una licenza di esportazione e chi pių ne ha pių ne metta nella sconfinata materia dei rapporti del cittadino con la pubblica amministrazione), se una sopraffazione qualsiasi un tizio abbia subito da parte dei pubblici poteri e incappa poi nelle lungaggini delle procedure delle giurisdizioni amministrative, nel caso cerchi di ottenere legale riparazione del torto, allora c'è proprio da dire che ben due sarebbero le ragioni per spararsi un colpo di rivoltella, senza tante esitazioni, visto che, a differenza del principe danese, oggi in genere si ha un po' meno paura dell'aldilà.

La creazione di una "giustizia amministrativa" è ciò che maggiormente ha affaticato la mente di grandi giuristi e di valenti uomini politici, fin dagli albori del sec. XIX, da quando cioè sorse il concetto di "Stato di diritto". Un autentico romanzo si potrebbe scrivere per narrare l'evoluzione degli organi di giustizia amministrativa (e sarebbe forse un romanzo piacevole a leggersi di certe "cose" che circolano oggi dal momento in cui sorse dalle idee, di cui la rivoluzione francese si fece portatrice, il concetto di uno Stato che dovesse regolare tutta la sua attività e, in particolare, i suoi rapporti con i cittadini (non pių sudditi che potessero essere angariati a discrezione del "principe") su precise regole scritte, sul diritto cioè. Un avvincente romanzo sarebbe, persino, se si volesse limitare il racconto a tutto ciò che, in questo settore del diritto, si è fatto nel nostro Paese dall'epoca in cui sorse la nostra unità nazionale (o, per essere precisi, dal momento in cui venne emanata quella legge che è tuttora la legge-base quando ci si accinge a riguardare questo settore del nostro ordinamento giuridico, la L. 20 marzo 1865 n° 2248 all. E) e fino ad arrivare alla recente creazione dei T.A.R., i tribunali amministrativi regionali.

Dico soltanto questo, che, con tutto quello che si è scritto in Italia sulla giustizia amministrativa, a cominciare da Vittorio Emanuele Orlando e fino ad arrivare ai pių recenti trattatisti, se mai la perfezione delle istituzioni potesse corrispondere alla quantità di parole spese intorno ad esse, dovremmo avere la pių perfetta giustizia amministrativa esistente al mondo. Cioè a dire un insieme di congegni assicuranti - con precisione e rapidità - che l'attività di tutta la pubblica amministrazione (quella statale centrale e periferica e quella degli enti locali) sia non solo per prima cosa conforme a legge ma anche rispondente a criteri di equità e buona amministrazione, tendente ad assicurare il soddisfacimento dei pubblici interessi.

Ognuno sa che la realtà è abissalmente lontana da questa utopistica perfezione. Questo che, dei vari settori dell'applicazione dei princìpi di giustizia in concreto, è il pių moderno, è anche, per ragioni insite in se stesso, ontologiche cioè, il pių difficile da realizzare. Si tratta, infatti, di "temprare lo scettro ai regnatori", per usare un'espressione foscoliana. Di frenare, insomma, imbrigliare i pubblici poteri in regole di legge. E non è cosa da niente.

Ed ecco spiegata la continua evoluzione degli istituti di giustizia amministrativa, ecco chiarita l'inefficienza di tali istituti anche dopo un breve lasso di tempo dacché sono stati posti in essere, ecco svelato il mistero del perché, fra tutte le disgiustizie imperanti, quella amministrativa sarà sempre la pių difficile da raddrizzare, per la semplice ragione che il potere resta sempre potere e aspira sempre alla discrezionalità (quando non all'arbitrio), mitigando, distorcendo, spesso ignorando il sindacato di un organo giurisdizionale.

* * *

La disgiustizia civile. E giungiamo così a parlare dei congegni in cui opera il giudice ordinario, cioè i magistrati delle preture, dei tribunali, delle corti d'appello e della Cassazione. Giungiamo cioè all'argomento principale di queste pagine, per cui qui basterà enunciare semplicemente la disgiustizia civile, quella penale e quella carceraria, perché a ognuna di esse sono riservate trattazioni specifiche.

In che consiste la disgiustizia civile oggi? Nell'incapacità della "macchina" giudiziaria di produrre decisioni che dirimano sollecitamente le controversie civili.

Č noto - e anche il pių disinformato cittadino lo può sapere leggendo i giornali in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, a ogni principio di anno solare, quando parla davanti alle supreme autorità dello Stato il procuratore generale della Cassazione e, presso ogni singola corte d'appello, gli fanno poi eco i vari procuratori generali - è noto, dicevo, che le cause civili, per percorrere i tre gradi della giurisdizione, impiegano dai cinque ai dieci anni, in media.

Si racconta[41] di una causa civile intentata contro lo Stato italiano, quasi appena nato, a seguito della confisca di un castello presso la città di Salerno, confisca che era stata ordinata da Garibaldi nel 1861, e che secondo l'autore citato in nota, all'epoca in cui scrisse il libro, 1973, cioè dopo pių di centodieci anni, sarebbe stata ancora in piedi. Intanto, dice sempre Pallenberg, i discendenti delle tre famiglie a cui il castello apparteneva e che erano interessati all'esito della causa, erano diventati centoquaranta!

Non so come si possa spiegare una cosa simile e se debba immaginarsi qualche "inghippo" procedurale che abbia paralizzato tutto e di cui il suddetto giornalista e scrittore non abbia avuto conoscenza. Essendo del mestiere, mi pare che un secolo di vita per una causa civile sia troppo, però posso dire di avere avuto fra le mani, io personalmente, una causa civile di pretura che aveva l'età... di undici anni. Ciò mi è capitato quando sono tornato nella pretura in cui avevo iniziato il mio lavoro di magistrato da giovane con le funzioni, ormai da magistrato anziano, di dirigente della stessa. In venti giorni io... l'ho fatta fuori. Ma lo sconcerto mi rimase.

Rimedi ne sono stati proposti tanti. Una causa civile, in primo grado, non dovrebbe durare pių di un anno. E se supera, per ragioni particolarissime tale durata, il giudice che l'ha in mano ha l'obbligo di spiegarne le ragioni al Csm. Se poi una causa, a furia di rinvii chiesti dagli avvocati e procuratori delle parti e accordati dal giudice si trascina per oltre un anno, il dirigente dell'ufficio deve informarne personalmente le parti in causa e riferire sul caso, relativamente al giudice, al Csm. Ci sarebbe poi l'estensione del "rito del lavoro" (di cui pių oltre farò diffusa parola) a tutte le cause civili e, soprattutto, il recupero del principio dell'oralità.

Qualcuno poi ritiene risolutiva della crisi l'introduzione del giudice unico in primo grado. Ne riparleremo pių in là.

Di queste (o similari) riforme sia della procedura sia dell'ordinamento giudiziario si era fatta, anni fa, portatrice Magistratura Democratica, ma salvo qualche piccolo "ritocco" (non sempre di grande efficacia, come quello di ridurre il collegio giudicante delle corti d'appello da cinque a tre componenti) altro non si è visto.

* * *

La disgiustizia penale. Questa, che è il principale oggetto di queste mie pagine, è la peggiore di tutte. La pių macroscopica, la pių squalificante per un paese civile, la pių insopportabile per il cittadino.

Il processo per la strage di piazza Fontana è lì davanti agli occhi di tutti per dire a quale grado di autentica ignominia (ignominia per i congegni processuali, ignominia per lo Stato) si è pervenuti per un complesso infame di circostanze.

E gli altri processi per le altre stragi di marca, certamente o presumibilmente, neofascista? E i processi a carico dei terroristi rossi? E quelli contro i tumori della mafia-camorra? Per quanti anni ne sentiremo parlare ancora? Quali rinvii, quali "rimescolìi" procedurali subiranno?

E quelli a carico dei grandi arraffatori di danaro pubblico? E quelli a carico degli uomini politici disonesti, che, se ministri, dovrebbero essere giudicati dalla Corte Costituzionale (l'affare Lockheed la paralizzò per quasi due anni!)

Se in fatto di disfunzione giudiziaria civile abbiamo parecchi "soci" volgendo gli occhi attorno in Europa e nel mondo, nella disfunzione giudiziaria penale siamo proprio portabandiera e, di fronte alla rapidità della giustizia anglosassone, dovremmo proprio tingerei di rossore.

Alla disgiustizia penale segue, come naturale appendice direi la disgiustizia penitenziaria-carceraria. Che cosa siano diventate le carceri italiane ce lo dice ogni giorno la cronaca nera. Omicidi, sopraffazioni mafio-camorristiche, caos, rivolte, fughe. Come non pensare con grande malinconia al secondo comma dell'art. 27 della Costituzione? «Le pene», dice tale disposto della nostra carta fondamentale, «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Un abisso separa le istituzioni carcerarie italiane attuali da questo precetto costituzionale.

Ma allora la giustizia bisogna solo sognarsela? No, si è già detto che la fantagiustizia va messa al bando.

10.
Gente in toga o lumache?

CON QUALI parole esprimere l'anomalia delle lungaggini delle cause civili e l'intollerabilità di una situazione, come quella del nostro Paese in cui tali controversie durano, per percorrere i tre gradi della giurisdizione, dai cinque ai dieci anni, come si è già detto, ricavando tale dato "medio" dai vari discorsi dei procuratori generali della Cassazione in quest'ultimo ventennio circa?

Un argomento, questo, su cui tanti magistrati, avvocati, professori di diritto, uomini politici e studiosi dei problemi della giustizia, si sono ampiamente soffermati in questi ultimi tempi. Potrei, dunque, a questo punto, riportare pari pari o un brano di un discorso di qualche procuratore generale o citare qualche libro.

Preferisco risalire un tantino pių indietro e riportarmi alle parole di Ludovico Antonio Muratori, che, nell'opera, sempre attualissima e per il titolo e per il contenuto, Dei difetti della giurisprudenza, pubblicata nel 1742, dedica un intero capitolo, il XIV, a questo argomento: "Del pernicioso difetto della giurisprudenza per la lunghezza delle liti" e così esordisce: «Non ci sarebbe bisogno che io mi mettessi a provare la lunghezza, per non dire l'eternità, delle liti praticata nei nostri tempi, perché non v'ha persona che metta per poco il piede nei tribunali, o che, per sua disavventura, sia stata costretta ad intentare o a sofferire una lite, che non sappia se si sbrighino presto o tardi siffatti combattimenti. E questo è male non di un paese d'Italia, ma di tutti, né dei nostri soli tempi, ma anche degli antichissimi e molto pių degli ultimi passati secoli»[42].

E pių oltre, dopo aver parlato della giurisdizione propria dei suoi tempi, così precisa: «La conclusione di tutto questo si è che la soverchia e sterminata lunghezza delle liti per tante sottigliezze, giri e rigiri inventati dall'acutezza dei causidici, è divenuta un male familiare dell'Italia e di tant'altri paesi cristiani e male di sommo incomodo e danno a chiunque per sua disavventura deve fare o sostenere delle liti. Quand'anche si tratti di un credito liquido ed incontrastabile, a cui non v'ha giusta opposizione alcuna e che dovrebbe sbrigarsi alla prima comparsa del debitore, se questi ricorrerà ad un procuratore onorato, gli saprà questi, colle sole eccezioni generali e molto pių col resto delle cavillazioni, che non mancano a chi ne vuole, guadagnare pių mesi di respiro a soddisfare. Anzi alcuni statuti talmente assistono al debitore che quasi li direi composti dai dottori, bisognosi anch'essi di pagare il pių tardi che potessero i debiti proprii. E con tante istanze e risposte, prove e riprove e decreti, sì fattamente s'ingrossano i processi, scritti con tre parole per riga, che la spesa d'essi, aggiunta alle sportole, al salario degli avvocati, dei procuratori, dei sollicitatori, dei messi pubblici ecc. fa piangere chi ha vinto, non chi ne esce perditore»[43].

E a questo punto che si deve dire? Evitate di far liti? Non ricorrete mai ai giudici? Vedete, è sempre stato così? Raccontare lo stesso apologo che narrava i Muratori?

«Raccontasi a questo proposito un apologo. Nel tempo che le bestie parlavano e vivevano divise in varie repubbliche, fecero lega due gatti con promessa di partire ugualmente fra loro tutto quel che andassero rubando. Avendo un dì cadaun d'essi rubato un pezzo di formaggio, nacque discordia fra loro, pretendendo ciascun d'essi che il pezzo suo fosse minore dell'altro ed esigendo il supplemento. Furono vicini a decidere la controversia coll'unghie, ma il pių assennato ottenne che si rimettesse l'affare al giudice. Giudice pubblico si trovò allora uno scimmione, che avrebbe insegnata la giurisprudenza a Bartolo. Costui, udito il litigio, immediatamente fece portar le bilance e si trovò che l'uno dei pezzi del formaggio pesava due once di pių dell'altro; allora il valente giudice, per uguagliar le partite, si attaccò ai denti il pezzo soprabbondante e saporitamente sel masticò. Ma per disavventura tanto ne portò via che, rimessi i pezzi sulle bilance, il primo eccedente si trovò mancante d'un oncia rispetto all'altro. E qui il buon giudice, preso l'altro pezzo, parimenti l'afferrò coi denti, e ne portò via quanto gli piacque e sel mangiò. Veduto sì bel gioco si guatarono l'un l'altro i litiganti, e l'un d'essi rivolto al giudice: "Messere", gli disse, "se tali son le bilance della giustizia, tutti e due noi avremo infine la sentenza contro. M'è sovvenuto adesso un modo pių sicuro d'accordarsi insieme". E presi con bella grazia i pezzi rimasti se n'andarono ambedue a mangiarseli in santa pace»[44].

Non vorrei, però, che qualche lettore, magari non troppo ferrato in storia del diritto italiano, pensasse che il Bartolo di cui parla il Muratori sia il ben noto personaggio del Barbiere di Siviglia. Si tratta, a scanso di equivoci, dI Bartolo di Sassoferrato (1313-1357), uno dei pių grandi giuristi di tutti i tempi, che qualcuno chiamava os legum, bocca delle leggi. M'è già occorso, nelle pagine precedenti, di ricordare che tale espressione è usata dai francesi, bouche de la loi, per indicare in generale il giudice che, se degnamente copre la sua carica, è e deve essere bocca della legge.

E si può zittire tale bocca? Certamente. Dopo l'abrogazione dell'art. 55 del codice di procedura civile, provocata dal recente referendum, e se non si provvedesse nel tempo previsto dalla legge a colmare questo vuoto legislativo, si può impedire a un giudice di pronunciare la sentenza.

Un esempio, di estrema semplicità, può chiarire ciò. Immaginiamo che tizio abbia promosso una causa civile contro Caio e che, nel corso di tale causa, il giudice, cui è toccato di decidere quella controversia (un giudice cioè "predeterminato" dalla legge) abbia emanato un provvedimento a sfavore di Caio. Se, per esempio, Tizio vantava un credito nei confronti di Caio e Caio sta liquidando i suoi beni mobili ed immobili, su cui, il creditore potrebbe soddisfarsi, quest'ultimo chiede al giudice, in corso di causa, che i beni non vengano sottratti dalla garanzia del suo credito, chiede cioè un sequestro conservativo. Č questo uno dei pių comuni provvedimenti che un giudice possa emettere nel corso di una causa. Ma ve ne sono molti altri. La produzione di un documento che risulti compromettente per una delle parti in causa, per citare un altro esempio; se Caio sa che Tizio cela un documento da cui risulti la fondatezza del proprio assunto nella lite, chiede al giudice che ordini a Tizio di produrlo in giudizio.

Una volta spazzato via quell'articolo sopra citato, quello cioè che gli italiani, coscienti o meno, hanno voluto togliere di mezzo, che ti fa Tizio o Caio, nei cui confronti il giudice abbia emesso il provvedimento sfavorevole? Fa causa contro il giudice, asserendo che egli ha errato per "colpa grave". Si potrebbe obiettare che non è facile sostenere la sussistenza della "colpa grave". Ma io risponderò, come Ludovico Antonio Muratori, che basteranno le abili argomentazioni di un avvocato, «colle sole eccezioni generali e molto pių col resto delle cavillazioni, che non mancano a chi ne vuole». E la colpa grave è presto profilata. Una volta fatta causa contro il giudice e iscrittala a ruolo, il giudice ha l'obbligo di astenersi o può essere ricusato. E la sua bocca è stata, così, chiusa.

Meglio, allora, una bocca che stia zitta che una bocca di lumaca, che si pronuncia dopo anni e anni?

E torniamo, così, dopo questa breve digressione, al problema delle lungaggini della giustizia civile.

Non penso che sia giusto arrendersi davanti a un male così vecchio, rassegnandosi col pensiero che se è sempre stato così, non potrà non essere così finché dura la specie umana.

Innanzi tutto, poiché il giudice unico nelle cause di lavoro ha dato un risultato positivo (il "rito" del lavoro ha tentato di recuperare il del tutto obliato "principio della oralità" del processo, ma soprattutto ha mirato alla concentrazione di tutta la controversia in poche battute), piantiamola una buona volta con il giudice di primo grado collegiale e non si adotti altro "rito" che quello delle controversie di lavoro, oggi già esteso, con la legge dell'"equo canone", a quelle di locazione di immobili. Uno solo deve essere il giudice che decide la causa in primo grado e la procedura deve essere quella rapida e rivalorizzatrice dell'"oralità" introdotta con la legge del 1973 sul "processo del lavoro".

Così facendo si potrebbero unificare i tribunali e le preture. Con quanto recupero di magistrati, spesso male utilizzati in preture-sine cura, o in tribunali di vita asfittica, ognuno può facilmente immaginare. Le preture potrebbero divenire, con le stesse circoscrizioni di oggi, sede dei giudici conciliatori elettivi o nominati da un organo politico (va risolta una buona volta la lunga querelle se creare o no il giudice di pace!), cui dovrebbe essere affidata la decisione di tutte le controversie di modesto valore. Oggi il modesto valore potrebbe essere fissato in due o tre milioni. Fra qualche anno non so.

Il giudizio d'appello andrebbe svolto da tre giudici dello stesso tribunale cui appartiene quello che pronunciò la prima sentenza; magari giudici con maggiore esperienza, con dieci anni di anzianità, diciamo.

Quanto all'organo regolatore dell'uniforme applicazione del diritto - la Corte di cassazione, cioè - non ne contesto la necessità. Ma forse non sarebbe sbagliato pensare a una carriera a parte dei giudici di legittimità (i giudici, cioè, lo dico in soldoni, che non esaminano pių le "risultanze", ma si limitano ad accertare se la legge, sia sostanziale che procedurale, sia stata bene applicata).

Con queste che ho sopra brevemente indicato o con similari riforme, sia della procedura sia dell'ordinamento giudiziario, la strada che le parti in causa devono percorrere per ottenere una sentenza definitiva sarebbe notevolmente accorciata.

Non mi appare qui fuori luogo fare un cenno un po' pių chiaro sul "processo del lavoro" e sul perché io auspico che questo tipo di procedura venga esteso a tutte le controversie civili. Perché il legislatore ha voluto creare un processo pių snello e di pių rapida definizione per tutte le controversie che abbiano come oggetto il rapporto di lavoro (licenziamenti, sanzioni disciplinari, pensioni ecc.)? Perché ci si è resi conto dello squilibrio economico fra lavoratore e datore di lavoro, il quale ultimo può tranquillamente attendere che il giudice si pronunci sulla controversia quando che sia, mentre il lavoratore vede nella decisione della causa a volte la stessa sua sopravvivenza o, quanto meno, il suo principale interesse; il suo posto di lavoro, la sua remunerazione da pensionato e così via.

Quali sono state le principali novità del nuovo "rito" del lavoro? L'introduzione della causa con un semplice ricorso, in cui, però, debbono essere esposte tutte le argomentazioni a sostegno della propria richiesta e offerti tutti i mezzi di prova; un decreto del giudice entro sessanta giorni che fissa l'udienza di discussione; lo svolgimento della causa e concentrazione di essa in una sola udienza (ma di questa regola si è...già perduta la memoria) con uso della registrazione su nastro magnetico delle dichiarazioni delle parti e delle testimonianze (il che non è consentito negli altri procedimenti); la pronuncia della sentenza a udienza conclusa; la provvisoria esecutorietà della sentenza.

Il "normale" (si fa per dire!) iter di una causa civile si stende, invece, per un numero notevole di udienze, a volte di semplice rinvio, si impantana nelle decisioni del giudice istruttore sui mezzi di prova, che vengono impugnate davanti al "collegio" si contorce in repliche e controrepliche scritte dai due avvocati (e il "principio dell'oralità" dove è andato a finire?), si dilunga nell'assunzione delle prove, specie di quelle testimoniali, che, con la necessità di una loro verbalizzazione scritta (quasi mai con l'assistenza di un segretario e, men che mai, di un cancelliere) occupa pių udienze, a distanza a volte di mesi una dall'altra; fa perdere infine le sue tracce, quando il giudice non osserva poi i termini di legge per redigere la decisione che il collegio ha preso in camera di consiglio. Ed è così che "tempo medio" di una causa civile di tribunale per arrivare alla sentenza di primo grado è di tre o quattro anni. Poi c'è l'appello: altri due anni circa. E infine il ricorso in Cassazione.

Si possono accorciare questi tempi? Sì. Ma deve, prima, volerlo la classe politica, attuando le necessarie riforme legislative e ridistribuendo bene l'organico della magistratura.

 
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