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Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Luigi Grande: L'incoerenza (cap. 10 - 13)
Luigi Grande: L'incoerenza
Copertina Introduzione _I_ _II_ _III_ _IV_ _V_ _VI_ _VII_ _VIII_ _IX_ _X_ _XI_ _XII_ _XIII_

X

M'accadde, proprio nel periodo in cui cominciai a vivere da solo a Milano, di pensare con una certa frequenza a mio padre. Nei quasi cinque anni da quando era morto, non me ne ero ricordato che raramente.

E superficialmente, nel senso che lo ricordavo per quanto aveva rappresentato per me, non senza avvertire la quantità di posto che sarebbe spettata a lui occupare nel mio cuore e che era stata, invece, occupata dal nonno.

Improvvisamente mi misi a pensare a lui non per quello che era stato per me, ma per quello che era stato per se stesso. Lo immaginai giovane, alla mia età o poco più, mentre prestava servizio militare in Lombardia, in tempo di guerra.

Egli era rimasto "sbandato" non avendo voluto presentarsi ai comandi militari della repubblica di Salò. Perciò il suo rifugio nella casa del suocero divenne presto malsicuro. Per mezzo di parenti o conoscenti la famiglia di mia madre riuscì a collocarlo a Milano, dove gli fu trovato anche un lavoro. Poiché io stavo per nascere o ero appena nato, mia madre restò in campagna con i suoi.

Mio padre parlava spesso di questo periodo di otto-dieci mesi in cui era rimasto solo, fin tanto che mia madre, con me già un po' cresciuto, era andata a vivere con lui. Egli tornava ogni domenica a Secugnago in bicicletta. Era, raccontava, l'unico mezzo sicuro per sfuggire ai blocchi di pattuglie fasciste e per salvarsi dai mitragliamenti degli aerei americani. Appena un apparecchio scendeva in picchiata a mitragliare un camion, un'automobile, qualsiasi cosa transitasse per la strada, si riusciva sempre a fare in tempo ad appiattarsi in una buca, in un fosso lungo i margini della strada. L'aviazione alleata, negli ultimi mesi di guerra, era padrona assoluta del cielo e Milano visse questi ultimi tempi assediata, perché non c'era veicolo che vi affluisse che non veniva preso di mira, con i rifornimenti così quasi completamente tagliati, e perciò affamata.

Mi pareva di rivedere mio padre che, secondo le sue solitamente colorite narrazioni, faceva, mezzogiorno e sera, la fila davanti a una "mensa di guerra", battendo i piedi sopra una lastra di ghiaccio.

"Avevo in tasca" gli piaceva precisarmi "una preziosa bustina che conteneva sale..."

"Sale?" chiedevo stupito io.

"Mancava anche quello. Ora immagina, se puoi immaginarlo tu che sei cresciuto nei tempi in cui non manca niente, cosa significa la mancanza del sale in tutti i cibi. Bene. Un pochino in una busta me l'aveva messo tua madre. Ti ricordi, Cesira?" E mia madre sorrideva proiettandosi col pensiero a quei primi tempi del loro matrimonio, in cui tanta doveva essere stata la fame, immense le difficoltà per sopravvivere, ma sconfinato il loro amore.

"Con un pizzico di sale," riprendeva "riuscivo a dare un po' di sapore all'intruglio acquoso e nero che costituiva il piatto di minestra. Accadeva, a volte, di trovare due o tre fagioli. Invidiosi, con occhi avidi, i vicini guardavano quel " miracolo" nel cucchiaio. Poi arrivava la "pietanza": una specie di frittata fatta certo senza uova, senza patate, senza verdura, senza nessun altro ingrediente. Ma che cosa la teneva assieme? Di che cosa mai poteva esser fatta?"

"Non sarà stata" interloquivo io, già studentino sui quindici o sedici anni, tutto voglioso di far sfoggio di locuzioni dotte "non sarà stata un'illusione dei vostri sensi?".

Mio padre sorrideva tutto compiaciuto della mia "cultura" e riprendeva il racconto della "grande fame". Ogni sera egli cercava di sedare gli stimoli della fame, nel chiuso della sua stanzetta, rosicchiando un pezzo di pan biscottato. Anche questo era una provvista costituitagli dalla sua giovane sposa.

"Rosicchiavo, rosicchiavo" continuava nella sua narrazione "sorseggiando di tanto in tanto... immagina che cosa io, che ero nato in mezzo, si può dire, al vino, ero costretto a sorseggiare..."

"Acqua?" chiedevo io divertito, con finta esterrefazione.

"Acqua " assentiva. "Sorseggiavo acqua e... pensavo a lei..." E indicava mia madre. I cui occhi si riempivano di un luccichio felice e commosso.

"E anche a te pensavo. Che dovevi ancora nascere o eri appena nato."

E una volta, sempre parlando di quel periodo che di tutto il suo passato era quello al quale tornava con maggiore insistenza, aveva aggiunto, trovando una espressione piuttosto inconsueta nel suo linguaggio di solito scarno e nel quale non si faceva largo posto alla descrizione dei sentimenti: "Ero felice e infelice insieme, come può esserlo un giovane, un ragazzo quasi, quando è veramente innamorato e lontano dalla donna che ama. La fame non aveva senso. Nessun'altra cosa aveva senso. Se non il pensare continuamente a lei."

Come capivo finalmente mio padre ora che anch'io provavo le pene della lontananza dalla persona amata. Anch'io, come lui, ogni settimana lasciavo Milano - sebbene in condizioni di maggiore comodità e non in mezzo ai pericoli della guerra - e tornavo al paese. Vi trovavo Anna. Era inverno e si andava in un caffè o in un cinema. Si era vicini sì, ma il ricordo della maggiore libertà che la campagna nel periodo estivo ci aveva offerto, mi riempiva di struggimento. Si restava inchiodati a due sedie, mentre spasimavo di tenerla fra le mie braccia.

Tornato a Milano, mi sfogavo in lunghe lettere. Pagine e pagine non bastavano per dare fondo alla piena delle "pene d'amore" di cui mi sentivo ricolmo. Cose trite e ritrite, certo, avrò scritto, ma per me che le scrivevo e per Anna che le leggeva c'era dentro l'universo intero.

Fu proprio mentre mi sembrava di rivivere la vita di mio padre che mi chiesi, per la prima volta (non ci avevo, infatti, riflettuto ancora), come mai mio padre, dando prova di un preciso convincimento antifascista, aveva preferito soffrire la fame, essere passibile di persecuzioni, vivere fra i pericoli, piuttosto che fare il militare nell'esercito della repubblica di Salò.

Non era, certo, per vago spirito antimilitarista o per lavativismo che egli aveva affrontato sofferenze e rischi. Qualcosa doveva avergli vietato, dentro, di fare il militare. Opporsi a quel potere politico gli era parso, evidentemente, un suo preciso dovere morale.

E io mi trovavo inglobato ormai, "inquadrato" anzi, in uno schieramento politico che si richiamava agli "ideali" di quello Stato, che mio padre aveva ritenuto illegittimo, che aveva disprezzato.

Era stato in errore mio padre o ero in errore io?

Mi tornò in mente, a un certo punto, che mio padre sul finire della guerra era stato arrestato. Un giorno s'era trovato, non so per che motivo, in pieno centro di Milano e alcuni reparti avevano bloccato gli accessi a piazza Duomo. Una retata di giovani, in gran parte militari sbandati o renitenti alla leva. Così era stato processato come disertore. La condanna era stata dura. Ma raccontava che egli e i suoi compagni di carcere, fra cui molti partigiani, avevano una sola paura, quella di una condanna a morte. Le altre condanne apparivano parole prive di significato. Si erano visti partigiani, condannati all'ergastolo, fare salti di gioia. Si sapeva ormai che l'ergastolo dato dai tribunali fascisti non poteva durare che pochi mesi.

Questo discorso che mio padre aveva fatto quando io ero ancora quasi bambino - forse non avevo più di dieci o undici anni - non doveva tornargli molto gradito, se non l'aveva ripetuto più. Ma ricordo bene che pose l'accento sul rischio della vita che tutti i detenuti correvano in quel periodo. "Io non ero" disse press'a poco "un pezzo importante. Ero uno dei tanti anonimi che avrebbero potuto costituire materiale umano di riserva per rappresaglie. Condanne o no, il pericolo di essere mandati a morte, dunque, poteva maturare per quelli come me in qualsiasi momento. Com'era accaduto per le vittime delle Fosse Ardeatine. Ma il tempo lavorava per me e per chi come me attendeva l'aurora della salvezza. Ogni giorno era come se si sgretolasse un pezzo del muro della prigione. Era (questa frase m'è rimasta impressa e forse la mia memoria l'ha resa più pregnante, perché non so se mio padre la formulò proprio così) era come se la notte in cui eravamo immersi si avvicinasse, attimo per attimo, alla fine."

La notte in cui eravamo immersi. E che cosa faceva la notte? La guerra con la sua ineluttabile, schifosa presenza nelle vicende umane? O il regime fascista che aveva portato l'Italia a una tragedia così enorme? E la guerra era stata solo uno "sbaglio" o era l'epilogo di tutta un'impostazione politica interna e internazionale che l'aveva deliberatamente, criminosamente preparata?

Quando cominciai a riflettere sulle opposte posizioni in cui c'eravamo trovati mio padre giovane e io all'inizio della mia "presenza attiva" nella società, questi e altri interrogativi, specie quelli sulla mostruosità dell'avventura hitleriana, cominciarono a crucciarmi.

Essi divennero più assillanti, quando un giorno venni arrestato e portato a San Vittore per ragioni opposte a quelle per cui, a suo tempo, vi era stato "ospitato" mio padre.

Ho sorvolato su un particolare importante, perché finora non mi si era presentata l'occasione di parlarne. Consigliato da "Marco", fin dai primi tempi del mio inserimento nell'organizzazione del partito, mi ero iscritto all'università. Facoltà di economia e commercio della Bocconi. Giunto il momento della cosiddetta contestazione studentesca, il compito che il partito mi affidava era ovviamente quello della controcontestazione. Raramente, però, io partecipavo ai tafferugli, in quanto il mio era lavoro preparatorio e organizzativo fra le file degli studenti. E il terreno non era affatto sfavorevole alla diffusione del nostro "verbo".

Una volta rimasi impigliato in una "battaglia" fra due gruppi contrapposti. Non m'era capitato più da quando, ancora ragazzo, avevo ferito negli occhi con una catena di bicicletta uno studente e per anni mi ero visto davanti quell'immagine del sangue che spillava fra gli interstizi delle dita con cui il ragazzo s'era coperto gli occhi.

Non potevo sottrarmi in quella contingenza dal menare anch'io le mani. La polizia intervenne con tempestività. Mi arrivò una manganellata in testa che mi stordì e fui caricato su una camionetta.

Sarei stato rilasciato subito, come molti altri giovani della mia e della parte opposta, se non ci fosse stato un "ma": appresosi che io facevo parte dei quadri del partito e disposta una perquisizione - gli zelanti antifascisti fra la polizia e la magistratura non sono tanti, ma non mancano - furono trovati nella mia abitazione esplosivi e armi. Poca roba, ne ho già parlato, ma quanto bastava per mettermi nei pasticci.

Ero incensurato, come potevano negarmi la libertà provvisoria? - si arrabbiava il mio difensore, un parlamentare del nostro partito, quando veniva al colloquio. Invece di uscire da San Vittore in libertà, ne uscii una mattina per essere trasferito in un altro carcere della Lombardia. Per "sfollamento" dicevano. In effetti c'erano stati litigi e botte fra detenuti politici e si era preferito sparpagliarci.

Quel viaggio, di prima mattina, nel pieno della stagione invernale, in cellulare, ammanettato. L'alba cominciava ad alzarsi pigramente e la campagna veniva a poco a poco invasa da un grigiore di perla. Lontano un po' di nebbia andava man mano sfumando e ridava i contorni netti ai filari d'alberi intorno. Ma pareva che dai canali e dai corsi d'acqua altra nebbia, levandosi pian piano come tenuissimo fumo, venisse a sostituire quella già scomparsa. Poche stelle tremolavano ancora, incerte a occidente. Rimasi a lungo a guardarle, finche le vidi scomparire a una a una.

Ero precipitato in una crisi profonda. Mi sentivo veramente incanalato in un sentiero sbagliato, che, dopo avermi portato in prigione, poteva addirittura condurmi a un precipizio.

La libertà provvisoria mi fu concessa dopo un mese circa. Mi sostenne, in quel mese che fu certo il peggiore della mia vita, il ricordo di Anna. Mi chiedevo se fosse stato un sogno fugace la felicità che essa mi aveva dato o se fosse, invece, frutto di un incubo il mondo in cui vivevo. E, sforzandomi di illudermi che fosse vera questa seconda ipotesi, rivivevo ogni istante, ogni più piccola inezia dei miei rapporti con Anna: il modo come abbassava le palpebre e come piegava la testa, le parole, anche le più insignificanti, che io le avevo rivolto e quelle che lei mi aveva risposto, l'attimo in cui l'avevo vista procedere da lontano in bicicletta e l'ultima volta che eravamo stati insieme al cinema, senza per nulla impicciarci della trama del vecchissimo film, ma intenti solo a stringerci le mani e a stare quanto più vicini possibile.

Uscii dal carcere profondamente diverso. Da una parte il bisogno di creare per me e per Anna una vita serena mi induceva a ritirarmi dalla attività esplicata come da un campo minato, dall'altra il ricordo di mio padre, arrestato dai fascisti, mi faceva apparire il partito in cui ero inserito sotto una luce del tutto diversa. Non mi sentivo di abbandonarlo, è vero, ma preferivo non legarmici mani e piedi. Da queste due componenti usciva una sola decisione; trovarmi un lavoro e non impicciarmi più di politica.

Decisi di rivolgermi a un amico, Stefano Corsari, che sapevo inserito bene nel campo delle rappresentanze. Io avevo già da qualche tempo acquistata una utilitaria e mi fu facile presentarmi e farmi assumere come agente di commercio. Il settore era quello delle vernici e di altri prodotti chimici.

Ma, all'uscita dal carcere, avevo trovato anche un'altra grossa sorpresa. La famiglia di Anna si era trasferita a Novara, di dove il padre era originario; egli aveva lasciato il fondo che conduceva in affitto dalle parti di Cassano e si era dato al commercio.

Per giunta le mie traversìe politiche non mi mettevano in buona luce agli occhi della famiglia di Anna: gli "scalmanati", da qualunque parte stiano, che vanno a finire in prigione per politica non godevano le simpatie di quella gente "ordinata".

Cercai di mantenere con Anna rapporti almeno epistolari. Ma notavo anche in lei un certo raffreddamento. Pensai che dovevo consolidare la mia posizione economica e presentarmi ai familiari di Anna con un'occupazione "seria", perciò mi buttai nel mio nuovo lavoro a capofitto. Volli inoltre riprendere gli studi universitari. Una laurea avrebbe potuto aprirmi nuove prospettive. Ma ero già sui venticinque anni, quando forse si comincia a non essere più adatti per studi metodici scolastici.

Mi interessavo, invece, di altri argomenti soprattutto di studi sociologici. Volli leggere le pagine del "profeta" delle nuove generazioni, Marcuse, che fu però un'enorme delusione. Eppure molti suoi concetti hanno lavorato dopo dentro di me, come, per dirne qualcuno, quello del carattere razionale dell'irrazionalità della nostra attuale civiltà e quello che l'unidimensionalità dell'uomo è la fine della sua libertà interiore.

E, prima o poi, i miei stessi studi economici dovevano portarmi a una migliore conoscenza del marxismo. Avevo, come tutti - credo - coloro che professano idee di destra estrema una conoscenza grossolana e manichea del pensiero di Marx. Mi venivo accorgendo, attraverso lo studio, che molta ruggine antimarxista, che io non so se avessi ereditato direttamente dal nonno o mi si fosse venuta formando attraverso altre suggestioni, era priva di serio contenuto e derivava soprattutto dall'ignoranza. Ma contemporaneamente scoprivo valide motivazioni per rifiutare il marxismo come panacea dei mali della società umana.

Cominciai così a temere che nella parte dove mi ero messo la sola tessera d'ingresso fosse molta disinformazione dei fenomeni storici, economici, sociologici. Più studiavo e più il fascismo mi appariva condannabile e il suo più brutto parto, il nazismo, mi si mostrava in tutta la sua nefandezza. Quanto più nobile, e come più confacente a quelle che erano in fondo le vere idee da me professate, mi appariva il conservatorismo inglese. La difesa convinta dell'assetto socio-politico esistente, ammettendo solo dei cauti e sperimentati ritocchi, mi parve che potesse essere una bandiera degna di tutto rispetto. Mi parve e mi pare.

Forse le cose della vita, l'educazione ricevuta, la estrazione sociale, che non era propriamente borghese ma neanche da sottoproletariato, gli incontri fatti, tutte le vicende che ho tentato via via di delineare, facevano di me un conservatore, ma non un neofascista.

Avevo sbagliato collocazione. In una delle prime competizioni elettorali a cui mi fu possibile partecipare per l'età, restai a lungo indeciso se dare il voto al partito per il quale avevo lavorato. Ma poi mi parve che avrei dato una smentita a tutto ciò che ero stato e che, forse, ero ancora.


XI
(torna all'indice)

La mia attività di rappresentante di commercio, che mi assorbiva interamente, mi ricordava anch'essa un periodo della vita di mio padre, di cui l'avevo sentito parlare abbastanza spesso (e questo accorgermi delle tracce profonde che mio padre aveva lasciato nella mia memoria e, certo, anche nel mio modo di essere, mi stupiva, persuaso com'ero sempre stato che fossero scarsi i legami spirituali con lui, e nello stesso tempo mi rallegrava perché mi sentivo meno privo di radici di quanto avessi pensato).

Raccontava mio padre che, finita la guerra, aveva cercato di fare un po' di commercio. Ma quello, diceva, che si scatenò come una bufera sull'Italia dell'immediato dopoguerra non fu commercio ma caotico traffico. Si comprava e vendeva di tutto. Le autorità dapprima posero una specie di cordone economico fra nord e sud, ma senza con questo spaventare troppo i trafficanti. I camions andavano e venivano da un capo all'altro della penisola. Andava e veniva il denaro, anche, con grande facilità. Sembrava di arricchirsi ogni momento - sorrideva mio padre - ma si restava invece sempre al punto di prima. Sicché, concludeva il suo racconto, la piantai presto perché è meglio fare nella vita il mestiere che si sa fare e non improvvisarsi commercianti.

Non ero scontento del mio lavoro né mi sentivo un "addetto al commercio" improvvisato, perché mi ero fatto, coscienziosamente, una cultura nel settore in cui m'ero introdotto. Mi rammaricavo solo che l'intensa attività mi lasciasse pochissimo tempo e che, stanco com'ero ogni sera, non riuscivo a trovare la forza per dedicarmi allo studio.

Ma, individuo aggrovigliato in mille contraddizioni come mi venivo sempre più scoprendo, ero da una parte contento di una vita vissuta intensamente, senza tregua, con dinamismo, e dall'altra in certi momenti mi pareva di bruciare inutilmente i giorni della mia vita e sentivo un forte bisogno di una pausa, di una sosta soprattutto interiore.

Mi pareva che, sebbene gravi vicende si fossero verificate intorno a me - la morte di mio padre, l'abbandono di Silvia, la fine tragica di Davide e, soprattutto, il crescere della parte politica a cui m'ero legato , un crescere anche in numero, sì, ma principalmente in potenza, in disponibilità di forze da potere imporsi prima o poi sulle altre parti e ridurle al silenzio - io ero passato sopra a tutto con grande indifferenza.

Non era forse, mi venivo chiedendo, un difetto comune a me come a tutti i giovani della mia età quello di trasvolare da un giorno all'altro, da un anno all'altro, quasi non facendo caso al vero valore degli eventi? E i giovani delle generazioni anteriori alla mia si erano resi conto della tragicità, della grandezza, dell'apocalitticità di alcuni fatti, cui non erano stati estranei o cui avevano addirittura dato esca? E quelli dell'età all'incirca di mio padre, che erano stati chiamati ad assistere agli avvenimenti più grandi e terribili della storia del secolo ventesimo, che altro avevano fatto se non ficcarcisi dentro con la più assoluta indifferenza, intenti solo a passare velocemente da un giorno all'altro? Ci si rende mai conto, mentre si vive, di ciò che si vive, e, mentre si opera, della storia che si viene creando?

Mi parve, a un certo punto, di intuire con estrema lucidità che ciò che stava ineluttabilmente maturando nel mondo era un ritorno a regimi saldi e forti - autoritari se così più vi piace dire - e che presto da noi avremmo avuto un ritorno, puro e semplice, al fascismo, forse sotto altro nome, forse in forma ipocrita e pseudodemocratica, continuando a far retorica sui "valori della Resistenza" e sulla repubblica nata da essa, oppure, con più schiettezza, smettendola di parlare di antifascismo e parlando seriamente di anticomunismo.

Capii che io ero stato una pedina, piccola quanto si vuole, ma pur sempre inserita nelle regole e nelle mosse del gioco, di questo qualcosa che veniva preparandosi.

E, all'improvviso, ora che avevo sentito il bisogno di disertare la vita di partito, che mi ero dato a una attività non politica, mi sorgeva una necessità di capire, di approfondire, di meditare su ciò che accadeva intorno a me, sul mondo che mutava sotto i miei piedi e sulla necessità di essere inserito consapevolmente nei moti che si vogliono determinare.

Non avevo fatto altro - e ricordavo di avere fatto questa constatazione anni prima - che farmi trascinare dalle cose. Ero stato in un modo anziché in un altro, non perché io lo avessi voluto, ma perché così dall'esterno mi era stato "comandato". E le "cose" cui avevo partecipato, sia pure in misura modesta e limitata, erano forse più importanti di quanto avessi creduto: forse la preparazione di un'altra "era fascista", forse l'intrappolamento nelle file del neofascismo di una parte delle forze armate e dei servizi del controspionaggio, forse lo sgretolamento delle basi dello Stato antifascista attraverso l'alleanza - dite pure la connivenza - di alcuni centri di potere politici ed economici; attraverso l'"apoliticità" - o il sonno - della magistratura e della polizia; attraverso alcuni riusciti colpi di mano terroristici da attribuire ai sovversivi di sinistra.

E di tutto quello che avevo fatto, che avevo visto fare - certamente poco, meno che poco, anzi, un nulla di fronte a un così vasto disegno (che solo perché fallito può esser chiamato "disegno eversivo nero", ma che avrebbe avuto ben più glorioso nome se fosse riuscito) - non restava nulla nella mia memoria, perché c'ero stato dentro con superficialità e noncuranza. Nulla, fuorché pochi pensieri, pochi stati d'animo.

Ma questa constatazione è riferibile all'intera mia vita, mi sembra, cioè, di aver divorato i miei giorni, senza aver dato il dovuto peso a ciò che accadeva in me e attorno a me, con una superficialità che credo mi faccia un campione abbastanza esemplificativo della mia epoca. Dovendo, infatti, ora che mi son messo a fare il "narratore di me stesso", parlare di anni passati, a così tanta distanza di tempo, a stento ritrovo nella memoria le vicende esteriori di cui fu intessuta la mia vita, e devo orientarmi, in questa ricostruzione, con qualche frammento di vita interiore. Non so - a voler essere d'una precisione da atto notarile - se questo mio accorgermi di esser stato "dentro le cose" senza pienamente comprenderle, questo mio sforzo di capire a posteriori sia stato assolutamente chiaro già allora, in quel periodo - non molto lungo peraltro, perché durò appena un anno - in cui non mi occupai più di politica e facevo il procacciatore d'affari. O se, invece, questo bisogno di chiarificazione sia sorto ora, in questa mia seconda, più manifesta e definitiva, crisi interiore.

Ricordo certo con chiarezza che mi condannavo per la mia superficialità, mentre accarezzavo segretamente il sogno di "scrivere" e quindi cercavo di capirmi e di capire il mondo circostante.

Ma, in fondo, la mia vita in quei mesi trascorse serena e, dal punto di vista economico, in maniera un po' più agiata di prima. Un po' meno stentata, sarebbe più esatto dire. Dalla morte di mio padre in poi, non mi ero mai potuto concedere più del necessario e spesso, nei primi tempi, neanche quello. Ed ecco che mi trovavo improvvisamente, se non a largheggiare, a... saziarmi in abiti, in locali da frequentare, in divertimenti.

Feci anche nuove amicizie particolarmente per mezzo di Stefano Corsari - un buontempone, senza complessi, senza preoccupazioni, senza pensieri politici ("dei partiti" diceva e bisogna fedelmente citare la sua espressione "me ne sbatto altamente le palle"). Tutti i giovani e le ragazze che conobbi, con cui parecchie sere si andava a ballare o si andava in gita la domenica ai laghi o al mare, non avevano un solo - dico uno solo - pensiero rivolto alla politica. Con loro io parlavo soltanto di campionato di calcio, delle canzoni in voga, delle avventure dei divi del cinema e del canto. Io stesso mi stupivo di essere stato fino a quel momento un "fanatico".

Se non fosse stato per il processo che era ancora pendente a mio carico, mi sarei persino scordato di aver fatto parte di squadre "attive" di destra. E quanto al processo, nessuno ne sentiva più parlare. "Meglio" diceva il mio difensore "con una giustizia che va avanti a suon di rinvii e che sembra priva della forza di portare a termine una sola vicenda, il tempo lavora non solo per i nostri giovani camerati, come te, accusati da questa repubblica ipocrita, ma lavora anche per l'instaurazione di uno Stato come diciamo noi: una giustizia in sfacelo, come questa, è il chiaro segno di uno Stato putrido, anzi in via di putrefazione, perché è già cadavere."

Alla politica, perciò, non pensavo più. E quanto alla mia vita sentimentale fu quello un periodo di sbandamento. Ero andato a trovare Anna pochi mesi dopo la mia uscita dal carcere. Ma poi, dopo averle scritto un po' di volte e dopo un diradarsi della corrispondenza, non tentai più di rivederla. Un paio di lettere, infine, rimasero senza risposta. Allora - non so nemmeno io come sia potuto accadere - subentrò in me una forma di indifferenza per quel sentimento che, fino a poco prima, sembrava fosse la cosa più grande che avesse occupato la mia vita.

Non mi mancavano, a dir vero, le avventure con donne. Forse è questa la spiegazione vera dell'improvviso affievolirsi del mio sentimento per Anna. Forse ci rimasi male perché lei non aveva risposto alle mie ultime lettere. Forse era la mia natura fatta così: incoerente.

Ma a volte il ricordo di Anna tornava in me. Mi proponevo di scriverle, di darle un appuntamento. Poi non ne facevo nulla e i mesi passavano. A un certo punto mi parve che era passato troppo tempo perché potessi decentemente rifarmi vivo. Mi persuasi che essa, ormai, non poteva non avermi dimenticato.

E mi parve di averne conferma, quando, dopo quasi un anno dacché non ci si vedeva, ci incontrammo casualmente.

Anna lavorava a Milano. C'era stato un grosso rovescio economico a casa sua. Il padre aveva tentato speculazioni nel campo granario, risultate sbagliate, e tutti i loro beni erano andati sotto sequestro.

Ebbi l'ardire di muovere io, e con convinzione, rimproveri ad Anna. Perché non mi aveva risposto? Anna si sorprese, disse di aver ricevuto poche lettere da me e di aver risposto a tutte. (Forse le mie ultime erano andate smarrite con il trasloco della famiglia). Dopo di che non aveva saputo come spiegarsi il mio silenzio.

Ma ebbi l'impressione che essa parlasse di tutto come di cose passate, che guardasse al nostro amore come a un episodio concluso.

La verità, invece, era che essa non voleva farsi più illusioni su me. Non riuscimmo, con uno sforzo di sincerità, a superare la barriera di convenzioni dietro cui ognuno si nasconde nei suoi rapporti con gli altri.

Mi finsi allegro, spensierato. Conversammo come due buoni amici che si incontrano dopo parecchio tempo. Insistetti perché accettasse di entrare in un bar, ma essa disse che aveva fretta, mi spiegò dove era impiegata e aggiunse che non voleva arrivare tardi in ufficio. Ci stringemmo la mano a lungo. Forse in quel gesto ciascuno di noi mise tutto quello che non avevamo saputo dirci.

Avvertii come un leggero capogiro nel vederla allontanare. Salì su un tram e scomparve.

Così ci smarrimmo. Io per una strada, lei per un'altra. Tutt'e due sbagliate. Quante volte ho ripensato a quel distacco. Perché non ebbi il coraggio di richiamarla? "Aspetta, Anna, non te ne andare. Io ti voglio bene, ti ho voluto sempre bene." Spezzare, con la mia sincerità, quella specie di lastra di freddezza che si era interposta fra noi, che le aveva vietato di capirmi e di dirmi quanto aveva sofferto pensando a me. Niente, invece.

La guardai, finché mi fu possibile, tristemente. Un pezzo della mia vita che se ne va, pensai. Così, a brani a brani, che il tempo strappa, lacera come un vecchio manifesto dal muro, la vita si consuma tutta. E per ogni brano strappato un pezzo di rimpianto. E quando tutto sarà rimpianto in noi, concludevo, non ci resterà più nulla da vivere. (Da giovane facevo certe "scoperte"!)

Per parecchio tempo, dopo quell'incontro, provai un senso di vuoto che non riuscivo a colmare in nessuna maniera. Mangiare, dormire, camminare, andare in giro, fare affari, tutto ciò che avevo sempre fatto mi parve improvvisamente privo di senso. Cominciai a disertare il lavoro. Preferivo, quando potevo, starmene lunghe ore ozioso, inerte. Ad ascoltare il vuoto dentro di me. Niente pensieri, niente ricordi, niente propositi. Mi pareva che la mia anima, la mia vita si racchiudesse ed esaurisse nel respiro.

Non so se fu il mio spirito a fare ammalare il mio corpo o viceversa o, come è più probabile, se malattia dello spirito e malattia del corpo furono manifestazioni di un unico fenomeno patologico.

Rivedo quella grigia giornata d'autunno - la risento anzi - in cui, cedendo alle insistenze di mia madre (che era intanto venuta a vivere con me a Milano), preoccupata della mia tosse continua, andai a farmi visitare da uno specialista in malattie polmonari. Non ne uscii, nonostante il responso, sconvolto. Guardavo, anzi, intorno distrattamente, con indifferenza.

Sebbene lo specialista mi avesse consigliato di prendere al più presto la via del sanatorio, la sua diagnosi non era stata catastrofica. Si trattava di un male appena insorto e la guarigione doveva considerarsi - sempre come previsione umana - certa.

Trascorsi poco più di un anno al sanatorio di Sondalo. Per non lasciarmi sommergere dalla noia dedicavo parecchio tempo alla lettura. Ma mi venne voglia anche di scrivere. Mi era ripresa la fissazione della narrativa.

Nei primi tempi, ogni sera, una febbre leggera, impalpabile come la nebbia, pareva avvolgermi e attutire le mie sensazioni. E quel leggero prurito dentro, nel petto. Come se la crisalide di una farfalla tentasse di svolazzare dentro con le sue ali appena nate. La tosse, allora, stizzosa, secca.

A un certo punto, come se il mio organismo si fosse ribellato a quel mio deliberato lasciarmi andare, come se mi fosse nata dentro un'inconscia volontà di vivere, ci fu una svolta nella mia malattia. Il pneumotorace cominciò a produrre i suoi effetti. Mi sorse un formidabile appetito. Scomparve la tosse incoercibile. Scomparve infine anche la febbre serale. Uscii dal sanatorio perfettamente guarito.

Non mi soffermerò su questa "pausa" della mia vita, su questo brano di tempo che sembra non appartenere a quell'unità esistenziale che ognuno di noi costituisce. La memoria non ama neanche riportarvisi. Ricorderò solo che, quando le migliorate condizioni di salute cominciarono a consentirmelo, presi l'abitudine di fare lunghe passeggiate nei dintorni del sanatorio. Spesso mi sedevo a scrivere. Sfornavo soprattutto racconti, a volte allo stato di abbozzo, ma anche divagazioni e piccoli "pezzi" di giornalismo sul tipo di corrispondenze o quasi.

Un sentiero mi era particolarmente caro. Esso si addentrava in un bosco di abeti, poi sboccava in una piccola gola fra due alture. Un rigagnolo, sbucando da una parete a strapiombo, andava a confondere le sue acque con quelle di un torrente che, tortuoso, precipitando di sasso in sasso, assordava la piccola valle.

Mi sedevo sulle rive del torrente e stavo ad ascoltare il suo scrosciare. A volte sentivo il mio pensiero disperdersi e un senso di beatitudine mi invadeva. A volte invece, inseguivo i mille pensieri che passavano per la mia mente. Tentavo di guardare la mia vita con un colpo d'occhio unico e la trovavo priva di un filo logico, inconcludente. Che avrei fatto se fossi guarito? E valeva la pena guarire?

Quando i miei pensieri, però, prendevano questa piega, cercavo di strapparmi a essi quasi a viva forza. Mi rimettevo ad ascoltare la voce del torrente. Che cosa narrava, in quel linguaggio strano in cui si mescolavano mormorii e scrosci? Forse ricordi di antiche leggende, di maghi, di cavalieri in cerca della propria Angelica, di orde di barbari che valicavano quelle valli per rovesciarsi sulla fertile pianura, di feudatari crudeli scorazzanti lontani dai loro castelli, di resti di compagnie di ventura che si allontanavano dal luogo della sconfitta... E tutti i tempi si fondevano in quel racconto al di fuori del tempo.

Uno degli ultimi giorni della mia vita di sanatorio non resistetti al desiderio di andare a rivedere quel luogo caro. Bisognava, dunque, reimmergersi nel torrente della vita? Era come se, in quell'anno, io fossi rimasto ai margini della vita a vederla scorrere, senza alcun desiderio di starvi dentro. E il flusso mi aveva investito, mi aveva restituito la salute. Via, allora.

Il primo segno che ero di nuovo dentro il flusso fu la fissazione del processo.

Fu un processo agli "opposti estremismi". Da una parte un gruppo del movimento studentesco, dall'altro un gruppo più sparuto di "sanbabilini", come erano chiamati ormai i giovani delle nostre organizzazioni milanesi. Il mio lavoro aveva dato anch'esso i suoi frutti e ci fu un tempo in cui andavo orgoglioso di essere uno dei "fondatori" dei sanbabilini. Ma se dovessi dire perché fosse stata scelta come nostra "zona d'operazioni" piazza san Babila, dovrei ammettere di non saperne niente.

Le imputazioni erano di resistenza alla forza pubblica, di rissa, di porto d'armi, per lo più "improprie", qualcuno, specie quelli di sinistra, di oltraggio e infine io di detenzioni d'armi da guerra ed esplosivi.

Io e quelli della mia parte fummo assolti dal reato di resistenza, anche se non passò del tutto la tesi del nostro difensore che noi eravamo intervenuti per dare man forte alla polizia. Per le armi e gli esplosivi mi affibbiarono sei mesi con la condizionale.

E tornai così fra le "braccia paterne" del partito. Dopo circa due anni che me ne ero allontanato, sentivo di non condividerne più le posizioni. Ma non sempre nella vita si riesce ad agire in maniera conseguente a ciò che si pensa.

Lieto ai avermi ritrovato, "Marco" mi rimproverò del mio assenteismo, anche se le ragioni gravi di salute mi giustificavano, disse, di questo e d'altro.

Gli parlai delle mie "esercitazioni" letterarie e giornalistiche e della necessità di trovare un'altra sistemazione di lavoro, più confacente alle mie possibilità, alle mie inclinazioni e alla mia salute non certo di ferro. Per esempio, azzardai, presso il giornale del partito.

L'idea non parve malvagia a "Marco". Egli aveva sempre ritenuto che io dovessi far parte dell'intellighentsia del partito e nel giornale mi ci vedeva a pennello. Ma, disse, per il momento i quadri erano al completo e doveva ottenere un'assunzione che gli stava particolarmente a cuore, quella d'un giovane che aveva "entrature" presso i servizi segreti di informazione dello Stato e che, collocato nel giornale, poteva svolgere un lavoro assai importante.

Così "Marco" ebbe occasione di parlarmi degli ultimi sviluppi della situazione. Si era all'inizio dell'estate 1969. "Siamo all'alba," disse "di grandi eventi. Forse è questo l'anno della vigilia dell'era nostra. Gli anni settanta ci apparterranno."

Sui particolari di cui mi parlò "Marco", scusate, non intendo soffermarmi: se ne sta occupando la magistratura nei processi per i tentativi di golpe e per ricostituzione del partito fascista. E d'altra parte io ho già fatto il mio dovere di cittadino di questo Stato (mi piaccia o no), ho spontaneamente deposto davanti al giudice istruttore che dipana i principali grovigli neri.

Tu, Antonio, che mi hai indotto a questo passo, sai quanto mi è pesato: mi sembrava di tradire la mia parte. Ora so che è stato necessario e onesto farlo.


XII
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Perché il mio destino volle che incontrassi ancora Silvia? Continuo a parlare di destino. Sbaglio, lo so. Ma quando le "coincidenze" sono così precise da sembrare architettate da un compilatore di orario ferroviario, non si sa cosa dire.

Poiché le promesse di " Marco" per una assunzione al giornale erano state molto aleatorie, mi diedi da fare per riprendere il mio lavoro di agente presso la stessa ditta. Fui riassunto ma destinato a una zona molto lontana e scomoda da girare. Mi accontentai, ma non cessavo dall'andare negli uffici della ditta per lagnarmi e chiedere un cambiamento. Fu così che scopersi una volta che nella stessa azienda lavorava Silvia da un paio d'anni come addetta alla contabilità.

Non l'avevo più rivista dagli anni della prima giovinezza, da quando aveva piantato me e lasciato i suoi e la sua casa per seguire Davide. L'avevo cancellata - mi ero illuso - dentro di me. Ma niente e nessuno cancelliamo dentro di noi.

Il primo incontro non fu nemmeno imbarazzante, come avrei creduto se lo avessi immaginato. Silvia mi rivolse la parola con naturalezza, rispose alle mie domande, mi sorrise.

E ora? mi chiesi per tutto quel giorno. Come avrei dovuto comportarmi? Come un qualsiasi conoscente? Un compagno di scuola? di infanzia?

Alcuni giorni dopo giunsi davanti ai locali della ditta con qualche minuto di anticipo. Speravo di incontrarla e di parlarle ancora. Ma forse era giunta prima di me. L'attesi all'uscita. Stavolta lei era con colleghi d'ufficio, rispose al mio saluto e tirò dritto.

Per più giorni stetti sulle spine. Che fare? O trovarmi un altro lavoro, eliminando ogni possibilità di ulteriori incontri, o avere un chiarimento con Silvia. Ma chiarire che? Sentivo, comunque, il bisogno di parlarle.

Una sera mi decisi. Presi l'elenco telefonico e cercai il suo numero. Mi rispose sua madre. "Sono Rodolfo "dissi. "Ah" rispose senza sorpresa la signora Aldina "le chiamo Silvia."

La invitai al cinema. Silvia si fece pregare un po', ma poi accondiscese. Non parlammo che della trama del film quella sera. Ma essa - sebbene si trattasse di un film sentimental-stupido-americano - parlò per noi, imperniandosi tutta sul rinascere di un sentimento amoroso. Perché noi due non potevamo tornare a essere quelli di prima? Perché l'abbandono di Silvia non poteva essere annullato nei nostri ricordi?

E, in fondo, era giusto che io drammatizzassi tanto l'errore di Silvia? Tutto sommato avevo avuto anch'io un'altra esperienza amorosa. Dovevo ragionare secondo le mie origini di "terrone" i cui princìpi consentono all'uomo di fare quello che vuole, ma vietano alla donne di sbagliare? Far mia l'etica meridionale della "integrità e illibatezza" della donna? Sarebbe stato proprio impossibile, dopo le nostre diverse e cocenti esperienze, ricucire il nostro antico amore?

Così fui riammesso in casa di Silvia. Quasi tutte le sere uscivamo insieme. Talvolta si andava al cinema o a qualche spettacolo di prosa o rivista, spesso facevamo dei giri a piedi in centro. Arrivava la primavera e Milano mi appariva bella - mah! punti di vista - come non mai.

Tutto era avvenuto con semplicità, come una cosa logica, attesa da tempo. "E allora a quando le nozze?" mi chiese una sera la madre di Silvia.

Dissi che avrei voluto metter su casa, come si deve, come avevo sempre sperato. Dato il costo degli affitti, pensavo piuttosto a un appartamento a riscatto. Perciò mi occorreva ancora del tempo. Del resto né io né Silvia - che eravamo quasi coetanei - avevamo ancora compiuto i ventisette anni.

Ma i genitori di Silvia non riuscirono a dissimulare la loro fretta. Il ragionier Scalet elogiò l'ampiezza del loro appartamento e disse che, essendo Silvia figlia unica, ci si poteva sistemare tutti nella stessa casa. La signora Aldina tacque e non fece alcun segno di assenso. Non pareva molto d'accordo, ma sentiva anche lei la necessità di sistemare presto questa figlia che aveva dato e continuava a dare grattacapi. Silvia, infatti, come seppi in seguito, aveva avuto altre "simpatie" verso uomini sposati e d'età (era e restava ultrasensibile alla bellezza maschile di tipo atletico e un tantino matura) e aveva preteso di avere una propria indipendenza con un impiego, soprattutto per godere di maggiore libertà.

La convivenza con persone alle quali non ero mai riuscito a voler bene, che un tempo mi avevano visto come il fumo negli occhi, non era per me una lieta prospettiva. Se, ora, con tanta entusiastica fretta, il ragionier Scalet e la signora Aldina volevano darmi in moglie la figlia, era perché l'antico "pretendente", dopo il colpo di testa di Silvia, si era ritirato. Il legame, poi, di quasi-parentela che li legava a lui si era spezzato a seguito della morte della nonna di Silvia. Si era perciò rifatto vivo quel fesso di Rodolfo? Ma bene, prendiamolo al laccio.

Mia madre mise il broncio quando le dissi che avevo intenzione di sposarmi con Silvia. Ma non disse nulla, sebbene anch'essa designasse quella donna che era passata da un uomo all'altro dello stesso ambito familiare con le stesse parole con le quali la si designava in casa di mio zio Ambrogio: "la puttana che fece morire Davide". Il che era, chiaramente, una cosa falsa.

Quando le nozze furono imminenti, mia madre osservò che, tutto sommato, era meglio che io e Silvia fossimo andati a vivere con lei.

"In questa casa, che ci sta appena una persona in piedi?"

"È la casa che sei riuscito a metter su tu con le tue possibilità. Per lo meno è tua."

Non risposi nulla. Mi limitai a una alzata di spalle.

Era fatale che, non rimandando il matrimonio, io e Silvia ci sistemassimo in casa dei suoi genitori. Quasi quattro anni sono trascorsi da quel passo sbagliato. Ci sposammo senza amore, illusi di averlo ripescato dal fondo del nostro passato. L'unione fu triste fin dai primi giorni: c'era poco slancio da una parte e dall'altra. Cominciammo dapprima a pensare, poi ad accusarci a vicenda di essere ancorati ai nostri ricordi. Una mano di ghiaccio sembrava serrarmi allo stomaco, negli attimi in cui un uomo e una donna non dovrebbero avere altri pensieri se non quello di essere un maschio e una femmina, se appena appena la mia "partner" mi appariva distratta, poco partecipe. "Pensa a lui ancora." "Fa confronti fra me e lui." E tutto finiva amaramente.

Chi cominciò per primo a rinfacciare all'altro il passato?

Amico mio, caro Antonio che, spero, mi hai seguito fin qui leggendo queste pagine - checché esse si siano - come fate voi giudici quando dovete ricercare la causa di un matrimonio fallito? Vi contentate delle semplificazioni della realtà che vi offrono gli schemi legali, delle formulette insomma?

La moglie è andata via di casa? Bene, dite, "abbandono del tetto coniugale". E se è giunta a uno stato di esasperazione tale da non poterne più? Ma, mi sembra di sentirti obiettare, lo stato di esasperazione nascerà pure da una serie di fatti, che sono suscettibili di prova in giudizio. Oh sì, certo. Ma l'esasperazione non può nascere anche da fatti che non sono propriamente "fatti", da un'atmosfera, da screzi irrazionali, da dissapori taciuti, malintesi inesplosi e, perciò, insanabili, non propriamente riducibili in "capitoli" di prova?

Il marito ha mollato un ceffone? O, peggio, ha preso la moglie per il collo, come avvenne a me di fare, sì da strozzarla quasi? Bene, dite ancora voi, "sevizie" "eccessi". Ma se la moglie ha lacerato in lui ogni residuo di umana dignità?

Come ci arrivammo? Chi cominciò? Dio mio, non lo so più, forse non l'ho mai saputo.

Che pazzia fu quella di raccontarci a vicenda, prima ancora di sposarci, le nostre passate esperienze. "Dobbiamo liberarcene," diceva Silvia. "Sì" rispondevo "hai ragione" e continuavo a torturarla con domande, richieste di ulteriori dettagli. Da sposati, poi, quando il fallimento cominciò a delinearsi nel settore dell'intimità, fu facile buttarci in faccia a vicenda un "tu non pensi che a quella donna" e un "tu non pensi che a quel morto". E fu la fine. Da allora i litigi, i bronci, i dispetti. Poi ci si misero di impegno i miei suoceri a scavare l'abisso.

Nemmeno tre mesi riuscii a resistere in quella casa. Me ne tornai da mia madre. Cercai e trovai un altro lavoro presso un'altra industria. Non me la sentivo più di lavorare per la stessa ditta dove lavorava mia moglie. Conclusione: mi ritrovai con tutti i colleghi d'ufficio di mia moglie e i miei colleghi agenti e piazzisti schierati come testimoni contro di me, nella causa di separazione.

Dapprima restammo separati circa due mesi. Comuni amici ci fecero incontrare, di sorpresa, in terreno neutro. Silvia acconsentì a venire a vivere presso mia madre. E fu questo uno degli argomenti maggiormente sbandierati dall'avvocato di mia moglie, questa donna "piena di virtù" che si era persino piegata a seguirmi nella modesta casa dove abitava mia madre, pur di farmi contento, acconciandosi anche al "capriccio" del marito di non voler più vivere coi suoceri.

Ce le ho tutte stampate in testa le frasi della sentenza sia del tribunale che della corte d'appello. Quest'ultima è fresca fresca, di pochi giorni fa. Forse voi giudici, caro Antonio, non potete rendervi conto di come certe frasi scritte nelle vostre sentenze ( che per voi sono pane quotidiano, esercizio giornaliero, noia o diletto intellettuale, tormento o asfissiante buro-lavoro) si imprimano nella mente delle persone implicate in cause e processi.

"Il contrasto portato al giudizio del Collegio deve essere valutato inquadrandolo nell'ambiente donde scaturisce." E qui si poneva in rilievo la diversità sociale fra la famiglia di origine della moglie e quella del marito: da una parte una famiglia "borghese", dall'altra una famiglia "operaio-contadina" e il trapianto "irragionevole e ingiustificato" di mia moglie nella mia famiglia, dopo l'"incapacità" del marito di adattarsi all'ambiente della famiglia della moglie. "Tale convivenza, sia nella prima che nella seconda soluzione, doveva portare a insanabili dissidi. Le parti e i testi hanno riferito puntualmente screzi sempre più gravi fra i coniugi. Vi son state scenate con reciproche ingiurie: i testi attribuiscono le ingiurie all'uno o all'altro coniuge, secondo che si tratta di testi indicati dall'uno o dall'altro, ma v'è chi riferisce imparzialmente che, quella volta che egli fu presente, gli insulti furono reciproci. E non solo alle parole si limitarono le parti, ma trascesero a vie di fatto: la moglie fu percossa e ferita, almeno una volta, e per ritorsione morse a un braccio e graffiò il marito."

Nella fredda prosa giudiziaria continuava l'elenco degli episodi accaduti nei giorni di inferno che furono quelli, pochi del resto - non più di un mese - in cui Silvia visse con me nella casa di mia madre e che furono l'epilogo della nostra vita coniugale.

"Inutile elencare" concludeva la sentenza "altri fatti a riprova della miseria di un matrimonio fallito."

Ma Silvia e i suoi non si acquietarono alla sentenza del tribunale che addossava la colpa a entrambi. Vollero il giudizio d'appello. Tre anni in tutto: una velocità - mi dicono coloro che si intendono dei "tempi" della giustizia - assolutamente supersonica. Tant'è che, vista la mia "fortuna " in velocità giudiziaria, ho pensato che proporrò ricorso per cassazione. Non mi va di inghiottire questa pillola che ha addossato l'intera colpa a me.

Mi ha spiegato l'avvocato che mi ha nuociuto in sede di appello la mia relazione con Anna, che in primo grado non era venuta fortunatamente a galla.

Appena Silvia mi piantò - e seppi poi che s'era intanto fatto un... amico che pare rassomigliasse fisicamente a Davide - io mi diedi da fare per riagganciarmi ad Anna. Non fu difficile ritrovarla. Le narrai tutto. Piansi, disperato, fra le sue braccia. Un naufrago - le dissi di essere - che cercava salvezza in lei. Non esageravo.

Anche lei aveva imboccato una strada sbagliata: era l'amica del suo principale, come mi confessò poi. In un baratro tutt'e due, in un fondo cieco e buio, dal quale l'unica via di uscita sarebbe stata la nostra unione.

Fu allora che pensai di emigrare in Australia e mi misi a contatto con i parenti di mia madre. Ma una novità graditissima, inaspettata, mi cambiò le carte in mano, venivo assunto come giornalista a "Il secolo d'Italia". Era la professione sognata. Di andarmene non era più il caso di parlare.

Qualche mese dopo, per giunta, il divorzio in Italia era già divenuto realtà. Iniziai subito la causa di separazione e intanto vivevo segretamente con Anna.

Ed ecco che siamo arrivati al punto di partenza, perché non mi resta più nulla da narrarti, Antonio. Siamo cioè giunti al nostro ultimo incontro al palazzo di giustizia di Milano.

Non parlammo di politica o del ruolo della giustizia nella società, come era accaduto in nostri precedenti incontri, per paura di mutare l'incontro in scontro. Preferimmo ricordare qualche episodio di quando eravamo ragazzi a Lecce. Ma poi, non so come, il discorso cadde sulle mie traversìe coniugali e ti confessai che vivevo già con un'altra donna. Ci rimanesti male, ricordo. "E la causa di separazione l'hai promossa tu?" mi chiedesti. "Sì, per forza, io spero di sposarla la donna con cui vivo." "Ma la perdi la causa, se si viene a sapere che vivi con un'altra donna, perché prende consistenza il sospetto che ti dividi dalla moglie per un incapricciamento. E se tua moglie rifiuta la separazione consensuale o non chiede, a sua volta, la separazione per colpa tua, il tribunale rigetterà la tua domanda e tu il divorzio te lo scordi."

"Come sarebbe?" chiesi io stupito. E tu mi spiegasti che, secondo la nostra legge, il coniuge incolpevole, se tale è veramente e tale riesce ad apparire davanti al tribunale, è nelle condizioni di impedire, volendo, all'altro coniuge il divorzio. Il che, con molta disonestà intellettuale, democristiani e uomini della mia parte, si guardavano bene dal fare apparire nella recente campagna pre-referendum.

Ho il dente avvelenato con la storia del divorzio?

E per forza. Metterei chiunque nelle mie condizioni e vorrei vedere se non c'era da rodersi il fegato, da dannarsi, da aver voglia di distribuire legnate attorno, sentendo che si voleva spazzare via dalle nostre leggi il divorzio.

Ho finito. Non ho altro da dire.


XIII
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O, meglio, qualche altra cosina mi resterebbe da dire. Fate pazienza, vi prego. Se m'avete sopportato fin qui, un piccolo sforzo siete in grado di farlo ancora, via.

Qualche altra "cosina" che sono, poi, un gruppetto di considerazioni che io butterò senza un ordine preciso, ma a mano a mano che me le troverò sotto la penna.

Innanzi tutto la prima considerazione è che voi dall'esposizione della mia vita tirerete subito una conseguenza: che io non ho mai brillato né per fermezza di propositi né per logicità di decisioni e consequenzialità di comportamenti.

Incline alla vita di pensiero, propria di chi scrive, ho trovato sempre (e non, certo, senza averle cercate) occupazioni confacenti a chi fa professione di "attivismo".

Negato per la vita militare perché mi è connaturato un individualismo che nulla si sente di sacrificare allo "spirito del clan", mi sono imbevuto di un'ideologia che vede nell'individuo solo una componente della società e a questa lo asserve, ho sguazzato dentro formazioni paramilitari e ho scelto un "inquadramento" che predilige la disciplina militare e il culto delle forze armate.

Di indole mite, alieno dalla violenza e dal sangue, impressionabile più del necessario, ho idolatrato la forza e la violenza e ho creduto per lungo tempo anch'io che i problemi politici andassero risolti con la forza perché l'historia è sì magistra, ma non di vita, di violenza.

Amo una ragazza, negli anni della prima giovinezza e non riesco a suscitare in lei vero amore, ad accendere fra noi due - o con il fuoco dello spirito o con le attrattive dell'ardore sessuale - alcunché di duraturo, sicché un altro può portarmi via facilmente tale donna; trovo finalmente la donna con cui c'è perfetta consonanza, ma la lascio andare per la sua strada e mentre amo ancora questa seconda, sposo la prima che non amo più.

Sì, lo riconosco, una serie di contraddizioni nella mia vita, da poter pretendere il diploma di maestro di incoerenza.

Oh, certo, se volessi, potrei trovare giustificazione per ognuna di queste contraddizioni. Potrei dire che, sì, mi sarebbe piaciuto fin dagli anni della prima giovinezza fare unicamente lo scrittore. Ma questo è destino di pochi privilegiati, non soltanto toccati dal dito della divinità, quella che non distribuisce fra gli uomini il genio a manciate, ma per di più favoriti anche da particolari circostanze. Sicché è riuscito di fare soltanto il letterato al Petrarca ma non all'Ariosto, a D'Annunzio ma non a Pascoli, a Proust ma non a Kafka.

E se, perciò, accortomi che la mia "vocazione" allo scrivere non solo era incostante, ma mancava di quegli estri e quegli slanci che antepongono una certa attività dello spirito a qualsiasi altra cosa della vita, e per giunta non trovava occasioni di amicizie opportune, agganci con intenditori, quel pizzico di fortuna insomma che, in questa come in ogni altra cosa, non può mancare, mi decisi a dedicarmi ad attività pratiche, non posso muovermi grossi rimproveri.

L'antimilitarismo, poi, di tipo innato - forse mi proveniva da mio padre, direttamente attraverso i cromosomi - mi dava e mi dà nausea anche alla sola vista delle divise e di certi tavolati pettorali che sembrano medaglieri (i sovietici poi - ve li raccomando - i medaglieri li fanno anche sull'abito civile) e mi faceva e mi fa stare, senza volerlo, male quando sentivo e sento che in una parte del mondo si instaura un altro regime militare. Ma poi alle idee "innate" (oh, se aveva ragione Platone e se in ogni pensiero di filosofo antico non c'è una grande intuizione di un futuro accertamento operato dalla scienza moderna!) si aggiungevano le idee acquisite: la necessità di combattere il comunismo, il mito dell'ordine sociale e così via. Perciò mi piegavo alle esigenze pratiche che imponevano alla parte in cui mi ero messo di conservare, come una preziosa tradizione da perpetuare, lo spirito militarista.

E lo stesso discorso vale per la violenza e l'idolatria della forza come fermento della storia. Ciò che si rifiuta, in linea personale, nell'ambito dei rapporti privati, perché contro i propri princìpi etici o semplicemente contro il proprio modo di sentirsi uomo, può invece apparire del tutto giustificabile, superiore a ogni morale, nell'ambito dei rapporti fra gruppi, fra partiti, fra stati.

Su tale argomento m'accadde - e non è trascorso molto tempo - di avere un'animata discussione con "Marco".

"Non posso ammettere" mi scappò detto "che quello che è ingiusto o, addirittura, infame se fatto a scopo privato, una rapina, un'estorsione, un omicidio per esempio, possa trovare giustificazione se si fa per uno scopo politico."

"Guarda che tu sei ancorato a certi idealismi, a certe vedute romantiche da cui ti devi sganciare. Ti devi svegliare!" replicò "Marco". "Di fronte alle concezioni che i comunisti impongono ai loro iscritti, guarda che tu stai proprio dormendo. Il partito può esigere tutto da loro, anche la rinuncia alla loro personale dignità di uomini, come quando si riconoscono colpevoli di misfatti politici inesistenti. Come possiamo combatterli se non adottiamo, quanto meno, la loro stessa disciplina?"

Mi ribellai a queste concezioni e questionammo. Velatamente (ma poi non tanto) rivolsi a "Marco" l'accusa di machiavellismo di basso conio.

Ma tutto sommato finivo coll'accettare almeno una parte del suo corredo di idee. E se vim vi repellere licet, se la legge penale stessa autorizza, in sede privata, a opporre violenza a violenza per difesa che, se proporzionata all'offesa, diventa legittima, a maggior ragione in sede politica si può opporre violenza a violenza.

Da queste asserzioni a quelle di "Marco", secondo cui la violenza può e deve essere stroncata anticipatamente con la violenza e che il terrorismo rosso va prevenuto con terrorismo "preventivo" o "dimostrativo", il passo non è poi molto lungo.

Se da queste contraddizioni che si riferiscono ai convincimenti, alle attività, alla posizione che si assume nel consorzio umano, passiamo alle contraddizioni più intime, quelle della vita dei sentimenti, allora ben più ampie e ben più convincenti possono essere le mie giustificazioni. E se tutto quello che son venuto scrivendo circa i miei rapporti con Silvia e con Anna, i miei errori, le ansie, gli impulsi irragionevoli, le illusioni, le speranze di rapporti d'amore duraturi, non è servito a farmi assolvere da voi - come ogni essere umano va, per tutto ciò che concerne le vicende del cuore, assolto sempre - allora ho fatto una ben inutile fatica.

Ma, poi, tutto sommato, che i miei improbabili lettori mi assolvano o meno, non è cosa che mi assilla tanto, se scopo essenziale di queste mie righe era lo sfogo e dar prova a me stesso di una sincerità, se necessario, anche spietata.

Ci si nasconde, spesso, a se stessi. È comodo. No, io avevo bisogno di verità. Ecco, in questo senso, mi sento assolutamente giornalista.

Chi scrive per l'informazione, qualunque sia la sua fede politica, non può che amare la verità. E in questo, date retta a me, il giornalista di destra non differisce da quello di sinistra. Certo ognuno di essi presenterà la "notizia" secondo il proprio angolo visuale, ma l'accertamento della verità di essa sarà un'ansia per l'uno come per l'altro.

Ma, nel sommovimento di idee, che si è prodotto dentro di me in questi ultimi tempi, anche il problema della posizione di un giornalista in un regime autoritario mi si è posto dinanzi con un'evidenza dilemmatica come mai prima d'ora m'era apparsa: la libertà di stampa non può andare a braccetto con nessun regime, comunque esso si denomini, se di "regime" si tratti, cioè una detenzione del potere che non solo non ammette alternative ma schiaccia le opposizioni, soffoca le irrequietezze, condanna le critiche e le censure, imbavaglia la stampa.

Come potevo, dunque, io giornalista, che avevo sempre sognato di divenirlo, che avevo ritenuto, divenendolo, di essermi veramente realizzato, accettare l'idea di uno Stato autoritario che, per il solo fatto di esser tale, non può che sopprimere la libertà di stampa?

Questa sì mi appare la mia più grande incoerenza. E me l'ha resa manifesta, scaturendone come tutta la mia crisi, una incoerenza apparente: l'avere io, militante nelle file della destra, votato "no" al referendum.

Sì, certo, l'incoerenza è una gran brutta piaga della vita umana. Ma guardate intorno quanta ce n'è. L'incoerenza di chi predica bene e razzola male, di chi non sa essere come è e si adatta a essere come la società vuole che sia. L'incoerenza di chi smentisce continuamente i propri princìpi, di chi li cambia come le carte d'un gioco, di chi finisce col deriderli. L'incoerenza di chi si adatta al mutare del vento politico, di chi, pur di restare sempre a galla, adotta una sola bandiera, il camaleontismo. L'incoerenza di chi non sa fare andare d'accordo il sentimento d'amore con le pulsioni sessuali, tradendo il coniuge cui pure vuole bene. L'incoerenza di chi, perduta la fede in Dio, si tiene addosso la tonaca di prete o, se è laico, la sovrastruttura di pratiche religiose. E così via. Ognuno di noi, se ci guardiamo bene dentro, è impastato di incoerenze.

Ma se l'incoerenza è il frutto dell'accendersi in noi di una luce che fuga le tenebre in cui vivevamo immersi, se è il colpo di timone che ci evita di fare arenare la nostra barca, se è il campanello d'allarme che ci avverte di un imminente disastro, allora benedetta l'incoerenza.

"Ma come? Tu, missino, giornalista del Secolo, voti "no" il 12 maggio?"

"Missino, giornalista del Secolo, voterò "no"."

"Ma non è un'incoerenza?" Sì, amici miei, è tale incoerenza che mi ha svegliato, che mi ha fatto cambiare di rotta, che ha messo un punto fermo con il me stesso di prima e apre un nuovo capitolo della mia vita. È tale incoerenza che mi ha fatto dire, definitivamente, chiaramente, no al neofascismo.

Fascista, forse, nel senso più pieno della parola non lo sono mai stato e ho continuato, pur vivendo e lavorando in mezzo ai neofascisti, a rifiutare questa denominazione. Ma allettato da molte delle premesse e delle vedute politiche proprie del fascismo e dei sistemi affini, certamente, sì.

Ho vergato queste righe tra la fine di maggio, poco dopo la strage di Piazza della Loggia e i primi di agosto. La strage dell'"Italicus" è di ieri.

Basta, grida la maggioranza degli italiani indignata, con questi nefandi tentativi di instaurare in Italia un nuovo fascismo. Basta, ho detto anch'io a me stesso. Son giunto, perciò, a una specie di esame di coscienza.

Mi smarrisco io stesso cercando le cause della mia collocazione politica. In che terreno ha potuto germogliare e poi prosperare, dando anche copiosi frutti - in contributi attivi, in sincero convincimento propagandato attorno - l'ideologia neofascista? Detriti romantici e sentimentaloidi? Contraddittorie concezioni filosofiche della vita? Nessuna chiarezza di idee sui processi storici, sui conflitti sociali degli ultimi centocinquant'anni, sui problemi dilemmatici che incombono sopra l'avvenire dell'umanità? Non so. Forse tutte queste cose messe assieme.

Ma una ragione - e chi di dovere dovrebbe farci bene attenzione - mi pare abbia influito sopra ogni altra nella determinazione della scelta politica degli anni della mia giovinezza ed è questa: il fascismo esercita ancora, sui giovani della mia età e su quelli delle generazioni che vengono via via alzandosi al livello dell'età adulta, un'indiscutibile attrazione. E non parlo del fascismo come fatto storico, che i nostalgici di esso sono ormai una scarsa frangia in seno allo stesso M.S.I., ma parlo di fascismo come atteggiamento dello spirito: prepotenza giovanile, sfoggio di forza e di virilità, ambizione di leadership, gusto di appartenere a una élite "produttrice" di storia, disprezzo aristocratico delle masse, mitologia nazionalistica, pretesa di ergersi a castigatore dei matti, svegliarino dell'avventura per l'avventura, fascino del diverso, comunque, dalla realtà politica che si vive.

Si aggiunga a ciò che sono poche le ideologie in auge che riescono a far presa nei giovani. Non il comunismo per le sue chiare, abominevoli dimostrazioni di sopraffazione dell'uomo, da Stalin in poi, ché la musica non è gran che mutata. Non il socialismo che non sa più lui stesso da che parte voltarsi per indicare la sua strada e non è più in grado di dire se il sole che mostra sul suo simbolo sia nascente o calante. Non il cristianesimo "applicato alla politica" che ha dato le più nauseanti prove di cesaro-papismo - nonostante la parentesi giovannea - che si potesse immaginare. Da che parte, dunque, devono voltarsi i giovani?

E intanto, fatalmente, la "precipitazione" in senso fascistico degli stati a struttura capitalistica, anche di quelli che hanno adottato correttivi neocapitalistici, si va sempre più determinando.

E non parlo, come penso crediate, soltanto dell'Italia, in cui è ormai chiaro, in questa estate 1974, che da un quinquennio si stava preparando l'instaurazione dello stato neofascista e che solo alcuni errori di manovra, qualche imprevisto, qualche colpo di sfortuna (sfortuna per i neofascisti e fortuna, forse, per tutti) hanno potuto fare così miseramente naufragare il piano. Piano che, solo perché non è riuscito, viene chiamato con dispregio "eversivo", ma che se fosse andato a buon fine, si sarebbe detto "piano di ripristino dell'atlantismo", "piano del ritorno all'ordine democratico", "piano del potenziamento della stabilità delle istituzioni", "piano della ricristianizzazione dell'Italia" allo stesso modo come il 21 aprile 1967 instaurò la Hellàs tòn christianòn!

Ma qualcuno, suppongo, ha sbagliato i calcoli, qualche altro ha pensato ingenuamente che in Italia il neofascismo si possa instaurare senza passare per la diccì o per il portone di bronzo (e forse sia a piazza del Gesù che in Vaticano c'è qualche idea "variante" o addirittura diversa in proposito), qualche altro si è scordato che un colpo di Stato in Italia si può fare solo con il beneplacito della CIA (e forse zio Tom ha in questo momento altri grattacapi e, tutto sommato, d'un'Italia così "senza infamia e senza lodo" dal punto di vista atlantico ci si può anche accontentare); forse, infine, qualche frangia fanatica ha precorso i tempi e si è illusa che si può far tutto a suon di bombe e seminando il terrore fra la gente pacifica e innocente.

L'ondata di sdegno antifascista comunque passerà. I morti di piazza della Loggia e dell'"Italicus" saranno dimenticati come quelli di piazza Fontana. I processi sulle stragi e sulle trame nere si rinvieranno, si sparpaglieranno, si riuniranno, si ingarbuglieranno con conflitti di competenza, decisioni della Cassazione, altri rinvii, altre decisioni della Suprema Corte, altre istanze, altre impugnative, eccezioni, nullità, supernullità, annullamenti e ricominciate, signori, tutto daccapo...

Il neofascismo riprenderà, intanto, lentamente il suo lavoro continuo e metodico, quello legittimo nella sede del "partito ad hoc", quello fra il legittimo e il clandestino nei movimenti affiancati che, appena sciolti, si ricostituiscono, e quello segreto e sotterraneo fatto dentro i servizi segreti dello Stato, dentro la magistratura, dentro la polizia, dentro i ministeri e gli uffici statali periferici, dentro gli istituti previdenziali, dentro i mille e mille enti statali. E, in questo settore, il neofascismo non chiede "adesioni", no, non vuole che si indossino camicie, cerca solo insofferenza e stanchezza verso il sistema democratico, verso la dialettica politica, verso il dinamismo delle lotte sociali che si manifestano negli scioperi e nelle irrequietudini di piazza.

Passato lo scossone delle recenti bombe fasciste, tutto l'apparato burocratico tornerà quello che è sempre stato: neutrale e talora non alieno dal fascismo. Terreno, dunque, praticabile al fascismo.

E continuerà poi, oltre al lavoro visibile e invisibile, il lavorìo sotterraneo nelle coscienze dei cittadini: ah questo carovita! ah questi scioperi! ah questi disordini studenteschi! ah questo disservizio di tutti i servizi statali! ah questa delinquenza! ah questa debolezza della polizia! ah questi sbandamenti filo-operai e sinistrorsi di certi settori della magistratura!

Il fascismo come "stato d'animo" comincerà di nuovo a sormontare le coscienze, perché il futuro è - e me ne dispiace, ora che si è operato in me questo rovesciamento di idee - il futuro, dicevo, è del fascismo.

Un fascismo che sarà di tutti gli ordinamenti, anche di quelli che si servono del più verboso antifascismo, come l'Unione Sovietica, un fascismo che attanaglierà nella disciplina e nel più assoluto rigore il mondo e impregnerà di sé gli stati, qualunque sia la loro struttura economica, privata o pubblica o mista che sia la proprietà dei mezzi di produzione.

Perché l'essenza del vero fascismo, di quello che si delineò in Italia fra la prima e la seconda guerra mondiale (la cui importanza storica, come capostipite, resterà inoppugnabile), di quelli che son via via sorti con vari nomi, di quello che tenterà, e forse otterrà, la conquista del mondo (e solo un comunismo democratizzatosi gliela potrebbe contrastare, ma per ora fra comunismo e democrazia c'è contraddizione in termini), sta nella soppressione intera della libertà del singolo a favore di un'"organizzazione purchessia", ma sempre a profitto di pochi privilegiati, costituiscano essi una classe economica o una casta di superburocrati insediata nei vari cremlini.

È fatale, imprescindibile alla società umana la legge della "complessificazione esponenziale", tutto cioè va complicandosi moltiplicando il tipo di complicazione sempre per due. Mi spiego meglio: se una cosa è oggi complicata una volta, domani sarà complicata due volte e dopodomani quattro volte, e fra tre giorni otto volte, e poi sedici, trentadue, sessantaquattro... e vi saluto, continuate voi a farli i conti. In fondo rassomiglia alla legge naturale della complessificazione degli organismi, che ha guidato l'evoluzione della specie dal protozoo all'uomo. Così ogni problema che concerne l'organizzazione sociale si sdoppia (ogni cellula si divide in due cellule) e i due problemi ne creano due per ciascuno e così via e, come ogni cellula viene poi specializzandosi - la legge della specializzazione, si sa, affianca in natura quella della complessificazione - ogni problema diventa uno specialissimo complicato problema.

Ma quanto più le cose si complicano, tanto più ci vuole organizzazione. Ci vogliono leggi, regolamenti, controlli, supercontrolli, disciplina. Tanto più, dunque, bisogna sacrificare la libertà umana...

E allora ecco la tentazione. Poiché organizzare, quanto più le cose si complicano, diventa sempre più difficile, "affrontiamo" si dice "il problema alla base, tagliamo il male, la libertà, alla radice, facciamo un ordine assoluto, cioè il fascismo."

Non lo so, tutto sommato, se queste "profezie" abbiano il benché minimo fondamento né mi spiego come la mia mente sia riuscita a formulare questi pensieri.

Quando ho scritto le prime righe di questa narrazione, il pensiero di un mondo fascistizzato (o, per non usare questa parola che allora evitavo, diciamo, gerarchizzato, impiramidato) mi avrebbe fatto piacere se fossi riuscito a formularlo come una prospettiva dell'avvenire, come un "futuribile". Ma, nella crisi di idee con cui ho cominciato a scrivere, questa prospettiva non mi si affacciava alla mente. Ed ecco che essa mi arriva alla fine di questa fatica.

E mi arriva proprio quando, forse perché attraverso la narrazione sono riuscito a chiarire me a me stesso, m'accorgo che in mezzo alle mie vedute filofasciste ha sempre serpeggiato una certa inclinazione alle idee di libertà. Sarei ora capace di stare, qualunque cosa avvenga, dalla parte della libertà? Saprei lottare per difenderla con le unghie e coi denti?

Le mie previsioni - ammesso che non siano balordaggini di un momento di confusione della mente non sono davvero rosee per chi avesse il culto della libertà umana. E se il mio "posto" fosse, come mi pare ormai certo, scelto definitivamente, esse sono pessimistiche anche per me.

Temo davvero che non si tratti, proprio no, di balordaggini di un visionario. Probabilmente la marea autoritaria, la necessità di ordine - sia rosso, che nero, che giallo, che color-cane-che-fugge - ci sormonterà, ci travolgerà tutti. Tutti quelli che amiamo, chi da sempre, chi da poco come me, la libertà. Ci schiaccerà.

Ma starò sulle barricate dove la vera essenza dell'uomo, prima che egli diventi fantoccio, sarà venduta cara.

E dopo una sparata di tal fatta, posso posare la penna. "Sparata" sì. Perché penso che, come milioni di altri individui, se il "fascismo universale" ci arrivasse addosso veramente, sarò pecora anch'io, fra le pecore.

FINE

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