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Privacy Policy Cookie Policy Terms and Conditions Luigi Grande: L'incoerenza (cap. 07 - 09)
Luigi Grande: L'incoerenza
Copertina Introduzione _I_ _II_ _III_ _IV_ _V_ _VI_ _VII_ _VIII_ _IX_ _X_ _XI_ _XII_ _XIII_

VII

E mi trovai così in una caserma. Recluta. Attanagliato dalla malinconia. Il pensiero fisso a Silvia. Ma le sue lettere si facevano aspettare a lungo ed erano sempre più tiepide e talvolta superficiali. Io non sapevo conformarmi alla vita militare e non riuscivo a legare con nessuno dei miei nuovi compagni. Continuando a chiudermi e appartarmi, non facevo che aumentare l'atmosfera gelida che mi ero creato attorno.

E un giorno l'antipatia, che io senza saperlo ispiravo, esplose in un litigio - Dio solo sa quale, e quanto futile, fosse il motivo - con un compagno, che era tanto più robusto di me. Ebbi la peggio e la cosa si concluse prima in infermeria e poi in prigione per sette giorni.

Quell'episodio veniva a dare terribilmente peso ai pensieri, che, da quand'ero militare e forse anche da prima, si agitavano in me in modo informe, senza che io ne sapessi o ne volessi prendere piena coscienza .

Nella vita - mi dissi finalmente in maniera chiara - c'è un solo valore: la forza. La bontà, l'onestà, tutte le altre cose tanto belle a dirsi e di cui gli uomini si riempiono la bocca, che peso hanno? sono retorica. Il diritto non è che il diritto del più forte.

Su quali fattori poggia - mi chiedevo abbastanza ingenuamente e forse stoltamente - la valutazione dell'individuo nella vita militare? Sulla sua capacità e resistenza fisica, sulla sua forza, sul suo addestramento muscolare, sulla sua abilità sportiva. Io che possiedo, concludevo sconfortato, questi requisiti in misura assai limitata, sono l'ultimo degli ultimi. E la vita militare - specialmente quella che si fa "gustare" agli allievi ufficiali perché se ne imprimano bene in mente il sapore - altro non è che una sintesi, una prova generale della vita vera e propria, che in fondo - così mi sembrava - non ho ancora pienamente affrontato. (Del resto il vezzo di rimandare l'"inizio" della vita vera e propria è un difetto di tutti: "la vita comincia a quarant'anni" si dice quando cominciano gli anni della discesa).

L'idolatria della forza era propria dell'ideologia che avevo accettato e poteva accadere che anche a individui come me, miti nel fondo e sostanzialmente alieni dalla violenza, gli atti che denunciano l'origine ferina dell'uomo - come il colpo di catena sulla faccia dello studente, per cui a volte avvertivo un invincibile senso di colpa - apparissero come qualcosa di cui andare orgogliosi, qualcosa che li svincolava, almeno per un'ora, un attimo, dal loro destino di pecore, e l'idolatria della forza apparisse come la vera religione.

In questo inizio di estate 1974 - a un mese circa dal referendum e a pochi giorni dalla strage di Piazza della Loggia - in cui sto scrivendo queste righe e tutto quello in cui finora ho creduto è smosso dal fondo, ribaltato, spappolato in un cumulo di frantumi che non so più ricomporre, mi chiedo con angoscia come era possibile che io fossi giunto a ragionare così, a credere nella "legittimità" della forza e della violenza.

Se a un giovane come me, che pure aveva una sua cultura anche extrascolastica, che aveva un suo, per lo meno normale, spirito critico, cui non erano mancate altre "fonti di convincimento" politico - in particolare mio cugino Davide - che aveva sempre istintivamente aborrito dal sangue e dalla violenza, poteva a un certo punto apparire saggio il culto della forza, che cosa poteva far germogliare un "vangelo della violenza politica" in uno spirito più debole, in una mente meno perspicace e più culturalmente impreparata?

Ricordo, comunque, che quei pensieri mi crocifiggevano. Era un continuo accorgermi di essere sbagliato, un continuo rimproverarmi di essere in preda a un sentimentalismo non più di moda e ridicolo nel mondo d'oggi, un constatare che il rimuginio interiore, il ripiegarsi su di sé non potevano che portarmi a risultati disgraziati. Continuando a ragionare, o a sragionare, io sovrapponevo una testa gigantesca a un corpo estremamente fragile. Mi costruisco, dicevo, l'infelicità con le mie stesse mani. O meglio, ce l'ho bell'e pronta. Il motivo è semplice: sono un debole.

Passavo così da considerazioni di ordine generale a "querimonie" sulla mia vita interiore. Devo, devo cambiare, mi ostinavo. La vita va vissuta nella sua pienezza: movimento, sviluppo e armonia dell'organismo, soddisfazione dei sensi, lotta (che mescolanza di cose! E come potevo metterle insieme?) Per vivere - così venivo... scoprendo l'America - è necessario essere forti, non sentimentali inquieti rosi da scrupoli: perché, per esempio, continuare a vedere quelle mani sugli occhi e di tra le dita sgorgare il sangue? Solo i forti hanno il diritto di vivere, concludevo da... autentico idiota.

Certo oltre all'influsso che aveva esercitato su di me "Marco" con le sue teorie sulla necessità che il comunismo, peste del mondo, doveva essere combattuto con la violenza, influivano in questo guazzabuglio di pensieri i tormenti del mio farmi adulto.

Mi accorgevo delle pecche del mio carattere: una certa dose di abulia, un continuo tentennare dinanzi a qualsiasi decisione, e quell'inclinazione di non pochi esseri umani a lasciarsi trascinare nei fatti più che a entrare in essi, imprimendovi l'impronta della propria volontà.

Se esaminavo, persino, i miei rapporti con Silvia, mi accorgevo che era lei a dare l'indirizzo, il tono, e non io. Scoprivo, quasi con sorpresa improvvisamente, che mi lasciavo guidare interamente da lei. Io ero stato, infatti, di fronte a lei come in una specie di adorazione, stordito in un'ubriacatura sentimentale, incapace di manifestare veramente il mio amore e, quel che è peggio, incapace di suscitare in lei vero amore. Devo mutare, dobbiamo mutare io e lei. L'amore non può continuare a essere amicizia spirituale.

Di tutti questi miei pensieri, certo, non traspariva che una minima parte nelle lettere dirette a Silvia, ma tanto quanto bastava per metterla in apprensione.

Doveva essere quello un periodo particolarmente difficile per lei. In un modo o nell'altro, forse scrivendole, forse chiedendo e, magari, ottenendo un incontro, Davide doveva già averle manifestato i suoi sentimenti. Probabilmente Silvia cercava di sfuggire a ciò che sentiva nascere e crescere in lei, tentava di aggrapparsi a quello che credeva amore per me. Perciò nelle sue lettere c'erano frasi come queste: "Se crediamo a tutto ciò che ci siamo detti in più di un anno, se abbiamo fede in noi e nei nostri sentimenti, questa lontananza non deve farci paura. Non sappiamo cosa ci riserva l'avvenire (questa ansia di Silvia per il futuro mi stupiva), ma qualunque cosa avvenga, io sono certa di me: ti vorrò bene sempre."

Era una grande, inconsapevole bugia.

Io non so quando Silvia si scoperse irrimediabilmente innamorata di Davide. Allora, certo, non sapeva di mentirmi.

Forse anche lo stesso Davide, dapprima, doveva essere ben lontano dal progettare una relazione con Silvia e magari si illudeva di spegnere quella simpatia. Sentiva l'assurdità del pensiero che da un po' di tempo lo crucciava? Ma è assai raro che gli uomini siano più forti dei propri sentimenti.

Le cose, con la loro forza oscura, sembrarono favorire il sorgere della loro relazione. Silvia, non so perché, finito il liceo, anziché iscriversi all'università, troncò gli studi e andò a vivere con la nonna a Roma, forse su insistenza di costei o perché si sperava che presto si sarebbe persuasa a dire di sì al "pretendente". Contemporaneamente Davide, che si era fatto sempre più strada in sede sindacale, ottenne un incarico presso la sede centrale della CGIL a Roma.

Fu proprio da Roma che mi giunse una lettera di Silvia nella quale mi scriveva che notava in me, da qualche tempo, una diversità che non riusciva a definire. Le sembravo, sì, sempre affettuoso, ma a volte strano, strampalato addirittura in certe affermazioni. E questo, concludeva, non poteva che condurre a un allontanamento delle nostre anime (non era piuttosto il suo inconscio che preparava una "onorevole ritirata"?).

Già in una precedente lettera Silvia mi aveva fatto chiaramente intendere - poiché io, non so a che proposito, mi ero lasciato sfuggire una frase sarcastica sulla "Repubblica nata dalla Resistenza" - che non poteva condividere le mie idee. E mi aveva così rivelato che suo padre aveva fatto il partigiano e che parlava sempre di un suo caro amico fucilato dai fascisti e il cui corpo era stato buttato, a piazzale Loreto, il 10 agosto 1944, insieme a quelli di altri quattordici partigiani. Quell'essere, diceva sempre suo padre, che sembrava tanto scettico, che sghignazzava quando gli si parlava di dovere, di ideali, seppe combattere per un ideale vero, di quelli che la gente nemmeno chiama così, tanto son veri, e morire da eroe. "Era la difesa della dignità dell'uomo l'ideale per cui egli era morto - precisava Silvia, riferendo le parole di suo padre - ma forse lui stesso nemmeno gli dava un nome. Non gli sentii mai in bocca parole come: patria, libertà, democrazia. Gli sentii dire solo una volta: "Ci vorrebbero trattare come scarafaggi, i nazisti." E c'era, tutta, in queste parole, la spiegazione della sua rivolta. Ora ce li siamo scordati, lui e gli altri. O meglio vengono esaltati nella retorica delle celebrazioni ufficiali ogni 25 aprile. Il che non serve a niente."

Replicai a quella lettera un po' scocciato, quasi sprezzante. Dopo tutto, scrissi, ogni fatto storico può essere narrato da diverse angolazioni ideologiche e appare un fatto diverso. Ma alcune parole del padre di Silvia mi restarono impresse. E in modo particolare: "Un ideale vero, di quelli che la gente nemmeno chiama così, tanto son veri."

Oggi, non so perché, continuo a pensare a quella frase e credo che essa ben si attaglia a quella fede, che mi pare sorgere dalle macerie che ho dentro di me, la fede nella dignità e nell'intangibilità di ogni, dico "ogni", vita umana.

Ma è chiaro che allora quella lettera di Silvia e poi le successive in cui essa trovava strampalate le mie idee - che presentavo come "nuove certezze" - sull'idolatria della forza fisica e sull'ineluttabilità della violenza, cominciarono a creare nel mio sentimento d'amore screpolature da... abbassamento di temperatura.

Intanto, sebbene continuassi a proclamare dentro di me il mio amore per Silvia quasi fosse un articolo di fede, un inattaccabile dogma, ero tutto proteso alla ricerca dell'amore fisico. Di un'avventuraccia, magari, purché raggiungessi il traguardo della mia prima relazione erotica con una donna. Mi pareva che, solo in questo modo, non mi sarei più sentito un essere debole.

Forse vi faccio sorridere, miei pazienti amici (e se siete arrivati a leggere fin qui, il titolo di amici, ormai, ve lo meritate di pieno diritto) e viene voglia di sorridere anche a me, riesumando questi miei pensieri di ragazzo.

Ero, e sono per molti aspetti ancora, un essere debole. Ma, cercando di non esserlo, riuscii solo a divenire cattivo.

La fermezza, la fortitudo, invece, può andare d'accordo con la bontà. Com'è stato difficile per me arrivare a questa certezza, che è, in fondo, un luogo comune.

Non è vero che il mondo, come ho creduto per tanti anni, appartiene e apparterrà sempre a chi detiene la forza e che spesso si tratta di un forte malvagio. Certo la storia non manca di esempi di tal genere e il passaggio del potere, quasi senza soluzione di continuità, da un detentore a un altro detentore, spesso più bieco, della forza può fare accettare questa errata concezione come un'ineluttabile verità.

Ora so che la civiltà umana è stata creata dalla tenerezza e dalla mansuetudine, dai fondatori di religioni, dai portatori di parole ai amore e di pace, e non dai conquistatori, dai carnefici, dai guerrieri. Da Zoroastro e non da Assurbanipal, da Cristo e non da Giulio Cesare, da Francesco d'Assisi e non da GengisKhan, da Gandhi e non da Hitler.

E so, quindi, ora, che il mondo appartiene, e apparterrà sempre più ai buoni, a una sola condizione, però, che essi abbiano la forza di sapere restare se stessi, agnelli cioè, anche in mezzo ai lupi. E salire, quand'è il momento, il Calvario e lasciarsi inchiodare in croce. La funzione del Cristianesimo nel mondo, perciò, non è finita a dispetto di diciannove secoli di nauseante storia ecclesiastica.

Son caduto, senza volerlo, in una specie di predicozzo, di quelli che anche un parroco di campagna appiccica sempre alla sua omelia domenicale. Scusate. Ma non ho saputo significare meglio di così il mutare faticoso, quasi lacerante delle mie idee. Quello che mi premeva dire - e non so se ci sono riuscito è questo: non era del tutto colpa mia se allora ragionavo in ben altro modo. Mescolavo insieme, in un unico giudizio di riprovazione, debolezza e bontà. E, ciò che è più ridicolo, nel gran caos di idee che regnava in me, mi pareva che la debolezza fosse collegata con la temperanza sessuale.

Ogni sera, in libera uscita, mi disponevo alla ricerca di un'avventura amorosa. Ma me ne tornavo sempre con le pive nel sacco. "C'è chi dice di sì, c'è chi dice di no" squillava la tromba suonando le note della ritirata, secondo l'ingenua versificazione che i soldati hanno appioppato a tutti i segnali di tromba, "lascia la bionda, ché passa la ronda, ritìrati cappellòn!"

E per me, ogni sera, quelle note erano la sinfonia mesta, la musica desolata, che accompagnava la mia sconfitta.

Mi giustificavo, però. Mi dicevo che le cose mi andavano così male, perché ero troppo fedele (fedele anche senza volerlo, per inclinazione incoercibile) a Silvia. Così rifacevo i miei propositi per la sera successiva, ripetendomi che era illogico mantenermi fedele a un sentimento "tutto spirito". Basta, giuravo, con la vita balorda che ho condotto fino adesso. Sono un giovane come gli altri. Devo vivere, pensare, godere come gli altri.

Questa mia interna inquietudine non giovava alla mia salute, che era stata ottima finché ero vissuto a Lecce e che aveva avuto poi un brusco cambiamento - una tonsillite dietro l'altra, bronchite quasi cronicizzata, continue emicranee - non solo per il clima di Milano ma per il mio precipitare in uno stato, quasi continuo, di infelicità. Da militare la mia infelicità si era dilatata nuovamente. Così, mentre c'è gente che dal servizio di leva trae benefici alla salute, io invece ne ricavai una malattia piuttosto seria, pleurite.

Guarito dopo circa due mesi, ottenni una licenza di convalescenza. Silvia mi aveva scritto affettuosamente mentr'ero ammalato e fece in modo - o capitò così, non saprei - di rientrare a casa a Milano, dai suoi genitori, in occasione della mia licenza.

In quei giorni, brevissimi e felicissimi, non mi ricordavo nemmeno più dei miei crucci. Non c'era che Silvia a occupare il mio cuore. Quasi tutti i pomeriggi ci incontravamo e qualche volta si riusciva a uscire dopo cena.

Colsi così, una sera, l'occasione per baciarla. Attrattala in un angolo un po' appartato, dapprima le accarezzai le mani. Ma non sapevo andare oltre. Dovetti farmi forza per vincere la mia timidezza.

Fu in questa svolta dei nostri rapporti che capii di non essere amato da Silvia. C'era ormai Davide nel suo cuore. Ignaro di ciò, avvertivo tuttavia la sua freddezza. "È amore il nostro? È amicizia. E allora salutiamoci da buoni amici e facciamo punto." Ma non ci lasciammo.

Dovrei parlare, ora, dei rapporti fra Silvia e Davide. Ma è il brano più difficile per me. E non perché mi siano ignote le varie circostanze o perché debba fare sforzi per immaginare i loro pensieri, le loro ansie.

A lungo, nel corso della nostra breve vita in comune, Silvia mi parlò di questo periodo della sua esistenza. Essa stessa, come in una specie di confessione, cercò di spiegarmi il suo comportamento e quello di Davide, quasi fosse possibile, dopo avere sviscerato ogni angolo buio, metterci una pietra tombale sopra e iniziare una nuova vita.

Non ci accorgevamo che io con la mia morbosa curiosità provocata da gelosia postuma, lei con la sua voglia di continuare a parlare di quel periodo, per sbarazzarne, diceva, la sua memoria, ma obbedendo, invece. all'inconscio bisogno di restarvi ancorata con il rimpianto, continuavamo a scavare un abisso fra noi che divenne incolmabile.

Forse a un certo punto, cominciammo a odiarci senza saperlo. La radice del fallimento del nostro matrimonio sta qui.

Se volessi esporre quel che avvenne nella vita di Silvia, non mi mancherebbe dunque il materiale per farlo. Ma quanto mi pesa.

Per soffrirne meno, dovrei essere capace, affrontando la narrazione di questo brano importante della vita di Silvia e per riflesso importante anche per me, di spersonalizzarmi. Dovrei saper essere un narratore quanto più obiettivo si possa immaginare. E capisco che è estremamente difficile. Farò del mio meglio.


VIII
(torna all'indice)

Quando, dopo la fine della mia licenza, ritornai al mio reggimento, non ero riuscito, non dico a capire, ma neanche a intravedere, a sospettare, la silenziosa lotta che Silvia conduceva contro se stessa.

Invano, forse, essa si diceva pazza. Davide aveva preso posto, con prepotenza, fin dal primo momento, nelle sue fibre più segrete. Allietava e crucciava i suoi sogni.

Forse al primo incontro essa accondiscese per leggerezza, senza rifletterci, ma poi, quando entrambi si trovarono a Roma, le parve una cosa quasi naturale continuare a incontrare Davide, che le parlava di amicizia sincera, priva di sottintesi, che voleva "soltanto" parlare con lei della sua infelicità coniugale. E lei lo ascoltava, lo confortava, e il loro legame, ancora da nessuno di loro chiamato con il vero nome, diventava sempre più saldo.

Ma a un certo punto Davide non volle più mentire con se stesso e con lei. Durante una sua breve assenza da Roma, le scrisse parole chiare d'amore e le fissò un appuntamento.

Era il periodo in cui Silvia era in ansia per la mia salute. Ma la lettera di Davide distrusse - ne sono certo - ogni altra preoccupazione, ogni altro pensiero.

Si propose (così ebbe a narrarmi) di non andare all'appuntamento fissatole da Davide. Ma passò una notte d'inferno. Da una parte un'immagine scialba e lontana, la mia, cui essa cerca invano di aggrapparsi, e dall'altra Davide e un desiderio violento di lui, come in vita sua mai aveva provato. Nonostante tutti i propositi contrari, Silvia va all'appuntamento. La scena è viva in me, come se l'avessi vista proiettata su uno schermo. E certo è stata la mia fantasia a fissarla così. Sono imbarazzati. Davide non sa da che parte incominciare il suo difficile discorso. E Silvia è inquieta, intanto. Vuole andarsene senza neanche lasciarlo parlare. Non riesce a capire come si sia decisa a incontrarsi con lui. Le pare di avere agito come un automa.

Davide accenna alle ultime vicende con sua moglie. Carla, dopo un altro violento litigio, l'ha piantato portandosi via tutto. Si interrompe e le parole, che da un po' viene cercando, scaturiscono spontanee: "In mezzo a tante amarezze, non c'è stato che il pensiero di te a sostenermi."

Silvia abbassa gli occhi. Tace per un po'. "Ma lo sai che io voglio bene a Rodolfo."

"Anch'io voglio bene a Rodolfo. Ma l'amore non è solo voler bene."

"Restiamo amici, Davide. La questione di una scelta non posso neanche pormela. Tu sei sposato. Forse vi riconcilierete. Ragiona, ti prego. E lascia che anch'io mi faccia guidare dalla ragione."

Silvia si rifiutava, ancora, di ammettere il suo amore per Davide e di riconoscere di avermi mentito e di continuare a mentirmi. Ma ogni sera la figura di Davide è piantata lì davanti ai suoi occhi, nel buio della stanza. Rivede il suo sguardo pieno di desiderio, le sue labbra, risente la sua voce.

Finché era sveglia - mi confessò una volta - le pareva di saper combattere e allontanare quell'immagine, invocando quella mia. Ma nel dormiveglia, mentre pensieri indefiniti svaporano dal suo cervello, era come se si abbandonasse fra le braccia di Davide e così, rannicchiata in lui, vibrante e quieta insieme, riusciva a prender sonno.

A volte la mattina si sentiva interiormente svuotata. Senza desideri, senza rimorsi, senza amore. Cercava, invano, di studiarsi, di esaminare serenamente la situazione e la verità dei suoi sentimenti, di capirsi insomma.

Quell'incontro, comunque, finì con un nulla di fatto. Ma Davide insisteva con altre lettere.

Fu tutta un'altalena di propositi, di pentimenti, di smarrimenti, la vita di Silvia in questo periodo. Né io posso, per quanti sforzi possa fare per essere narratore obiettivo, riuscire a metter su un'esatta ricostruzione.

Ecco, piuttosto, cercherò di far rivivere un momento della vita di Silvia di allora, un momento di cui lei ebbe a parlarmi. Uno di quei momenti - ci capita a tutti di viverne - in cui facciamo come un bilancio di ciò che ci è accaduto, tentiamo una valutazione delle nostre azioni, abbozziamo il punto della situazione e cerchiamo di proiettarci, con propositi, verso l'avvenire.

Malinconia d'un quieto pomeriggio domenicale, mentre il tempo si dilata, si stende sonnacchioso...Quel po' di verde, un angolo di villa Borghese, che s'intravede dalla sua finestra sembra diluirsi nei bagliori del tramonto. Tinte leggere, incerte. Anche i suoni smorzati. Il chiasso che fanno giocando alcuni bambini giunge come un'eco velata.

Silvia ripensa all'ultima lettera di Davide. Le chiede di andare a vivere con lui. Sente che deve decidere, in un senso o nell'altro non importa, ma decidere definitivamente.

Dopo una sua breve assenza da Roma (quasi mensilmente andava a trovare i genitori) aveva acconsentito a incontrarsi ancora con lui, ma subito dopo si era eclissata. Gli aveva scritto pregandolo di non cercarla più.

Davide insiste, riesce diverse volte a parlarle. Dopo un po' di tempo Silvia si irrigidisce di nuovo. Lo saluta "per sempre" dicendogli che ha deciso di farsi suora. Poi s'accorge che la sua decisione è inconsistente, che non ha alcuna vocazione per la vita del chiostro, che non riesce a soffocare il sentimento, lo spasimo meglio, che si è impadronito ormai della sua esistenza.

Quando incontra ancora Davide, acconsente a seguirlo in albergo. Tenta qui un'ultima e illogica resistenza. Poi si abbandona.

Si allontana da lui, dopo, senza guardarlo, salutandolo appena. Non vuole pensare a quello che è avvenuto. Il cervello le ronza in maniera strana. L'unica immagine su cui il pensiero riesce a fermarsi è un ricordo di bambina: il suo stupore dinanzi a una grande ruota da mulino azionata da un corso d'acqua. L'acqua sbatte violenta sulle pale e la ruota gira, gira...

A casa Silvia cerca di calmarsi, di assumere un aspetto normale, ma sua nonna vede che è sconvolta, gliene chiede la ragione ma ne ottiene una risposta elusiva. La sera, dopo cena, mentre son sole, torna a insistere, le è venuto un dubbio. Le telefonate e le lettere di Davide erano state abbastanza eloquenti. Silvia si sforza di non tradirsi, ma non sa negare e arrossisce finendo coll'ammettere che il cugino di Rodolfo le aveva dato fastidio ma lei, però, se ne era sbarazzata.

Per una reazione illogica, ma spiegabilissima, Silvia dopo essersi data a Davide decide di non incontrarlo più. Fa assurdi acrobatici ragionamenti: che era stato soltanto il corpo a cedere ma non lo spirito, rimasto legato, le sembra, al suo primo amore. Rimacina il progetto di farsi suora. Ma se si mette a pregare, prega solo con le labbra. È libertà, si dice, quanto è avvenuto, libertà dalla tentazione. Aveva trepidato, difatti, al pensiero di essere stretta dalle braccia di Davide, ma ora che questo è avvenuto in modo tanto banale e meschino, prova solo disgusto ripensandoci. Immagina, anzi, che tale episodio possa divenire una barriera che le impedirà di seguire il suo istinto, il principio di una vita emancipata dal richiamo che fino a quel momento l'ha turbata.

L'arrivo della lettera di Davide, che le chiede, in maniera perentoria, di andare a vivere con lui ("che senso hanno, ora, i tuoi tentennamenti?") manda a gambe in aria i suoi propositi e i suoi arzigogoli.

E nel quieto pomeriggio domenicale la decisione è presa.

La notizia della separazione di Davide da sua moglie aveva già turbato abbastanza la famiglia di mio zio Ambrogio, nella quale regnavano princìpi piuttosto tradizionali, ma quella che aveva portato via la "morosa" a me fu motivo di autentico scandalo.

Io l'appresi poco prima della fine del mio servizio militare. Mi ci dannai, perché pensavo meno al torto che mi faceva Silvia, quanto a quello che subivo da Davide. Come ha potuto avere il coraggio di tradirmi così? Come può vivere senza rimorso? Come può pretendere di costruire la sua felicità sull'infelicità altrui?

Crollava dentro di me il "mito di Davide". Era la persona, l'unica, a cui da ragazzo avevo voluto rassomigliare, il mio modello, colui che, forse, più di ogni altro aveva modificato la chimica, se così mi consentite di dire (e come pare debba correttamente dirsi secondo gli scienziati) delle mie cellule cerebrali. Aveva in misura notevole plasmato il mio modo d'essere. E se non ero riuscito a far miei i suoi convincimenti politici era perché essi erano stati screditati in me, fin da ragazzo. Eppure il fatto stesso che egli professasse idee marxiste, me le rendeva per lo meno rispettabili.

Il suo tradimento, il suo "sgarbo" a me meridionale fatto da lui settentrionale, a me uomo di destra da lui militante nel comunismo, facendomi odiare tutto ciò che si riferiva a lui, aggravava il mio complesso sudvittimistico, mi faceva deridere la sua fede democratica, destava il mio scherno per la stessa parola democrazia, per il mito della società socialista, per la beffa autentica che il marxismo, secondo me, costituisce per le classi meno abbienti.

Ecco, mi dicevo il frutto di un comportamento "democratico", disordinato cioè, negatore delle norme della civile convivenza, nell'ambito della stessa famiglia.

Io non so se siano stati felici Silvia e Davide in quel periodo di poco più di un anno in cui vissero assieme. Silvia tentò più volte di farmi credere che fu un vivere inquieto, con trasferimenti continui da una pensione all'altra, da un appartamento mobiliato all'altro - quasi la precarietà e irregolarità della loro convivenza si riflettesse nella mancanza di un ubi consistam - e con continui reciproci rimproveri che inquinavano quel rapporto nato da tanto slancio...di anime, dicevano loro, erotico dico io.

Forse, nel dipingermi gli aspetti negativi della loro convivenza, esagerava un po' per farsi perdonare più facilmente da me. Mi ripetevo, quando Silvia mi parlava di quel periodo, la stessa frase che mi ero detto subito: non si costruiscono grandi felicità sull'infelicità altrui. Davide, del resto, scontò tutto con la sua morte atroce. Uscito dalla carreggiata, forse per un colpo di sonno, mentre percorreva di notte un'autostrada, era rimasto privo di soccorso per ore e ore. Morì dissanguato per ferite non gravi e forse rendendosi pienamente conto della fine.

Ho detto "scontò", adeguandomi anch'io a quella concezione che vede in una disgrazia, che può capitare nella vita, una contropartita di eventuali colpe. Ma forse una concezione più inumana e ingiusta di questa non può esistere, perché postula un "reggitore del mondo" gretto e vendicativo.

Davide morì così perché così capitò. Come mille altre cose càpitano indotte dal capitare di un milione di altre premesse.

Intanto io, ultimato il servizio militare, ero andato a vivere con mia madre a Cassano d'Adda. Mio zio Ambrogio era riuscito, dopo anni e anni di risparmi, a prendere un piccolo fondo in affitto proprio nei pressi di Cassano, da salariato aveva fatto il salto - un salto notevole - a coltivatore diretto. Perciò egli aveva sollecitato la sorella Cesira a stabilirsi nella sua cascina, anziché continuare a vivere a Milano facendo la donna di servizio. Qualche lavoretto in campagna le sarebbe bastato per vivere. Per mia madre era il ritorno alla sua giovinezza.

Ma col mio rientro a casa, il problema di una mia occupazione si pose in maniera più seria perché del mio diploma di ragioniere c'era poco da servirsi in mezzo alla campagna.

Così ogni mattina, insieme a tanti altri pendolari, prendevo il treno per Milano e, sulla guida degli annunci economici, tentavo tutte le possibilità che c'erano. Prima o poi, come il protagonista di un indimenticabile film di Ermanno Olmi, anch'io avrei raggiunto il traguardo de... "Il posto".

Quieto, la sera, mi mettevo a guardare la campagna dalla mia finestra e il cielo che era, sebbene fosse autunno, ancora limpido.

L'aria spesso profumava di passato. Riportava, come in un soffio, come in un alito che subito però dileguava, inquietudini pensieri sogni perduti. Era come un affacciarsi, per un attimo, dentro un me stesso scomparso. E Silvia era come un detrito di questo me stesso, che non riuscivo, non potevo più essere. Prima ancora che fossi informato del suo abbandono, s'era insinuata in me una freddezza verso di lei mai ancora avvertita, nemmeno quando il mio amore m'era parso inquinato da esaltazioni puerili e romantiche. Certo il "tradimento" di Silvia e Davide mi schiantò, mi sembrò una mazzata in testa da cui non sarei più riuscito a riprendermi. Ma poi venni persuadendomi che, da un po' di tempo, in fondo, Silvia io non l'amavo più.

Un'esperienza della mia vita, concludevo, che andava evidentemente vissuta, che magari è servita a qualche cosa, forse alla conquista della mia vera personalità, ma che, vissuta, superata, non occorreva più ricordare.

Esperienze, mi ripetevo. E tutto il passato pareva quasi perdere significato e polverizzarsi. Diveniva scialbo, incolore, come vissuto da altri, alla luce di quella parola.

Da questa malinconica calma vennero a scuotermi due fatti importanti: l'esplodere di un nuovo sentimento d'amore e un incontro con una persona che aveva esercitato già un influsso importante nella mia formazione giovanile: " Marco".

Penso che sia bene cominciare da questo secondo fatto. Non vedevo "Marco" da prima di partire per il servizio militare. "Raccontami, raccontami!" mi faceva. Né si accontentava della mia reiterata assicurazione che non avevo nulla da narrargli. E intanto, in pochi minuti, egli mi veniva ruzzolando addosso mille cose, fatti suoi personali, considerazioni sul momento politico, previsioni sul futuro assetto degli stati europei : una federazione di stati fascigollisti che avrebbe riportato l'America alla sua vera funzione anticomunista assegnatale dalla storia.

Poi mi parlò di suoi recenti, "misteriosi", viaggi all'estero, mi accennò anche a un viaggio in aereo in Grecia per incontri che non mi precisò ma che mi lasciò capire assai importanti per il fermentare in quel paese di nuovi eventi (pochi mesi dopo, quando avvenne il colpo di Stato del 21 aprile, ripensai a quell'accenno) e infine tornò a chiedermi che gli parlassi di me. "Ma, insomma, cosa fai di bello tu?"

"Come di bello?"

"Te ne stai con le mani sulla pancia in momenti come questi, in cui per noi camerati c'è tanto da fare?"

"Cerco un'occupazione, te l'ho detto. E finora nulla."

"E per far che? Il ragioniere in una ditta? L'impiegato di banca? Ce l'ho io l'occupazione per te. Nei quadri del partito. Tu scrivi bene. Ne avessimo di giovani come te!"

Così entrai nel pieno della mia carriera politica con un regolare stipendio. Mi fu affidato dapprima il lavoro di preparazione di ciclostilati, manifestini, materiale propagandistico. Poi fui destinato al settore dell'organizzazione giovanile "La giovane Italia", come si chiamava allora, poi divenuta "Fronte della gioventù" e così mi toccava muovermi sovente da un posto all'altro. Cogli introiti del mio nuovo lavoro, intanto, avevo potuto comprarmi una moto. Venne poi la volta dell'organizzazione dei campeggi. Su questa faccenda dei campeggi del nostro colore - quelli che parte della stampa ha definito con ironia "campeggi dux" - si è fatto tanto parlare in questi ultimi tempi. Ma così come li vidi sorgere io, non mi parve che ci fosse motivo di "scandalo democratico". Nego che avessero carattere militare. Almeno dapprima.

D'altra parte io non mi occupavo di questioni di addestramento dei giovani, a me toccava la parte amministrativa, logistica.

Naturalmente i campeggi avevano luogo nella stagione estiva, che divenne per me il periodo del massimo lavoro. Mi ridussi stanco dopo la prima stagione di campeggi.

Mi rivedo, una mattina d'autunno, mentre andavo in moto in un paesino della Valle d'Aosta per questioni riguardanti un campeggio.

Ero partito presto. Il sole rompeva appena le brume del mattino. In mezzo ai campi fumavano mucchi di concime. Le zolle smosse di recente, in alcuni punti, stavano a indicare che era già cominciata l'aratura e la semina. Percorrevo una strada fiancheggiata da un canale, che lambiva filari di platani e di pioppi. Era tutta tappezzata di foglie secche. Scarsissimo il traffico. A un certo punto mi fermai e mi sedetti su un paracarro. Mi piaceva quel posto.

Dove correvo, mi chiesi, e perché? Tutto girava attorno a me e dentro di me con una precipitazione da far pensare a un film proiettato vertiginosamente da un operatore impazzito. E mi pareva di non capire niente né di me né del mondo in cui stavo.

Da mesi, da quando ero entrato nell'organizzazione attiva del partito, non avevo avuto un momento di pausa. Non l'avevo cercato nemmeno, forse. L'"attivismo" è una delle componenti della fede politica che avevo accettato. Ma erano i traguardi che non capivo. Che non intravedevo, meglio. Era soprattutto l'argomento di eventuali esercitazioni con armi e con esplosivi, di cui si cominciava a parlare per i futuri campeggi, che mi turbava. Ma allora si preparava una guerra civile? Secondo la teoria di "Marco" no. Erano gli altri, i comunisti e gli ultramarxisti, che erano sempre pronti a scatenare la rivoluzione. Noi, stante la fiacchezza dello Stato, dovevamo prepararci a dare man forte alla polizia e all'esercito. E, parato il colpo rivoluzionario, si sarebbe potuto concretare un "assetto saldo e ben piantato".

Si è, a un certo punto, presi dal giro delle cose, dal turbine degli avvenimenti e dei fatti. E il turbine spinge avanti verso l'avvenire.

Mi sentivo "spinto". Anzi fu, in quell'attimo di pausa, che m'accorsi di essere spinto in avanti dalle cose, senza che io avessi avuto il tempo di indugiare un istante a riflettere, a ponderare.

Nell'appartamentino che avevo preso in affitto a Milano c'era ormai un piccolo arsenale: bombe a mano, due mitragliatori e alcuni moschetti. Roba vecchia, per la verità, ma funzionante.

Facevo bene a espormi così? E a che scopo? Certo mi sembrava di esser saldo, allora, nei miei convincimenti politici. Avevo un chiaro disprezzo per la barzellettistica nostra democrazia che, presto o tardi, finirà coll'alzare bandiera bianca verso il comunismo. L'anticomunismo della diccì, mi dicevo, è tutto finto, e non soltanto perché non tutti i democristiani sono anticomunisti e, se lo sono, il motivo è soltanto religioso, ma soprattutto perché si tratta di un anticomunismo tattico, che serve solo per non dare grattacapi ai nostri "tutori" americani. Se la diccì volesse essere veramente anticomunista, solo in noi avrebbe i veri alleati. Forse fra comunismo e fascismo tertium non datur.

Non sapevo individuare le ragioni attraverso cui la mia diffidenza verso il comunismo si fosse tramutata in odio. Ma ripensandoci ora, a distanza di tempo, m'accorgo che in tale evoluzione non era stata ultima causa il crollo del mito di Davide, originato da quello che io chiamavo il suo tradimento.

E m'accorsi, quella mattina, che quest'odio, trapassato da una persona a un'ideologia, era l'unico moto del mio animo che mi faceva sentire la pienezza della vita.

Io che tanto spesso mi ero sentito fuori della mia epoca - romantico, sentimentaloide - vi rientravo, o così mi sembrava, proprio attraverso questo sentimento. In me moriva il fanciullo e nasceva l'uomo ed era l'odio a operare la metamorfosi.


IX
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Sono andato troppo avanti. La necessità di stare in argomento mi ci ha costretto. Ma devo tornare indietro, perché era successa, nell'arco di tempo in cui si stendono gli eventi di cui ho parlato, una cosa troppo importante nella mia vita. Ne ho fatto cenno, era esploso un nuovo amore. Avevo conosciuto Anna. Essa aveva allora diciott'anni e abitava a Cassano d'Adda. Io ero da poco rientrato dal servizio di leva.

Non lo so se capii subito che sarebbe entrata nella mia vita in maniera decisiva. Ma forse sì.

Colpito, fin dal primo incontro, sentii che me ne sarei innamorato in maniera... catastrofica. E non volevo che accadesse. La recente bruciante esperienza con Silvia mi induceva a girare alla larga da altre donne e a evitare altri legami.

Ne avevo sofferto, dapprima, in maniera che non so se sono riuscito a dire. Mi pare proprio di no, ma confido che si possa immaginare. Poi mi accorsi, a un certo punto, quasi improvvisamente, di non soffrirne più. Non sentivo neanche più quella sorta di umiliazione - mista di gelosia amore rabbia impotente - propria di chi viene piantato dalla persona amata. Ma quando la sofferenza vera e propria scomparve, mi rimase dentro un senso di vuoto che non sapevo come colmare, una sensazione simile a quella di vedersi crollare tutto attorno, restando indifferenti.

Ricorderò sempre un episodio di guerra che continuava a raccontare mio padre. È proprio di ognuno continuare a rinarrare una diecina - o poco più - di episodi della propria vita, ripetere una ventina di frasi fatte, per lo più luoghi comuni, arroccarsi su alcuni "princìpi" continuamente sciorinati.

Un giorno, raccontava mio padre, il reparto a cui egli apparteneva era stato impiegato per prestare soccorsi e rimuovere macerie dopo i bombardamenti su Milano dell'agosto 1943. Mentre spalava, egli s'era fermato - non si ricordava perché - a guardare in alto un appartamento sventrato. C'erano ancora i quadri appesi e in un angolo, quasi sospesa sul vuoto, una macchina per cucire. "Ma guardi" egli aveva detto a un uomo sulla cinquantina che, zitto zitto, se ne stava lì vicino con gli occhi anche lui in alto "guardi che strano quella macchina rimasta lassù in bilico." "È casa mia" aveva risposto l'uomo, "mia moglie e i miei bambini sono là sotto." E gli aveva indicato un mucchio di macerie cadute davanti all'entrata di un rifugio, dove altri soldati spalavano.

I commenti di mio padre erano, a questo punto, in ogni sua rinarrazione dell'episodio, sempre diversi. Ora diceva che si era sentito correre un brivido per la schiena e, senza dire una parola, aveva voltato le spalle all'uomo riprendendo a spalare. Ora precisava che, di fronte alla fredda calma di quell'uomo, il solo sentimento possibile non era la pietà ma il terrore. Ora aggiungeva che forse, quando il dolore è troppo grande, non può trovare manifestazione, e perciò né l'impassibilità apparente di una persona tanto duramente colpita né il suo tacere e l'incapacità di trovare anche mezza parola consolatoria dovevano destare sorpresa.

Vedersi crollare tutto attorno e restare indifferenti: ci ho ripensato spesso. Mi son sentito, non poche volte, in tali condizioni interiori.

Il paragone può sembrare - è, anzi, certamente - esagerato, ma io, quando il dolore vivo dell'abbandono di Silvia cominciò ad attutirsi e subentrò quello stato di indifferenza cui ho accennato, pensai più volte, senza volerlo, a quell'episodio narrato da mio padre e mi sentii, per la prima volta, nelle condizioni di quell'uomo.

Ricordo che una sera mi misi a guardare il cielo che era coperto di nubi. Lasciavano trasparire appena il chiarore della luna. Venti contrastanti le spingevano. Si spezzavano, si riunivano, si perdevano all'orizzonte. Mi sembravano i frammenti di un mondo crollato in balìa di forze ignote. Così tutta la mia vita passata, i sogni fatti, le speranze della prima giovinezza, frantumati da una bufera, venivano trascinati verso l'oblio.

Anna era destinata - come poi dirò: ma a volte non ci resisto al bisogno di anticipare qualcosa, e voi scusatemi - era destinata a ricomporre i frantumi di un naufragio ancora più grande che non quello derivante dalla mia prima delusione amorosa. Un naufragio vero e non piuttosto immaginario come quello che, con spirito romantico, m'ero voluto "costruire" da quella delusione.

Non volevo, dapprima, dare briglia sciolta alla simpatia che avevo sentito nascere in me per Anna. Da ragazzi, si sa, si è portati a generalizzare (e del resto, questa inclinazione tipicamente infantile o da uomini primitivi di dedurre da una sola esperienza particolare una regola valevole per tutti i casi, è una delle più gravi debolezze del vivere umano). Dopo quello che aveva fatto Silvia, ero portato a definire tutte le donne leggere, perverse addirittura. Ma mi bastava vedere qualcuno avvicinarsi ad Anna, farla sorridere o darle un passaggio in macchina, farla salire in moto o farle anche un semplice complimento, che tutta la mia misoginia andava in fumo.

Quando questi moti di gelosia divennero frequenti e chiari, capii che ero davvero innamorato di Anna. Cessai di contrastare questo sentimento. Che non fu, però, corrisposto subito. Passò un po' di tempo fra i primi approcci e l'inizio del nostro "parlare insieme", come si dice in Lombardia.

Ma come ogni minuzia, ogni attimo dello sbocciare di quell'amore è scritto in maniera indelebile nella mia memoria. E non so se scriverne o tacerne.

M'accorgo, riguardando a quello che son venuto scrivendo, che ho dato più spazio di quello che forse avrei voluto - e dovuto - alle osservazioni politiche, all'evolversi, all'ingarbugliarsi meglio, dei miei convincimenti, alle mie professioni di fede e all'insinuarsi in esse di filoni di dubbi. E non volevo scrivere altro, invece, che una spiegazione del perché io, uomo di parte missina, avevo votato "no" al referendum. Ma da un canto mi è accaduto di trovar modo di chiarire a me stesso che cosa, nel campo del pensiero politico, è avvenuto in questi ultimi tempi in me. E dall'altro mi è parso che, nel settore delle mie vicende personali, questo arruffato racconto, a cui da una quindicina di giorni di ozio forzato mi sto dedicando, veniva ad avere per me un valore di liberazione.

Ma se scopo di questo libro-sfogo dev'esser soprattutto quello di distruggere, nello stesso tempo che li fisso, i ricordi più sgradevoli della mia vita e anche quelli lieti che sono avvelenati dai loro legami con le cose tristi, allora qui, del mio amore per Anna, che dura ancora, che è l'unica base, ormai, della mia vita, una base sicura - lontana dalla politica, dalle crisi, dalle incertezze, dai ripensamenti non dovrei parlare.

Non è mancato chi, nelle polemiche tutt'altro che serene e intellettualmente oneste contro il divorzio, ha osato sostenere che nei paladini di questo c'è sotto sotto, confessata o no, una visione amor-liberistica dei rapporti fra i sessi o, addirittura, una decisa inclinazione alla poligamia e alla poliandria. Tale falsa semplificazione è stata respinta da oltre diciassette milioni di "no".

Ma, di me, io chiedo a coloro che fossero venuti fin qui leggendomi, se come mi sembra, sono riuscito a delinearmi pur nelle mie contraddizioni, e chiedo anche a te, Antonio - ché tu, non deludermi, devi leggermi - di me, dicevo, si può onestamente sostenere che ho avuto inclinazioni poligame? Avrei voluto una donna per farne la regina della mia vita. Una donna sola. L'amore è come la divinità, a mio parere. O non esiste o è uno. E quell'Uno - appunto come la divinità - è il Tutto. Nell'amore uno c'è infatti tutto, persino tutte le anomalie sessuali. Un pizzico di esse, intendo: di feticismo, di esibizionismo, di sadismo, di masochismo (e chi più ne ha più ne metta...). Le anomalie sessuali, infatti, altro non sono che esagerate esplosioni di un solo aspetto del rapporto sessuale a scapito della sua unitarietà. Nell'unità, invece, può stare tutto, ma sapientemente dosato in un assoluto equilibrio. In una donna il tutto.

E questa donna unica e sola fu destino che non dovesse essere mia moglie, ma Anna. Mi ha dato due figli. I nostri poveri figli "adulterini" come dite voi giuristi, amico mio, nati da padre "ignoto" alla legge. Ma spero che, prima di iscriverli a scuola (l'ultimo è appena nato) io avrò ottenuto il divorzio e potranno avere il cognome Izzo e non subire così il trauma di un cambiamento di cognome... ma non è di questo che voglio parlare: appena si affacciano i problemi pratici della mia situazione familiare, sbando e perdo la... sinderesi narrativa. Scusate, volevo dire - e torno a bomba - che proprio per dimostrarvi che in me non c'è mai stata alcuna inclinazione, non dico alla poligamia, ma neanche allo sfarfallare, frequente in età giovanile, da una donna all'altra, vorrei parlare del mio amore per Anna, l'unica "cosa in sé" della mia vita, qualcosa cioè che non ha legami - o così mi pare - con altri fatti o pensieri, con le mie idee politiche, con la mia condizione di meridionale settentrionalizzato, con la mia vocazione giornalistica in cui fa capolino il gusto del narrare, con la mia situazione di infortunato del matrimonio e così via. Forse non mi spiego bene: come ogni fatto della vita, certamente, anche il mio incontro e il mio amore per Anna nasceva, prodotto dal caso, per l'intrecciarsi di mille altri casi, ma tale amore fu autonomo, colmo di se stesso, autosufficiente, svincolato da ogni altro fatto, pieno e completo. Sì, la "cosa in sé", realtà noumenica (e voltiamo subito, dopo questa parola, le spalle alla filosofia).

Non riuscirò mai a dir tutto di esso. Ma qualche momento voglio fissarlo. Sarà un rispolverarlo e renderne più viva la luce.

Ricordo il primo bacio... anzi, no, non il primo bacio ricordo, ma il mio sforzo di indovinare quali potessero essere state le interne reazioni di Anna, di afferrare i suoi pensieri. La vidi allontanarsi veloce in bicicletta dal viottolo di campagna dove c'eravamo trovati. "Ecco" mi dicevo "adesso se lo porta lì, incollato sulle labbra il mio bacio. Forse brucia ancora. Lo sente come se la gente glielo potesse leggere stampato sopra? Ripensa ai brevi attimi di attesa? Brevi ma lunghissimi. Risente il pulsare del cuore? Per quanto tempo si ripercuoterà in lei questa emozione? Oppure vi ripensa delusa? Questo il bacio? Tutto qui? Questo ciò di cui romanzieri e poeti l'hanno fatta sognare negli anni della sua adolescenza, di cui le dive dello schermo l'hanno fatta trepidare? E tutto, allora, le apparirà come menzogna, si dirà che la sua fantasia, galoppando dietro alle sue prime impressioni, ai suoi primi sogni, le ha mentito... No, essa sentirà che da questo piccolo avvenimento qualcosa di nuovo e di decisivo è nato per entrambi."

Ci incontravamo ogni sera. Era il periodo in cui mi recavo giornalmente a Milano per trovare lavoro, dapprima, e successivamente per lavorare nella sede della federazione provinciale del partito.

Ci si aspettava nelle vicinanze del fiume. Di solito ero io che arrivavo per primo. Ma a volte era Anna ad attendermi da qualche minuto, ancora a cavalcioni della bicicletta, un piede poggiato a terra, l'altro sul pedale. Come mi pare ai rivederla.

Il tramonto aveva ogni sera colori diversi. Certe sere il colore arancione si stingeva lentamente senza dar luogo a forti variazioni. Certe sere invece una lunga striscia di nubi intensamente colorate in rosa inghirlandava il cielo che sovrastava sull'immensa pianura. A volte infine un turchino intenso degradava da oriente a occidente attraverso tutte le tonalità del violetto, del giallo, del rosa fino a un rosso smagliante. Era l'amore nostro una gamma di colori, una gamma di profumi, ogni sera più intensi, ogni sera diversi.

Sentivo che amavo "veramente" e per la prima volta. I ricordi del rapporto con Silvia impallidivano di fronte a una realtà così nuova, così stupenda. Mi convinsi che amare è solo quando si sente questo sentimento ingigantire ogni giorno, fino a temere di non poterlo più contenere, fino a sentirsene travolti.

Dal molle tappeto dei prati, dai verdi nascondigli che la campagna ci offriva benigna, esalava un intenso fresco profumo di giovinezza da inebriare e smemorare. Che significato aveva per noi tutto ciò che stava all'esterno dello stretto cerchio in cui si circoscriveva il nostro rapporto? Apparteneva alla realtà ciò che succedeva intorno nel mondo? La mia stessa nuova occupazione non aveva per me alcuna incidenza dentro di me. Lavoravo lì come avrei potuto lavorare altrove. O non lavorare. Non intendo dire, certo, che io lavoravo per un partito di cui non condividevo idee e princìpi. No, c'ero dentro - e fino a poco tempo fa ci son rimasto dentro - con piena convinzione, con interiore aderenza completa. No, non dicevo questo. È che, in quel periodo, vivevo quella stagione meravigliosa della vita umana in cui, di fronte allo sbocciare dell'amore, ogni cosa sembra perdere significato.

Mi ero incamminato, nella vita, su una strada giusta? Ero in perfetta consonanza nello svolgimento della mia attività con il mio io interiore? O ero su una strada sbagliata? La mia particolare conformazione psichica, incline alla mitezza, all'accettazione serena di sé, degli altri, del mondo, il mio sotterraneo e sorpassato - come, dannandomi, venivo costatando- romanticismo, non facevano di me un camerata anomalo? Erano problemi che non sentivo. Che non potevo sentire. Tutto privo di rilevanza di fronte al pensiero di Anna. E tutto niente, per entrambi, mentre vivevamo il nostro amore.

Le stesse parole ci sembrarono, a un certo punto, che potessero sciuparlo. Appena ci incontravamo, pedalavamo velocemente, muti, o procedevamo sulla mia moto, con lei avvinghiata a me, alla ricerca di un angolino solitario. Solo quando eravamo seduti sull'erba, appartati, ci sembrava di incontrarci veramente. Ci sorridevamo e ci abbracciavamo. Questa stagione "immensa" durò un mese o poco più.

Una sera l'attesi inutilmente. Rifeci triste la strada verso il paese ripetendo cento, mille volte, fra me e me: "Perché non sei venuta? Se tu avessi sentito come fra le alte cime dei filari dei pioppi stormiva il vento, annunciando l'autunno! Pareva dicesse di amarci, di non sciupare il tempo, ché l'estate è fuggita."

Vissi giorni tormentosi, in cui mi sembrava di non essere in uno stato di normalità psichica. Non immaginavo che l'amore potesse fare spasimare così. Mi giunse infine un biglietto di Anna che mi spiegava la ragione della sua assenza: eravamo stati visti uscire assieme da una stradetta di campagna e la cosa era stata riferita a casa sua. Le sue sortite erano perciò sorvegliate. Mi dava tuttavia appuntamento per il giorno dopo. Ma un acquazzone ci pose in fuga.

Mi parve, quello, il primo segno di una forza malvagia che ci avrebbe disunito. Come si è superstiziosi a volte, anche quando si crede di essere immuni da paure insensate. Certo il presentire è una facoltà della nostra mente che avvertiamo di rado e cui non diamo il peso che dovremmo.

No, mi ribellavo, nessun ostacolo riuscirà a disunirci. Anna è la sola creatura che il destino può avermi assegnato, essa sola è fatta della mia stessa sostanza. La sento in me, non ne uscirà mai.

Prima che l'estate morisse del tutto riuscimmo a trovarci ancora nel posto divenuto solito. Il granoturco era stato raccolto e gli steli abbattuti. Ma la nostra "alcova verde" formata da alcune piante di platano e di salice sulle rive di un fosso era ancora intatta.

La sera scese improvvisa senza che ce ne accorgessimo. Una stella cominciò a luccicare all'orizzonte. Forse la stella della sera, Venere. Ci richiamava alla realtà, dicendoci che era il momento di tornare? O ci sorrideva?

Sono stupidamente romantico? Non lo so, amici miei. Ma il luccichio di quella stella è, dopo tanti anni, vivo nel mio cuore. E quel luccichio chiuse il primo capitolo del mio amore per Anna.

Fu tosto inverno. Io avevo dovuto sistemarmi di nuovo a Milano. M'ero trovato un appartamentino di minuscole proporzioni in zona non eccessivamente periferica. Mia madre dapprima aveva manifestato l'intenzione di ritrasferirsi con me a Milano, poi preferì restare, dissuasa anche da me, nella cascina di mio zio. Che era, come ormai tutte le cascine della pianura padana, quasi disabitata. La meccanizzazione consentiva che un fondo delle dimensioni di quello condotto da mio zio potesse tenere occupato non più di un contadino estraneo alla famiglia del coltivatore.

Non volevo che venisse recisa la mia "seconda radice". La prima, e più importante, era Lecce e da essa non potevo trarre più linfa. L'altra era la campagna della pianura padana, da cui traeva origine e a cui era legata mia madre. Occorreva che essa vi restasse, perché tale mia, sia pur secondaria, radice non venisse tagliata.

Ogni settimana, tornando nella cascina, mi riempivo gli occhi della visione della pianura, i filari di pioppi lontani, i prati, il fumigare della nebbia e la neve poi quando veniva a coprirla...

continua...

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