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Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Luigi Grande: L'incoerenza (cap. 01 - 03)
Luigi Grande: L'incoerenza
Copertina Introduzione _I_ _II_ _III_ _IV_ _V_ _VI_ _VII_ _VIII_ _IX_ _X_ _XI_ _XII_ _XIII_

I

Permettete che mi presenti? Rodolfo Izzo. Da Lecce. Ma sono cresciuto a Milano. Già, il solito "complesso di inferiorità" del meridionale che vuole atteggiarsi a settentrionalizzato. Se penso agli sberleffi dei miei compagni di scuola, quando a sedici anni venni a frequentare l'istituto commerciale a Milano, a causa del mio accento leccese…

Che è rimasto, non c'è niente da fare. Imposto, a volte, il mio parlare con piglio e tonalità milanese. Specie nelle frasi interrogative non è difficile. Ma non è questione di accento, si tratta di fonetica. O di fonazione, se più vi piace (che, fra l'altro, è più esatto). Resta sempre, nei suoni che mi escono di bocca, quell'asprezza leccese, quella venatura meridionale, quel non so che di cadenza mediterranea che caratterizza la parlata della città che è e resta "mia". Perciò consonanti irragionevolmente rafforzate e quell'indifferenziazione fra i suoni "nt" e "nd" che fa suonare sovente "quanto" come "quando" e viceversa e altre peculiarità di pronuncia che tradiscono la mia vera origine. E ho un bell'appiccicare la cantatina milanese alle frasi interrogative. Non ci concludo nulla. E allora mi arrabbio con me stesso - ma ho ben più gravi motivi di questo per essere in litigio con me - e mi dico "ma parla come madre natura, o l'ambiente in cui hai emesso i primi suoni, t'ha fatto le corde vocali."

Eppure, sapete, a rigore, non sono neanche leccese. Sono nato a Secugnago, il paese di mia madre. Più lombardo di così? L'anno di nascita chiarisce tutto: 1944. Mio padre - lui sì veramente di Lecce - faceva il soldato in provincia di Milano, non ricordo più se a Lodi, Codogno o Casalpusterlengo.

Fatto il calcolo fra la mia data di nascita e quella di matrimonio dei miei genitori, mi risultò chiaro che dovette essere "un matrimonio di gran fretta". E anche una sorta di fortuna per mio padre, che non finì impacchettato dai tedeschi, come tutti i soldati del suo reparto, e spedito in carro piombato in un campo di concentramento per "traditori italiani". Scusate, non so come la pensiate voi, ma il voltafaccia di quella mezza-calzetta del re e di Badoglio voi come lo chiamate?

Insomma i miei genitori si sposarono alla fine di agosto 1943. Così l'8 settembre mio padre era in licenza matrimoniale e si intanò nella cascina dove lavorava mio nonno. Il resto - come mio padre se la cavò fino alla Liberazione (cosiddetta) - non sto a raccontarvelo, perché se no finirei col raccontarvi la storia sua e non la mia.

Potreste dirmi: ma chi mi ha pregato di raccontarvela? Giusto, è una libertà che mi prendo io... e, stavo per scrivere "prento", come pronuncio dentro di me. Mi son messo in testa di fare il narratore. Vogliate scusarmene. Ero bravo nei temi fin dalle elementari (c'è chi crede che sia questa l'"investitura" alla carriera, se così vogliamo chiamarla, di scrittore). La mia maestra, nella sua presuntuosa ignoranza di cose linguistiche, aveva un odio viscerale per il dialetto. E io ero il ragazzo che padroneggiava meglio degli altri la lingua nazionale. Era ovvio d'altra parte. Mio padre e mia madre usavano fra loro l'italiano, anche se mia madre finì col capire benissimo il dialetto leccese e io stesso mi rivolgevo spesso a lei in dialetto. Ma lei preferiva che parlassi in lingua e mi fece imparare qualche espressione dialettale lombarda. Continuarono anche dopo le elementari i risultati positivi nei compiti in classe di italiano e a qualche mio professore, non so se della media o dei primi anni dell'istituto, deve essere scappata di bocca una frase come "particolare disposizione allo scrivere" o "stoffa del futuro giornalista" che non è stata senza conseguenze dentro di me.

Mi "sospettai" scrittore una diecina d'anni fa, sui vent'anni, e mi sarebbe piaciuto coltivare questa vocazione, ma non mi ci son potuto dedicare mai con impegno e quelle poche e brevi cose che ho scritto non sono riuscito mai a pubblicarle. Vocazione, dunque, la narrativa per me? O tentazione? Non lo so né me ne importa. Mi è venuta voglia di parlare degli anni della mia giovinezza travagliata o ormai, direi, conclusa. E lo farò.

A chi, d'altronde, fa di professione come me il giornalista è una tentazione, quella del narrare, che può venire. Dalla matrice del giornalismo, si sa, provengono le leve più fitte di coloro che si cimentano con la narrativa. Di cui tutti annunciano, con accenti apocalittici, la morte, ma con la quale - statene certi - dovremo fare i conti per anni e anni ancora. Il narratore per immagini ha, sì, tutto per sé il futuro, ma il rapporto di muto colloquio fra pagina scritta e lettore non perderà mai il suo fascino.

Sono giornalista, dunque. Regolarmente iscritto all'albo. Cronista, per l'esattezza, di un giornale romano. Un giornale che vi dice subito la mia fede politica, "Il secolo d'Italia". Ma di questo dopo, se permettete. Voglio venire subito ai fatti.

E da dove posso cominciare per narrarvi la mia storia, cari amici - ché tali m'apparite, se siete arrivati a voltare pagina, e meritate perciò, comunque voi la pensiate in fatto di politica, che io vi chiami così - da dove per rievocare i miei errori, le mie incertezze, le mie crisi? Questo quaderno, così, tutto bianco ancora, mi fa persino paura. Eppure so che lo riempirò. Ne sento il bisogno.

Lascio Roma: mi son dovuto licenziare. Ho trovato lavoro in un giornale di Milano. Un giornale non politico "Il Sole-24 ore". Ho bisogno, per un po' di tempo, di non pensare più alla politica, di infischiarmene. O, forse, di portare un po' di ordine nella confusione che mi si è creata in testa.

Vorrei, quasi, non portarmi dietro me stesso rientrando a Milano, per iniziare una vita rinnovata. Forse è un tentativo di liberarmi dai miei ricordi la stesura di questa specie di confessione che ho intrapreso. Ma le mille cose di cui vorrei parlare mi si affollano, carosellando, in testa e non so come sceverarle per dipanare l'intricata matassa. Ma sì, cominciamo ab ovo.

Se ne sentono mille, s'intende, storie come la mia, la storia di un matrimonio fallito. Che interesse può avere? direte. Ma la mia s'intreccia con quella della mia collocazione politica, di cui non so se riuscirei, anche volendo, a spiegare bene le origini, perché anch'essa, come il matrimonio, è scaturita da tanti e tanti fattori, fra cui la libera determinazione non so quanto posto occupi. Matrimonio sbagliato e collocazione politica sono venuti, com'era naturale, in frizione quando, postosi il problema del referendum abrogativo del divorzio, la mia parte si trovò schierata per il sì. E io ero con una causa di separazione ancora in corso, in attesa di potermi assestare legalmente con la mia nuova famiglia e "bisognoso" quindi del divorzio. Mentre, per coerenza ideologica verso il mio partito, ero chiamato a dire "sì, toglietelo pure di mezzo il divorzio."

Non so quale sia stato il dramma interiore dei "cattolici del no"; forse il loro avrà avuto una dimensione più generale, un respiro magari universale, se è vero - come credo sia vero - che per molti di essi votare "no" significava imprimere ancora una svolta, dopo quella, in parte ormai rientrata, del Vaticano Secondo, all'ansia, al bisogno della Chiesa di svincolarsi dalle beghe politiche e di stemporalizzarsi (se mi consentite di usare questo neologismo brutto ma sintetico e quindi comodo). Ma non credo che di assai minore entità sia stato il dramma dei "camerati del no" (e se fate bene i conti, ce ne sono stati parecchi e vi basti pensare solo ai dati della città "nera" d'Italia: Catania), che non potevano, o per situazioni personali o per esperienze familiari o per precise convinzioni, condividere la posizione, tutto sommato fatta per tatticismo politico, del partito.

Tattica del resto sbagliata, come poi s'è visto e come io continuavo a "predicare" nel nostro ambiente (creando i primi dissapori e buttando il seme delle prime diffidenze verso di me).

E, comunque, il mio dramma è il "mio". Allo stesso modo come - l'ho sentito dire tante volte a un mio antico compagno di scuola, Antonio, rimastomi amico e da qualche anno entrato in magistratura - allo stesso modo come, per chi è implicato in un episodio giudiziario, "quel" processo è "il" processo. E il giudice, aggiungevi, non deve scordarselo.

Anche a te, vedi, dirigo queste mie righe. E vorrei proprio che tu, almeno tu, le leggessi. È necessario, sai, che tu mi legga. Mi pare che s'è creata fra noi una certa aria di incomprensione, quando ci siamo visti l'ultima volta a Milano. Tu, sostituto procuratore, con istruttorie in mano contro uomini della mia parte e io, con tuo grande disappunto, nelle file cosiddette neofasciste (locuzione, però, che io rifiuto, almeno per me). E lo strano fu, poi, che, caduto il discorso sull'imminente referendum, ero io a sostenere la tesi divorzista, mentre tu - che ti dichiari di fede "democratica" e ti atteggi a progressista (ma un magistrato può essere progressista?) - esitavi e dicevi che, sì, in fondo, la legge del divorzio era bene che restasse, soprattutto per allineare l'Italia agli altri paesi (una questione, precisavi, per non creare discrepanze nel diritto internazionale privato), ma che, tutto sommato, l'ideale del matrimonio indissolubile…

E io a cercare di persuaderti. A dirti che tu, proprio tu, uomo di legge, avevi il dovere di riflettere sulle norme che regolavano il matrimonio da noi prima della Baslini-Fortuna. A precisarti che, anni or sono, avevo meditato di lasciare l'Italia proprio per sciogliermi dal vincolo che soffocava la mia vita e poter dire agli italiani: non volete il divorzio? affari vostri, mettetelo, toglietelo, io me ne vado e non me ne impiccio più, sbrogliatevela voi. Ci pensavo seriamente, sai? Ho parenti di mia madre in Australia, e son certo che mi avrebbero aiutato a sistemarmi. Ma tu pensaci, ti dicevo. E pensa proprio a questo, che, per chi riesce ad andarsene, il problema non esiste più, perché altrove, prima o poi, il divorzio si ottiene. E ci riuscirà sempre, e con grande velocità, chi ha molto denaro. Se ti sembra, tutto questo, aggiungevo un tantino polemico, applicazione del principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, vedi un po' tu. Sapevo di toccarti così nel tuo "punto debole", il punto dolente dell'anima di ogni magistrato che crede nel suo mestiere: il conflitto fra giustizia e legalità.

"Lo so bene, " ti avevo sentito dire una volta non so a che proposito, ma certo, comunque, sulla non rispondenza di certe leggi, specie vecchie, al senso attuale della giustizia, "lo so bene, il giudice non è legislatore. Ma ha le leggi, ogni giorno, in mano. E se esse sono vecchie o inefficienti o ingiuste, egli deve averne coscienza, avvertirlo e fare in modo che altri lo avverta, perché il congegno che porta alla loro modificazione si metta in moto. Penso che ogni giudice debba rendere testimonianza alle leggi, con la sua fedeltà innanzi tutto, ma anche, quando occorre, con la sua critica, fatta da uomo onesto".

Non so se sono riuscito a persuaderti. Ti lasciai perplesso. Ma credo che anche tu, come me, avrai votato "no". La magistratura italiana (si vedeva chiaramente) era compatta per il mantenimento della legge sul divorzio. Era in fondo una questione di "gelosia di mestiere". Perché far regolare le questioni di scioglimento del matrimonio ai giudici con tonaca di prete e non ai giudici dello Stato che portano pantaloni e hanno moglie e figli? Disquisiscano pure i giudici rotali (che, da preti, a rigore, non dovrebbero avere pratica di sesso) dei vari tipi di coitus e delle varie forme di impotentia vel coeundi vel generandi e ci parlino nelle loro sentenze con abbondanza di particolari degli acta per se idonea ad generandum, ma lascino che i drammi delle famiglie li risolvano coloro che sono inseriti nelle famiglie e nella società statale. Il matrimonio appartiene alla gelosa giurisdizione dello Stato dalla Rivoluzione francese in poi.

Ma divago. Ab ovo ho detto che voglio cominciare la mia storia. Sì, forse, se non voglio perdermi in chiacchiere, è bene attaccare subito da quel viaggio da Genova a Milano di tanti anni fa.

Ero andato a trovare mio cugino Davide che lavorava presso un'importante industria siderurgica. Un tecnico altamente specializzato. E dirigente sindacale per giunta. Speravo che egli riuscisse a mettermi al lavoro in fabbrica. O mi trovasse una qualche sistemazione altrove.

Da qualche mese era morto, ancora in giovane età, mio padre. Neanche tre anni era riuscito a mettere insieme della sua "nuova vita" milanese, da quando aveva afferrato… al volo un posto di operaio in un'industria chimica, riportando nella sua terra mia madre, che per quindici anni si era sentita in esilio, sradicando me dalla mia, e togliendo se stesso da una situazione, nell'ambito della sua famiglia di origine, divenuta intollerabile.

Precipitammo, mia madre e io, dopo la sua improvvisa scomparsa, nella più nera disperazione. Mi restavano ancora pochi mesi di scuola per diventare ragioniere. Decisi di lasciare gli studi e trovarmi assolutamente un lavoro. Avrei completato il corso alle scuole serali. Mia madre, che si era trovato intanto un lavoro come donna di servizio, non consentì che io lasciassi la scuola. Ma raggiunto il traguardo del diploma, mi pareva un impegno d'onore lavorare.

Facevo tanto assegnamento su Davide. Di qualche anno più vecchio di me, era stato la prima persona a cui, appena giunto a Milano, mi ero attaccato. Fratelli più che cugini.

Suo padre, che era fratello di mia madre, lavorava come contadino, capo-uomo per l'esattezza, in una azienda agricola di Secugnago. Perciò Davide, nell'ultimo anno del suo corso scolastico, aveva abitato da noi, da poco arrivati a Milano, nella nostra povera casetta al terzo piano - un abbaìno quasi - in Ripa Alzaia del Naviglio grande.

Ero certo, andandolo a trovare, che egli non mi avrebbe lesinato il suo aiuto. Ma le sue promesse erano state vaghe: egli aveva poche conoscenze, poca influenza; avrei potuto trovare più facilmente un lavoro a Milano; e poi… con la crisi di Cuba...

La crisi di Cuba. Ne sentii parlare per tutto il viaggio di ritorno, il pericolo di una guerra di proporzioni planetarie, i missili sovietici, la ferma posizione di Kennedy. E chi diceva che terza guerra mondiale, fatta dapprima a base di "confetti" atomici distribuiti a manciate qua e là e poi da una logorante lotta fra i superstiti, era ormai inevitabile. E chi diceva che questa, davvero, sarebbe stata, a differenza della seconda, una "guerra-lampo", un lampo che avrebbe inghiottito il mondo. E chi, invece, insisteva nel dire che un conto è il lampo e un conto la tempesta. E tempesta è la guerra, non lampo.

"È uno schifo!" aveva esclamato un tale che sedeva in un angolo dello scompartimento e raramente interveniva nella conversazione. Aveva tutta l'aria di un professore in pensione. "Ma mi facciano il piacere. Le bombe atomiche! La prospettiva soltanto di un conflitto nucleare avrebbe dovuto far scomparire dal mondo l'idea stessa della guerra. Se nell'umanità ci fosse un residuo di saggezza. Ma non c'è. A paragone i carri armati e i bombardamenti sulle città della seconda guerra mondiale hanno la nobiltà di armi di "cavalieri antiqui"!"

Aveva detto proprio così il "professore": antiqui. E a me era venuta voglia di ridere, ma il discorso era, invece, serio. Quelle discussioni su una possibile guerra non mi facevano né caldo né freddo. Mi sembravano fastidiose, come se non mi riguardassero.

Guardavo fuori dal finestrino. Nel cielo batuffoli di nuvole sparsi qua e là raccoglievano gli ultimi raggi del sole. C'era tanta pace.

Oppure, di sfuggita, di tanto in tanto, mentre gli altri nello scompartimento s'accaloravano nella discussione guardavo una ragazza che stava seduta, timida timida (o così pareva), di fronte a me.

Da dove viene? Dove è diretta? Come si chiama? Mi sarebbe piaciuto saperlo. Ogni essere umano che si incontra è un mondo sconosciuto. Quello fu, certo, il primo mondo a cui avrei voluto accostarmi.

Cosa pensava? Pareva ora annoiata, ora malinconica. Ma noia e malinconia non ne alteravano i bei lineamenti.

I viaggiatori che occupavano lo scompartimento erano scesi via via, chi a Serravalle, chi a Tortona, chi a Voghera, l'ultimo, il "professore", a Pavia. Eravamo rimasti solo io e quella ragazza ancora sconosciuta.

C'era in me un'impazienza, un nervosismo che non riuscivo più a dominare. La sosta in stazione mi parve estremamente lunga. E forse lo fu davvero. Si aspettava una coincidenza.

Altra gente era salita e io seguivo, senza riuscire a capire il perché, il rumore dei passi. Poi, messosi il treno in moto, lo scalpiccìo nel corridoio era andato cessando, ognuno aveva trovato da sistemarsi.

Capii che se volevo "vincere il mistero" della sconosciuta dovevo cominciare a parlare subito, che tra Pavia e Milano non mi restava, ormai, che pochissimo tempo.

Con che pretesto cominciai a parlare? Non me lo ricordo più. Probabilmente con la storia del finestrino che mi dichiarai disposto a chiudere o aprire, non saprei, secondo che a lei facesse più comodo. Ma mi piacque poi, per molto tempo, immaginare che la conversazione fosse scaturita spontanea dai nostri sguardi, che gli occhi avessero fatto un lungo e chiaro discorso e le labbra si fossero mosse inconsapevolmente.

Seppi poi che quello era stato il primo viaggio da sola di Silvia, che tornava a casa dopo aver trascorso un periodo di vacanza a Sestri Levante con la nonna.

Di quante cose, che poi mi turbinarono nel cervello farraginosamente, avevo parlato con Silvia. Di letteratura e di cinema, di sport e di scuola. Certi momenti, la mia timidezza aveva fatto arenare la conversazione. E un silenzio, che mi faceva quasi paura, era dilagato ogni volta nello scompartimento. In quegli attimi, forse pesanti per entrambi, perché certo in entrambi era vivo il desiderio di parlare, di conoscerci, di fare amicizia, il mio sguardo correva fuori, quasi per afferrare, fermare un pensiero qualsiasi.

Ma era come se la mia capacità di formulare pensieri e di esprimerli... sobbalzasse ritmicamente col vagone, girasse oziosamente intorno e si disperdesse nella campagna circostante.


II
(torna all'indice)

Ma credo che son partito col piede sbagliato. Mi son messo subito a parlare del mio incontro con Silvia, credendo così di entrare in medias res e dimenticando che altre cose sono ugualmente (e forse più) importanti nella mia vita.

Per capire su quale terreno cadeva il germe di quell'incontro forse sarebbe stato meglio parlare del me di prima, del me ragazzo, del me adolescente. Allora, scusate, facciamo un passo indietro. Mi sbrigo presto, non abbiate paura.

E poi come potrei omettere di dire quanto felice ero stato a Lecce fino a quindici anni e quanto infelice mi sentii a Milano?

La mia Lecce. Chi me la toglierà mai dal cuore? Ogni città italiana, si sa, ha una sua fisionomia particolare e distinta da ogni altra e dire perciò che Lecce non è uscita da una catena di montaggio, come le parti moderne delle città attuali, è dire meno che niente. Ogni centro storico di tutti, indistintamente tutti, gli agglomerati urbani italiani ha un suo tono, un suo sapore. Così la mia città.

Lecce, decisamente barocca in quasi l'interezza dei suoi edifici, è profondamente diversa da altre città dove il barocco predomina, Catania per esempio, o Noto, Acireale e così via. Il barocco leccese - sempre ugualmente folle - è di una follia allegra, ridanciana.

È una torta Lecce, una torta decorata con riccioli di crema. È tutta una panna montata che sfuma in ghirigori. Una pasta di mandorle tutta arabeschi. Un pasticciotto dolcissimo del Sud.

Il suo è un barocco zuccheroso. Che stufa, forse, il forestiero come un dolce troppo dolce, ma che rende allegro, sereno, ottimista chi ci vive dentro.

Nella tenera pietra bianca, che la natura metteva lì a disposizione e di cui si servirono i costruttori degli inizi del sec. XVII, quando la Lecce attuale venne formandosi, fu facile "ricamare" secondo il barocco esige, ma in misura tale come sarebbe stato impossibile con altro materiale costruttivo.

Quel duttile elemento e l'esuberanza meridionale fecero esplodere, straripare il barocco come in altri posti mai. Il gusto della linea curva, il piacere dell'ornato, la mania del ricciolo, del controricciolo, del ghirigoro, a Lecce divennero incontenibili onde spumeggianti... schiuma del mare spazzato dal vento.

Non avete visto ancora Lecce? E che ci state a leggere, allora, queste righe? Buttate via questo libro e prendetevi un aereo (se ci fosse) o un treno per Lecce.

E quando siete lì, ascoltatemi, prendetela da dove volete Lecce. Portatevi, se credete, subito in piazza Duomo - una strana piazza chiusa come la corte di un castello, con fondali da teatro, ché tali appaiono i palazzi che la circondano, l'episcopio, il seminario, fondali per recitarvi un'opera di Mozart o un risuscitato melodramma del Metastasio - oppure cominciate dal castello - fortezza costruita per difendere Lecce dai turchi quando questi tenevano Otranto - o dal centro, piazza S. Oronzo, dove tutto è mescolato, dagli avanzi di un anfiteatro romano a un loggiato cinquecentesco, il Sedile, fatto costruire da un sindaco (pensate un po') veneziano e perciò vi fa spicco il Leone di San Marco, dagli edifici moderni alla colonna dove è sistemato il santo protettore, colonna romana perché si tratta di una delle due colonne che a Brindisi segnavano la fine della via Appia. Da qualunque parte comincerete la visita, il barocco leccese vi assalirà. Ma non potrete che andare a finire nel clou di tale stile, la facciata di Santa Croce.

No, non starò a dire che è bella. Se il barocco è tutto carico, se quello leccese è stracarico, quello di Santa Croce è strabocchevole.

È la festa del santo patrono di un paese del Sud, è tutta fuochi di artificio, canti, strilli, piedigrotta, canta tu che canto io, orgia, baccanale, paganesimo, banda cittadina, chiasso, risate...

Sì, non colpisce il senso estetico del visitatore, non suggestiona come le grandi cattedrali romaniche, o gotiche, non fa pensare come le costruzioni dei grandi artisti, non stupisce e sconcerta come il barocco a livello d'arte, ma diverte, mette allegria. È uno spasso, insomma, e fa soltanto dire: ma come si può concepire una cosa tanto pazza?

Vi ci ho portato per mano. Ecco, in quest'angolo di Lecce aprii gli occhi alla conoscenza. Forse fu questo il primo "bello" che ammirai. Da un lato della facciata sta attaccato l'antico monastero dei Celestini - ora sede della prefettura, che non è da meno degli altri edifici in ghirigori ornamentali - e dall'altro lato si apre un vicolo. E nel vicolo si forma uno slargo, quasi una piazzetta (un budello diciamo) e lì apriva le fauci l'osteria di mio nonno. E che vino ci si beveva, e ci si beve credo! E il vino di Lecce non scherza...fa scherzare, semmai.

L'osteria col bancone zincato e sei belle botti, antichissime (forse fatte costruire dal mio bisnonno), bene allineate, dalle quali il vino viene spillato direttamente per i clienti. E due enormi tavoli e gli sgabelli attorno. Un'osteria, gente, come ormai ne son rimaste poche in Italia. Non so, però, se mio zio l'ha voluta "rimodernare" e guastare perciò. Ci son capitato sette-otto anni fa e non mi parve più quella dove ero vissuto dai due ai quindici anni.

Sì, vissuto in osteria. Perché in osteria stavamo, tutti, bambini e grandi. E spesso io mi ci facevo anche i compiti. E d'altra parte i componenti della famiglia dovevano darsi il turno per servire la clientela.

Ma, un momento, procediamo con ordine. Due soli figli aveva mio nonno: mio padre che era il più giovane e mio zio Oronzo - ogni due o tre famiglie leccesi c'è, almeno, un Oronzo - che, sebbene più vecchio, si sposò tre o quattro anni dopo di mio padre. Di questi figli egli avrebbe voluto fare due grossi commercianti di vino, persuaso com'era - non so se a torto o a ragione - che era destino di tutte le famiglie (ordinate, s'intende) migliorare di generazione in generazione le proprie condizioni economiche. Se, perciò, - egli veniva ragionando - suo padre era riuscito a metter su, dopo una vita di economie, un'osteria, se lui a sua volta l'aveva ingrandita e corredata di altre attrezzature e soprattutto era riuscito a comperare un vigneto, il cui prodotto forniva il vino consumato all'osteria per almeno una parte dell'anno, che altro dovevano fare i suoi figli se non divenire due grossisti di vino? E, perciò, due veri signori.

Mio nonno non aveva voluto che mancasse ai propri figli quel tantino di necessaria istruzione adatta a uomini di commercio. Ma né Oronzo né mio padre avevano fatto grandi passi nella "via della sapienza". Erano inciampati dopo due o tre corsi postelementari e non se n'era parlato più. Né si erano avviati gran che bene nel mestiere dei traffici. L'unica cosa che erano riusciti a imparare era quella di andare a contrattare l'acquisto del vino presso i vari vignaioli.

La guerra poi aveva portato via i due ragazzi, sovvertendo i progetti di mio nonno che, a stento, in quegli anni difficili era riuscito a mandare avanti l'osteria col solo aiuto della moglie. Mio zio era tornato assai malconcio nella salute dopo molti anni di prigionia in India. Mio padre invece - ve l'ho già detto - aveva pensato bene di... buttare le premesse per farmi venire al mondo e così finita la guerra s'era presentato con moglie e figlio di quasi due anni.

Cesira, la nuora settentrionale, era piaciuta moltissimo al nonno ma era rimasta sul gozzo alla nonna che, forse un po' anche per questo - lei diceva perché ero troppo monello - aveva in uggia anche me.

Per l'uno e per l'altra, comunque, restai il primo, e perciò il più "importante" dei nipoti. Ma di una nidiata di nipoti, alla maniera delle prolifiche donne meridionali, provvide a rifornirli la seconda nuora, la moglie di zio Oronzo che, lei sì, andò a fagiolo alla nonna e rimase, invece, un tantino in antipatia al nonno.

Le ostilità furono presto aperte fra mia madre da un lato e mia nonna e zia Concetta dall'altra. Ma finché visse il nonno, che teneva sempre in pugno la situazione e si riteneva - ed era - il "padrone" di tutti, moglie, figli, nuore e nipoti, un vero pater familias nel senso (mi sia concesso questo piccolo sfoggio di erudizione) giusromanistico dell'espressione, la guerriglia contro mia madre si limitò al settore dei dispetti, cui mia madre reagiva con una chiara posizione razzistica, ostentando continuamente il disprezzo più netto per tutto il "modo d'essere" meridionale: dialetto, costumi, abitudini e soprattutto (lei diceva) la sporcizia "innata" dei terroni.

L'urto fra la settentrionale Cesira e la meridionale Concetta spesso, proprio nel terreno della pulizia e dell'ordine, si risolveva a favore della prima. "Se non ci fosse lei," gridava sovente il nonno (e appena alzava minimamente la voce tutti ammutolivano) "sia in casa che in bottega faremmo schifo, sarebbe cosa da vomitare in continuazione".

Io, sebbene bambino, avvertivo che mia madre era, a causa della protezione del nonno, in una posizione privilegiata, ma non mi rendevo conto del razzismo che essa impersonava e di cui un giorno avrei sofferto. Mi pareva che il nonno - che io adoravo sopra ogni altra persona - non facesse altro che dare il giusto riconoscimento ai meriti di mia madre. E poi mi pareva bello che il nonno dicesse dei settentrionali, in linea generale, il bene che essi certamente meritano. Ritenevo che questo fosse in lui una manifestazione di autentica italianità, sentimento che forse, più che da altri, ho imparato da lui. Insieme - è ovvio (o così mi è parso finora) - a una chiara impostazione anticomunista.

Mio nonno s'era fatto da sé. Era riuscito a crearsi una solida posizione economica e quando sentiva parlare di dividere i beni, di occupazione di terreni e "amenità" del genere, andava in bestia. "Chi vuole star meglio, impari a sgobbare come ho fatto io! Sarebbe bello che, dopo aver buttato sangue tutta la vita, venisse uno e mi dicesse: adesso quello che hai va diviso fra tutti in parti uguali".

Ogni tanto, nell'osteria, capitava qualcuno che si professava comunista o socialista e dichiarava che solo nella "proprietà collettiva dei mezzi di produzione" (per usare una locuzione appropriata, ma avvertendo che, naturalmente, gli avventori dell'osteria erano ben lontani da questo tecnicismo di linguaggio) sta il rimedio di tutti i mali. Ma mio nonno, sempre con tono garbato - perché un oste deve trattare bene qualsiasi tipo di cliente - lo distoglieva da questi pensieri, che egli riteneva fossero panzane da far bere ai gonzi, portandolo invece a ragionare secondo le sue vedute.

Mi piaceva sentire il nonno dare, nei suoi discorsi, prova di tanto buon senso e da lui ho ricavato la persuasione che non c'è bene più alto, in un agglomerato sociale, dell'ordine. È inutile, mi son detto, almeno fino a ieri, che veniamo blaterando di libertà di tutti i generi. La libertà "vera" l'uomo se la giocò quando decise di associarsi in tribù e di dare la caccia all'orso delle caverne e al mammuth. Per procedere su questo cammino dovette sacrificare molto della sua indipendenza, ma solo attraverso questo cammino è giunto all'era dei viaggi spaziali.

Proprio così: rinuncia alla propria libertà. Limitazioni, condizionamenti nelle proprie scelte, apparenti autodeterminazioni che sono invece precise manifestazione di obbedienza al milieu dove si vive, repressioni in tutti i campi, divenendo di volta in volta reprimenti o repressi: è questo il volto della società. Perché dobbiamo blaterare, mi son venuto persuadendo, di retoriche libertà? Dove stanno? Spiegatemelo. Perciò sto (o stavo?) al parere di mio nonno: ordine e disciplina.

Quell'ordine e quella disciplina che avevano protetto la mia infanzia e la mia adolescenza, che avevano tessuto attorno a me un bozzolo di sicurezza, da cui era scaturita la felicità dei miei primi anni (che, forse sì, ora me ne vengo con sofferenza accorgendo, mi avevano dato un mondo già "precostituito" che non bisognava affannarsi a scoprire, a criticare, a cercare di modificare, un mondo di princìpi, di certezze, di regole fisse), quell'ordine e quella disciplina, che avevo visto regolare l'andamento dell'agglomerato familiare dentro cui m'era stato dato di vivere, restano per me i soli valori su cui si può costruire una società politica.

Ma non capisco perché, anche non volendo, son cascato nell'esposizione dei miei convincimenti. Volevo, invece, parlare della serenità dei miei primi anni ai vita.

Adorato da tutti, considerato un ragazzo eccezionale, un enfant prodige addirittura per i miei successi scolastici - del resto assolutamente normali - non crebbi viziato e capriccioso come può avvenire facilmente in casi del genere (il polso fermo del nonno si avvertiva anche nell'educazione dei nipoti), crebbi sereno e perciò diffondevo, con il solo mio esistere, serenità intorno a me.

Che dovrei dire ai quegli anni? Forse la felicità è più difficile da descrivere e da spiegare dell'infelicità, che di solito ha cause precise, fatti che la determinano, stati d'animo identificabili che ne stanno alla base.

Parlare di che? dei coetanei amici? dei giorni di scuola che raramente, dato il mio impegno nello studio, mi riuscivano di peso? delle vacanze estive e dei bagni nella spiaggia di Frìgole? delle gite? delle monellerie? (Di una, però, mi ricordo in modo particolare: un giorno sei-sette ragazzi, che formavamo una vera squadra che appestava i giardini pubblici, che erano a due passi dall'osteria di mio nonno, decidemmo di rompere i nasi a tutti i busti degli "uomini illustri" che scocciano con la loro presenza - secondo il nostro concetto - coloro che vanno a prendersi un po' di fresco. Ma avevamo appena portato a termine la prima delle nostre imprese - se non ricordo male il naso che ci andò di mezzo fu quello di un certo Palmieri, un "patriota", un nobile liberaleggiante, e voltagabbana, perciò, della metà circa del secolo scorso, cui è dedicata anche una strada a Lecce - quando ci piombò addosso un vigile urbano. Ce la squagliammo e i più svelti ci intanammo nell'osteria. Ma uno non tanto svelto a scappare e che era stato, forse, il meno colpevole di tutti, perché non era munito di martello e si era limitato ad assistere al nostro vandalismo, restò nelle mani del vigile e passò i guai suoi.)

Niente. Niente di tutto questo. Quando ho detto che fui un bambino e un ragazzo felice, ho detto tutto.

Poiché tutto, unità della famiglia, coesione dei vari componenti di essa, sicurezza economica e prosperità dell'azienda, poggiava sulla guida del nonno, fu logico che alla sua morte - una morte improvvisa e immatura che doveva ripetersi, a età tanto più giovane, per mio padre: un congenito difetto cardiaco? - ogni cosa sembrasse precipitare.

Piansi tanto la morte del nonno. Più di quella di mio padre qualche anno dopo. Avvertii che tutto stava per mutare attorno a me. E bastarono, infatti, pochi mesi, perché risultasse impossibile ai miei genitori convivere nella stessa casa dove erano vissuti fino allora.

Mio padre si fece dare dallo zio Oronzo la sua parte di eredità paterna sull'azienda, restando però comproprietario della vigna, trovò - non so come, forse attraverso un'amicizia contratta ai tempi della guerra - un posto di operaio in un'industria milanese e ci unimmo anche noi al flusso migratorio che caratterizza la storia italiana di questi ultimi anni e che da un paio di decenni riempie, ogni giorno, di valige legate con lo spago e di scure facce incavate dall'ansia la "freccia del Sud" e il direttissimo Lecce-Milano.

Quel primo autunno a Milano. La prima nebbia. La solitudine a scuola. La solitudine a casa. Non posso ripensarci. Cominciavo intanto a crescere. Lasciai Lecce ancora ragazzo e non più alto di un metro e quaranta e nel giro di due o tre mesi raggiunsi a Milano quasi la statura attuale.

Un mondo era stato smontato attorno a me, come quinte di un palcoscenico rimosse improvvisamente e irragionevolmente, e in quello scenario che mi vedevo sorgere al suo posto non mi ci trovavo, lo sentivo non legare con me.

In quel primo anno scolastico frequentato a Milano mi fu di grande aiuto mio cugino Davide, il solo amico. Attenuò, certo, la mia solitudine. Ma non la eliminò.

E se solo è, sempre, un ragazzo alle soglie della pubertà, se l'improvviso insorgere dell'istinto sessuale, che si traduce contemporaneamente in un bisogno fisico dell'"altra" persona e nello stesso tempo in uno spasimo di comprensione, di corrispondenza di anime, precipita sempre il ragazzo in uno stato di segreta tortura che non è molto lontano, talora, dalla disperazione, ancor più grande fu lo stato di infelicità per me che non avevo più gli amici di prima e non ero riuscito a trovarmene.

Certo, da una parte mio cugino mi aiutò a sentirmi meno solo, almeno nei primi tempi. Ma dall'altra egli cominciò a far sorgere i miei primi dubbi, incrinò le mie certezze, fece ulteriormente precipitare il mondo della mia fanciullezza. I miei genitori, prendendo la decisione di trasferirsi a Milano, avevano distrutto il mio mondo "esterno". Davide provvide a distruggere quello "interno". Egli, s'intende, non lo fece coscientemente. Ma io vedevo in lui il modello secondo cui atteggiarmi nella vita e le sue idee, i suoi convincimenti trapassavano dritti in me.

Ero venuto su nell'ambito della vita parrocchiale e non c'era in me certezza più certa del corredo delle dottrine cattoliche. Ed ecco che Davide faceva improvvisamente, in vari punti del cristallo di tali mie certezze, scattare una quasi inavvertibile crepa. E le crepe poi si delinearono chiaramente e mandarono in frantumi il cristallo. Nel campo religioso il seme del dubbio, infatti, fruttificò abbondantemente e le certezze ne rimasero offuscate per sempre.

Non così nel campo dei convincimenti politici. Anche in questo settore Davide attaccò le certezze che mi provenivano da mio nonno - il rifiuto della demagogia, la credenza nella necessità della conservazione dell'ordine sociale - cercando di convertirmi alle sue idee socialiste (come? mi diceva, apparteniamo a famiglie proletarie noi! Lo sai? Sì o no? E tu ti schieri a destra?), ma c'era qualcosa che mi immunizzava contro i suoi vaneggiamenti internazionalistici e marxistici ed era il comportamento razzistico dei settentrionali verso di me che ero e avevo deciso - dopo i miei inutili tentativi di farmi intus et in cute lombardo - di "restare" meridionale. Mi dicevo che solo un regime politico che puntasse - come quello amaramente finito nel 1945 per avversa sorte - sull'unità degli italiani e sul sentimento nazionale avrebbe potuto por fine alle assurde divisioni fra nord e sud e risolvere una volta per sempre la "questione meridionale".


III
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O la "questione meridionale", nata da dislivelli economici, solo in forze economiche, sapientemente (e non dilettantescamente come oggi) messe in moto, può trovare la sua soluzione?

Non so. Da un po' di tempo ho un gran guazzabuglio in testa. E mi pento di essermi lasciato trascinare dalla foga dello scrivere su questioni politiche, generali e un po' astratte.

È meglio piantarla qua e riprendere la narrazione vera dal punto in cui l'avevo lasciata, dal mio incontro con Silvia.

Scendemmo insieme dallo scalone della Centrale, conversando ancora e avviandoci alle fermate dei tram. Io dovevo andare in centro e poi prendere un tram da via Orefici, Silvia, invece, doveva andare a Porta Romana. Le fermate erano perciò diverse, ma io presi la valigia di Silvia e l'accompagnai alla sua fermata. Non osai chiederle - che tenerezza fa il pensare alle proprie timide perplessità giovanili e che tortura è il viverle - se ci saremmo potuti incontrare ancora.

Dopo, non mi ricordavo nemmeno di una sola delle parole che avevo detto. E invece chiare e distinte mi tornavano a mente quelle di Silvia. Ne percepii, per più giorni, persino il tono. E le diverse modulazioni della voce di lei risuonavano come una musica dentro di me e spesso mi parevano riecheggiare nella stanza.

La mia squallida casa di Ripa Alzaia del Naviglio grande. La rivedo. Il cortile umido e senza mai uno spiraglio di sole, pieno di mucchi di neve sporca d'inverno, con i bidoni della spazzatura allineati in un angolo. E le scale trasudanti umido dalle pareti. E i ballatoi - le "ringhiere" meglio - che giravano tutto intorno al cortile, quella del primo, del secondo e del terzo piano, con tutte quelle porte o buchi di un formicaio. E le tre stanze, in tutto, di cui si componeva la casa, cucina compresa.

Ma, quella sera, si illuminò di una luce speciale che la trasfigurava. Non divenne anche il sorriso della mia povera mamma, già allora così precocemente invecchiata, più luminoso e più largo?

"Come sta, dunque, Davide?" "Bene, mamma, ti manda tanti saluti." I soliti discorsi più o meno vuoti di cui riempiamo le nostre giornate: ma con il vuoto non si riempie... E che cosa poteva contare, per me e per lei, chiedere e dire come stava Davide, parlare di sua moglie, Carla, e del suo carattere difficile? Tornavo da mia madre a mani vuote, ecco tutto. Una mia sistemazione in un posto di lavoro restava ancora oltre la linea di orizzonte.

Dissi a mia madre che Davide mi aveva dato una lettera per un suo amico sindacalista, ma che ci speravo poco. "Speriamo, invece, in bene. È necessario che ti trovi una sistemazione, prima o poi. E parlo mica per me, lo sai. Io non mi lamento del mio lavoro. È per te. Ti vedo inquieto, insoddisfatto." "Sì, sì, speriamo," tagliai corto io.

Non volevo pensarci, non volevo assillarmi, quella sera rivivendo le pene dell'ultimo periodo. "Mi manda il commendator Tizio, con questa lettera." "Sa, oggi è così difficile, dove potrei metterlo?" "Mi manda l'onorevole Caio per vedere se..." "Ah, sì, sì, Caio, che cara persona. Ma per ora non c'è niente da fare. Ripassi fra qualche mese." "Il segretario del senatore Sempronio mi manda da lei. Sa, sono rimasto da poco orfano. Ho conseguito il diploma di ragioniere..."

Deputati e senatori democristiani, ai quali con gran fatica arrivavo, mi facevano consegnare ciclostilate "lettere di segnalazione".

Presi allora a odiare questo regime che guida (fingendo di non essere "regime") l'Italia da quasi trent'anni. Questo regime la cui... ispirazione cristiana è soltanto puzzo di sacrestia, che mi apparve ipocrita, scorretto e sorridente, rapace e zuccheroso, torvo e cane con i suoi sudditi - come la gerarchia cattolica nei secoli passati con i suoi - e tutto mellifluo e bonario alle apparenze.

Siete anticomunisti, gente? Allora state con noi, facciamo un regime forte e mettiamo tutti a posto, sindacalisti e anarchici. Mettiamogli, per dirla con un'espressione dialettale del sud, cara a mio padre, mettiamogli i testicoli nella cassa.

Non lo siete? E allora prendeteveli a braccetto, fate la società socialista, nazionalizzate ogni cosa e benedite il tutto con acqua santa e aspersorio.

Che odio dai precordi mi salì allora per questo sgangherato carrozzone che dovrebbe portare ancora avanti l'Italia per chissà quanto.

Ma via dalla testa tutte queste storie, mi dicevo quella sera. Via tutte le ore di anticamera, le file negli uffici, le corse da un capo all'altro della città. Il giorno dopo ci avrei ripensato, forse. Ma quella sera, no.

Mi affacciai alla finestra. La notte autunnale era limpidissima e fresca. Del cielo si vedeva solo un settore, ma abbastanza vasto. Il Naviglio era buio buio. Qualche luce della strada vi si rifletteva. Le stelle che si intravedevano dalla finestra erano, data l'aria tersa, quanto mai lucenti. Ce n'era un gruppetto di piccole, ma vividissime, tutte ammucchiate. Forse le Pleiadi. Ma io non conoscevo e non conosco il nome delle stelle: il cielo mi incuriosisce di più. Quante volte mi era capitato, da quando vivevo a Milano - mi sentivo così spesso soffocare dalla realtà, da me stesso che non capivo e, a volte, mi sembrava di odiare - di guardare il cielo stellato. E il provare un attimo di smarrimento dinanzi a quello sconfinato scintillìo è come un liberarsi da se stessi. Da ragazzo mi accadeva. Ora, ovviamente, no.

Ma quella sera il cielo era per me un brulichio di sorrisi. Il riflesso degli occhi di Silvia. Quanta altra gente, mi chiesi, guarda in questo momento le stesse stelle? Gli astronomi, certo, sono intenti a scrutarle con i loro telescopi per penetrare nei misteri dell'universo. Ma gli altri? Quelli che non si ricordano mai delle stelle, perché l'illuminazione delle città moderne ne ha fatto dimenticare l'esistenza. Deve esserci, mi dicevo, gente come me, comuni mortali, che le guarda. Chi con malinconia, chi con ansia, chi con gioia, chi con tormento.

Perdo il filo, me ne sto accorgendo! Ma lasciate - e tu, in particolare, Antonio, che spero mi leggerai, consentilo (ma, tra parentesi, toglimi una curiosità: il ragazzo che rimase nelle mani del vigile e che pagò per tutti la rottura del naso di Palmieri non fosti, per caso, tu?) - lasciate, dicevo, che io mi fermi a questo lontano ricordo. Il ricordo dei pensieri di quella sera. A volte il ricordo dei pensieri è più importante di quello dei fatti.

Fu quella la prima volta che io pensai al matrimonio. Le ragazze, a quell'età, ci pensano spesso, forse. Ma i ragazzi no. Quasi mi sorpresi io stesso di pensare con tanta lucidità ai problemi della vita in due.

Direte voi che non si capisce come si combinano il mio guardare le stelle con il pensare al matrimonio. Ma ve lo spiegherò subito.

Certo, non pensavo al matrimonio come potrei pensarci adesso, come a un fenomeno sociale, cioè, regolato da un insieme di leggi di varia natura. Mi son fatto una cultura in materia. Te ne sei accorto subito, tu, da buon giurista, Antonio, e con garbo un tantino mi hai preso in giro. Ti parve che ero diventato un maniaco degli istituti giuridici matrimoniali. Allo stesso modo come - mi raccontasti sorridendo - quel tale professore di lettere che, avendo cominciato con un ricorso gerarchico contro un provvedimento del suo preside, finì, a furia di ricorsi, col diventare uno specialista di diritto amministrativo.

Allora, ragazzo, non sapevo niente intorno alle nullità previste dal diritto canonico e a quelle previste dal diritto civile. Ignoravo che il divorzio esiste in quasi la totalità degli stati e l'indissolubilità del matrimonio continua a sussistere solo in pochissimi e arretrati paesi, fra cui, fino a pochi anni fa, il nostro (e il referendum di qualche giorno fa pareva dovesse risospingerci indietro). Non mi intendevo affatto di quella brutta copia che era la separazione personale dei coniugi, prima di diventare, come ora, un esperimento predivorziale.

Pensavo, invece, al matrimonio come a una svolta, una svolta meravigliosa che la vita mi avrebbe messo un giorno davanti. E ci pensai quella sera, per la prima volta. Guardando le stelle.

Mi piacque, infatti, immaginare che anche Davide, quella sera, guardasse le stesse stelle. Davide, questo cugino-fratello al quale mi sforzavo, ma inutilmente di rassomigliare - cercando addirittura di comprenderne le idee politiche che sentivo, però, non poter divenire mai le mie - questo "maestro" nella mia ricerca (non coronata da successo) di farmi lombardo e di "inserirmi".

La fantasia mi costruì dinanzi un brano della vita di Davide. Supponevo l'insorgere di un litigio fra lui e sua moglie che avesse peggiorato l'atmosfera un po' elettrica che regnava in casa loro. L'immaginazione ha bisogno, di solito, per sbrigliarsi, di una base concreta, un dato della realtà o un'ipotesi plausibile.

Immaginavo parole aspre correre fra loro, rimproveri e offese. E infine la decisione di Davide di rompere la convivenza, che si traduce poi in una più modesta risoluzione: uscire di casa sbattendo la porta. Raffigurandomi per la prima volta rapporti coniugali difficili, ero proprio lontano dal pensare che era la sorte che mi aspettava.

Il tonfo che fa la porta - e già, perché la fantasia si dilettava a dipingere anche i minimi particolari - chiudendosi dietro di lui, lo ferma per un attimo. Gli pare che quel tonfo deve aver ferito Carla assai più delle sue dure parole, che forse si ripercuote nell'animo di lei, come un'eco impazzita, mille volte. Ma Davide scrolla le spalle. L'amarezza, il risentimento, l'astio traboccano. Egli sente che era stato cattivo, ma prova un amaro gusto a questo pensiero. E le strade, ecco, si vanno vieppiù spopolando e le stelle (capite il filo del discorso? le stelle che guardavo io e che immaginavo guardasse anche Davide, le stelle causa di tutta quella scorribanda dell'immaginazione) sembrano più fredde e ostili. Rientrare? No, mai, sarebbe andato via. Per sempre. L'avrebbe fatta finita, maledizione! E invece, dopo aver girovagato, solo, mentre alla domanda "rientrare?" risponde ancora: "no, mai" le mani stringono istintivamente le chiavi di casa.

Quando Davide rientra, Carla è già a letto, il viso affondato nel cuscino. Di tanto in tanto un singulto la scuote. Sono gli ultimi strascichi di una crisi di pianto. E a questo punto li immaginavo abbracciati, riconciliati nell'amore.

Non cercherò di ripescare dal pozzo della memoria le altre acrobazie della mia fantasia di ragazzo. Vi farei sorridere. Ma una cosa è certa: che quella sera mi parve di scoprire il punctum dolens dei matrimoni falliti. Una delle scoperte di cose ovvie, che a ognuno di noi tocca ripetere nella vita.

Se Davide e Carla si amano così come penso io, mi dicevo, possono litigare mille volte al giorno, ma non succede niente. Già bravo, mi ribattevo. Che discorsi sono? Allora secondo te - che ero sempre io stesso - due coniugi si dilaniano a parole, poi vanno a letto insieme e con quella "faccenda" (perché da ragazzo la mia pudicizia era persino interiore) mettono a posto tutto? Non è scendere al livello delle bestie?

Ma scemo, mi rispondevo, che vuoi tu capire di una cosa che non hai ancora provato? Nella pienezza dell'atto d'amore si scorda tutto, si bruciano i dissapori, s'annullano le divergenze. Ne sono certo.

I matrimoni falliscono per mancanza d'amore, concludevo sicuro di avere attinto una "verità suprema". E non posso dire, ora, col peso di tutti questi anni passati e delle varie esperienze fatte, che questa banale constatazione sia sbagliata. Solo che si tratta di intendersi bene sul significato da dare alla parola amore.

I matrimoni falliti, il divorzio: è il mio chiodo fisso. Casco in questo discorso da qualunque parte prendo le mosse. Una rabbia, quando in occasione del referendum, il mio schieramento politico, coltivando chissà che illusioni, si pronunziò contro il divorzio. Non è il divorzio, continuavo a dire in giro fra gli amici, nel mio ambiente di lavoro, mettendomi in chiaro conflitto con coloro di cui avevo sempre condiviso le idee, non è il divorzio che può mandare a rotoli la famiglia. È la mancanza di amore. Di quello vero, di cui nel mondo c'è tanto difetto. E rifiutare il divorzio a chi è veramente - come sono stato io - infelice è, se avete voglia di pensarci bene, una grande mancanza di amore.

Ma andiamo avanti coi fatti.

Coricandomi, quella sera, e ripiegando i pantaloni, ne guardai i lembi smozzicati. Mi ricordai dello stato di povertà in cui mi trovavo. Forse non avrei più rivisto Silvia o, se l'avessi incontrata ancora, mi sarei sentito handicappato dalle mie condizioni economiche.

Naturalmente - continuai a ripetermi finche presi sonno - anche quella, come tante altre simpatie sorte e subito spente, sarebbe finita nel mondo dei sogni.

Ed ecco dalla strada si levò un canto. Un canto triste, con le note strascicate, come una nenia. Forse un ubriaco. L'ascoltai col cuore sospeso, quasi vi sentissi tutto il pianto chiuso in me, tutti i miei tormenti dalla pubertà in poi. Sentivo che l'unica sera di felicità era ormai avvelenata.

Ma dovevo, mi dissi l'indomani, dovevo ritrovare Silvia. Non mi aveva dato un appuntamento, né io avevo osato chiederglielo. Non c'era che affidarsi al caso.

Il caso, questo padrone assoluto - me ne dichiaravo convinto - delle sorti umane, questa legge suprema, in cui le cosiddette leggi scientifiche, come è ormai riconosciuto, tutte si ricomprendono.

Allo stesso modo come un individuo, chiuso in una stanza, non cade a terra asfissiato perché le molecole d'aria ivi contenute, anziché raccogliersi tutte nel lato opposto della stanza dove sta l'uomo, si dispongono uniformemente e ciò non perché le molecole abbiano l'"obbligo" di disporsi uniformemente, ma perché la distribuzione uniforme ha un numero di probabilità di innumerevoli miliardi di miliardi maggiore di quante ne abbia una concentrazione in un sol punto (badate che l'esempio non è mio, ma del fisico, premio Nobel, Max Born); così io pensavo che fra i milioni di incontri, che si possono fare in una città come Milano, sussiste sempre la possibilità di un incontro fra me e Silvia.

Essa non mi aveva dato il suo indirizzo, ma mi aveva indicato soltanto la zona dove abitava. Era troppo poco, ma già qualcosa. Non potevo più dire che la concentrazione delle molecole d'aria in un sol punto di una stanza - questa possibilità di morte per un uomo - aveva lo stesso numero di probabilità: una contro un'infinità di miliardi, quanto un mio incontro con Silvia, questa possibilità di "vita" per me.

continua...

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