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Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Luigi Grande: L'incoerenza (cap. 04 - 06)
Luigi Grande: L'incoerenza
Copertina Introduzione _I_ _II_ _III_ _IV_ _V_ _VI_ _VII_ _VIII_ _IX_ _X_ _XI_ _XII_ _XIII_

IV

L'autunno, quell'anno, maturò in pochissimi giorni. I viali di Milano si riempirono rapidamente di foglie secche. Io uscivo ogni giorno, aggirandomi senza meta, a piedi, per i vari quartieri della città.

Dicevo a mia madre, ogni mattina, che mi mettevo in moto per cercarmi un'occupazione, ma in effetti non concludevo, forse volutamente, nulla.

Le ore ruzzolavano con un ritmo lentissimo. Mi pareva di essere affogato in un'eternità senza uscita e priva di significato.

A volte mi fermavo a leggere qualche titolo dei giornali nelle edicole. Vi si parlava sovente di fine della guerra fredda e disgelo fra le due superpotenze e dei due più grandi protagonisti della scena mondiale di allora: Kennedy e Kruscev.

Ma io venivo macinando in me i miei assiomi politici e, convinto che il comunismo è la rovina del mondo, così come avevo sentito dire da mio nonno fin da quando avevo cominciato a capire, diffidavo di questi patteggiamenti opportunistici chiamati "distensione" e pensavo che solo il fascismo era il sistema adatto per estirpare il male. Sapevo che il comunismo fa leva sulle sofferenze umane, sulla miseria, sulle condizioni economiche disagiate, come era la mia, e mi sentivo vaccinato contro infezioni sinistrorse.

Non potevo, però, non accorgermi che in una società ordinata i giovani che si sono preparati, studiando e sacrificandosi, per un avvenire non possono essere lasciati in balìa a se stessi, ma devono essere, con opportuni programmi elaborati in base a precisi piani, avviati ognuno al posto più adatto per il singolo e per la collettività.

Dunque, mi rimproveravo all'affacciarsi di questo pensiero, vagheggiavo un'economia pianificata di tipo sovietico? No, mi rispondevo, io pensavo al corporativismo, quello che non aveva potuto nemmeno essere sperimentato, perché il dannato, fatale errore della guerra lo aveva impedito.

In ogni caso, come potevo apprezzare il sistema politico in cui mi ero trovato a dover vivere? Che affidamento e che speranza potevo riporre in tutto ciò che mio cugino Davide rappresentava per me?

Ma poi scrollavo le spalle, mi stringevo nel mio striminzito, e piuttosto malandato, impermeabile e continuavo, impassibile e abulico, il mio giro di Milano.

Un piovigginoso giorno di novembre m'ero portato in una zona periferica presso un'azienda che, secondo un'inserzione sul Corriere capitatami casualmente sotto gli occhi, cercava personale contabile per un lavoro di qualche mese. Mi presentai e mi fu spiegato il lavoro che dovevo fare. L'aver trovato lavoro, sia pure per poco tempo, mi rese euforico. Mi avviai verso casa, ma giunto a Porta Romana e, accortomi che avevo in tasca qualche spicciolo, decisi di aspettare un tram.

A una delle fermate c'era Silvia. La scorsi da lontano. Le molecole d'aria si erano, dunque, concentrate tutte in una sola parte della stanza e, anziché morirne asfissiato, io ne vivevo. Non mi ero detto mille volte che Silvia sarebbe stata l'ossigeno della mia vita? A volte avevo tentato di sbarazzarmi di quel ricordo. Mi dicevo che, in fondo, essa non mi piaceva, non corrispondeva al tipo di bellezza femminile che la mia mente aveva accarezzato lungo l'adolescenza. Occhi e capelli chiari, non proprio biondi. Qualche lentiggine sul volto. Di linea esile. Braccia e gambe sottili. Ma continuavo a pensarla. La sentivo, nel mio vuoto, come la salvezza.

Era lì. A pochi passi da me. Mi feci incontro a lei sorridendo e anche lei mi sorrise. Ci tenemmo la mano stretta a lungo.

"Ho desiderato tanto rivederti Silvia."

Ci incontrammo spesso da allora. Tutti i ritagli ai tempo libero che mi lasciava la mia nuova occupazione, io li dedicavo a Silvia.

Essa frequentava allora l'ultimo corso del liceo scientifico. Era figlia unica. La famiglia era di condizioni assai migliori della mia (sebbene negli ultimi tempi la situazione nostra fosse un po' migliorata, essendoci stata liquidata da mio zio Oronzo la parte del vigneto spettante a me per eredità paterna; né si corse il rischio di essere messi troppo nel sacco, perché fu necessario il controllo del tribunale, essendo io ancora minorenne, sulla base di una perizia che, ammesso pure fosse stata un po' "addomesticata" dallo zio non poteva però denominare del tutto nero il bianco).

Il padre di Silvia era direttore di una succursale del Banco Ambrosiano. Scusate, mi perdo in minuzie. Che rilevanza possono avere questi particolari? Ammesso poi che non ne abbia già scritto. Aspettate che controllo, visto che sto tirando giù a scrivere le cose a come vengono. No, non ne ho fatto ancora cenno. Be' sì, avete ragione, sono particolari inutili. Ma siamo tutti così quando parliamo di noi stessi o narriamo la nostra vita. Ci addentriamo nelle minuzie, vogliamo puntualizzare fino all'esasperazione, precisare e spiegare fino alla nausea. E tu, amico mio, che fai il giudice e ascolti quotidianamente le vicende di tante persone, non puoi ignorarlo.

Però, accennare alle idee politiche del padre di Silvia non mi pare che sia una minuzia. Forse non è nemmeno, questo, il punto giusto della narrazione per parlarne. Ma mi viene a tiro adesso, ne parlo e così non ci penso più.

Fu enorme il mio stupore quando appresi che il padre di Silvia votava da sempre socialdemocratico e si vantava del suo "socialismo moderato" (così diceva lui). A me pareva più logico che egli, come chiunque occupa posti di dirigente o è alla testa di aziende, industrie o uffici, fosse di idee liberali. Di destra, cioè, differendo da noi missini soltanto in un punto: che loro credono (o fingono di credere) in quella barzelletta che penso sia la democrazia, almeno così come è stata in concreto attuata in Italia, e noi, invece, la riteniamo una fase transitoria del nostro assetto politico, che prelude a un meno disarticolato rapporto di poteri da instaurare per mezzo di una repubblica presidenziale o con la creazione di una sola camera, espressione delle élites dirigenti, che si potrebbe chiamare delle corporazioni per esempio, o in altro modo. Ma i nomi non contano, il problema è dare infine un vero equilibrio al nostro Stato.

Parlava spesso, il signor Scalet (era di origine valdostana), con enfasi del suo socialismo moderato. E a me veniva da ridere. Ripensavo a mio cugino Davide che chiamava i socialdemocratici "socialprofilattici": evitano, cioè, che il "germe" - o, per essere più aderenti al nome, il "seme" - del socialismo prolifichi. Gliene avevo chiesto la ragione, nel periodo in cui egli mi aveva catechizzato un po' in tutti i campi (raggiungendo, però, scarsi risultati nel terreno politico che era, poi, quello che gli stava maggiormente a cuore) e cercando di capire la differenza fra il credo dei comunisti, quello dei socialisti e quello dei socialdemocratici.

È presto detto, mi aveva risposto Davide che aveva idee semplici - o fors'anche semplicistiche - e comunque amava esprimersi in termini chiari e sintetici. I comunisti vogliono instaurare, o con le buone o con le cattive, la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, terre e fabbriche, sostituendo alla società capitalistica quella socialistica. I socialisti pensano allo stesso traguardo e sperano di arrivarci, anche se a tempo di mazurca, gestendo intanto da socialisti la società capitalistica. I socialdemocratici, infine, si contentano di avere un tantino di potere nella gestione della società capitalistica per poter attuare - loro dicono - delle riforme e del traguardo si sono scordati completamente.

Ma naturalmente non dissi mai al signor Scalet la definizione che degli uomini della sua parte aveva escogitato Davide. Né per la verità ebbi, mai, in seguito, con lui veri e propri scontri a causa delle nostre diverse fedi politiche.

Gli scontri ebbero altra origine. Ma non anticipiamo i tempi e torniamo all'alba dei miei rapporti con Silvia: un'alba tanto serena per una giornata tanto tempestosa.

Neanche Silvia aveva molto tempo libero (si impegnava seriamente negli studi) e solo raramente la madre, che teneva ben salde in mano le redini della famiglia, le consentiva di trascorrere qualche ora fuori di casa, specie di sera.

Ci si dava appuntamento di solito a una fermata tranviaria nelle vicinanze di casa sua. Nei giorni di festa, quando non c'era nebbia o cattivo tempo, ci si trovava a Porta Venezia e si filava ai giardini, a quel rachitico e moribondo angolo di verde rimasto nel cuore della metropoli odiosamata. Diversamente ci ficcavamo in un cinema. Quando Silvia, per una ragione o per un'altra, mi diceva che non poteva venire a un appuntamento credevo di cadere nella disperazione.

Qualche volta le tenevo la mano fra le mie, cercavo, mentre si stava seduti al cinema, di starle quanto più vicino possibile. Una sola volta avevo osato, sempre al cinema, cingerle le spalle con un braccio. Ero di una timidezza terribile e ridicola. Eppure mi sembrava che l'incontrarsi, il guardarsi negli occhi bastasse. E bastava.

Quando il primo giorno di primavera ruppe l'uggia dell'inverno, io e Silvia ci guardammo sorridenti. Non ci sembrava nemmeno vero che fosse così velocemente trascorso l'inverno e che da circa cinque mesi noi continuavamo a vederci quasi ogni giorno, sia pure, a volte, solo per pochi minuti. E che ci eravamo detti in tutto quel tempo?

La mia più grande felicità era stata intessuta di una serie di niente. Di silenzi. Di un mazzetto di viole offerto a Silvia. Del continuo domandarle "mi vuoi bene?". Del sorriso del mondo intorno.

Ma non lo vedi? mi obietterete, non lo vedi che sei ancora innamorato di tua moglie? Che altro è questo tuo ricordare se non nostalgia?

Se voi, miei ipotetici lettori, e tu, Antonio, mio buon amico e lettore "certo", leggendo queste righe, vi convincerete che soffro di rimpianto per quel periodo della mia vita, che fu l'unico veramente felice, sarete nel vero. Ma se da questo vorrete arguire che io sono ancora innamorato di mia moglie o, peggio, che il mio matrimonio sia ancora recuperabile, allora sarete del tutto in errore.

Silvia - è proprio quello che tenterò di puntualizzare - fu nella mia vita come due donne diverse. E non ditemi per favore (con la falsa scienza dell'esperienza generale da cui nasce il luogo comune) che ogni donna è, nella vita di un uomo, due donne diverse, quella prima e quella dopo il matrimonio. E del resto ogni uomo, a sua volta, è due uomini diversi nella vita di ogni donna. No, non parlo di questo luogo comune, stupido e generalmente infondato. Parlo di un farsi, volutamente, due.

E della prima Silvia, che non esiste più, potrei anche, in linea di ipotesi, essere innamorato. Ma della seconda non vedo come potrei sentire la mancanza. E, ammesso che io ne fossi inconsciamente innamorato, son certo che l'amore sarebbe ricambiato con odio.

"Hai tolto ogni senso alla mia vita!" mi disse l'ultima volta che ci vedemmo in tribunale. Mi sibilò la frase passandomi accanto. C'era una carica di odio, che ci si rifiuta di pensare possa esser contenuta nel petto di un essere umano.

Ogni senso alla sua vita. Se questo senso essa l'aveva trovato nel rimpiangere un uomo amato, che non ero io, e perduto in una disgrazia, allora veramente sono stato colpevole di aver tolto questo senso alla sua vita. Ma se fosse dipeso da me, immediatamente glielo avrei restituito, cancellando persino il ricordo del nostro matrimonio.

Quando cominciò a parlarsi, con serietà di intenti, nelle nostre Camere, di divorzio, io ero già fra gli "irregolari del matrimonio". M'ero fatto una nuova famiglia e il pensiero che il figlio che stava per nascere sarebbe stato "figlio di ignoto" mi rendeva feroce.

Fu allora che cominciai a pensare a un trasferimento in Australia. Vi ci si erano stabiliti, e con successo, i figli di un cugino di mia madre. Presi contatto. Ma cercai di saperne qualcosa di più circa la possibilità di ottenere il divorzio in Australia. Non venni a capo di nulla.

Supposi che le leggi australiane non fossero diverse da quelle inglesi e che solo acquistando la nazionalità australiana, avrei potuto ottenere il divorzio. Ma, approfondendo la questione, appresi che due criteri regolano il divorzio nei paesi di diritto a tradizione anglosassone: o quello dell'ultima legge nazionale comune dei due coniugi (nel qual caso io non avrei mai potuto ottenere il divorzio) o quello della legge del luogo dove la domanda di divorzio è proposta. Insomma le cose non sono poi così semplici come si pensa per chi, trapiantatosi all'estero, intenda ivi ottenere il divorzio.

A parte poi - incongruenza che andava assolutamente riparata e cui provvide la recente legge - che per il coniuge rimasto in Italia il matrimonio continuava a essere indissolubile, perché era ben difficile che una sentenza di divorzio, ottenuta dall'altro coniuge all'estero, potesse essere, come si suol dire, "delibata" e resa quindi efficace nel territorio nazionale.

Un conflitto di leggi, insomma, che da solo avrebbe dovuto bastare a fare adottare il divorzio in Italia almeno vent'anni prima e avrebbe dovuto far tingere il volto di "rossore giuridico" a quelli che - non digiuni certo di diritto - misero in moto il congegno del referendum.

Ricordo che quando ci capitò, caro Antonio (mio unico lettore e unico amico leccese, il solo compagno di scuola, sia delle elementari che delle medie, con cui ho mantenuti i legami... e ora che ci penso, sì, sei stato proprio tu il ragazzo rimasto, dopo la rottura del marmoreo naso di Palmieri, in mano al vigile urbano; perciò, se non ricordo male, la tua famiglia si vide presentare un "conticino" dal Comune e fui io - non ti dispiaccia ch'io lo ricordi - che mi feci promotore di una colletta fra gli altri ragazzi veramente colpevoli), quando ci capitò, dicevo, di conversare, di discutere quasi, insieme del conflitto di leggi di stati diversi in materia di matrimonio e divorzio, notando che razza di confusione si era creata nel mio cervello, mi dicevi benevolmente, con modestia certo eccessiva, che anche per i giuristi non è facile orientarsi in quel particolare settore del diritto internazionale privato che riguarda il matrimonio. E ricordo che tu continuavi a parlare di Convenzioni dell'Aja, sottoscritte dall'Italia e sempre valide, dei cosiddetti princìpi dell'ordine pubblico, del Concordato con la Santa Sede, dell' art. 7 della Costituzione. Così la confusione nella mia testa cresceva.

Ma a un certo punto tu stesso, deciso assertore dell'indissolubilità del vincolo matrimoniale ("Quali mani possono avere il potere di scioglierlo?" chiedesti perentoriamente e io pronto: "Quelle stesse degli sposi che l'hanno annodato"), tentennando la testa, finisti col concludere che, nel vertiginoso infittirsi di rapporti fra cittadini di nazionalità diversa e nel crescente movimento migratorio, sarebbe stato assurdo per l'Italia ostinarsi a considerarsi un'"isola giuridica" in punto di divorzio. Un'isola di uno sparutissimo arcipelago che non brilla nel campo dei progressi sociali.

Quella lunga conversazione con te, Antonio, mi fece apprendere tante cose e mi fornì argomenti validissimi, quando nelle discussioni che precedettero il 12 maggio mi trovavo da solo, in mezzo ai colleghi di lavoro e a rappresentanti di partito, a sostenere la tesi a favore della conservazione del divorzio.

Probabilmente, dicevo, non c'è nulla da controbattere quando si afferma che un ordinamento giuridico tanto più si avvicina alla perfezione quanto più corrisponde alle naturali esigenze dell'uomo. E do per ammesso anche - lo do addirittura come un'affermazione ineccepibile - che è esigenza della natura umana creare un consorzio fra uomo e donna destinato a durare tutta la vita e che, per conseguenza, sia più conforme agli ideali del diritto naturale quell'ordinamento che sancisca, come quello canonico, l'indissolubilità del matrimonio.

Ma allora, continuavo non senza un tantino di enfasi, perché tutti gli ordinamenti moderni hanno considerato il divorzio una conquista? E mi volete dire, per favore, perché nella cattolica Austria una sola legge, fra quelle imposte dal nazismo, è stata conservata, la legge del divorzio?

Ma sì, sono polemiche passate. La maggioranza del popolo italiano ha ragionato come me, è inutile riparlarne. Meglio riprendere a narrare la mia storia.


V
(torna all'indice)

Un amore semplice fu, dunque, quello tra me e Silvia. Un amore limpido, senza scosse, che avrebbe potuto portarci a un matrimonio sereno, fare di me e di lei due buoni coniugi come tanti altri. Ma il diavolo ci mise dentro la coda.

So che tu, Antonio, odii la concezione fatalistica del matrimonio: il matrimonio-scatola-chiusa, il matrimonio-salto-nel-buio. E forse ha ragione chi dice che al matrimonio occorre arrivare con una adeguata preparazione spirituale (e non dico necessariamente un corso cattolico organizzato in parrocchia). Forse il matrimonio è, davvero, una conquista che va fatta, rifatta e mantenuta ogni giorno. Perciò la preoccupazione che la valvola del divorzio può far dimenticare questa verità, degradando il matrimonio a un'avventura che o la va o la spacca, non era e non è senza consistenza. Onestamente bisogna riconoscerlo.

Ma lasciatemi dire che anche la sfortuna ha giocato il suo ruolo nella mia vicenda, come certo nella vita di tanti altri infelici come me.

La strada mia e la strada di Silvia furono intersecate da altri viandanti.

Fu verso la fine dell'estate - io ero già in attesa di partire da un momento all'altro per il servizio militare - che avvenne un fatto decisivo per il destino di Silvia e, quindi, anche mio.

Destino, diciamo tutti. E lo ripeto anch'io. In questa parola, forse, non occorre ravvisare altro che il fortuito intrecciarsi delle vite di quegli esseri che il Caso ha avvicinato. E non scandalizzatevi, vi prego, se scrivo Caso con la lettera maiuscola, quasi fosse il dio cui io credo. Concedetemi che a un arbitro di tali proporzioni, che ha acceso la scintilla della vita o meglio che consentì il formarsi degli anelli del DNA, che ha manovrato tutta l'evoluzione della specie sul nostro pianeta, che tira le fila di ogni essere vivente, si conceda la lettera maiuscola. Se poi il Caso sia l'articolarsi delle decisioni di un indecifrabile Dio non tocca a me stabilire. Né, in fondo, mi interessa gran che.

Un fatto decisivo, dicevo. Ma piccolo piccolo, in apparenza. Margherita, la figlia di mio zio Ambrogio e sorella di Davide, si sposava. Io persuasi Silvia a venire con me a quella festa di nozze. Ci volle del bello e del buono per convincere la madre di Silvia, che era già a conoscenza della simpatia sorta fra me e la figlia e stava sempre sul chi vive. In quella circostanza Silvia mi consigliò di farmi conoscere da sua madre. L'accoglienza non fu per nulla calorosa.

La famiglia di Silvia, infatti, aveva già progetti diversi per lei. Anche quell'estate - per completare il discorso, scusate, devo tornare di qualche passo indietro - Silvia era andata a trascorrere parte delle vacanze con la nonna. Si trattava della nonna paterna, una distinta signora, nella quale erano ancora chiari i segni di un'antica bellezza. Essa era stata - non seppi mai perché - abbandonata ancora giovane dal marito, partito per uno Stato del Sud-America, da dove non aveva più dato notizie di sé. Si era poi unita more uxorio a un ingegnere calabrese, che per un certo tempo aveva lavorato a Milano. Con lui aveva trascorso tutta la vita e con lui trascorreva la vecchiaia a Roma.

Silvia era al centro dell'attenzione, della vita sarebbe meglio dire, non solo dei genitori ma anche della nonna e del nonno "acquisito".

Da tempo si progettava di dare a Silvia come marito un nipote dell'ingegnere, ingegnere anche lui, che aveva però una quindicina d'anni più di Silvia. La quale, si capisce, non lo digeriva.

Nell'ultimo periodo di vacanze trascorso da Silvia con la nonna, sempre a Sestri Levante, si era fatto in modo che i due "promessi" si incontrassero, anzi che stessero insieme quanto più a lungo possibile. Ma credo che Silvia restasse nella sua posizione di cortese indifferenza.

Avevo intuito, da mezze parole, tutto ciò, quello che la famiglia tramava e il suo dissenso. M'ero sentito, perciò, morire - e non fate una smorfia a questa parola, tacciandomi di esagerazione : i sentimenti bisogna misurarli col metro di allora, perché se li guardiamo con gli occhi di un decennio, o più, dopo, non riusciamo a capirli - "morire" dicevo dunque, quando, verso la seconda metà di luglio, Silvia aveva preso congedo da me per un mese. M'era parso che quella prima separazione non le desse troppo pensiero.

Fu per me, al contrario, un distacco che mi fece soffrire immensamente. Mi dannavo di non avere denaro sufficiente per permettermi un po' di vacanze anch'io vicino a Silvia. Ma una capatina di un giorno riuscii a combinarla.

Come attesi quel giorno. E quanti progetti, nella notte quasi insonne che l'aveva preceduto... la troverò certamente in spiaggia, mi avvicinerò "Ciao, Silvia, come stai?" Lei sorriderà felice. Starò qualche attimo, incantato, a guardarla mentre i suoi capelli, al sole, manderanno riflessi d'oro... Non c'era particolare di quell'incontro che io non mi prefigurassi. Mi vedevo fare il bagno con lei, invitarla a salire su un sandolino e remare felice mettendo in mostra la mia bravura. Lontano, lontano... soli, si elettrizzava la mia immaginazione. E dietro le palpebre vedevo l'azzurro abbagliante di quel panorama, il golfo del Tigullio, il promontorio di Portofino reso bluastro dalla lontananza. Una cornice di lusso per il nostro amore. Avremmo traversato col sandolino la Baia del Silenzio (il quale silenzio, però, ormai è un mito)...e aprivo quasi la bocca per chiedere a Silvia se preferiva andare ancora più al largo o dirigersi verso quegli scogli laggiù. Li vedi? quelli là. Punta Manara. E tutta docile la Silvia fabbricata: "Come preferisci, Rodolfo." Ecco un tratto di spiaggia deserto - cose che nell'immaginazione potevano ancora sussistere - un triangolo di greto, fra gli scogli, nascosto. Lo vedo, lo tocco quasi. Vi avrei tirato il sandolino, ci saremmo seduti. Baciarla! Baciarla per la prima volta, afferrare infine quest'attimo sospirato per mesi e mesi. Essa mi avrebbe serrate le braccia al collo, si sarebbe stretta a me. Con la punta delle dita avrei lievemente accarezzato le sue spalle nude... Ma possibile che ricordo ancora questi miei sospiri giovanili dopo un decennio, mentre di tante altre cose, di emozioni assai più profonde si è perduta ogni traccia? Come è chiaro e vivo ancora in me, invece, il tumulto del sangue nelle mie vene in quella struggente notte di desideri e di sogni.

E non era solo lo slancio erotico che sembrava, in quella vigilia, mettermi le ali verso la ragazza che amavo, ma anche un altro impellente bisogno: parlare a qualcuno di ciò che da un paio di mesi mi accadeva, la "tentazione" di scrivere. Mi stavo cimentando con un lungo racconto, ambientato negli anni della guerra, e lavoravo completamente, mancandomi ogni esperienza diretta, sul filo della fantasia. Naturalmente non vi nascondevo i miei convincimenti politici. L'"eroe", quindi, non era un partigiano ma chi, fino in fondo, aveva creduto, obbedito, combattuto in una specie di cupio dissolvi. Mi occorreva il parere di qualcuno per quella mia prima prova narrativa, quello di Silvia, almeno. Non è affatto vero che la soddisfazione di chi scrive si addensa soprattutto nel momento in cui si crea. Senza la prospettiva di "comunicare" nessuno mai al mondo, piccolo o grande scrittore che fosse, avrebbe messo insieme un rigo.

Non ricordo nemmeno se quel primo lavoro lo feci leggere mai a qualcuno né, addirittura, se riuscii a completarlo.

So solo che finora nessun critico letterario, nessuna giuria per lavori inediti, nessun "lettore" di casa editrice ha mai apprezzato ciò che son venuto scrivendo. Ma in fondo la mia prosa l'ho sempre sentita come un esercizio per il giornalismo.

Mi si rimprovera soprattutto la minuzia del narrare, l'amore dei particolari anche più inutili, la precisione al limite della pignoleria, talché non lascio al lettore nessun margine per intuire, collegare, integrare. Un modo di narrare ottocentesco, in una parola, e quindi del tutto sorpassato.

Ma io - e certo voi che mi avete seguito ve ne siete venuti accorgendo - penso che narrare sia soddisfare tutte le curiosità del lettore, sia sedersi al centro di un crocchio di amici e parlare, parlare non consentendo che nessuno si distragga o faccia domande o perda il fìlo, quindi esporre fatti, o pensieri agganciati ai fatti, senza svaporamenti in nebulosità, riferire dialoghi che significhino qualcosa, che si inseriscano nel tessuto narrativo e delineino i personaggi, descrivere persone, luoghi e cose, anche se non per forza con pignoleria curialesca (come faccio, a volte, io) ma in modo tale che tutto sia nitidamente preciso, illuminato da sole mediterraneo davanti agli occhi del lettore (quel sole mediterraneo che spesso manca in certa letteratura narrativa, pur grandissima, di altri paesi).

Forse sbaglio. Anzi, senz'altro sbaglio. Non ho capito niente, voi direte, delle esigenze del lettore moderno, della rivoluzione di tutte le tecniche narrative operata da Joyce, in testa, e poi, ognuno per la sua parte, da Kafka e da Musil, da Proust e da Sartre, da Bulgakov e da Soltjenitsin.

Ma son persuaso che non si possano condividere le impostazioni di coloro che narrano solo di non sapere - o di non potere, a causa dell'incomunicabilità - narrare o di chi, negando ogni valore semantico alle parole così come la grammatica e la sintassi vogliono siano strutturate e collegate fra loro, preferiscono fonemi disarticolati. "Le veglie di Finnegan", che nessuno ancora è riuscito a tradurre in italiano, poteva scriverle solo Joyce. Ma Joyce era Joyce e aveva scritto già l'"Ulisse". E francamente per me - e per molti lettori italiani - è come se non avesse scritto il suo ultimo libro.

Nei miei modestissimi limiti, se devo dire una cosa, amo dirla con chiarezza. E se c'è confusione, contrasto, sommovimento di idee in me, non lo nascondo. E cerco le parole più chiare per esprimere la mia non chiarezza interiore. È quello, infatti, che sto facendo per narrare la mia vita. Mi attengo, da buon giornalista, alla fedeltà della relazione ai lettori.

Da buon cronista, anzi, sto attaccato alle "cinque W": who? what? when? where? why? Dire tutto - di chi o di che cosa si tratta, in che tempo, in che luogo e per quali motivi il fatto è accaduto - e ogni cosa in breve spazio.

Chiedo scusa per queste chiacchiere. Non pretendo di fare, come quando ero ragazzo, il narratore. E meno che mai di esporre teorie estetiche in fatto di narrativa. Ho voluto solo giustificarmi, visto che il discorso ci è caduto sopra, del mio sistema di portare avanti questo "sfogo rievocativo della mia vita" (non ha altre pretese il libro), cercando di non trascurare nulla né fatti piccoli e superflui né fatti grandi e importanti. Diranno i lettori se qualcosa serviva e qualche altra no, distingueranno essi stessi le cose ultronee e quelle, invece, che non potevano essere dimenticate. E mi concederanno, spero, in ogni caso, venia.

Quanto a quel primo esperimento di narrativa cui altri ne seguirono, tutti, in fondo, a vederli oggi, non riusciti o forse puramente "propedeutici" rispetto a questo lavoro, in cui, senza preoccupazioni di invenzione, senza schemi narrativi preconcetti, senza cercare di accostarmi all'una o all'altra tecnica dei maggiori narratori attuali, altro non sto facendo che "buttare tutto me stesso" in queste pagine - non ebbi nemmeno occasione di parlarne a Silvia.

E del resto le cose, nella realtà di quel giorno tanto atteso, andarono ben diversamente da come le avevo sognate. Dovetti penare per trovare Silvia nella spiaggia, fra file interminabili di sedie a sdraio e di ombrelloni. L'intera mattinata andò via così. Trovai finalmente Silvia insieme alla nonna e al "pretendente". Presentazione, scambio di poche chiacchiere, fingendo un incontro casuale. Consumammo insieme una bibita al bar. Neanche il bagno fece Silvia, preferì restare al sole. Poi con i suoi andò a fare colazione e per il pomeriggio non si profilò alcuna speranza di rivederci, perché avevano già progettato una gita in vaporetto, né mi si precisò per dove.

Deluso, tornandomene a Milano, cercavo di confortarmi ripensando al lampo di gioia - o era sorpresa? era comunque troppo poco - che avevo colto negli occhi di Silvia.

Ma chiudiamo la lunga digressione e torniamo al matrimonio della figlia di zio Ambrogio.

Riuscii, dunque, a ottenere il permesso di condurre Silvia a Secugnago al pranzo di nozze.

Nella cascina - tenuto conto che lo zio era il capo dei contadini - si fece gran festa. La tavola, lunghissima, perché c'era un intero paese invitato, fu imbandita sull'aia. Canti, fisarmoniche, balli e "ciucchi" a ogni angolo.

Silvia, in tutta quell'allegria campagnola, sembrava un po' spaesata. Poi Davide cominciò a farla ridere e ballò a lungo con lei.

Una corrente, una corrente sotterranea e prepotente, di simpatia si stabilì quel giorno fra Silvia e Davide. Io lo avvertii immediatamente, anche se in modo oscuro. Ma mi distoglievo da questo pensiero, da questa sensazione confusa. Una morbosa manifestazione, mi dicevo, di un'irrazionale gelosia. Ma per lunghe ore, la sera, ripensandoci, non riuscii a prender sonno.

E, certo, anche Davide, proprio fin da quella prima sera, doveva avere avuto precisa coscienza di quello che era nato in lui. Forse, con gli occhi aperti nel buio e le braccia incrociate sotto la testa ripensava agli avvenimenti di quella giornata, vedeva Silvia davanti, la sentiva ancora fra le sue braccia come nella danza.

E Silvia? Istituiva, senza volerlo, confronti fra me e Davide? Se rivedeva quella bella figura di giovane, alto, atletico, bruno, pieno di maschio vigore, l'immagine mia - del povero Rodolfo, esile, pallido e timido - ne rimaneva offuscata, cancellata.

Né io né Silvia stessa, per parecchio tempo, ci rendemmo conto che fra noi tutto era finito. Il suo trasporto per Davide nacque senza che lei stessa riuscisse mai ad ammetterlo come una realtà, prima ancora, forse, che il suo sentimento, la sua simpatia per me raggiungesse la pienezza dell'amore.

Spesso, negli anni, nei tanti anni, che sono venuti dopo, mi son chiesto se Silvia mi abbia veramente amato, allora quando eravamo ragazzi, dopo quando fummo marito e moglie. E il mio per Silvia fu veramente amore? E, messo a confronto con l'altro sentimento che doveva dominare la mia vita, merita ancora il nome di amore?

Se mi sforzo di capire il me stesso di allora, il ragazzo che ero, se cerco di riafferrarne i sentimenti, mi pare di provare un senso di smarrimento. Non riesco più a veder chiaro. Ma forse non sbaglio pensando che, allora, dovette essere amore. Era un sentimento timido e impacciato, etereo e pieno di idealistiche esaltazioni, senza dubbio. Suppongo, anzi, che io non sapessi raffigurarmi la mia unione con Silvia se non come un tenersi per mano, per andare incontro alla vita (e come questi teneri luoghi comuni possono riempire il cuore di un giovane!). Ma c'era - ed è il ricordo preciso della prima lontananza che me lo conferma - la pienezza del trasporto fisico. Certamente dentro la estrema "spiritualità" del mio sentimento già sentivo avvampare il desiderio. Ma Silvia, pur nei momenti in cui la brama di lei me la costruiva vicina, restava per me, secondo quell'ingenua e forse un po' ridicola definizione trovata allora, l'angioletta aureolata di sogno.

Frasi e parole, sì senz'altro, ridicole, a ripensarle da tanta distanza di tempo e dopo tutto quello che è successo.

L'"angioletta", divenuta mia moglie, mi diede una volta un morso in un braccio da staccarmi quasi un pezzo di carne. Ma lasciamo andare.

E del resto di questo episodio si parla nella sentenza del tribunale, quella che dava la colpa a tutt'e due. Poi in appello, morso o non morso, la colpa fu tutta mia. Ma lasciamo andare anche questo.

Così la chiamavo, comunque, con un amico di cui mi sia consentito tacere il nome e che fu quello che mi inserì nelle fìle di quel movimento che con disprezzo qualcuno chiamava neo-fascismo e che io ho sempre considerato e chiamato "di riscossa nazionale" (ma una profonda crisi, in questi giorni in cui sto scrivendo, mi dilania il cervello).

L'amico aveva subito cominciato a prendermi in giro con questa storia dell'"angioletta". E tutte le volte che mi incontrava, ci tornava su, abbinando questa storia a quell'altra delle stelle. E questo perché io una volta avevo avuto l'ingenuità di dirgli che, quando la tristezza più cupa mi pesava addosso, riuscivo guardando il miracolo del cielo stellato a scrollarmela un po'.

Ma per lui un ragazzo moderno se ne doveva impipare delle stelle. Che se ne fa? Le stelle ci sono nelle canzoni e nei presepi e buona notte al secchio.


VI
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 Non so se mi convenga, per riuscire a parlare con assoluta chiarezza di me stesso, dire qualche parola in più di questo mio amico. Lo potrei chiamare XY o indicarlo - come ha fatto per i personaggi di un suo libro uno scrittore a cui son disposto a fare tanto di cappello - con una formula matematica. Ma gli do un nome fittizio. Quasi un nome di battaglia. Del resto egli usava fra gli amici (o i camerati, se così preferite) nomi di battaglia che cambiava sovente. Lo chiamerà "Marco", Marco fra virgolette.

Di lui a te, Antonio, dirò che il suo nome sta scritto su una copertina di uno dei fascicoli processuali che girano nel tuo ufficio e che è attualmente... ospite di San Vittore, coinvolto mani e piedi in quelle indagini processuali chiamate "trame nere".

Non dirò nulla di lui, né l'età, né la città di provenienza (era, quando lo conobbi, anche lui un immigrato a Milano), né l'attività economica che svolgeva, né per che e per come si trova implicato in quella grossa faccenda che è definita ormai da tutti - dagli stessi iscritti e simpatizzanti del M.S.I. - "eversione nera", che ci ha veramente sconvolti - me e tutti gli altri che, come me, credono nella necessità di una svolta a destra, ma senza nefandezze - e che ci tiene in uno stato di grave disagio. O siamo degli ingenui?

Non importa, qui, del resto, parlare di lui, mi importa dire ciò che egli ha rappresentato nella mia esistenza.

Era ancora vivo mio padre e frequentavo l'ultimo corso dell'istituto commerciale quando, per ripicca contro le botte che mi ero preso dai miei compagni di scuola in occasione di uno sciopero a cui non volevo partecipare, accortomi, poco tempo dopo, che si stava costituendo un gruppo di contro-manifestanti per non so quale agitazione o dimostrazione, mi inserii in tale gruppo. Era guidato da "Marco": così lo conobbi. Ci munirono di fionde e di catene di biciclette. Usai quella che capitò a me con la furia con cui un antico guerriero faceva roteare uno spadone sulle teste dei saraceni. Avevo da vendicarmi delle botte e delle umiliazioni che, per razzismo antimeridionalistico, avevo subito dal miei compagni. Pensavo a quel tal giovane meridionale, di cui non ricordavo bene se avevo sentito parlare da mio padre o letto in cronaca su un giornale, che venuto a Milano per cercare dei parenti, era stato trovato sfinito di stanchezza e di fame non avendo osato interpellare nessuno per informarsi, non volendo svelare, attraverso il suo accento, la sua "negritudine" di meridionale.

A voi, dicevo esaltandomi fra me e me, a voi studenti, che figli di papà capitalisti vi atteggiate a filoproletari, che parlate di fratellanza universale e ostentate la vostra pura "razza" milanese di fronte ai terroni, a voi che disprezzando i meridionali violate il sentimento di italianità e ora fate scioperi e dimostrazioni a servizio del nuovo zar che siede al Cremlino, botte da orbo in testa. E con quella catena di bicicletta continuavo a menare staffilate e a rotearla sopra di me.

M'accorsi a un certo punto di aver colpito in pieno viso un ragazzo. Lo vidi coprirsi gli occhi con le mani e spillò sangue fra le dita. Atterrito, angosciato, me la diedi a gambe.

Seppi poi che un ragazzo era stato in ospedale, per una grave lesione a un occhio. Stetti molto tempo in ansia per lui. Ero certo che si trattava dello studente che avevo colpito in piena faccia. Giurai da allora che mai più avrei partecipato a quelle mischie che definii schifose.

"Marco", però, mi aveva notato. Aveva apprezzato la mia furia, la mia risolutezza nel "combattere". Egli usava, sempre, questo verbo. Venne a cercarmi a scuola, mi portò alla sezione del M.S.I. dove operava lui e cominciò a discorrere del più e del meno, ma soprattutto di politica, con me.

Accertò dapprima il mio risoluto anticomunismo. Se ne congratulò, anzi, dicendomi che su questa base, e solo su questa, si poteva procedere alla formazione di un nuovo "camerata".

Egli adoperava chiaramente questa e altre parole del vocabolario fascista. Io, invece, avrei preferito che di questo frasario non si facesse più uso, perché il fascismo, secondo me, era stata una sperimentazione fallita - e ciò che la storia condanna con il fallimento o con la sconfitta è vano volerlo riesumare - e occorreva trovare "qualcosa" di nuovo che al fascismo, sì, (alle cose che allora almeno mi apparivano le "migliori" di esso: il patriottismo, il senso di disciplina da inculcare in tutte le categorie sociali, la autorità degli organismi statali, la potenza e onnipresenza della polizia) si ispirasse, ma che fosse tagliato secondo la misura dei nuovi tempi, delle nuove esigenze e, soprattutto, secondo i bisogni ideologici delle nuove generazioni.

Dissi, perciò, a "Marco" con molta schiettezza che a me l'ideale della rinascita, sic et sempliciter, del fascismo non mi andava assolutamente a fagiolo. Che io pensavo, piuttosto, a dei "correttivi" del tipo di Stato esistente già in Italia, a una democrazia di tipo gollista (De Gaulle, allora, nel nostro ambiente, era... di gran moda), a una repubblica presidenziale, alla gerarchizzazione dei sindacati inquadrati nella struttura piramidale corporativa. E tutto questo da raggiungere gradualmente, con la lotta politica in parlamento e, quando occorreva, nelle piazze.

"Allora," disse "Marco" "avrai da fare sempre i conti con la diccì che, ogni tanto, lo vedi tu stesso, il recente esempio della caduta di Tambroni docet, ha dei ripensamenti e, dopo averci schiacciato l'occhiolino, si sente presa da soprassalti resistenziali e antifascisti e ci manda al diavolo."

"Non hanno importanza," replicai "nella realizzazione dello Stato a cui penso io, i momenti tattici e le alleanze contingenti. È l'ampia portata del disegno che conta. Occorre guardare all'esercito e penetrarlo, con le nostre vedute, nei suoi quadri. Occorre far leva sulla burocrazia, specie quella alta, perché capisca che, volgendo le sue simpatie verso di noi, riguadagnerà il perduto prestigio. Occorre lavorare seriamente, con scritti, opuscoli, giornali, nell'ambito della magistratura - terreno sempre un po' difficile, perché è l'intellighentsia dell'impiego pubblico - dove si avverte qualche sintomo di sbandamento a sinistra, perché al momento giusto non ci siano defezioni, che sarebbero pericolose, in questo importante apparato statale. Occorre far capire a tutti i corpi di polizia e ai singoli gregari che solo in chi ha i nostri ideali di ordine e disciplina sociale essi possono trovare appoggio, potenziamento, autorevolezza. Occorre inserirsi bene nella classe imprenditoriale e fare entrare chiaramente in testa agli operatori economici che siamo solo noi la garanzia del loro successo e della prosperità economica generale. Non possiamo fare salti nel vuoto. La politica, come la natura secondo Leibniz, non facit saltus. Seminiamo nella macchina statale e nell'ambito delle forze economiche, facciamole ideologicamente nostre, fascistizziamole se così più ti piace dire, e allora l'instaurazione di uno Stato forte, di tipo gollista o, che so io, anche peronista ( perché qualche concessione alla classe operaia bisognerà pur farla), sarà operazione quanto mai facile."

Non giurerei, certo, che parlai proprio così a "Marco" - forse allora, nemmeno ventenne, non avevo così chiaramente delineate nei dettagli le mie idee politiche, ma la sostanza c'era - né che quello riportato sopra fu un discorso di una sola "seduta". Probabilmente lo facemmo in più volte. Ci incontrammo spesso, infatti, sia negli ultimi mesi del mio corso scolastico sia successivamente.

"Marco" mi disse che, a esser sincero, lui aveva sperato di aver fatto con me un "arruolamento" per nuclei "operativi" e che, invece, ora veniva scoprendo un ideologo. "E ne sono contento, bada, perché abbiamo bisogno degli ideologi. Mi piace, per esempio, questo tuo teorizzare un nuovo Stato che sorge da questo che c'è, senza scossoni rivoluzionari ma per naturale evoluzione."

"Vedi," precisai "in fondo anche Mussolini che fece? tolse forse di mezzo lo statuto albertino? abolì la monarchia? No, corresse il primo, condizionò l'altra al suo potere. Così dovrebbe avvenire per l'instaurazione dello Stato a cui penso io. In un periodo, per esempio, in cui una lunga crisi di governo travaglia la vita pubblica, come quella di quest'estate, basta un gesto "forte", per cominciare, del presidente della repubblica. Se esercito, polizia, magistratura, burocrazia e, soprattutto, confindustria sono per la "correzione" delle istituzioni, queste muteranno con gran facilità e..."

"Mi pare," m'interruppe "Marco" "che sei un ideologo in gamba... ma troppo idealista."

"No, lasciami dire. Guarda, io conosco bene la costituzione dell'attuale nostra sgangherata repubblica. A scuola ho studiato un po' di diritto, ma io in questo settore ho voluto approfondire un po' la mia cultura. Credi, davvero, che attraverso gli articoli stessi della costituzione non si riuscirebbe a creare uno Stato forte, autoritario, avente il pieno controllo delle forze sociali? Si dovrebbe cominciare dall'articolo 40, quello che dice "Il diritto di sciopero si esercita nell'ambito delle leggi che lo regolano". Dove sono queste leggi? Subito, facciamole: divieto di sciopero agli statali e agli addetti ai servizi pubblici, decisione dello sciopero rimesso agli organi rappresentativi dei lavoratori, previo un tentativo di arbitrato affidato per legge a un organo statale. E sistemato l'articolo 40, pensare subito al precedente, il 39, per mezzo del quale, dando regolamentazione ai sindacati, si possono creare organismi unitari nazionali coordinati in gruppi per settore economico, insieme alle associazioni imprenditoriali: le corporazioni insomma. Il resto verrebbe da sé: una legge elettorale maggioritaria, un uso più frequente da parte dell'esecutivo dei decreti-legge e deleghe, deleghe al Governo da parte del Parlamento per legiferare ampiamente. S'intende che uno Stato così dovrebbe anche garantire gli essenziali diritti ai lavoratori. La sicurezza sociale dovrebbe essere uno dei pilastri del nuovo regime. Ma niente indisciplina: ogni lavoratore al suo posto e basta coi mestatori e gli sfruttatori dei malcontenti"

"Marco" seguiva i miei discorsi affascinato. Ma sorrideva e tentennava la testa. "Non lo so se queste tue teorie coincidono col programma del partito, del resto neanche le mie sono assolutamente coincidenti con quelle dei nostri capi. Trovo molto interessante questo tipo di regime che dovrebbe germogliare dal demomarciume di adesso. Ma dove tu pecchi assolutamente di ingenuità idealistica è nel concepire il modo di realizzarlo. Del resto la tua giovane età e la tua inesperienza ti giustificano. Un regime forte, amico mio, lo si può instaurare solo con la forza."

"Un colpo di Stato? E dove trovarne le premesse?"

"Le premesse, appunto. Dobbiamo fare in modo che la gente, la gente comune che vuole lavorare in pace, il bottegaio, il camionista, l'avvocato o che so io, si stufino del disordine, degli scioperi, del casino che fanno gli studenti, dello strapotere dei sindacalisti..."

Mi distrassi per un attimo e pensai a mio cugino Davide, il quale, chiaramente, una volta, mi aveva esposto le sue teorie sul sindacato e sulla necessità che esso acquistasse sempre più forza e peso nella vita politica. "Qualcosa, aveva precisato, come il gabinetto-ombra inglese, la vera opposizione a un governo che è espressione della classe padronale." È vero, pensai, facendo stufare la gente, sarà questa stessa democrazia che si scaverà la fossa.

"Ma non dobbiamo rifuggire," diceva intanto "Marco", "dallo scontro fisico. Nelle agitazioni operaie e nelle manifestazioni studentesche intervenire sempre. Dapprima sparpagliati per suscitare tafferugli o fomentarli. Poi a fianco delle forze dell'ordine. Farci vedere, con ostentazione, a fianco della polizia. Unire il nostro al manganello dei poliziotti. Quando saremo abbastanza organizzati, abbastanza forti, vedrai che il mantenimento dell'ordine pubblico passerà in mani nostre. I governi deboli che continueranno a susseguirsi con questo centro-sinistra, che tutti vogliono e nessuno sa con precisione cosa effettivamente sia perché tutti lo interpretano a modo loro, si dimostreranno sempre più incapaci di mantenere l'ordine pubblico. È qui il nostro spazio."

Ma forse io ricordo male. Queste teorie così precise per giungere al potere "Marco" non me le espose allora, una diecina di anni fa, quando ci conoscemmo, ma in seguito.

Per alcuni mesi, anzi, non lo rividi più. Io ero assillato di ben altro: cercavo un'occupazione dopo quella di un paio di mesi trovata nel corso dell'inverno. Non mi importava più nemmeno delle idee politiche che avevo nutrito, non mi perdevo in vagheggiamenti di un diverso tipo di Stato. Né frequentavo più la sezione del partito.

Fu verso l'inizio del nuovo inverno che incontrai "Marco". In quell'occasione parlammo a lungo e forse molte delle cose che ho riferito ce le dicemmo allora.

"Ehilà!" mi apostrofò "Marco" da lontano. "A che punto è la contemplazione delle stelle e l'estasi con l'angioletta?". Gli piaceva, sempre, sottolineare la mia inclinazione alle cose astratte e romantiche.

Sorrisi e gli annunciai che presto sarei partito per il servizio militare. "Già, non ti fa comodo per via dell'angioletta. Ma guarda che è una cosa importante per noi il servizio militare. E impara bene l'uso degli esplosivi."

"Perché?"

"Niente, niente, può servire."

Io non avevo particolari impegni, perciò rimasi con lui tutto il pomeriggio e finimmo coll'andare a cena insieme.

Non so se faccio confusione, ma credo che fu proprio allora che "Marco" mi parlò della tecnica del colpo di Stato: due, tre reparti dell'esercito, qualche carro armato nel centro della capitale e delle principali città, un gruppo di carabinieri in azione e il fermo notturno di tutti gli esponenti della sinistra.

Ricordai queste "teorie" quando si fece tanto discutere su ciò che nell'estate 1964 e nel dicembre 1970 poteva essere, per dirla alla guidogozzano, e non era stato.

Altri "discorsi" - mezzi discorsi piuttosto - ho colto poi nelle conversazioni con "Marco" che mi si sono chiariti in seguito... che cosa significava per esempio "fare in modo che gli anarchici e gli ultrasinistri compissero gesti nefandi, da suscitare l'abominio di tutti"? come "fare in modo"? E la precisazione fatta una volta che in politica non è necessario che un avversario "abbia fatto" ma basta che "sembri aver fatto"? E il ricordo dell'incendio del Reichstag? E perché, una volta, aveva parlato della bomba al cinema Diana di Milano che di poco aveva preceduto la marcia su Roma?

Negli anni che seguirono scoprii sempre più in "Marco" un machiavellismo cinico che non sospettavo in lui e che lo allontanava sempre più da me. Ma forse sto precorrendo i tempi di questa narrazione ed è meglio tornare alla vigilia della mia partenza per il servizio militare.

L'addio con Silvia, il giorno prima della partenza, fu convenzionale, freddo. E perciò amaro.

Passeggiammo un po' per il centro. Era un giorno di festa e c'era tanto sole, pur essendo pieno inverno, sul sagrato del Duomo (e chi non l'ha visto in una di queste rare, inimmaginabili, eppur vere, giornate invernali non può avere idea di che cosa sia questa stupenda piazza).

La testa ciondolone, triste, accanto a Silvia, parlavo di cose futili. E ogni tanto le chiedevo "Mi dimenticherai?"

E giravamo, intanto, per quella parte di Milano che, forse, perché era stata cara a mio padre, era cara anche a me. La parte che dall'abside del Duomo, il "Camposanto", si apre a ventaglio fino alla linea dei Navigli. Ben altra cosa - diceva mio padre spesso - di quello che è adesso. Allora, allora, avresti dovuto vederla, prima dei bombardamenti. Era innamorato, pover'uomo, di Milano.

Io no, invece, anche se ci torno volentieri. Roma mi è tanto estranea. Ma quell'angolo della vecchia città, pur come è adesso, è caro a me come a mio padre. Forse perché con quell'ultimo incontro con Silvia si chiuse definitivamente una breve, indimenticabile stagione della mia vita.

All'ora di pranzo Silvia prese il suo tram. Ci stringemmo la mano e tutto finì lì.

continua...

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