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Gli Sbagli di Vostro Onore, di Luigi GrandeLiber Liber

Copertina | Indice | Introduzione | Parte 01 | Parte 02 | Parte 03 | Parte 04 | Note

Parte 04

16.
L'ora del dubbio e la certezza del diritto

ALCUNI anni fa a Budapest, visitando il tesoro del duomo, della Mattiaskirche per l'esattezza, i miei e io abbiamo sostato un po' davanti a una vetrinetta, in cui era esposto uno stupendo lavoro di oreficeria medioevale: la corona del re santo Stefano. «Ma?», domandai a mia moglie, sicuro che nessuno di quelli che stavano intorno capisse la nostra lingua, «Come mai? Se dicevano che era scomparsa dall'Ungheria? Non era uno dei capi di accusa nel processo al cardinale Mindszenty?».

«Č una copia, signore», mi spiegò una donna piuttosto anziana che stava a pochi passi da noi.

Felici di sentir parlare finalmente l'italiano, le mie figliole si fecero attorno alla signora, che ci diede un saggio sorprendente di conoscenza della nostra lingua e una squisita prova di cortesia, accompagnandoci per tutte le sale del museo e facendoci da cicerone.

Rifiutò qualsiasi segno di riconoscenza da parte nostra, quando prendemmo congedo, dicendoci che era stata felice di aver potuto parlare l'italiano e di aver scambiato qualche parola «coi nostri amici democratici».

«C'era un che di patetico, come una punta di nostalgia» osservò una mia figliola, «in quel chiamarci "democratici"».

«Dopo quello che è accaduto qui una ventina di anni fa, nessuno», dissi, «potrà mai dire a questa gente che la democrazia è una stupida invenzione capitalistica. E soprattutto nessuno potrà dire ai giovani di qui, ai ragazzi della vostra età, che l'assetto politico in cui vivono è l'optimum. Così come se dicessero a voi che l'optimum è il mondo in cui viviamo noi, con tutti i suoi gravi scompensi, voi non ci credereste. Questo è il grande privilegio della vostra generazione. Non credete a "verità" imposte dall'alto. Voi dubitate. E fate bene... ».

Ma le mie figliole mi tagliarono il discorso in bocca, perché se ne corsero ad ammirare il panorama di Budapest dall'alto dei "Bastioni dei pescatori".

Guardando anch'io dalle colline della città vecchia Buda, la sponda della nuova, Pest, che si rispecchia sul Danubio e la sontuosa mole del Parlamento ergersi fra le altre costruzioni, continuavo a riflettere sull'importanza del dubbio. E una nota poesia di Brecht a sprazzi, a mozziconi, meglio, mi tornava in mente quasi a sottolineare i miei pensieri.

A me, da ragazzo, non fu dato di conoscere il dubbio ed esso esplose in me da solo, quando la catastrofe, a cui ci avevano portato le "certezze" inculcate nelle nostre teste di studentini da "libro e moschetto", le certezze che avevano creato "il mito della grandezza italica", era ormai imminente.

Mentre percorriamo il dedalo delle viuzze della vecchia Buda, e per pura combinazione imbocchiamo via Pàl (un'antica lettura I ragazzi della via Pal, di Ferenc Molnàr fa ressa nella mia testa, intanto) sono i miei ricordi di ragazzo e studente dell'"era fascista" che mi occupano interamente. Né me ne distolgono i vari commenti e le pių disparate osservazioni dei miei (tipo «Ma è una meraviglia come si posteggia bene in questa citta!», «Grazie tante, siamo quasi tutti stranieri quelli che circoliamo in macchina!»), mentre già imboccato uno dei sette (o otto?) ponti sul Danubio passiamo a Pest e ne percorriamo le ampie vie e i grandi viali, fino alla grandissima piazza dove prospetta la facciata neoclassica del Museo delle Belle Arti e vi fa corona un monumento con vari gruppi statuari che celebra le glorie nazionali magiare, dalla discesa degli Unni, con Attila in testa, in poi.

Intanto io continuo il viaggio "separato" sul filo dei ricordi. Č il colloquio con un collega di università che emerge dalla dimenticanza. Un colloquio in cui mi vengono decantate le prospettive che apre la facoltà di scienze politiche. La facoltà dell'avvenire, diceva. Ci avevo mai riflettuto? mi domandò. Tutti, come tante pecore, ci eravamo iscritti a giurisprudenza. Ma glielo volevo dire, per favore, che avremmo fatto tutti quegli avvocati che la nostra università avrebbe sfornato? Anche facendo il debito calo di quelli che avrebbero preso la via del notariato o della magistratura o, peggio, si sarebbero impiegati, gli avvocati nella nostra città, fra qualche anno, si sarebbero potuti vendere, in un angolo del mercato, a cinque lire la dozzina. E, invece, da scienze politiche sarebbero uscite le nuove leve delle classi dirigenti. Nell'Italia fascista ci sarebbe voluto personale specializzato; una volta uscita vittoriosa dalla guerra, l'Italia sarebbe divenuta una potenza di grandezza mondiale. Mi immaginavo, perciò, quanti ce ne sarebbero voluti di funzionari nei vari settori della vita politica?

Il sentire parlare l'amico, con tanta certezza, della vittoria e delle future prospettive di grande potenza che si sarebbero aperte all'Italia, mi diede un senso di smarrimento, come se mi fossi improvvisamente accorto che io, nel segreto del mio cuore, da tempo non ci credevo pių.

E un altro attimo di smarrimento ecco affacciarsi nel mio ricordo. Era stato alla scuola allievi ufficiali. Una mattina, poiché nevicava, anziché essere avviati alla consueta istruzione tattica nei dintorni della città, eravamo stati riuniti in aula per assistere a lezioni teoriche. Il chiasso che facevamo in attesa degli istruttori fu, improvvisamente, spezzato da tre squilli di tromba di attenti. Una visita inconsueta, ci comunicò di corsa un capitano, il principe Umberto. Scattammo, all'entrata del principe ereditario, come tante molle in un rigidissimo "attenti", dando ai nostri volti la massima tensione di "fierezza".

E fieri dovevamo mostrarci anche quando, poco dopo, fattici schierare in plotoni serrati in cortile, la neve che cadeva a larghe falde ci si scioglieva in faccia. Ci diedero ordine di cantare i soliti inni guerrieri-patriottico-fascisti. Il principe cantò con noi e, poiché nel programma canoro non poteva mancare la canzone Vincere, anche lui cantò: «Č la parola d'ordine d'una suprema volontà».

Ma di chi era quella "suprema volontà"? mi venne fatto incoercibilmente di pensare. Del popolo italiano? O del duce, piuttosto, che lo comandava? E, in tal caso, come fa un erede al trono a pronunciare quelle parole? Parole che mostravano la cartapestacea inconsistenza dell'istituto della monarchia e indicavano il sorgere attorno alla figura del dittatore di ciò che un giorno sarebbe stato chiamato il "culto della personalità".

Tutto mi parve estremamente precario. Quel principe, alto e fatuo, che spalancava la bocca con noi nel canto, era l'epigono di una dinastia morta. Sentii, in maniera precisa e agghiacciante, lo sfacelo che incombeva. Il dubbio aveva così aperto le prime brecce in me, sgretolò le antiche "certezze" e presto mi apparve la mostruosità di tutto quanto era accaduto e accadeva.

Credo, perciò, nei ragazzi, per il semplice fatto che loro non credono in noi e in tutti i nostri "miti", per la semplice ragione che a loro - ne sono certo - nessuno si periterà mai di dire che devono "credere, obbedire e combattere". Essi, a chi dicesse parole così offensive per l'intelligenza umana, qualunque fosse il colore della camicia indossata (e anche, persino, se fosse fatta a stelle e strisce), risponderebbero in malo modo.

Niente certezze, nessuna fede, dunque? Né sul terreno della politica né in alcun altro settore?

A pensarci bene, l'uomo moderno si è dovuto acconciare a vivere senza certezze quando, lentamente, si è venuto accorgendo che, dalla presunzione di essersi messo, per mezzo delle scoperte scientifiche, nella direttrice giusta per spiegare tutti misteri che lo hanno sempre circondato, è stato necessario passare a un atteggiamento pių cauto; sicché oggi quasi nessuno parla pių di verità scientifiche ma semplicemente di ipotesi, pių o meno convalidate da prove.

L'orgoglio del positivismo, insomma, è definitivamente tramontato e forse il pensiero positivista sopravvive soltanto sul terreno della scienza giuridica, al quale non solo approda con circa mezzo secolo di ritardo ma si innesta con strutture e premesse del tutto diverse da quelle del positivismo filosofico.

Esso parte, infatti, dalla locuzione "diritto positivo" che indica un certo complesso di norme quale è in un dato momento storico e in un dato territorio, come si presenta cioè nella sua realtà contingente per la volontà dell'organo legiferante.

La scuola giuridica positiva, perciò, dice a chiare lettere che il compito del vero ricercatore e studioso del diritto è quello di delineare la "realtà" del diritto, senza perdersi dietro le sue personali fantasie e aspirazioni. E, come un chiaro sillogismo, questi studiosi dicono che al giudice, una volta individuata la realtà della norma, cioè la norma nella sua vera portata applicativa, esaurita l'opera, attraverso quelli che vengono chiamati gli "strumenti ermeneutici", della retta interpretazione, reso insomma chiaro e inequivoco il significato del disposto di legge, non resta altro che applicarlo al caso concreto che ha in mano, compiendo quel trapasso dall'astrattezza della norma alla concretezza del giudicato singolo, che è il compito proprio di chi amministra giustizia.

Ma, si aggiunge, perché l'amministrazione della giustizia non naufraghi nel soggettivismi dei singoli giudici, occorre un'uniformità di interpretazione dei vari disposti di legge, uniformità che non può che venire da un organo unico, la Corte di cassazione. Occorre, in una parola, per un corretto funzionamento giudiziario, la "certezza del diritto". Insomma, si dice con le solite fallaci semplificazioni, bisogna evitare che la legge dica una cosa se interpretata da un giudice di un certo colore e che ne dica esattamente una opposta se interpretata da un giudice che sia, invece, di colore can-che-fugge.

Nasce così la "mitologia" della certezza del diritto che ha tenuto banco in questi ultimi anni nelle discussioni pubbliche e su giornali e riviste specialistiche e no. Capitava addirittura di sentire persone assolutamente digiune di sostanziose nozioni giuridiche additare come uno dei mali del nostro, non sempre felix, Paese, l'affievolirsi o addirittura il venir meno della certezza del diritto, a causa di non pochi giudici "eretici". Gli specialisti, poi, esemplificando, non trovavano difficoltà a indicare decisioni della Cassazione contrastanti l'una con l'altra. Ma di queste, se scorressimo vecchi repertori, ne troveremmo fin da quando venne istituita in Italia una sola corte "regolatrice" al posto delle pių cassazioni provenienti dall'Italia preunitaria.

Ma il problema della certezza del diritto è, non vorrei dire falso, ma certamente male impostato. E ciò per la semplice, quasi banale, constatazione che il diritto, nella sua trimillenaria evoluzione (anzi quadrimillenaria se risaliamo al codice di Hammurabi), non è mai stato un blocco compatto e immutabile se non per intervento di chi avesse il potere di imporre leggi, ma una massa fluida che si muove in continuazione indipendentemente dagli interventi legislativi. Il diritto, insomma, per sua intrinseca natura, tende "spontaneamente" ad adattarsi alla realtà sociale in evoluzione, ai mutati costumi, al fluire delle convinzioni collettive.

L'esempio pių tipico è quello dello jus honorarium nell'ambito del diritto romano, cioè il diritto che "creava" il praetor dinanzi all'insufficienza o alla vetustà dello jus duodecim tabularum, con l'enunciazione nel suo editto delle actiones ed exceptiones. Finché si giunse all'"editto perpetuo" di Salvio Giuliano, cui si sovrapporrà l'opera interpretativo-evolutiva dei giuristi che avevano lo jus respondendi. Ma questo è discorso da specialisti ed è meglio piantarlo lì, con questi brevi pressappochistici accenni. Ricorro, invece, a un esempio pių terra-terra, afferrabile anche da chi ignorasse l'ABC del diritto, che prendo dal diritto privato e da una delle materie della vita quotidiana, il matrimonio e la separazione dei coniugi. L'esempio potrebbe persino sembrare banale, ma per la sua chiarezza può servire a rendere comprensibile il mio pensiero e a fugare ogni sospetto di bizantinismi. Il codice civile del 1865 all'art. 150 1° comma indicava così alcuni dei motivi di separazione dei coniugi: «La separazione può essere domandata per causa di adulterio o di volontario abbandono, e per causa di eccessi, sevizie, minacce e ingiurie gravi». Questa prima parte dell'articolo è trapassata identica nell'art. 151 del codice del 1941 e solo con la recente introduzione del nuovo diritto di famiglia è stata, come è noto, modificata. Ebbene sapete che cosa la Cassazione, in una decisione di moltissimi anni fa, ha ritenuto che costituisca "eccessi" per una moglie, tale da comportare la separazione per sua colpa? L'accettare l'invito di un uomo a salire sulla sua carrozza. La disposizione, dunque, è rimasta identica per oltre un secolo ma mai e poi mai un giudice del 1975 (anno in cui la norma fu modificata) avrebbe potuto applicare la stessa giurisprudenza, anche sostituendo il passaggio in automobile al passaggio in carrozza. Neanche se una moglie si fosse ,messa a fare l'autostop si sarebbe potuto, con aderenza alla realtà umana sempre mutevole, parlare di "eccessi".

L'interpretazione giurisprudenziale della norma tende, quasi sempre, a riempire di contenuto concreto una previsione che a volte è generica, persino vaga. E questo "riempimento" fatto dal giudice non può che essere fatto in aderenza al variare del tessuto sociale e dei "valori" che lo tengono insieme.

Per fare un altro esempio semplice, mi riallaccio a un'osservazione fatta in una precedente pagina relativamente all'attenuante prevista dal codice penale dell'«avere agito per motivi di particolare valore morale o sociale». Certo il legislatore fascista (il codice è sempre quello del 1930) non poteva volere che una simile attenuante si applicasse a reati commessi in occasione di lotte fra opposte parti sociali (lotte del resto represse), ma si può fondatamente dire che sbaglierebbe ad applicarla in casi di reati commessi nel corso di uno sciopero il giudice della democratica Repubblica attuale?

La certezza del diritto non deve significare cristallizzazione giurisprudenziale: così ha detto la Cassazione e non se ne parli pių. Č, invece, fede nell'intrinseca amplitudine del diritto che lo rende capace di regolare "tutti" i casi umani e di regolarli secondo il sentimento di giustizia, il "sentire giuridico" della collettività di quel dato momento storico e di quel dato territorio statale.

Le discrepanze originate da qualche singolo giudicato non intaccano la certezza del diritto. Se si tratta di una "sortita" di un singolo balzano giudice, il caso non tarda a essere riassorbito nella "normalità" attraverso i canali dei tre gradi della giurisdizione; se si tratta, al contrario, dell'intuizione interpretativa di una mente illuminata e sensibile, il caso singolo si allarga e la giurisprudenza dei giudici di merito si estende a quelli di legittimità che finiscono col farla propria. Mi spiego meglio e con parole pių povere per chi non avesse nessuna dimestichezza con questi problemi. Se pretori e tribunali si muovono verso un nuovo indirizzo interpretativo di un disposto di legge, perché così "vuole", in maniera inequivoca, la mutata realtà sociale, anche i giudici di appello li seguono e la Cassazione, riconosciuta la "bontà" dell'interpretazione non può che farla, prima o poi, propria. Non aveva forse detto la Cassazione, per anni e anni, che il furto eseguito in un magazzino dovesse considerarsi aggravato perché eseguito con destrezza (art. 625 n° 4 del cod. pen.)? Ma ecco che sorgono e si moltiplicano i grandi magazzini, in cui il taccheggio non richiede certo alcuna abilità. Io ho scritto addirittura in una sentenza che in certi magazzini, la "destrezza" occorreva per pagare, dimostrando una caparbia volontà di essere onesti, perché a volte non si riusciva a trovare una sola cassiera al suo posto. Dopo un certo numero di anni anche la Cassazione finì col mutare avviso e ritenne il furto nei grandi magazzini "furto semplice". Non passò invece la tesi di un pretore che qualificò il taccheggio "insolvenza fraudolenta".

Le vedute, in conclusione, di chi vorrebbe il diritto come una costruzione massiccia e solida, su cui "un solo" architetto può apportare aggiunte, modificazioni e soppressioni (il legislatore), costruzione attorno a cui lavorano come tante operose api gli interpreti (i giudici), sempre guidati da un'unica ape regina (la Cassazione), sono inequivocabilmente conservatrici e spesso nascondono la preoccupazione di tutelare interessi settoriali e non della collettività.

A me pare che si possa accettare, invece, la visione di chi intende la funzione del giudice come mediatore fra legge e società. Una visione criticata, lo so. Ma non vedo, nel vertiginoso mutare della realtà umana, altra alternativa perché il diritto non diventi un castello di astrattezze, un castello kafkiano dove colui che postula giustizia non riuscirà mai a essere ammesso come l'agrimensore K. protagonista de Il castello.

Né accettare tale visione significa invocare l'introduzione del "diritto libero", del diritto, cioè per dirla terra-terra e senza alcuna pretesa di "scientificità", che viene creato dal giudice di volta in volta per il singolo caso.

Č stato già osservato[56] che la società attuale attraversa una crisi nella quale «un vecchio mondo va a pezzi mentre ancora non è ben delineata la realtà che lo sostituisce. L'inadeguatezza del diritto positivo a regolare questa situazione mette in crisi le istituzioni giuridiche e, di conseguenza, tornano in primo piano il problema teorico dell'interpretazione e il problema pratico del giudicare». E lo stesso autore pių oltre aggiunge concludendo: «probabilmente assisteremo nei prossimi anni ad una rivalutazione della giurisprudenza degli interessi e del movimento del diritto libero».

17.
Il castello di Gand: la tortura, i manicomi criminali

M'È CAPITATO a Gand di riandare col pensiero all'altra grande battaglia, che Cesare Beccaria, oltre a quella contro la pena di morte, condusse nelle sue pagine contro la tortura.

C'è chi da Gand - ma è pių esatto scrivere Gent - riporterà incancellabile quello sguardo che van Eyck mise negli occhi del Cristo del polittico dell'Agnello Mistico; c'è chi scatterà, punto per punto, una serie ai fotografie delle bellissime costruzioni lungo la Graslei, che si affacciano sulla Leie (il fiume poco pių in là si unisce alla Schelda); c'è chi si estasierà davanti alla chiesa di san Nicola; c'è chi cercherà la casa dove nacque Carlo V, il padrone dell'impero dove il sole non tramontava mai.

Io passeggio sugli spalti del castello - il castello dei conti delle Fiandre, bellissimo, assai ben conservato, la cui parte pių antica risale al sec. IX addirittura, all'età carolingia, e cui venne data la forma attuale, o quasi, ai tempi di Baldovino il crociato - e mentre tento una delle mie solite cineprese, non sempre azzeccate, vengo pensando a quello che ho visto poco prima.

Una sala del castello è stata destinata all'esposizione degli strumenti di tortura usati un tempo. E gli strumenti di tortura possono, con tranquilla coscienza, essere esposti in un museo come ricordo del passato? E dell'"infame crogiuolo della verità" secondo la già ricordata definizione di Cesare Beccaria, davvero si è persa - come doveva perdersi - la memoria?

Non tanti anni fa, quello che ci è stato mostrato anche per televisione degli strumenti adoperati dagli sgherri dello scià di Persia, ci dà conferma della sopravvivenza della tortura nella società attuale. Ma c'è poi, in questo settore, a portare la bandiera il Sud-America. Strumenti di tortura? Si stupirebbe un "inquisitore" del Cile o del Salvador. Ma per carità. Un tantino di corrente elettrica, semmai! E noi italiani, a un esame di coscienza sul punto "tortura", noi di questo Paese che la Costituzione vuole incontaminato e nobile, noi, gli eredi del pensiero del grande milanese, ne usciamo del tutto indenni? O dobbiamo ricordare qualche morto (anche se mafioso) in questura? «Leggo a me stesso», dice qualche avvocato, nello svolgere la sua arringa e nello sciorinare qualche brano di scienza giuridica, per non offendere troppo la corte.

«Una crudeltà», leggo a me stesso dal Beccaria «consacrata dall'uso della maggior parte delle nazioni, è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per costringerlo a confessare un delitto, o per le contraddizioni nelle quali incorre, o per la scoperta di complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d'infamia, o finalmente per altri delitti, di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato.

«Un uomo non può chiamarsi "reo" prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violato i patti, co' quali gli fu accordata. Qual è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la potestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?»[57].

E qui mi fermo, per l'amordidio. Parlare dell'abolizione della tortura! In Italia sul finire degli anni '80! Č sfondare porte aperte. Ma io a me stesso ho letto. E chi ha orecchie da intendere, intenda. Se c'è qualche sbavaturina (tipo i "rei confessi" rapinatori del Cremasco degli anni '60, vicenda conclusasi poi con la condanna di chi aveva estorto quelle "confessioni"), se c'è qualche sbavaturina, dicevo, rimasta nel cancellare dal nostro costume pubblico ogni traccia dell'idea di tortura, facciamo presto a cancellare anche quella. Si deve, cioè, fare in modo che la "metodologia" delle indagini della nostra polizia e, soprattutto, l'interrogatorio dell'indiziato formino un habitus tale da non potersi nemmeno immaginare qualcosa che possa richiamare la tortura. Né ha importanza se il rispetto di queste regole di civiltà giuridica, già enunciate dai nostri grandi del '700, possono a volte produrre ritardi e inciampi nella scoperta degli autori dei crimini.

Fra gli strumenti di tortura esposti in una sala del castello di Gand quello che mi colpì di pių fu un letto. Un letto non spregevole come lavoro in legno. In esso veniva "sistemato", legato ai polsi e alle caviglie, l'infelice cui doveva essere strappata di bocca qualche circostanza. Uno non dissimile da quello che a Gand viene mostrato come un turpe relitto del passato, ha "ornato" fino a non molti anni fa le carceri italiane. Ma ha soprattutto caratterizzato i nostri manicomi criminali. Parlo del "letto di contenzione".

Di esso, nel periodo ormai molto lontano in cui io ebbi per legge, come giudice di sorveglianza, il compito di accertare che tutto si svolgesse con regolarità in un carcere, non venne mai fatto uso. Ma, come giudice istruttore, ho avuto occasione di occuparmi di questo ignobile strumento, interrogando un ex-detenuto di un altro carcere, che, per essere stato legato a lungo nel letto in questione, aveva riportato lesioni irreversibili alle articolazioni delle dita di una mano.

Il letto di contenzione di struttura metallica è infisso al suolo, fornito di cinque fasce di dura canapa, due per legare i polsi, due per le caviglie e una che passa attraverso il petto del ricoverato "contenuto". Fino a non molti anni fa un detenuto "difficile" vi poteva essere legato con notevole facilità.

Ma solo chi ha provato può parlare di una cosa con vera cognizione di causa. Perciò sul letto di contenzione occorre leggere ciò che ne scrive Alfredo Bonazzi, che ne ha gustato le "delizie", nel libro Squalificati a vita - Inchiesta e testimonianze sui manicomi criminali, Gribaudi ed., Torino, 1975.

Su Alfredo Bonazzi si è scritto molto, né può dirsi spenta del tutto l'eco del suo caso umano e letterario: i numerosi premi di poesia vinti mentre era recluso a Porto Azzurro in espiazione d'una condanna inflittagli per omicidio a scopo di rapina, l'uscita del libro Ergastolo Azzurro (Todariana editrice, Milano, 1970) che presentava una cospicua raccolta delle sue liriche e narrava la sua storia amara, la grazia, infine, concessa dal presidente della Repubblica e la riacquistata libertà all'inizio del 1973.

Certo - io ebbi già occasione di scrivere - Bonazzi non ha "scoperto" la poesia mentre si trovava recluso al Forte di San Giacomo di Porto Azzurro, ma se l'è portata nascosta, forse ignota a lui stesso, nel cuore, fin dagli anni dell'adolescenza. Che cosa ha potuto consentire che l'animo di un giovane, aperto alla pių pura esperienza esistenziale: la vibrazione per l'arte di esprimersi in versi potesse essere portato alla violenza e, soprattutto, al disprezzo degli altri, che è per me l'aspetto pių profondo del reato, un aspetto metagiuridico forse, ma che riesce a farmi "sereno" come giudice, anche se sono persuaso dei difetti del sistema carcerario; che cosa, mi chiedevo, ha potuto consentire che nell'animo di un poeta allignasse la violenza e lo spregio della dignità umana?

Qual è stato il punto di rottura? E può la malvagità altrui portare chi la natura ha destinato a essere poeta a diventare invece criminale?

Penso che in ogni artista e quindi in ogni poeta c'è l'anima di un ribelle. Ogni tentativo d'arte è un tentativo di rivolta contro la meschinità umana, ogni realizzazione d'arte è una rivoluzione in ciò che c'è di miserabile e animalesco nel vivere umano.

Ebbene, il ribelle nel ragazzo Alfredo Bonazzi era destinato a esplicare la ribellione nelle vie dell'arte, dove la ribellione sarebbe diventata fuoco e furore interiore e misura e armonia esteriore. Ma le circostanze avverse di un'infanzia maturata fra gli abominii della guerra ha indirizzato su altra strada l'interna ribellione verso la società, l'ipocrisia del mondo, la meschinità, ed ecco che nasce così il criminale Bonazzi.

E forse l'aver provato, già al riformatorio, la "crocifissione" nel letto di contenzione non deve essere rimasta senza conseguenza nell'indirizzare il ribelle sulla via del crimine.

Proprio nel libro Ergastolo Azzurro c'è un brano, riportato anche in quello sui manicomi criminali, sopra citato, che rievoca la tortura del letto di contenzione: «Gridare? Chiedere urlando che ti sciolgano? Certo, gridano tutti nel reparto "agitati e confusi", ma lo fanno per poco: un giro di chiave, una faccia infastidita, una mano armata di siringa, e tu... vieni scaraventato nel buio. E il giorno dopo, appunto, sapore di bromuro, di Talofen, di Letargin».

«Finché non ti rassegni. Quando lo sarai, rassegnato, lo capirai dalla tua stessa voce - che suona umile e diversa - mentre chiede a un infermiere, a un istitutore, a uno scopino galeotto, di allentarti un poco le fascette che, nell'agitazione, ti hanno segato i polsi e contuso i muscoli. Vedrai allora il sorriso di "gente che ci sa fare coi pazzi". Ti possono anche sciogliere, dopo che hai promesso di fare il bravo. E per giorni e giorni, subito dopo sciolto, non riuscirai a stare in piedi, hai perso il senso dell'equilibrio verticale. Ed è l'ora di piangere, perché in seguito basterà minacciare di ricondurti in "quella stanza" per vederti strisciare come cane bastonato».

Qualche anno fa, fatti clamorosi: il caso dei coniugi Berger, il suicidio di Teresa Quinto Balducci, il rogo nel letto di contenzione della detenuta Bernardini, posero l'opinione pubblica di fronte a un drammatico problema: si doveva abolire il manicomio criminale e quale scelta di civiltà, al posto di esso, il legislatore avrebbe dovuto compiere?

Il manicomio criminale avrebbe dovuto essere un luogo di cura (quindi non solo centro diagnostico per perizie giudiziarie o, peggio, com'è poi essenzialmente divenuto, luogo di parcheggio per rifiuti della società), un luogo di cura cui fosse abbinata, ma in posizione subordinata e quasi strumentale, la funzione del custodire.

La società deve - si dice, e giustamente - difendersi da coloro che con il crimine ne sconvolgono le basi stesse di civile convivenza; deve quindi "separare" dal suo corpo chi può nuocere ancora. Ma una società, non rozzamente medievale, deve sapere cercare e trovare le cause del crimine ed estirparle, fin dove umanamente possibile, dai "devianti". Se poi la devianza è frutto di malattie psichiche, allora il dovere di curare appare di tutta evidenza.

Eppure dai dibattiti e dai fatti di cronaca che, di tanto in tanto, pongono davanti agli occhi dei disattenti cittadini angosciosi problemi, dallo sconvolgente libro di Bonazzi, di cui si è fatto cenno - che con la sua precisa documentazione e con eloquenti fotografie costituisce un vero grido d'allarme per le coscienze non torpide - risulta ormai chiaro che nei manicomi criminali si è smarrito completamente il significato di luogo di cura. I sistemi carcerari che vi regnano, l'impreparazione sanitaria del personale, il burocraticismo astratto dei direttori, la facilità con cui qualsiasi detenuto "difficile" può andarvi a finire, fanno dei manicomi criminali null'altro che dei terminals dell'esclusione, per usare una definizione di Bonazzi. Il letto di contenzione, poi, che da strumento perché l'agitato non arrechi soprattutto male a se stesso (alla stessa stregua della camicia di forza, su cui è sempre possibile fare riserve) è divenuto mezzo barbaro e incivile di tortura punitiva, è l'emblema di un'istituzione non pių al passo coi tempi, che hanno fatto maturare un nuovo concetto della dignità umana.

Certo mandare il letto di contenzione a fare compagnia a quello del castello di Gand, come oggetto da museo, non è poi una così difficile riforma.

Ma è la sostanza della riforma che veramente fa sorgere grandi perplessità. La commissione di un crimine da parte di chi, a causa di una malattia psichica (o anche per intossicazione cronica da alcool o da stupefacenti), è rimasto privo della capacità di intendere e di volere o da parte di chi tale capacità abbia sentito "scemare grandemente", come si esprime la legge, pone dei problemi di enorme portata. Di natura giuridico-filosofica. Di natura politico-criminale. Di natura sanitaria.

Non c'è che da puntare sui risultati della scienza psichiatrica. Da questa, che ha già raggiunto notevoli risultati nel campo delle cure dei malati di mente non-devianti (il che ha potuto consentire la recente riforma), e da questa soltanto va attesa la risposta sul metodo di cura di chi abbia violato la legge penale, perché affetto da un vizio totale o parziale di mente.

E non sembri questo breve cenno sul problema dei manicomi criminali una deviazione dal tema principale - gli sbagli del giudice - perché anche un'assegnazione temporanea di un inquisito in manicomio criminale per l'espletamento di una perizia psichiatrica può essere un terribile sbaglio. E fatale fu per Carol Berger che, sospettata di far uso di droghe, era invece convalescente da un'epatite virale e morì durante la detenzione.

Il caso dei coniugi Berger (William Berger era un attore cinematografico, era il "Sartana" dei western all'italiana) è stato narrato ampiamente nel citato libro di Corrado Pallenberg (pp.71/77) e suscitò espressioni di esecrazione da parte del deputato liberale Aldo Bozzi, che non esitò a definire barbarici certi sistemi attraverso cui passa l'amministrazione della giustizia in Italia.

18.
Le microspie e le scorciatoie processuali

ED ECCOMICI ancora in giro per le latomie siracusane e davanti all'"Orecchio di Dionisio", non pių da studentino quattordicenne, ma da magistrato anziano. In gita con altri magistrati.

Tutti i gitanti seguono con particolare interesse le spiegazioni della guida che rammenta che le latomie, originariamente cave di quella pietra con cui furono costruiti gran parte dei templi greci di Sicilia, furono poi destinate a mostruose carceri.

Ma è il particolare effetto acustico dell'"Orecchio" che sorprende tutti. La guida spiattella la solita fiaba: in questa singolare latomia, dice, il tiranno di Siracusa metteva i prigionieri di stato, quando doveva carpirne i segreti, perché anche una parola bisbigliata giungeva a lui, per mezzo di questo suo enorme orecchio di pietra, chiara e portata al livello dell'audibilità.

Ma io, pur restando insieme agli altri nel gruppo, silenziosamente mi allontano nel mio tempo passato per pių diecine d'anni. Poi dato libero sfogo ai ricordi dell'adolescenza, ecco che i problemi del mestiere mi riafferrano. Un'associazione di idee, originata da ciò che si racconta dell'antico tiranno di Siracusa, mi coglie improvvisa. Mi chiedo se l'introdurre una microspia in un furgone cellulare dove si trovano due detenuti, lasciandoli poi soli, in modo che il loro colloquio venga registrato su nastro, traendone le debite conseguenze in sede processuale, sia poi tanto diverso da quello che la tradizione attribuisce a un monarca, il quale peraltro gode, nella letteratura classica, di buona reputazione.

Non molto tempo fa è stata depositata la motivazione della sentenza della Corte d'assise d'appello di Firenze sul "caso Lavorini", il tredicenne livornese dapprima scomparso e poi ritrovato cadavere in una spiaggia. La decisione che inquadrò il delitto, non su uno sfondo di pasticcio fra omosessuali - come i "terribili ragazzi" implicati tentarono di far credere -, ma nel quadro della farneticazione politica di destra eversiva: rapimento a scopo di estorsione e omicidio "preterintenzionale", sembrò soddisfare l'attesa di verità e di giustizia dell'opinione pubblica (spesso così delusa!), ma recava un grosso neo sul quale non si può sorvolare.

Nel corso del processo la Corte emise un'ordinanza con la quale, riformando una precedente decisione della Corte di primo grado pisana, dichiarò utilizzabili processualmente i nastri magnetici su cui erano registrate le conversazioni svoltesi fra imputati nel furgone cellulare. Siamo di fronte a un caso di vera e propria "empirìa processuale". Mentre, cioè, i giudici di primo grado su tale questione dei nastri non vollero intaccare le regole fondamentali del sistema processuale, la Corte di secondo grado fiorentina ha preferito fare un ragionamento non basato sui "summa principia" ma sull'utilità pratica di quelle risultanze ai fini dell'accertamento della verità.

Le regole che guidano l'iter processuale penale sono tutte ispirate a un coacervo unitario di princìpi (ricerca della verità con garanzia della difesa, parità della difesa e dell'accusa e quindi contraddittorio, ecc.) che non consente il semplicistico ragionamento: tutto ciò che è utile all'accertamento della verità può trovare spazio nel processo penale.

No, il processo penale, vero specchio del grado di maturazione democratica di un popolo, non ammette sistemi empirici e scorciatoie utilitaristiche. Tutto vi è predeterminato e tutto deve svolgersi nel rispetto pių assoluto delle regole dettate dalla legge.

Ciò premesso, esaminiamo se, alla stregua delle leggi attuali, sia consentito acquisire il contenuto di una conversazione fra persone presenti - a mezzo di microspie sistemate nel locale in cui avviene l'incontro - e farne uso processuale. La risposta è assolutamente negativa, perché l'art. 15 della Costituzione così precisa: «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». Il che significa che per interferire sulle comunicazioni (epistolari, telegrafiche, telefoniche, fra presenti) e recepirle, occorre prima una legge che lo preveda in astratto (si tratta cioè, per dirla in termini tecnico-giuridici, di materia soggetta a riserva di legge) e poi un provvedimento motivato del giudice per il singolo caso in concreto.

Ora, mentre esiste una legge che consente all'autorità giudiziaria (e a essa "soltanto", ma c'è chi se ne scorda) di interferire nelle comunicazioni fra assenti, epistolari, telefoniche ecc., nessuna legge lo consente nelle comunicazioni fra presenti.

E sarebbe grave limitazione della libertà e un attacco inaccettabile alla privacy dell'individuo se un malaugurato giorno il legislatore rendesse, sia pure ai fini dell'accertamento della verità, legittimo l'uso delle microspie interferendo così nelle comunicazioni fra presenti ignari di essere acusticamente spiati. Neanche l'ordinamento penitenziario consente l'installazione di microspie nelle celle (o "camere" come vuole si dica la riforma, ma sono le stesse) in cui si trovano i detenuti e perciò non ne è lecita l'installazione neanche nel furgone cellulare.

Nel caso del detenuti, soggetti per legge a un regime di disciplina, e per sventare eventuali nuovi delitti, forse le amare esperienze di questi ultimi tempi, quando il terrorismo incombeva sull'esistenza della nostra Repubblica, potrebbero indurre a pensare che una limitazione della libertà anche nelle conversazioni fra presenti potrebbe essere giustificata.

La limitazione, comunque, non potrebbe venire che per atto del legislatore e dopo opportuna ed esauriente discussione in Parlamento. Si può, volendo, fare dei vari locali delle carceri tanti orecchi di Dionisio. Ma la scelta deve essere di politica legislativa e deve sapersi preventivamente che chi si trova ristretto in carcere può essere controllato anche nelle conversazioni dirette, così come può esserne controllata la corrispondenza per giustificate esigenze di giustizia.

Il discorso - è chiaro - induce ad allargare il raggio della discussione. In sostanza, può lo Stato - e per Stato intendo non certe "incarnazioni" del passato italiano, e non soltanto fascista, o del presente sud-americano o sovietico, ma quell'immagine "pulita e nobile" che ci viene dallo studio della nostra Costituzione - può lo Stato, dico, nell'esplicare le sue legittime lotte, come quella recente, sacrosanta, contro il terrorismo, scendere a mezzucci non proprio encomiabili e a comportamenti che sanno di fellonìa, per raggiungere i suoi scopi?

Č, insomma, consentito "per la ragion di Stato" di vecchia e triste memoria, giudicare il comportamento degli organi di potere con un metro etico diverso da come si giudica quello dei singoli? E ciò che ripugna, se commesso dal singolo, trova giustificazione se commesso dai governanti per il bene - si dice - della collettività associata? E, dunque, machiavellicamente, dobbiamo dire che il fine giustifica i mezzi? Vecchissimi interrogativi, lo so.

Risponda ognuno come meglio crede. lo mi limito a dire che credo nell'"unicità" della morale, sia per le persone fisiche che per le persone giuridiche private e pubbliche, Stato compreso. La morale è una sola, quella di un certo momento storico di una certa società ed essa è - deve essere - di una certezza assoluta, pur nella consapevolezza del suo perenne mutare attraverso il tempo.

Certi recenti indirizzi di politica legislativa sembrano poter fare scivolare il processo penale sul piano inclinato dell'arbitrio e, al limite, si potrebbe arrivare a chiudere un occhio su interrogatori "forti ed energici" (lasciate dire eufemisticamente così a chi ha fatto per un trentennio circa il magistrato) condotti dalla polizia. E questa maggiore "forza ed energia" degli interrogatori ha tante probabilità di avverarsi oggi, sia perché i nervi di ogni singolo poliziotto sono - e comprensibilmente - a fior di pelle in questa autentica guerra mossa contro la magistratura e la polizia, prima dai terroristi, poi dai gruppi mafiosi, sia perché a seguito di un decreto-legge del marzo '78, regolarmente convertito in legge, non è pių necessaria la presenza del difensore nell'interrogatorio effettuato dagli organi di polizia (è l'art. 225 bis del codice di proc.pen.). Vero è che tale tipo di interrogatorio è limitato ai casi di urgenza, dovrebbe servire solo al fine di proseguire le indagini e non va verbalizzato sì da passare agli atti del processo. Ma cos'è allora? Un fare l'occhiolino alla polizia consentendole di far pure, per poi concludere con un atto di sfiducia? Che enorme passo indietro, questa disposizione, sulla strada della "civiltà giuridica", tanto irta e difficile. Che isterismo legislativo!

L'isterismo sembra poi una delle note caratteristiche di una legge di "emergenza": il decreto-legge, cioè, del 15.12.1979 n. 625, convertito in legge tale e quale per le note vicende: ostruzionismo della pattuglietta dei radicali e resa finale dei partiti di sinistra. L'autorizzazione alla polizia a operare perquisizioni domiciliari per interi edifici o per blocchi di edifici, dove si abbia «fondato motivo di ritenere che si sia rifugiata la persona ricercata o che si trovino cose da sottoporre a sequestro o tracce che possano essere cancellate e disperse» è un'autentica sospensione delle garanzie costituzionali. E da clima di guerra!

Chi rappresenta lo Stato, quello "pulito e nobile", insisto, delineato dalla nostra magna charta, non può farsi saltare i nervi, sia che segga al vertice del potere sia che lo serva alla base. Se i terroristi avevano portato guerra a questo Stato ciò non legittimava la distruzione della democraticità di esso.

Che ostacolo, se diversamente si ragionasse, si frapporrebbe nella via del ritorno all'«infame crogiuolo della verità», come Cesare Beccaria chiamava la tortura? Preferiamo che questa sia l'emblema di stati come il Cile di Pinochet o di monarchi come Reza Pahlevi, piuttosto che sporcare, anche come semplice sospetto, il nostro ordinamento. E quel sospetto - angoscioso per chi crede, nonostante tutto, in questo nostro Stato - quel sospetto che ha un po' offuscato la brillante operazione per la liberazione del gen. Dozier, non dovrebbe sorgere mai pių.

In conclusione né le microspie né gli interrogatori troppo "convincenti" per chi non parla, e senza la presenza del difensore della persona indiziata, sono scorciatoie processuali accettabili.

Devo a questo punto confessare che a me non piacque affatto, quando venne inventata, la "dimidiazione" della pena al terrorista pentito che faccia il nome dei complici, che «aiuta», diceva testualmente quella legge, «nella raccolta di prove decisive per l'individuazione o la cattura dei concorrenti»; disposizione che è poi sfociata nell'art. 3 dell'attuale legge cosiddetta "dei pentiti" (o, pių tecnicamente, legge 29 maggio 1982, n° 304 - Misure per la difesa dell'ordinamento costituzionale).

Nulla da obiettare sull'art. 1 della legge che prevede i casi di non punibilità allargando e meglio inquadrando le ipotesi che erano già previste negli art. 308 e 309 del codice penale. Da sempre, infatti, il codice prevede casi di non punibilità per i reati di cospirazione e di banda armata, quando si receda o si determini lo scioglimento dell'associazione cospirativa o della banda. E anche l'art. 2, che prevede un'attenuante per il terrorista confesso e che si adoperi per elidere o attenuare le conseguenze del reato, rientra in fondo nelle linee generali della politica legislativa di sempre. Č l'allettamento di una riduzione della pena alla metà per chi dia indicazioni sugli altri terroristi o sui reati da questi commessi che a me pare una di quelle "scorciatoie" che certo aiutano nel processo - e come hanno aiutato certi cosiddetti "pentiti" nella vittoria che si è ormai delineata del nostro Stato sul partito armato dell'eversione! - ma che mi sembra discostarsi non tanto da precise norme costituzionali quanto da quello Stato "pulito" che è delineato da tutto l'insieme della Costituzione italiana.

Una legge, certo, quella dei "pentiti", nata da dure necessità di quel momento storico, giustificata dalla "ragion di Stato" e dunque ancora, purtroppo, lontana da quella "morale" che anche gli stati devono rispettare. E non "metto lingua" per dirla alla "peppinodefilippo" sulla recentissima legge antimafia, nata anch'essa da dura necessità storica, che presenta anch'essa qualche aspetto discutibile quanto meno sul piano della divisione dei poteri fra esecutivo e giudiziario, ma che almeno non ha alcuna disposizione di abbuoni di pena a chi "canta".

Promettere abbuoni di pena è, sotto sotto, un mercanteggiamento fra Stato e imputati e ha anche un certo sapore di incitamento alla fellonìa. Né ha, in ogni caso, grandi prospettive di dare "certezze" processuali, perché può anche capitare che alcune delazioni (o comunque le si voglia chiamare) siano dettate non da nobili propositi o da sincero pentimento ma da calcolo che spesso può associarsi a meschine ripicche o vendette personali.

Le scorciatoie nel processo, anche quelle escogitate in momenti di grande inquietudine come quelli recenti, non sempre servono allo scopo e spesso portano fuori strada.

Insomma, sbaglierò, non dico di no, sono forse troppo un fanatico della "pulizia" dello Stato, pecco certo di idealismo, ma quel dimezzare la pena mi fa l'impressione di una specie di "Orecchio di Dionisio"... un tantino ricattatorio. E ci fa bene ricordarci, di tanto in tanto, del comportamento dei tiranni, antichi e moderni. E agli uomini di governo di uno stato democratico fa pių bene ancora.

19.
La legislazione isterica

LE LEGGI dovrebbero avere un ben lungo respiro, cioè essere formulate in modo che non si senta il bisogno di mutarle a ogni pie' sospinto. Se il potere legislativo, in un certo periodo, si mette a sfornare leggi sulla stessa materia a breve, spesso brevissima scadenza, e magari in contrasto l'una con l'altra, allora non può non parlarsi di "isterismo legislativo". Č quanto è avvenuto nel nostro Paese in questi ultimi tempi. Si prenda il caso della cosiddetta "legge Valpreda", la legge che consentiva di concedere la libertà provvisoria anche a chi fosse colpito da mandato di cattura "obbligatorio" (e che perciò "doveva" restare in carcere fino a processo finito); ma pių contraddittorie ancora sono state le leggi che hanno ora allungato ora abbreviato i termini della carcerazione preventiva.

Un esempio delle leggi dell'"emergenza" e chiara manifestazione di isterismo, fu l'introduzione del "fermo di polizia", di cui vale la pena, sebbene non sia pių in vigore, fare qualche cenno. Tale "perla" introdotta nel nostro ordinamento con il decreto-legge n. 625 del 1979 aveva la caratteristica di essere un attentato alla libertà e un inganno del cittadino ignaro di leggi e di tecnica giuridica. Una lettura disattenta della disposizione o una lettura fatta da un non-giurista lo faceva ritenere un ottimo strumento per combattere la criminalità.

Occorre invece distinguere nettamente la diversa natura del "fermo processuale" che attiene alla commissione di reati e "fermo di polizia" che è provvedimento di carattere amministrativo da adoperarsi nei confronti di persone "sospette". Il lettore veloce e digiuno di sottigliezze giuridiche, ignaro di questa distinzione, poteva pensare che il fermo di polizia apprestava un valido strumento contro la criminalità comune e anche politica, perché sembra volerla colpire prima del suo stesso insorgere. Che ci può essere di meglio? Non è auspicabile che la polizia disponga non solo di strumenti tecnici validissimi e modernissimi per combattere la criminalità ma anche di efficienti strumenti legislativi?

Ma se da una lettura veloce si passa a una lettura pių approfondita e, soprattutto, se si esamina la storia dell'istituto giuridico dell'"apprensione" (parola che comprende sia l'arresto che il fermo) del cittadino da parte degli organi di polizia, allora si dovrà pervenire al riconoscimento che il nuovo "ritrovato" legislativo, mentre nulla aggiungeva per combattere efficacemente la criminalità da cui si era afflitti, creava uno strumento che non collimava con i principi di libertà sanciti dalla Costituzione e poteva poi divenire mezzo di persecuzione politica, in mano a un potere che tendesse verso soluzioni autoritarie.

Occorre partire da leggi ormai lontane nel tempo, da quelle esistenti prima del fascismo, passare poi a quelle introdotte dal regime fascista e, infine, esaminare le ultime che si sono succedute dalla Liberazione in poi, per avere un quadro chiaro.

Le leggi che regolano l'apprensione della persona sono solitamente contenute nel codice di procedura penale - il codice cioè che è l'indice del grado di civiltà politica di una nazione pių di quanto non lo siano gli altri codici, come non bisogna stancarsi di ripetere - e nella legge di pubblica sicurezza.

Prima che si instaurasse in Italia la tirannide fascista, il codice processuale in vigore era quello del 1913, che prevedeva soltanto l'arresto in flagranza (cioè attualità di commissione di un reato) per quasi tutti i reati, anche quelli di gravità limitata, purché implicassero una pena di tre mesi di detenzione. C'era poi nella legge di pubblica sicurezza che era quella del 1889, in gran parte simile a quella del 1865 - una disposizione in base alla quale si poteva accompagnare negli Uffici di polizia chi, trovandosi fuori del proprio comune, non poteva o non voleva dare "contezza" di sé (e l'arcaicità del vocabolo, trapassato pigramente in testi di legge successivi, denota l'arcaicità della disposizione propria di un'Italia agricola con piccoli centri in cui ci si conosceva pių o meno tutti). La persona per essere accompagnata negli uffici di polizia doveva destare sospetti con la propria condotta e poteva essere allontanata e rimandata al proprio comune con foglio di via.

Fu questa disposizione il "seme" del concetto di fermo di polizia quale è ora inteso e non si può dire che sia stato un seme che abbia dato buoni frutti. Difatti il regime fascista si attaccò proprio a questo seme e lo fece fruttificare assai bene per i suoi scopi repressivi. Nella "propria" legge di pubblica sicurezza - quella del 1926 che, con qualche modifica, divenne quella del 1931 in gran parte ancora in vigore - dispose non soltanto che colui che destasse sospetti con la propria condotta potesse essere portato negli uffici di polizia e munito di foglio di via, ma anche che potessero subire lo stesso trattamento «le persone pericolose per l'ordine e la sicurezza pubblica», cioè in pratica gli avversari del regime.

Il codice di procedura penale emanato in epoca fascista (1930), che è poi quello che si applica tuttora nelle aule di giustizia (s'intende, ampiamente modificato dalle numerose leggi successive e dalla penetrante opera di aggiornamento compiuta dalla Corte costituzionale), previde, oltre all'arresto in flagranza di reato - arresto che fu dichiarato obbligatorio per i reati pių gravi e facoltativo per quelli meno gravi - l'istituto del «fermo di indiziati di reato». Era la prima volta che la parola "fermo" entrava nel linguaggio del legislatore ed era anche la prima volta che, in Italia, si dava larga possibilità di arrestare in base a semplici sospetti (anzi meno ancora) all'autorità di polizia. Bastava, per esempio, l'arrivo in una città di un membro della casa regnante o di Mussolini, perché tutti gli oppositori del regime venissero portati al fresco. Inoltre l'autorità di polizia veniva quasi del tutto svincolata da ogni controllo da parte dell'autorità giudiziaria (brutto "seme" anche questo!). Questa non potè essere del tutto fascistizzata per il semplice fatto che la funzione giurisdizionale è, in se stessa, funzione sovrana. Quindi si aggirò l'ostacolo, fu quanto pių possibile esautorata e le si sottrassero i processi politici con la creazione del tribunale speciale per la difesa dello Stato.

Fra i pių urgenti ritocchi che fu necessario apportare alle leggi, subito dopo la caduta del fascismo, si incluse quello che concerneva il "fermo" e si cercò di fare un tutto unico, trasportando nel codice di procedura penale una frase tolta dalla legge di P.S. quella, cioè, concernente le persone pericolose per l'ordine sociale e la sicurezza pubblica, e questo allo scopo di estendere il controllo dell'autorità giudiziaria, che era stato reso pių incisivo, anche nei fermi eseguiti non su persone indiziate di reato ma sospette di una condotta «pericolosa per l'ordine sociale» ecc. L'introduzione dell'avverbio «particolarmente» prima dell'aggettivo «pericolosa» rendeva chiaro che non si era voluto riproporre pienamente la norma fascista. Purtroppo, in gran parte, restava la sostanza.

Entrata in vigore la Costituzione, era chiaro che questa materia veniva a essere toccata in maniera particolare. Dispone l'art. 13: «La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge. In casi "eccezionali" di necessità e urgenza, indicati "tassativamente" dalla legge, l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantott'ore all'autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantott'ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».

Soltanto nel 1955 fu possibile attuare un ritocco abbastanza ampio e coordinato del codice di procedura penale (la novella del 1955 come viene indicata con locuzione tratta dal diritto romano). Fu il primo tentativo di adeguarlo alla Costituzione, per lo meno nei punti dove il contrasto era pių stridente.

Tale riforma toccò anche la norma sul fermo degli indiziati di reato, togliendo quell'inclusione anomala del fermo di persone pericolose per l'ordine sociale e la sicurezza pubblica, che, a parte la sua diversa sedes materiae, restava sempre un tipico esempio di disposizione della legislazione fascista. Non fu, invece, modificata la legge di P.S., che, essendo la pių caratteristica delle emanazioni legislative del regime liberticida, fu il primo bersaglio della Corte costituzionale, non appena l'alto consesso cominciò a funzionare (1956). La sentenza n. 2 del 1956, infatti, abrogò quasi interamente l'art. 157 della legge in questione e rimase in vigore soltanto la prima disposizione, in base alla quale è consentito condurre davanti all'autorità di pubblica sicurezza chi fuori del proprio comune desta sospetti e non può o vuole dare informazioni sulla propria identità.

Indubbiamente questa disposizione, così come si ridusse dopo l'intervento modificatore della Corte costituzionale, finì col restare un po' monca. Comunque il legislatore, per quanto concerne le persone sospette e pericolose - per ragioni di criminalità e non certo per convincimenti politici - provvide con un'ampia legge intitolata appunto Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità. Si tratta della legge 27.12.1956 n. 1423, strumento notevole, nelle mani dell'autorità di pubblica sicurezza, per la prevenzione dei reati, e per nulla invecchiato, sorpassato e inefficace, sì da abbisognare di modifiche, aggiunte, puntelli e rinforzi.

Per quanto concerne il fermo di persone sospette con lo scopo di identificazione, cioè il fermo di polizia vero e proprio, la sua vera sedes materiae è la legge di P.S. e difatti nel 1967 fu presentato un progetto di legge di riforma di tutta la materia, che all'art. 67 prevedeva appunto il fermo di polizia. Il progetto poi decadde con lo scioglimento delle camere. Tale progetto di legge, però, introducendo per la prima volta in Italia un concetto del tutto nuovo: le obiettive circostanze di tempo e di luogo che facciano ritenere che una persona sta per commettere un delitto, presta il fianco a una critica molto ovvia: "stare per commettere un delitto" o è il concetto di "tentato-reato" , che è già in sé un reato e ha una sua precisa definizione concettuale, elaborata dalla scienza giuridica e dalla giurisprudenza dei tribunali, oppure non significa altro che una "impressione" circa le "intenzioni" di una persona: cosa quanto mai elastica e che è pericoloso affidare all'intuizione del momento. E poi? Ce lo siamo scordati che cogitationis poena nemo patitur? Che io così traduco (se non vi spiacesse): che nessuna legge civile può punire o minacciare afflizioni per le intenzioni.

Questo anomalo concetto rispuntò, come un fungo velenoso, nel progetto di legge sul fermo di polizia, composto di un articolo unico (e lunghetto) denominato Disposizioni sulla tutela preventiva della sicurezza pubblica, portato avanti dal governo di centro-destra Andreotti-Malagodi, che a parere di alcuni commentatori politici (e non di estrema sinistra) sembrava essersi proposto un programma di "restaurazione" nel senso pių retrivo della parola. Il punto pių criticabile di quell'infelice progetto governativo - che non passò per l'opposizione delle sinistre e di parte della intellighenzia giuridica del Paese - era quel comma dell'articolo con cui si dava la possibilità di fermare «le persone la cui condotta, in relazione a obiettive circostanze di luogo e di tempo, faccia fondatamente ritenere che stiano per commettere uno o pių reati punibili con pena detentiva, ovvero costituisca grave e concreta minaccia alla sicurezza pubblica».

Evidentemente, con tale disposto, il concetto di "casi eccezionali" e di "tassativa indicazione" della legge, così come prescrive la Costituzione, non era affatto rispettato. Ma soprattutto si apriva, nell'operato della polizia, il vasto campo dei sospetti, affidandolo a essa in maniera non controllata né chiaramente delimitata.

Ma l'emozione e l'angoscia (giustificatissime) scatenate dalle gesta agghiaccianti dei terroristi, l'hanno spuntata sul buonsenso giuridico. E per tale io intendo, soprattutto - e si dovrebbe da tutti intendere - il convincimento che, stando al concetto giusfilosofico kelseniano di "gerarchia delle norme", la Costituzione è alla base di tutta la costruzione normativa, la quale da essa interamente discende e in nessuna parte può contrastarvi. E leggiamocelo, ora, sempre con un occhio sul testo della Costituzione, l'articolo che ci ha regalato, fra gli altri, il governo Cossiga, l'art. 6 del provvedimento in esame:

«Quando nel corso di operazioni di sicurezza volte alla prevenzione di delitti se ne appalesi l'assoluta necessità ed urgenza, gli ufficiali e gli agenti di pubblica sicurezza possono disporre il fermo di persone nei cui confronti, per effetto del loro comportamento ed in relazione ad obiettive circostanze di tempo e di luogo, si impone la verifica della fondatezza di indizi relativi ad atti preparatori di uno dei delitti indicati all'art. 165 ter del codice di procedura penale, o previsti negli articoli 305 e 416 del codice penale».

Verifica. Indizi. Atti preparatori. Non - si badi - atti "idonei e diretti in modo non equivoco" a commettere un determinato reato, secondo la chiara definizione dell'art. 56 cod. pen., concetto su cui, per l'approfondimento che è stato operato da dottrina e giurisprudenza, non possono pių sorgere dubbi interpretativi. Tra verifica, indizi e atti preparatori siamo nel campo fumoso "delle cento pertiche", del soggettivo insomma, delle impressioni, dei sospetti.

Ma poi vogliamo ricordarcelo, sì o no, che questo "nuovo" fermo, lo si chiami di polizia o, con pių eufemismo, come fa qualcuno, "di sicurezza", non può assolutamente inquadrarsi nell'art. 13 della Costituzione? Il potere dato alla polizia di schiaffare dentro una persona sussiste in quanto anticipa e si sostituisce, per l'evidente urgenza, al potere del magistrato: il "solo" organo dello Stato cui la legge riconosca la potestà di privare gli altri della libertà. Č, insomma, un potere, come suol dirsi, "vicario". Ora al magistrato non compete alcuna funzione di pubblica sicurezza, ma solo la funzione "punitiva". Come si può allora riconoscere un potere alla polizia di privare della libertà un cittadino, una persona qualsiasi, sia pure per uno spazio di tempo limitato e sotto il controllo successivo (ma è "cartaceo", cioè formalistico: un "timbro" insomma!) della magistratura, al di fuori della sussistenza di un illecito penale, consumato o tentato?

Un potere anticipatorio della restrizione della libertà si può concepire "solo" se l'intervento della polizia sfocia immancabilmente in un processo penale. Il fermo cosiddetto "di polizia" (ora scomparso, ma da non dimenticare) invece, convalidato o meno che fosse, non sfociava in nulla.

Certo, si viveva in tempi difficili. Né mi dissimulo che non si sapeva pių, in quegli anni, a che santo votarsi per trovare armi risolutive per vincere il terrorismo. Né si deve dimenticare - è chiaro - l'intento di acquietare l'opinione pubblica. E in tutto il decreto-legge 625 del 1979 si avverte quest'aria preoccupata di calmare, quanto pių possibile, i cittadini, sia che ci si credesse poco sia che ci si credesse tanto negli strumenti legislativi adottati.

Comunque i concetti di "eccezionalità" e "indicazione tassativa" della legge, come li pretende la Costituzione, si erano persi per strada. E possiamo consentire che il legislatore, senza ricorrere alla "speciale procedura" prevista dall'art. 138 della carta delle nostre libertà, possa incidere su di essa e comunque modificarla?

I fenomeni contingenti che ispirano leggi sbagliate finiscono col passare. Ma le leggi sbagliate spesso restano e si fa una gran fatica poi a rimuoverle. Il codice di procedura penale, per esempio, emanato nel 1930 dal regime fascista, del tutto "sbagliato" rispetto alla temperie di oggi, non è ancora in piedi nelle sue grandi linee?

20.
La responsabilità del giudice

HO VOLUTO dare fin qui un'idea abbastanza ampia, anche se in vari punti alquanto sommaria, dei mali che affliggono attualmente l'amministrazione della giustizia in Italia. E, sebbene io abbia sempre ritenuto che la proposizione dei referendum per una "giustizia pių giusta" sia stato un passo "giuridicamente" sconsiderato, non ne nego tuttavia l'efficacia presso l'opinione pubblica italiana, perché i mali della giustizia sono stati in tale occasione pių attentamente presi in esame.

Siamo giunti, ora, dopo i due "sì" referendari sui problemi della commissione inquirente e della responsabilità civile dei magistrati, al redde rationem.

L'avvenuta abrogazione delle norme sottoposte a referendum, a seguito della "raggiunta maggioranza dei voti validamente espressi", come si legge nell'art. 75 comma 4 della Costituzione, viene proclamata con decreto del presidente della Repubblica che può "normalmente" ritardare di sessanta giorni l'entrata in vigore dell'abrogazione. Ma per le abrogazioni delle norme relative all'inquirente e degli articoli del cod. di proc. civile si è ritenuto necessario spostare l'entrata in vigore dell'effetto abrogativo a centoventi giorni dopo il voto. Tale effetto si verificherà, dunque, entro breve termine.

Poche parole sul problema della commissione inquirente. Ho già accennato nell'introduzione alla natura "costituzionale" della commissione in questione, in quanto il fondamento di essa si trova in una legge costituzionale, cioè quella approvata con la speciale procedura dell'art. 138 Costituzione (due approvazioni successive dei due rami del Parlamento), e precisamente la legge costituzionale 11 marzo 1953 n. 1. A questa legge costituzionale fece seguito una legge ordinaria (cioè approvata come qualsiasi altra legge) che regolava nei dettagli i poteri della commissione inquirente e l'esercizio delle sue funzioni. Questa legge è la n° 20 del 25 gennaio 1962.

Funzioni di altissima responsabilità quelle dell'inquirente, che è - sia detto per chi non lo ricordasse - l'organo parlamentare, composto da dieci senatori e dieci deputati, che mette in stato di accusa i ministri quando siano indiziati di un illecito penale commesso nell'ambito delle proprie funzioni ministeriali, e addirittura il presidente della Repubblica nel caso gravissimo di alto tradimento o attentato alla Costituzione.

L'"immagine" che ha dato di sé tale organo parlamentare non è stata - diciamo così - eccellente. Si è creata, infatti, presso l'opinione pubblica l'impressione che la commissione inquirente fosse lo strumento di una specie di giustizia "politica", in base alla quale un ministro poteva essere dichiarato innocente o rinviato a giudizio secondo che appartenesse a uno schieramento di maggioranza o di minoranza e non secondo che esistessero a suo carico elementi di colpevolezza oppure no.

Partendo da questa "immagine velata", i promotori del referendum hanno detto di avere come traguardo un'istruttoria imparziale e non "di comodo", con archiviazioni facili, patti sotto banco e "compensazioni" come: se tu salvi il "mio" io salvo il "tuo".

Si sa che il "tribunale" per i ministri è la Corte costituzionale. Ma perché un ministro, come è accaduto in Italia soltanto a Tanassi (condannato) e a Gui (assolto), compaia in stato di accusa davanti alla Corte costituzionale occorre che ci sia prima un accertamento di natura istruttoria compiuto dall'organo parlamentare in questione; il quale, in buona sostanza, non fa altro che svolgere le stesse funzioni che, per i reati ascritti ai comuni mortali, vengono svolte o dal pubblico ministero (istruttoria sommaria) o dal giudice istruttore (istruttoria formale).

Obiettivamente non può dirsi che la commissione inquirente abbia dato prove "sfolgoranti" di imparzialità giudiziaria. Famoso è rimasto il caso del ministro Trabucchi, nei cui confronti fu iniziato il cosiddetto "procedimento d'accusa" nel gennaio 1965 con l'imputazione di aver favorito alcune ditte nell'importazione di tabacco dall'America centrale, consentendo a tali ditte illeciti profitti. Alcuni mesi dopo, la commissione inquirente si pronunciò per un "non luogo a procedere", che sarebbe un'archiviazione, come la prevede l'art. 74 del cod. di proc. penale, sorte che spetta, normalmente, alle denunce destituite di fondamento. In base, però, alla procedura prevista dalla citata legge n° 20 del 1962 si richiese e ottenne che dell'imputazione al ministro Trabucchi si discutesse a camere riunite. Ma la maggioranza impose una decisione assolutoria.

Non mancarono le critiche da parte di qualche studioso di problemi di diritto costituzionale (e non soltanto da parte di uomini politici) sulle "non brillanti" prove date dalla commissione inquirente. Ed è sull'onda di quelle critiche che si giunse a una "miniriforma", che fu quella attuata con la legge 20 maggio 1978 n. 170[58].

Orbene, è questa la legge, nella sostanza "migliorativa", che è caduta sotto la mannaia del referendum. Un passo indietro, dunque? Certamente, se non si provvederà a emanare, entro il termine accordato, nuove norme sui poteri e modalità di esercizio delle proprie funzioni per la commissione inquirente. Non si può che sperare e augurare buon lavoro (ma buono davvero!) al nostro Parlamento.

Ma l'augurio di un lavoro "a regola d'arte" deve essere, a maggior ragione, fatto al Parlamento perché riesca a varare norme in sostituzione di quelle del codice di proc. civile spazzate via dal referendum.

Il primo scoglio che il legislatore nazionale dovrà sapere evitare nel dettare una norma sulla "responsabilità civile" del giudice è quello di non emanare qualcosa che contrasti con i dettami che provengono dal diritto internazionale. In occasione del VII Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e per la lotta alla criminalità (congresso svoltosi a Milano dal 26 agosto al 6 settembre 1985) fu approvata una risoluzione, a difesa dell'indipendenza della magistratura, che venne poi fatta propria dalla 40Š Sezione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite il 4 dicembre 1985, che così stabilisce:

«Sans prejudice de toute procédure disciplinaire ou de tout droit de faire appel au droit à une indemnisation de l'Etat, conformément au droit national, les juges ne peuvent faire personnellement l'object d'une action civil en raison d'abus ou d'omission dans l'exercice de leurs foncions judiciaires»[59].

E che altro diceva il condannato art. 55 del cod. di proc. civile, se non questo, che non si può promuovere contro un giudice una causa civile, se non quando il giudice abbia commesso un fatto doloso, cioè un reato?

Qualcuno potrebbe pensare che escludendo il giudice dal rispondere civilmente (cioè di tasca propria) per i danni causati da sua "colpa grave" (come invece risponde qualsiasi altro impiegato dello Stato in base all'art. 23 dello statuto degli impiegati dello Stato e cioè del D.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3) la legge facesse al giudice un trattamento di favore e non rispondente al principio dell'uguaglianza di fronte alla legge.

Non è affatto così. La legge non rende il giudice "irresponsabile". Egli, anzi, disciplinarmente, è il pių severamente esposto a provvedimenti afflittivi fra tutti gli altri dipendenti dello Stato. Vige, infatti, per il magistrato una norma pių rigorosa per la conservazione del suo ruolo: che la sua figura resti incontaminata. E se egli, anche per leggerezza, senza una precisa volontà, viene a perdere quel tanto di prestigio che nell'ambito della comunità il giudice deve avere, può e deve essere allontanato.

I magistrati, infatti, dichiarati "inamovibili" dall'art. l07 della Costituzione, sono soggetti a trasferimento anche senza il loro consenso se «non possono, nella sede che occupano, amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell'ordine giudiziario»; e ciò «per qualsiasi causa anche indipendente da loro colpa» (art. 2 della legge sulle guarantigie della magistratura, D.L.Lt. 31 maggio 1946 n.511).

Perché, allora, il magistrato, così severamente obbligato a salvaguardare il suo personale prestigio, che è il prestigio di tutto l'ordine giudiziario, viene poi esentato dalla possibilità di essere chiamato dal privato a rispondere di danni causati per "colpa grave" (come può accadere a qualsiasi altro impiegato statale)? Č per la salvaguardia dell'indipendenza dell'intera magistratura. Un'azione di risarcimento danni contro il giudice può seriamente danneggiare la giurisdizione e il valore primario dell'indipendenza della magistratura.

Si è già accennato, in una precedente pagina, alla possibilità che una parte, avendo nelle mani l'arma di promuovere una causa contro il giudice per "colpa grave" (e lasciate fare a un abile avvocato per tracciare i profilo di una colpa grave!), si può agevolmente sbarazzare di un giudice "scomodo", perché, una volta che gli sia stata mossa causa contro, il giudice o si astiene dalla causa principale (art. 51 cod. proc. civ.) o rischia di essere, con suo disdoro, ricusato (art. 52 stesso cod.). «Dal momento», è stato esattamente osservato, «che la domanda di accertamento di responsabilità per colpa non sarebbe necessariamente subordinata alla conclusione del processo, ma potrebbe trarre origine da singoli atti compiuti o da provvedimenti emessi dal giudice in corso di causa (si pensi, ad esempio, all'emanazione di misure cautelari di carattere procedurale), la parte svantaggiata potrebbe scegliere di promuovere immediatamente l'azione di responsabilità, creando così le premesse di un obbligo di astensiome»[60].

E un esempio potrebbe convincere chiunque sulla necessità che il pericoloso "buco" che si è prodotto nel nostro ordinamento va subito rimediato con una migliore disposizione di legge di quella spazzata via dal referendum, ma che in un modo o nell'altro salvaguardi l'esercizio della giurisdizione da attacchi pretestuosi e dalla paralisi!

Penso che tutti ricorderanno il caso, di qualche anno fa, del sequestro dei beni libici presso banche a tutela di crediti di ditte italiane, crediti lasciati "in sofferenza" da parte delle autorità libiche, mentre le ditte italiane in questione si trovavano in stato, quasi, di decozione. Cosa avrebbe potuto fare Gheddafi (o chi per lui) ove non fosse esistito allora l'art. 55 del cod. di proc. civ.? Avrebbe potuto, con tutta regolarità procedurale, promuovere un'azione di risarcimento danni contro i giudici (o il giudice) milanesi che avevano emesso il provvedimento, adducendo che era "colpa grave" il non aver preso in considerazione le "ragioni" per cui i crediti vantati dalle ditte italiane non venivano pagati dalle autorità libiche. E tali "ragioni" sarebbero state sostenute con fior di argomentazioni giuridico-politiche!

Il confronto, in fatto di "colpa grave", fra qualsiasi dipendente statale da un lato e il magistrato dall'altro non deve fuorviare, perché, se è vero che gli altri funzionari rispondono civilmente per danni provocati al cittadino per "colpa grave", è peraltro vero che, nell'ordinamento gerarchico dello Stato, le colpe... salgono di gradino in gradino gerarchico e si riverberano così in alto che spesso si può arrivare tranquillamente fino al capo dell'amministrazione in questione, cioè il ministro, la cui responsabilità è soltanto "politica"! In parole pių povere quale mai funzionario statale agisce in una determinata maniera se non ha uno specifico ordine di un superiore gerarchico? E, quando il dipendente statale, si è "trincerato" dietro l'ordine del superiore, nessuno potrà imputargli la "colpa grave". Perché questa sussista, occorre che il dipendente statale si sia allontanato, e notevolmente, dai doveri che discendono dalle norme giuridiche (leggi e regolamenti), dalle istruzioni ministeriali (circolari, ecc.) e dalle istruzioni impartite direttamente, e per iscritto, dal superiore gerarchico diretto.

Č ben difficile, insomma, e quasi eccezionale, che si verifichi il caso della chiamata in giudizio di un dipendente statale da parte di un privato per essere risarcito dei danni provocati da colpa grave.

Il giudice non ha, nell'esercizio delle sue funzioni, superiore gerarchico alcuno, essendo, come vuole la Costituzione, soggetto soltanto alla legge e non può, quindi, far risalire ad altri che stiano "sopra" di lui gli eventuali suoi sbagli.

La caduta dell'art. 55 sotto la mannaia del referendum e la sua mancata sostituzione con una legge "migliorativa", potrebbe produrre la paralisi assoluta della giustizia. Ma quale magistrato mai si esporrebbe, con un provvedimento, a eventuali immediate ritorsioni nei suoi confronti da parte di un privato che si presuma danneggiato dal provvedimento?

Si potrebbe obiettare che i magistrati dovrebbero premunirsi di una robusta polizza assicurativa che li tuteli nell'eventualità di una causa promossa nei loro confronti per atti del loro ufficio. Ma il rischio della paralisi resterebbe.

E non si potrebbe ipotizzare anche la possibilità di una ricusazione avanzata da una parte nei confronti di quel giudice che non fosse sufficientemente coperto da polizza assicurativa o da beni personali? E non potrebbe così sortirne, se il Parlamento non rimedia in tempo (e bene!) una sorta di pasticcio (c'è offesa se lo chiamo "pasticcio all'italiana"?) che farebbe passare il nostro Paese alla storia come il pių insensato davanti al gravissimo problema giuridico dell'indipendenza della magistratura? Altro che "culla del diritto"!

Il giudice, esposto alla minaccia di una causa promossa contro di lui per "risarcimento di danni" potrebbe essere facilmente sottoposto a pressioni, o addirittura ricattato, da un privato "potente", da un politico senza scrupoli, da un "potere occulto" (di cui non è che non abbiamo avuto, e forse abbiamo ancora, qualche esempio in Italia).

L'indipendenza del giudice dal potere politico e da qualsiasi ingerenza di poteri occulti - ce la siamo scordata la P2 e il... sopravvivere di certe facce di bronzo piduiste? - è un bene assoluto, fra i principali della civile convivenza.

Il problema come contemperare il diritto del cittadino a non subire danni da avventate decisioni giudiziarie (si pensi, per esempio, a un tizio che abbia sofferto una lunga carcerazione preventiva, vedendo a volte compromesso il proprio lavoro e magari distrutta la propria reputazione, e che venisse poi assolto) con il principio di altissima civiltà giuridica che è l'indipendenza del giudice non è certo fra i pių facili da risolvere. E non si può, davvero, sperare altro che il Parlamento operi sollecitamente e bene. Smentendo in pieno il vecchio adagio che "presto e bene raro avviene"!

E si cominci, dapprima, con l'esame della ratio legis che sosteneva il disposto affossato dal referendum. Perché, si chiedeva la dottrina nel commentare tale articolo, si era limitata la responsabilità civile del giudice "soltanto" in casi in cui questi avesse infranto la legge penale? Perché, rispondeva il Satta, uno dei pių grandi giuristi che ha avuto il nostro Paese, perché proprio con l'azione delittuosa il giudice scompare e riappare la persona fisica soggetta alle norme del diritto comune.

Il giudice, insomma, anche quando sbaglia, è os legum, o bouche de la loi, cioè, attraverso la sua bocca parla lo Stato nell'esercizio della sua pių alta funzione, quella dell'amministrare giustizia, che un tempo era dei sacerdoti e dei re. Non è, dunque, lui a sbagliare, ma lo Stato.

Il primo e pių grosso problema che va sollecitamente affrontato dai nostri parlamentari è l'individuazione dei casi (meglio se chiaramente o, addirittura, tassativamente specificati) di colpa grave nell'attività del giudice.

Innanzi tutto occorrerà specificare che non potrà mai ravvisarsi colpa di nessun genere nell'opera interpretativa delle leggi e nella ricostruzione e valutazione del fatto, cui poi vanno applicate le norme di legge. Ritenere, insomma, che un fatto sia, per esempio, concussione e non una mera... proposta da parte di un pubblico ufficiale non può mai dar luogo a responsabilità del giudice. Diversamente affidiamo il lavoro del giudice a un computer e diventeremo sempre pių dei... robot noi stessi! E quanto alla ricostruzione e valutazione del fatto si potrà mai trovare responsabilità nell'eventualità che alcuni giudici di primo grado credano a certi "pentiti" (o pressappoco) e altri giudici d'appello non prestano a essi fede per nulla? Se non vogliamo travolgere il principio di altissima civiltà giuridica del "libero convincimento del giudice", se non vogliamo precipitare nel caos di un'amministrazione della giustizia arruffata e pressappochista, sono queste le "basi" da cui bisogna muoversi per delineare la "colpa grave" del giudice.

Il criterio potrebbe essere quello di circoscrivere la colpa grave ai provvedimenti "abnormi": per esempio non ottemperare a una disposizione di legge vigente per mera negligenza (non interrogare un detenuto nel termine fissato dalla legge) o prendere una decisione che esorbita del tutto dai poteri e dai limiti della funzione giurisdizionale.

Il problema della responsabilità del giudice è stato largamente studiato in passato dalla dottrina[61]. Oggi, che è diventato di pubblico dominio a seguito del referendum, non potrà essere risolto con soluzioni affrettate.

Due indicazioni, fra le tante che si potrebbero fare, mi permetto di inserire qui a conclusione di questo mio lavoro sui "mali della giustizia", che non saranno certo rimediati sostituendo una diversa normativa al "condannato" art. 55 del codice di proc. civile. In primissimo luogo occorre che il Consiglio superiore della magistratura faccia sentire di pių il peso della sua "sezione disciplinare" e che le sue decisioni non si limitino soltanto al comportamento privato del giudice (come prevalentemente è avvenuto finora) ma si estenda, se del caso, anche al "merito" delle decisioni del giudice. Si ricordi, per esempio, il saggio intervento del Csm nei confronti di quel pretore che con suo "provvedimento d'urgenza" aveva stabilito il numero chiuso per la facoltà di medicina e chirurgia.

Nei casi abnormi, come questo, il Csm deve intervenire al pių presto, senza alcuna sollecitazione dei privati o della stampa, ma su impulso degli organi a ciò deputati: ministro di grazia e giustizia e procuratore generale della Cassazione.

La responsabilità civile del giudice non può che essere una conseguenza di quella disciplinare, ma è impensabile che un privato possa far causa al giudice. Semmai potrà costituirsi parte civile se il giudice è sottoposto a giudizio penale (e questo era possibile anche prima del referendum). Né mi sembra giuridicamente esatto che una causa contro lo Stato per responsabilità del giudice possa "far stato" (essere cioè decisione vincolante) nel giudizio disciplinare.

Il principio, comunque, che il danno arrecato al privato da una decisione giudiziaria errata deve essere indennizzato direttamente dallo Stato (e l'indicazione sta nell'art. 24 ult. comma della Costituzione) non può essere buttato a mare.

 
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