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CAPITOLO XX
Il castello dell'innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa,
sulla cima d'un poggio che sporge in fuori da un'aspra giogaia di monti, ed è,
non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di
massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano
anche dalle due parti. Quella che guarda la valle è la sola praticabile; un
pendìo piuttosto erto, ma uguale e continuato; a prati in alto; nelle falde a
campi, sparsi qua e là di casucce. Il fondo è un letto di ciottoloni, dove
scorre un rigagnolo o torrentaccio, secondo la stagione: allora serviva di
confine ai due stati. I gioghi opposti, che formano, per dir così, l'altra
parete della valle, hanno anch'essi un po' di falda coltivata; il resto è
schegge e macigni, erte ripide, senza strada e nude, meno qualche cespuglio ne'
fessi e sui ciglioni.
Dall'alto del castellaccio, come l'aquila dal suo nido insanguinato, il
selvaggio signore dominava all'intorno tutto lo spazio dove piede d'uomo potesse
posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto. Dando
un'occhiata in giro, scorreva tutto quel recinto, i pendìi, il fondo, le strade
praticate là dentro. Quella che, a gomiti e a giravolte, saliva al terribile
domicilio, si spiegava davanti a chi guardasse di lassù, come un nastro
serpeggiante: dalle finestre, dalle feritoie, poteva il signore contare a suo
bell'agio i passi di chi veniva, e spianargli l'arme contro, cento volte. E
anche d'una grossa compagnia, avrebbe potuto, con quella guarnigione di bravi
che teneva lassù, stenderne sul sentiero, o farne ruzzolare al fondo parecchi,
prima che uno arrivasse a toccar la cima. Del resto, non che lassù, ma neppure
nella valle, e neppur di passaggio, non ardiva metter piede nessuno che non
fosse ben visto dal padrone del castello. Il birro poi che vi si fosse lasciato
vedere, sarebbe stato trattato come una spia nemica che venga colta in un
accampamento. Si raccontavano le storie tragiche degli ultimi che avevano voluto
tentar l'impresa; ma eran già storie antiche; e nessuno de' giovani si
rammentava d'aver veduto nella valle uno di quella razza, né vivo, né morto.
Tale è la descrizione che l'anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per
non metterci sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don
Rodrigo, e lo porta addirittura nel mezzo della valle, appiè del poggio,
all'imboccatura dell'erto e tortuoso sentiero. Lì c'era una taverna, che si
sarebbe anche potuta chiamare un corpo di guardia. Sur una vecchia insegna che
pendeva sopra l'uscio, era dipinto da tutt'e due le parti un sole raggiante; ma
la voce pubblica, che talvolta ripete i nomi come le vengono insegnati, talvolta
li rifà a modo suo, non chiamava quella taverna che col nome della Malanotte.
Al rumore d'una cavalcatura che s'avvicinava, comparve sulla soglia un
ragazzaccio, armato come un saracino; e data un'occhiata, entrò ad informare
tre sgherri, che stavan giocando, con certe carte sudice e piegate in forma di
tegoli. Colui che pareva il capo s'alzò, s'affacciò all'uscio, e, riconosciuto
un amico del suo padrone, lo salutò rispettosamente. Don Rodrigo, resogli con
molto garbo il saluto, domandò se il signore si trovasse al castello; e
rispostogli da quel caporalaccio, che credeva di sì, smontò da cavallo, e
buttò la briglia al Tiradritto, uno del suo seguito. Si levò lo schioppo, e lo
consegnò al Montanarolo, come per isgravarsi d'un peso inutile, e salir più
lesto; ma, in realtà, perché sapeva bene, che su quell'erta non era permesso
d'andar con lo schioppo. Si cavò poi di tasca alcune berlinghe, e le diede al
Tanabuso, dicendogli: - voi altri state ad aspettarmi; e intanto starete un po'
allegri con questa brava gente -. Cavò finalmente alcuni scudi d'oro, e li mise
in mano al caporalaccio, assegnandone metà a lui, e metà da dividersi tra i
suoi uomini. Finalmente, col Griso, che aveva anche lui posato lo schioppo,
cominciò a piedi la salita. Intanto i tre bravi sopraddetti, e lo Squinternotto
ch'era il quarto (oh! vedete che bei nomi, da serbarceli con tanta cura),
rimasero coi tre dell'innominato, e con quel ragazzo allevato alle forche, a
giocare, a trincare, e a raccontarsi a vicenda le loro prodezze.
Un altro bravaccio dell'innominato, che saliva, raggiunse poco dopo don
Rodrigo; lo guardò, lo riconobbe, e s'accompagnò con lui; e gli risparmiò
così la noia di dire il suo nome, e di rendere altro conto di sé a quant'altri
avrebbe incontrati, che non lo conoscessero. Arrivato al castello, e introdotto
(lasciando però il Griso alla porta), fu fatto passare per un andirivieni di
corridoi bui, e per varie sale tappezzate di moschetti, di sciabole e di
partigiane, e in ognuna delle quali c'era di guardia qualche bravo; e, dopo
avere alquanto aspettato, fu ammesso in quella dove si trovava l'innominato.
Questo gli andò incontro, rendendogli il saluto, e insieme guardandogli le
mani e il viso, come faceva per abitudine, e ormai quasi involontariamente, a
chiunque venisse da lui, per quanto fosse de' più vecchi e provati amici. Era
grande, bruno, calvo; bianchi i pochi capelli che gli rimanevano; rugosa la
faccia: a prima vista, gli si sarebbe dato più de' sessant'anni che aveva; ma
il contegno, le mosse, la durezza risentita de' lineamenti, il lampeggiar
sinistro, ma vivo degli occhi, indicavano una forza di corpo e di animo, che
sarebbe stata straordinaria in un giovine.
Don Rodrigo disse che veniva per consiglio e per aiuto; che, trovandosi in un
impegno difficile, dal quale il suo onore non gli permetteva di ritirarsi, s'era
ricordato delle promesse di quell'uomo che non prometteva mai troppo, né
invano; e si fece ad esporre il suo scellerato imbroglio. L'innominato che ne
sapeva già qualcosa, ma in confuso, stette a sentire con attenzione, e come
curioso di simili storie, e per essere in questa mischiato un nome a lui noto e
odiosissimo, quello di fra Cristoforo, nemico aperto de' tiranni, e in parole e,
dove poteva, in opere. Don Rodrigo, sapendo con chi parlava, si mise poi a
esagerare le difficoltà dell'impresa; la distanza del luogo, un monastero, la
signora!... A questo, l'innominato, come se un demonio nascosto nel suo cuore
gliel avesse comandato, interruppe subitamente, dicendo che prendeva l'impresa
sopra di sé. Prese l'appunto del nome della nostra povera Lucia, e licenziò
don Rodrigo, dicendo: - tra poco avrete da me l'avviso di quel che dovrete fare.
Se il lettore si ricorda di quello sciagurato Egidio che abitava accanto al
monastero dove la povera Lucia stava ricoverata, sappia ora che costui era uno
de' più stretti ed intimi colleghi di scelleratezze che avesse l'innominato:
perciò questo aveva lasciata correre così prontamente e risolutamente la sua
parola. Ma appena rimase solo, si trovò, non dirò pentito, ma indispettito
d'averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso,
una cert'uggia delle sue scelleratezze. Quelle tante ch'erano ammontate, se non
sulla sua coscienza, almeno nella sua memoria, si risvegliavano ogni volta che
ne commettesse una di nuovo, e si presentavano all'animo brutte e troppe: era
come il crescere e crescere d'un peso già incomodo. Una certa ripugnanza
provata ne' primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi affatto, tornava ora a
farsi sentire. Ma in que' primi tempi, l'immagine d'un avvenire lungo,
indeterminato, il sentimento d'una vitalità vigorosa, riempivano l'animo d'una
fiducia spensierata: ora all'opposto, i pensieri dell'avvenire eran quelli che
rendevano più noioso il passato. "Invecchiare! morire! e poi?" E,
cosa notabile! l'immagine della morte, che, in un pericolo vicino, a fronte d'un
nemico, soleva raddoppiar gli spiriti di quell'uomo, e infondergli un'ira piena
di coraggio, quella stessa immagine, apparendogli nel silenzio della notte,
nella sicurezza del suo castello, gli metteva addosso una costernazione
repentina. Non era la morte minacciata da un avversario mortale anche lui; non
si poteva rispingerla con armi migliori, e con un braccio più pronto; veniva
sola, nasceva di dentro; era forse ancor lontana, ma faceva un passo ogni
momento; e, intanto che la mente combatteva dolorosamente per allontanarne il
pensiero, quella s'avvicinava. Ne' primi tempi, gli esempi così frequenti, lo
spettacolo, per dir così, continuo della violenza, della vendetta,
dell'omicidio, ispirandogli un'emulazione feroce, gli avevano anche servito come
d'una specie d'autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva ogni tanto
nell'animo l'idea confusa, ma terribile, d'un giudizio individuale, d'una
ragione indipendente dall'esempio; ora, l'essere uscito dalla turba volgare de'
malvagi, l'essere innanzi a tutti, gli dava talvolta il sentimento d'una
solitudine tremenda. Quel Dio di cui aveva sentito parlare, ma che, da gran
tempo, non si curava di negare né di riconoscere, occupato soltanto a vivere
come se non ci fosse, ora, in certi momenti d'abbattimento senza motivo, di
terrore senza pericolo, gli pareva sentirlo gridar dentro di sé: Io sono però.
Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro, sentita
annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa: ora, quando gli tornava
d'improvviso alla mente, la mente, suo malgrado, la concepiva come una cosa che
ha il suo adempimento. Ma, non che aprirsi con nessuno su questa sua nuova
inquietudine, la copriva anzi profondamente, e la mascherava con l'apparenze
d'una più cupa ferocia; e con questo mezzo, cercava anche di nasconderla a se
stesso, o di soffogarla. Invidiando (giacché non poteva annientarli né
dimenticarli) que' tempi in cui era solito commettere l'iniquità senza rimorso,
senz'altro pensiero che della riuscita, faceva ogni sforzo per farli tornare,
per ritenere o per riafferrare quell'antica volontà, pronta, superba,
imperturbata, per convincer se stesso ch'era ancor quello.
Così in quest'occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don Rodrigo,
per chiudersi l'adito a ogni esitazione. Ma appena partito costui, sentendo
scemare quella fermezza che s'era comandata per promettere, sentendo a poco a
poco venirsi innanzi nella mente pensieri che lo tentavano di mancare a quella
parola, e l'avrebbero condotto a scomparire in faccia a un amico, a un complice
secondario; per troncare a un tratto quel contrasto penoso, chiamò il Nibbio,
uno de' più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui era
solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria risoluta, gli
comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto a Monza, informasse
Egidio dell'impegno contratto, e richiedesse il suo aiuto per adempirlo.
Il messo ribaldo tornò più presto che il suo padrone non se l'aspettasse,
con la risposta d'Egidio: che l'impresa era facile e sicura; gli si mandasse
subito una carrozza, con due o tre bravi ben travisati; e lui prendeva la cura
di tutto il resto, e guiderebbe la cosa. A quest'annunzio, l'innominato,
comunque stesse di dentro, diede ordine in fretta al Nibbio stesso, che
disponesse tutto secondo aveva detto Egidio, e andasse con due altri che gli
nominò, alla spedizione.
Se per rendere l'orribile servizio che gli era stato chiesto, Egidio avesse
dovuto far conto de' soli suoi mezzi ordinari, non avrebbe certamente data così
subito una promessa così decisa. Ma, in quell'asilo stesso dove pareva che
tutto dovesse essere ostacolo, l'atroce giovine aveva un mezzo noto a lui solo;
e ciò che per gli altri sarebbe stata la maggior difficoltà, era strumento per
lui. Noi abbiamo riferito come la sciagurata signora desse una volta retta alle
sue parole; e il lettore può avere inteso che quella volta non fu l'ultima, non
fu che un primo passo in una strada d'abbominazione e di sangue. Quella stessa
voce, che aveva acquistato forza e, direi quasi, autorità dal delitto, le
impose ora il sagrifizio dell'innocente che aveva in custodia.
La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso
impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e
le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un
nuovo rimorso un mezzo di espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per
esimersi dall'orribile comando; tutte, fuorché la sola ch'era sicura, e che le
stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile,
contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo
Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
Era il giorno stabilito; l'ora convenuta s'avvicinava; Gertrude, ritirata con
Lucia nel suo parlatorio privato, le faceva più carezze dell'ordinario, e Lucia
le riceveva e le contraccambiava con tenerezza crescente: come la pecora,
tremolando senza timore sotto la mano del pastore che la palpa e la strascina
mollemente, si volta a leccar quella mano; e non sa che, fuori della stalla,
l'aspetta il macellaio, a cui il pastore l'ha venduta un momento prima.
- Ho bisogno d'un gran servizio; e voi sola potete farmelo. Ho tanta gente a'
miei comandi; ma di cui mi fidi, nessuno. Per un affare di grand'importanza, che
vi dirò poi, ho bisogno di parlar subito subito con quel padre guardiano de'
cappuccini che v'ha condotta qui da me, la mia povera Lucia; ma è anche
necessario che nessuno sappia che l'ho mandato a chiamare io. Non ho che voi per
far segretamente quest'imbasciata.
Lucia fu atterrita d'una tale richiesta; e con quella sua suggezione, ma
senza nascondere una gran maraviglia, addusse subito, per disimpegnarsene, le
ragioni che la signora doveva intendere, che avrebbe dovute prevedere: senza la
madre, senza nessuno, per una strada solitaria, in un paese sconosciuto... Ma
Gertrude, ammaestrata a una scola infernale, mostrò tanta maraviglia anche lei,
e tanto dispiacere di trovare una tal ritrosia nella persona di cui credeva
poter far più conto, figurò di trovar così vane quelle scuse! di giorno
chiaro, quattro passi, una strada che Lucia aveva fatta pochi giorni prima, e
che, quand'anche non l'avesse mai veduta, a insegnargliela, non la poteva
sbagliare!... Tanto disse, che la poverina, commossa e punta a un tempo, si
lasciò sfuggir di bocca: - e bene; cosa devo fare?
- Andate al convento de' cappuccini: - e le descrisse la strada di nuovo: -
fate chiamare il padre guardiano, ditegli, da solo a solo, che venga da me
subito subito; ma che non dica a nessuno che son io che lo mando a chiamare.
- Ma cosa dirò alla fattoressa, che non m'ha mai vista uscire, e mi
domanderà dove vo?
- Cercate di passare senz'esser vista; e se non vi riesce, ditele che andate
alla chiesa tale, dove avete promesso di fare orazione.
Nuova difficoltà per la povera giovine: dire una bugia; ma la signora si
mostrò di nuovo così afflitta delle ripulse, le fece parer così brutta cosa
l'anteporre un vano scrupolo alla riconoscenza, che Lucia, sbalordita più che
convinta, e soprattutto commossa più che mai, rispose: - e bene; anderò. Dio
m'aiuti! - E si mosse.
Quando Gertrude, che dalla grata la seguiva con l'occhio fisso e torbido, la
vide metter piede sulla soglia, come sopraffatta da un sentimento irresistibile,
aprì la bocca, e disse: - sentite, Lucia! Questa si voltò, e tornò verso la
grata. Ma già un altro pensiero, un pensiero avvezzo a predominare, aveva vinto
di nuovo nella mente sciagurata di Gertrude. Facendo le viste di non esser
contenta dell'istruzioni già date, spiegò di nuovo a Lucia la strada che
doveva tenere, e la licenziò dicendo: - fate ogni cosa come v'ho detto, e
tornate presto -. Lucia partì.
Passò inosservata la porta del chiostro, prese la strada, con gli occhi
bassi, rasente al muro; trovò, con l'indicazioni avute e con le proprie
rimembranze, la porta del borgo, n'uscì, andò tutta raccolta e un po'
tremante, per la strada maestra, arrivò in pochi momenti a quella che conduceva
al convento; e la riconobbe. Quella strada era, ed è tutt'ora, affondata, a
guisa d'un letto di fiume, tra due alte rive orlate di macchie, che vi forman
sopra una specie di volta. Lucia, entrandovi, e vedendola affatto solitaria,
sentì crescere la paura, e allungava il passo; ma poco dopo si rincorò
alquanto, nel vedere una carrozza da viaggio ferma, e accanto a quella, davanti
allo sportello aperto, due viaggiatori che guardavano in qua e in là, come
incerti della strada. Andando avanti, sentì uno di que' due, che diceva: - ecco
una buona giovine che c'insegnerà la strada -. Infatti, quando fu arrivata alla
carrozza, quel medesimo, con un fare più gentile che non fosse l'aspetto, si
voltò, e disse: - quella giovine, ci sapreste insegnar la strada di Monza?
- Andando di lì, vanno a rovescio, - rispondeva la poverina:
- Monza è di qua... - e si voltava, per accennar col dito; quando l'altro
compagno (era il Nibbio), afferrandola d'improvviso per la vita, l'alzò da
terra. Lucia girò la testa indietro atterrita, e cacciò un urlo; il malandrino
la mise per forza nella carrozza: uno che stava a sedere davanti, la prese e la
cacciò, per quanto lei si divincolasse e stridesse, a sedere dirimpetto a sé:
un altro, mettendole un fazzoletto alla bocca, le chiuse il grido in gola. In
tanto il Nibbio entrò presto presto anche lui nella carrozza: lo sportello si
chiuse, e la carrozza partì di carriera. L'altro che le aveva fatta quella
domanda traditora, rimasto nella strada, diede un'occhiata in qua e in là, per
veder se fosse accorso qualcheduno agli urli di Lucia: non c'era nessuno; saltò
sur una riva, attaccandosi a un albero della macchia, e disparve. Era costui uno
sgherro d'Egidio; era stato, facendo l'indiano, sulla porta del suo padrone, per
veder quando Lucia usciva dal monastero; l'aveva osservata bene, per poterla
riconoscere; ed era corso, per una scorciatoia, ad aspettarla al posto
convenuto.
Chi potrà ora descrivere il terrore, l'angoscia di costei, esprimere ciò
che passava nel suo animo? Spalancava gli occhi spaventati, per ansietà di
conoscere la sua orribile situazione, e li richiudeva subito, per il ribrezzo e
per il terrore di que' visacci: si storceva, ma era tenuta da tutte le parti:
raccoglieva tutte le sue forze, e dava delle stratte, per buttarsi verso lo
sportello; ma due braccia nerborute la tenevano come conficcata nel fondo della
carrozza; quattro altre manacce ve l'appuntellavano. Ogni volta che aprisse la
bocca per cacciare un urlo, il fazzoletto veniva a soffogarglielo in gola.
Intanto tre bocche d'inferno, con la voce più umana che sapessero formare,
andavan ripetendo: - zitta, zitta, non abbiate paura, non vogliamo farvi male -.
Dopo qualche momento d'una lotta così angosciosa, parve che s'acquietasse;
allentò le braccia, lasciò cader la testa all'indietro, alzò a stento le
palpebre, tenendo l'occhio immobile; e quegli orridi visacci che le stavan
davanti le parvero confondersi e ondeggiare insieme in un mescuglio mostruoso:
le fuggì il colore dal viso; un sudor freddo glielo coprì; s'abbandonò, e
svenne.
- Su, su, coraggio, - diceva il Nibbio. - Coraggio, coraggio, - ripetevan gli
altri due birboni; ma lo smarrimento d'ogni senso preservava in quel momento
Lucia dal sentire i conforti di quelle orribili voci.
- Diavolo! par morta, - disse uno di coloro: - se fosse morta davvero?
- Oh! morta! - disse l'altro: - è uno di quegli svenimenti che vengono alle
donne. Io so che, quando ho voluto mandare all'altro mondo qualcheduno, uomo o
donna che fosse, c'è voluto altro.
- Via! - disse il Nibbio: - attenti al vostro dovere, e non andate a cercar
altro. Tirate fuori dalla cassetta i tromboni, e teneteli pronti; che in questo
bosco dove s'entra ora, c'è sempre de' birboni annidati. Non così in mano,
diavolo! riponeteli dietro le spalle, stesi: non vedete che costei è un pulcin
bagnato che basisce per nulla? Se vede armi, è capace di morir davvero. E
quando sarà rinvenuta, badate bene di non farle paura; non la toccate, se non
vi fo segno; a tenerla basto io. E zitti: lasciate parlare a me.
Intanto la carrozza, andando sempre di corsa, s'era inoltrata nel bosco.
Dopo qualche tempo, la povera Lucia cominciò a risentirsi, come da un sonno
profondo e affannoso, e aprì gli occhi. Penò alquanto a distinguere gli
spaventosi oggetti che la circondavano, a raccogliere i suoi pensieri: alfine
comprese di nuovo la sua terribile situazione. Il primo uso che fece delle poche
forze ritornatele, fu di buttarsi ancora verso lo sportello, per slanciarsi
fuori; ma fu ritenuta, e non poté che vedere un momento la solitudine selvaggia
del luogo per cui passava. Cacciò di nuovo un urlo; ma il Nibbio, alzando la
manaccia col fazzoletto, - via, - le disse, più dolcemente che poté; - state
zitta, che sarà meglio per voi: non vogliamo farvi male; ma se non istate
zitta, vi faremo star noi.
- Lasciatemi andare! Chi siete voi? Dove mi conducete? Perché m'avete presa?
Lasciatemi andare, lasciatemi andare!
- Vi dico che non abbiate paura: non siete una bambina, e dovete capire che
noi non vogliamo farvi male. Non vedete che avremmo potuto ammazzarvi cento
volte, se avessimo cattive intenzioni? Dunque state quieta.
- No, no, lasciatemi andare per la mia strada: io non vi conosco.
- Vi conosciamo noi.
- Oh santissima Vergine! come mi conoscete? Lasciatemi andare, per carità.
Chi siete voi? Perché m'avete presa?
- Perché c'è stato comandato.
- Chi? chi? chi ve lo può aver comandato?
- Zitta! - disse con un visaccio severo il Nibbio: - a noi non si fa di
codeste domande.
Lucia tentò un'altra volta di buttarsi d'improvviso allo sportello; ma
vedendo ch'era inutile, ricorse di nuovo alle preghiere; e con la testa bassa,
con le gote irrigate di lacrime, con la voce interrotta dal pianto, con le mani
giunte dinanzi alle labbra, - oh - diceva: - per l'amor di Dio, e della Vergine
santissima, lasciatemi andare! Cosa v'ho fatto di male io? Sono una povera
creatura che non v'ha fatto niente. Quello che m'avete fatto voi, ve lo perdono
di cuore; e pregherò Dio per voi. Se avete anche voi una figlia, una moglie,
una madre, pensate quello che patirebbero, se fossero in questo stato.
Ricordatevi che dobbiamo morir tutti, e che un giorno desidererete che Dio vi
usi misericordia. Lasciatemi andare, lasciatemi qui: il Signore mi farà trovar
la mia strada.
- Non possiamo.
- Non potete? Oh Signore! perché non potete? Dove volete condurmi? Perché?
...
- Non possiamo: è inutile: non abbiate paura, che non vogliamo farvi male:
state quieta, e nessuno vi toccherà.
Accorata, affannata, atterrita sempre più nel vedere che le sue parole non
facevano nessun colpo, Lucia si rivolse a Colui che tiene in mano il cuore degli
uomini, e può, quando voglia, intenerire i più duri. Si strinse il più che
poté, nel canto della carrozza, mise le braccia in croce sul petto, e pregò
qualche tempo con la mente; poi, tirata fuori la corona, cominciò a dire il
rosario, con più fede e con più affetto che non avesse ancor fatto in vita
sua. Ogni tanto, sperando d'avere impetrata la misericordia che implorava, si
voltava a ripregar coloro; ma sempre inutilmente. Poi ricadeva ancora senza
sentimenti, poi si riaveva di nuovo, per rivivere a nuove angosce. Ma ormai non
ci regge il cuore a descriverle più a lungo: una pietà troppo dolorosa ci
affretta al termine di quel viaggio, che durò più di quattr'ore; e dopo il
quale avremo altre ore angosciose da passare. Trasportiamoci al castello dove
l'infelice era aspettata.
Era aspettata dall'innominato, con un'inquietudine, con una sospension
d'animo insolita. Cosa strana! quell'uomo, che aveva disposto a sangue freddo di
tante vite, che in tanti suoi fatti non aveva contato per nulla i dolori da lui
cagionati, se non qualche volta per assaporare in essi una selvaggia voluttà di
vendetta, ora, nel metter le mani addosso a questa sconosciuta, a questa povera
contadina, sentiva come un ribrezzo, direi quasi un terrore. Da un'alta finestra
del suo castellaccio, guardava da qualche tempo verso uno sbocco della valle; ed
ecco spuntar la carrozza, e venire innanzi lentamente: perché quel primo andar
di carriera aveva consumata la foga, e domate le forze de' cavalli. E benché,
dal punto dove stava a guardare, la non paresse più che una di quelle
carrozzine che si dànno per balocco ai fanciulli, la riconobbe subito, e si
sentì il cuore batter più forte.
"Ci sarà? - pensò subito; e continuava tra sé: - che noia mi dà
costei! Liberiamocene".
E voleva chiamare uno de' suoi sgherri, e spedirlo subito incontro alla
carrozza, a ordinare al Nibbio che voltasse, e conducesse colei al palazzo di
don Rodrigo. Ma un no imperioso che risonò nella sua mente, fece svanire quel
disegno. Tormentato però dal bisogno di dar qualche ordine, riuscendogli
intollerabile lo stare aspettando oziosamente quella carrozza che veniva avanti
passo passo, come un tradimento, che so io? come un gastigo, fece chiamare una
sua vecchia donna.
Era costei nata in quello stesso castello, da un antico custode di esso, e
aveva passata lì tutta la sua vita. Ciò che aveva veduto e sentito fin dalle
fasce, le aveva impresso nella mente un concetto magnifico e terribile del
potere de' suoi padroni; e la massima principale che aveva attinta
dall'istruzioni e dagli esempi, era che bisognava ubbidirli in ogni cosa,
perché potevano far del gran male e del gran bene. L'idea del dovere, deposta
come un germe nel cuore di tutti gli uomini, svolgendosi nel suo, insieme co'
sentimenti d'un rispetto, d'un terrore, d'una cupidigia servile, s'era associata
e adattata a quelli. Quando l'innominato, divenuto padrone, cominciò a far
quell'uso spaventevole della sua forza, costei ne provò da principio un certo
ribrezzo insieme e un sentimento più profondo di sommissione. Col tempo, s'era
avvezzata a ciò che aveva tutto il giorno davanti agli occhi e negli orecchi:
la volontà potente e sfrenata d'un così gran signore, era per lei come una
specie di giustizia fatale. Ragazza già fatta, aveva sposato un servitor di
casa, il quale, poco dopo, essendo andato a una spedizione rischiosa, lasciò
l'ossa sur una strada, e lei vedova nel castello. La vendetta che il signore ne
fece subito, le diede una consolazione feroce, e le accrebbe l'orgoglio di
trovarsi sotto una tal protezione. D'allora in poi, non mise piede fuor del
castello, che molto di rado; e a poco a poco non le rimase del vivere umano
quasi altre idee salvo quelle che ne riceveva in quel luogo. Non era addetta ad
alcun servizio particolare, ma, in quella masnada di sgherri, ora l'uno ora
l'altro, le davan da fare ogni poco; ch'era il suo rodimento. Ora aveva cenci da
rattoppare, ora da preparare in fretta da mangiare a chi tornasse da una
spedizione, ora feriti da medicare. I comandi poi di coloro, i rimproveri, i
ringraziamenti, eran conditi di beffe e d'improperi: vecchia, era il suo
appellativo usuale; gli aggiunti, che qualcheduno sempre ci se n'attaccava,
variavano secondo le circostanze e l'umore dell'amico. E colei, disturbata nella
pigrizia, e provocata nella stizza, ch'erano due delle sue passioni
predominanti, contraccambiava alle volte que' complimenti con parole, in cui
Satana avrebbe riconosciuto più del suo ingegno, che in quelle de' provocatori.
- Tu vedi laggiù quella carrozza! - le disse il signore.
- La vedo, - rispose la vecchia, cacciando avanti il mento appuntato, e
aguzzando gli occhi infossati, come se cercasse di spingerli su gli orli
dell'occhiaie.
- Fa allestir subito una bussola, entraci, e fatti portare alla Malanotte.
Subito subito; che tu ci arrivi prima di quella carrozza: già la viene avanti
col passo della morte. In quella carrozza c'è... ci dev'essere... una giovine.
Se c'è, dì al Nibbio, in mio nome, che la metta nella bussola, e lui venga su
subito da me. Tu starai nella bussola, con quella... giovine; e quando sarete
quassù, la condurrai nella tua camera. Se ti domanda dove la meni, di chi è il
castello, guarda di non...
- Oh! - disse la vecchia.
- Ma, - continuò l'innominato, - falle coraggio.
- Cosa le devo dire?
- Cosa le devi dire? Falle coraggio, ti dico. Tu sei venuta a codesta età,
senza sapere come si fa coraggio a una creatura, quando sI vuole! Hai tu mai
sentito affanno di cuore? Hai tu mai avuto paura? Non sai le parole che fanno
piacere in que' momenti? Dille di quelle parole: trovale, alla malora. Va'.
E partita che fu, si fermò alquanto alla finestra, con gli occhi fissi a
quella carrozza, che già appariva più grande di molto; poi gli alzo al sole,
che in quel momento si nascondeva dietro la montagna; poi guardò le nuvole
sparse al di sopra, che di brune si fecero, quasi a un tratto, di fuoco. Si
ritirò, chiuse la finestra, e si mise a camminare innanzi e indietro per la
stanza, con un passo di viaggiatore frettoloso.
CAPITOLO XXI
La vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con l'autorità di quel nome
che, da chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti;
perché a nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene
falsamente. Si trovò infatti alla Malanotte un po' prima che la carrozza ci
arrivasse; e vistala venire, uscì di bussola, fece segno al cocchiere che
fermasse, s'avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori,
riferì sottovoce gli ordini del padrone.
Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di
letargo. Si sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli
occhi, e guardò. Il Nibbio s'era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo
sportello, guardando Lucia, diceva: - venite, la mia giovine; venite, poverina;
venite con me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.
Al suono d'una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio
momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo. - Chi siete? - disse
con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.
- Venite, venite, poverina, - andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri
due, argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita
di colei, quali fossero l'intenzioni del signore, cercavano di persuader con le
buone l'oppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benché il
luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de' suoi guardiani non le
lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per
gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il
grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola. Dopo, c'entrò la
vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese
speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.
- Chi siete? - domandava con ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: -
perché son con voi? dove sono? dove mi conducete?
- Da chi vuol farvi del bene, - rispondeva la vecchia, - da un gran...
Fortunati quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi. Non
abbiate paura, state allegra, ché m'ha comandato di farvi coraggio. Glielo
direte, eh? che v'ho fatto coraggio?
- Chi è? perché? che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono;
lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in
qualche chiesa. Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine...!
Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne' primi anni, e poi
non più invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella
mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, un'impressione confusa,
strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da
bambino.
Intanto l'innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e
vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una
distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu
in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza
del castello.
- Ebbene? - disse, fermandosi lì.
- Tutto a un puntino, - rispose, inchinandosi, il Nibbio: - l'avviso a tempo,
la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il
cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma...
- Ma che?
- Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che l'ordine fosse stato
di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla
in viso.
- Cosa? cosa? che vuoi tu dire?
- Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M'ha fatto troppa
compassione.
- Compassione! Che sai tu di compassione? Cos'è la compassione?
- Non l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la
compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è
più uomo.
- Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.
- O signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere, pregare, e far
cert'occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di
nuovo, e certe parole...
"Non la voglio in casa costei, - pensava intanto l'innominato.
- Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando
sarà lontana..." E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio,
- ora, - gli disse, - metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un
compagno, due se vuoi; e va' di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai.
Digli che mandi... ma subito subito, perché altrimenti...
Ma un altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire.
- No, - disse con voce risoluta, quasi per esprimere a se stesso il comando di
quella voce segreta, - no: va' a riposarti; e domattina... farai quello che ti
dirò!
"Un qualche demonio ha costei dalla sua, - pensava poi, rimasto solo,
ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una
parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta,
disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse
inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle
vetriate. - Un qualche demonio, o... un qualche angelo che la protegge...
Compassione al Nibbio!... Domattina, domattina di buon'ora, fuor di qui costei;
al suo destino, e non se ne parli più, e, - proseguiva tra sé, con quell'animo
con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, - e non ci
si pensi più. Quell'animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con
ringraziamenti; che... non voglio più sentir parlar di costei. L'ho servito
perché... perché ho promesso: e ho promesso perché... è il mio destino. Ma
voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco..."
E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per
compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle
parole: compassione al Nibbio! "Come può aver fatto costei? - continuava,
strascinato da quel pensiero. - Voglio vederla... Eh! no... Sì, voglio vederla".
E d'una stanza in un'altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla
camera della vecchia, e picchiò all'uscio con un calcio.
- Chi è?
- Apri.
A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il
paletto negli anelli, e l'uscio si spalancò. L'innominato, dalla soglia, diede
un'occhiata in giro; e, al lume d'una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide
Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall'uscio.
- Chi t'ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? -
disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo.
- S'è messa dove le è piaciuto, - rispose umilmente colei: - io ho fatto di
tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c'è stato verso.
- Alzatevi, - disse l'innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui
il picchiare, l'aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole, avevan messo
un nuovo spavento nell'animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel
cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava
tutta.
- Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene, -
ripeté il signore... - Alzatevi! - tonò poi quella voce, sdegnata d'aver due
volte comandato invano.
Come rinvigorita dallo spavento, l'infelicissima si rizzò subito
inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine,
alzò gli occhi in viso all'innominato, e riabbassandoli subito, disse: - son
qui: m'ammazzi.
- V'ho detto che non voglio farvi del male, - rispose, con voce mitigata,
l'innominato, fissando quel viso turbato dall'accoramento e dal terrore.
- Coraggio, coraggio, - diceva la vecchia: - se ve lo dice lui, che non vuol
farvi del male...
- E perché, - riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura,
si sentiva una certa sicurezza dell'indegnazione disperata, - perché mi fa
patire le pene dell'inferno? Cosa le ho fatto io?...
- V'hanno forse maltrattata? Parlate.
- Oh maltrattata! M'hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché
m'hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho
fatto? In nome di Dio...
- Dio, Dio, - interruppe l'innominato: - sempre Dio: coloro che non possono
difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in
campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola?
Di farmi...? - e lasciò la frase a mezzo.
- Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei
mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia! Mi
lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno
deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare,
dica che mi lascino andare! M'hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa
donna a *** dov'è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per
carità, mia madre! Forse non è lontana di qui... ho veduto i miei monti!
Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei,
tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a
compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un'opera di
misericordia!
"Oh perché non è figlia d'uno di que' cani che m'hanno bandito! -
pensava l'innominato: - d'uno di que' vili che mi vorrebbero morto! che ora
godrei di questo suo strillare; e in vece..."
- Non iscacci una buona ispirazione! - proseguiva fervidamente Lucia,
rianimata dal vedere una cert'aria d'esitazione nel viso e nel contegno del suo
tiranno. - Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà
morire, e per me sarà finita; ma lei!... Forse un giorno anche lei... Ma no,
no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa
dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene...!
- Via, fatevi coraggio, - interruppe l'innominato, con una dolcezza che fece
strasecolar la vecchia. - V'ho fatto nessun male? V'ho minacciata?
- Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera
creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe
farmi morire; e in vece mi ha... un po' allargato il cuore. Dio gliene renderà
merito. Compisca l'opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.
- Domattina...
- Oh mi liberi ora, subito...
- Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate.
Dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno.
- No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa...
que' passi Dio glieli conterà.
- Verrà una donna a portarvi da mangiare, - disse l'innominato; e dettolo,
rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli
fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.
- E tu, - riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, - falle coraggio che
mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene;
altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico;
tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te!
Così detto, si mosse rapidamente verso l'uscio. Lucia s'alzò e corse per
trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.
- Oh povera me! Chiudete, chiudete subito -. E sentito ch'ebbe accostare i
battenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. - Oh
povera me! - esclamò di nuovo singhiozzando: - chi pregherò ora? Dove sono?
Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore... quello che m'ha parlato?
- Chi è, eh? chi è? Volete ch'io ve lo dica. Aspetta ch'io te lo dica.
Perché vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e
farne andar di mezzo me. Domandatene a lui. S'io vi contentassi anche in questo,
non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi. - Io son
vecchia, son vecchia, - continuò, mormorando tra i denti. - Maledette le
giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione -.
Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando
del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita,
riprese: - via, non v'ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate
di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se
sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi!
State allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco... nella maniera
che v'ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e... mi
lascerete un cantuccino anche a me, spero, - soggiunse, con una voce, suo
malgrado, stizzosa.
- Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v'accostate;
non partite di qui!
- No, no, via, - disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una
seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d'astio
insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d'esserne forse esclusa per tutta
la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero della
cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non s'avvedeva
del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de' suoi dolori,
de' suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all'immagini sognate
da un febbricitante.
Si riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò:
- chi è? chi è? Non venga nessuno!
- Nulla, nulla; buone nuove, - disse la vecchia: - è Marta che porta da
mangiare.
- Chiudete, chiudete! - gridava Lucia.
- Ih! subito, subito, - rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani
di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una
tavola nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder
di quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere
appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de' cibi: -
di que' bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne,
se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co' suoi amici...
quando capita qualcheduno di quelli...! e vogliono stare allegri! Ehm! - Ma
vedendo che tutti gl'incanti riuscivano inutili, - siete voi che non volete, -
disse. - Non istate poi a dirgli domani ch'io non v'ho fatto coraggio. Mangerò
io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando metterete giudizio, e
vorrete ubbidire -. Così detto, si mise a mangiare avidamente. Saziata che fu,
s'alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra Lucia, l'invitò di nuovo
a mangiare, per andar poi a letto.
- No, no, non voglio nulla, - rispose questa, con voce fiacca e come
sonnolenta. Poi, con più risolutezza, riprese: - è serrato l'uscio? è serrato
bene? - E dopo aver guardato in giro per la camera, s'alzò, e, con le mani
avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte.
La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e
disse: - sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora?
- Oh contenta! contenta io qui! - disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo
cantuccio. - Ma il Signore lo sa che ci sono!
- Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S'è mai
visto rifiutare i comodi, quando si possono avere?
- No, no; lasciatemi stare.
- Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla
sponda; starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a
fare. Ricordatevi che v'ho pregata più volte -. Così dicendo, si cacciò sotto
vestita; e tutto tacque.
Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le
ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto
nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una
torbida vicenda di pensieri, d'immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a
se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in
quella giornata, s'applicava dolorosamente alle circostanze dell'oscura e
formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in
una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati
dall'incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest'angoscia; alfine, più
che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde
sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma
tutt'a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno
di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove
fosse, come, perché. Tese l'orecchio a un suono: era il russare lento,
arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco
apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a
spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così,
indietro, come è il venire e l'andare dell'onda sulla riva: e quella luce,
fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto,
non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto
le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l'aiutarono a distinguere ciò
che appariva confuso al senso. L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione:
tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell'avvenire,
l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni,
quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le facevano un
nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in
quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel
pensiero, le spuntò in cuore come un'improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua
corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera
usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia
indeterminata. Tutt'a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che
la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando,
nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che
aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento,
l'animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire
altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di
farne un sacrifizio. S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto
le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e
disse: - o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e
che tante volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete
ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati;
aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre,
Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a
quel mio poveretto, per non esser mai d'altri che vostra.
Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al
collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come
un'armatura della nuova milizia a cui s'era ascritta. Rimessasi a sedere in
terra, sentì entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia.
Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le
parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati
da tanta guerra s'assopirono a poco a poco in quell'acquietamento di pensieri: e
finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le
labbra, Lucia s'addormentò d'un sonno perfetto e continuo.
Ma c'era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare
altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine
per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre
con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all'orecchio,
il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in
furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e
spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell'immagine, più che mai
presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. "Che
sciocca curiosità da donnicciola, - pensava, - m'è venuta di vederla? Ha
ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più
uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto
addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne
strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono
rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?"
E qui, senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria
da sé gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi né lamenti non
l'avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali
imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir
questa; non che spegnesse nell'animo quella molesta pietà; vi destava in vece
una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli
parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale
aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. "È viva costei, - pensava,
- è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel
viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar
perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi
potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di questa diavoleria, la direi; eh!
sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più
uomo!... Via! - disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro
duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: - via! sono sciocchezze che mi
son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa".
E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante,
qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo
tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre
volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di
desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo per
un'ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all'imprese avviate e non
finite, in vece d'animarsi al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli
(ché l'ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza,
quasi uno spavento de' passi già fatti. Il tempo gli s'affacciò davanti voto
d'ogni intento, d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie
intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta,
così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e
non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl'importasse; anzi
l'idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo
e d'impiccio. E se volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera
fattibile, dovette pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella
poverina.
"La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le
dirò: andate, andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l'impegno? e
don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo?"
A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d'un
superiore, l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta lui
stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto,
sorgeva come a giudicare l'antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui,
prima quasi d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender l'impegno di far
tanto patire, senz'odio, senza timore, un'infelice sconosciuta, per servire
colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero
buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse
indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento
istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza
di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per
rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua
vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in
sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo
consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta volere e
commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non avevano
allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo
pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino
alla disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla
parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di
finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore,
da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure
continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con raccapriccio il suo
cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa,
la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza
forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber
fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi nemici. Anche le tenebre, anche
il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di
spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno,
all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in
queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza
convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un
altro pensiero. "Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero
ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non
c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa
quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia... E se c'è quest'altra
vita...!"
A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più
nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte.
Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti,
tremando. Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e
risentite, poche ore prima: "Dio perdona tante cose, per un'opera di
misericordia!" E non gli tornavan già con quell'accento d'umile
preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d'autorità, e
che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo:
levò le mani dalle tempie, e, in un'attitudine più composta, fissò gli occhi
della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come
la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa
grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a
liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita;
s'immaginava di condurla lui stesso alla madre. "E poi? che farò domani,
il resto della giornata? che farò doman l'altro? che farò dopo doman l'altro?
E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la
notte!" E ricaduto nel vòto penoso dell'avvenire, cercava indarno un
impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva
d'abbandonare il castello, e d'andarsene in paesi lontani, dove nessun lo
conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora
gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l'animo antico, le antiche voglie;
e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva
farlo vedere a' suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se
dovesse portar la luce anche ne' suoi pensieri. Ed ecco, appunto
sull'albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata, ecco che,
stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all'orecchio come un'onda di
suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d'allegro. Stette attento,
e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche
l'eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si
confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche
quello a festa; poi un altro. "Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti
costoro?" Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse
a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il
cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore
che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo
alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti
dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito
delle feste, e con un'alacrità straordinaria.
"Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto
paese? dove va tutta quella canaglia?" E data una voce a un bravo fidato
che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel
movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a
informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al
mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli;
uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo
di casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un
viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia
comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali
più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il
supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e
gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse
comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.
CAPITOLO XXII
Poco dopo, il bravo venne a riferire che, il giorno avanti, il cardinal
Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano, era arrivato a ***, e ci starebbe
tutto quel giorno; e che la nuova sparsa la sera di quest'arrivo ne' paesi
d'intorno aveva invogliati tutti d'andare a veder quell'uomo; e si scampanava
più per allegria, che per avvertir la gente. Il signore, rimasto solo,
continuò a guardar nella valle, ancor più pensieroso. "Per un uomo!
Tutti premurosi, tutti allegri, per vedere un uomo! E però ognuno di costoro
avrà il suo diavolo che lo tormenti. Ma nessuno, nessuno n'avrà uno come il
mio; nessuno avrà passata una notte come la mia! Cos'ha quell'uomo, per render
tanta gente allegra? Qualche soldo che distribuirà così alla ventura... Ma
costoro non vanno tutti per l'elemosina. Ebbene, qualche segno nell'aria,
qualche parola... Oh se le avesse per me le parole che possono consolare! se...!
Perché non vado anch'io? Perché no?... Anderò, anderò; e gli voglio parlare:
a quattr'occhi gli voglio parlare. Cosa gli dirò? Ebbene, quello che, quello
che... Sentirò cosa sa dir lui, quest'uomo!"
Fatta così in confuso questa risoluzione, finì in fretta di vestirsi,
mettendosi una sua casacca d'un taglio che aveva qualche cosa del militare;
prese la terzetta rimasta sul letto, e l'attaccò alla cintura da una parte;
dall'altra, un'altra che staccò da un chiodo della parete; mise in quella
stessa cintura il suo pugnale; e staccata pur dalla parete una carabina famosa
quasi al par di lui, se la mise ad armacollo; prese il cappello, uscì di
camera; e andò prima di tutto a quella dove aveva lasciata Lucia. Posò fuori
la carabina in un cantuccio vicino all'uscio, e picchiò, facendo insieme sentir
la sua voce. La vecchia scese il letto in un salto, e corse ad aprire. Il
signore entrò, e data un'occhiata per la camera, vide Lucia rannicchiata nel
suo cantuccio e quieta.
- Dorme? - domandò sotto voce alla vecchia: - là, dorme? eran questi i miei
ordini, sciagurata?
- Io ho fatto di tutto, - rispose quella: - ma non ha mai voluto mangiare,
non è mai voluta venire...
- Lasciala dormire in pace; guarda di non la disturbare; e quando si
sveglierà... Marta verrà qui nella stanza vicina; e tu manderai a prendere
qualunque cosa che costei possa chiederti. Quando si sveglierà... dille che
io... che il padrone è partito per poco tempo, che tornerà, e che... farà
tutto quello che lei vorrà.
La vecchia rimase tutta stupefatta pensando tra sé: "che sia qualche
principessa costei?"
Il signore uscì, riprese la sua carabina, mandò Marta a far anticamera,
mandò il primo bravo che incontrò a far la guardia, perché nessun altro che
quella donna mettesse piede nella camera; e poi uscì dal castello, e prese la
scesa, di corsa.
Il manoscritto non dice quanto ci fosse dal castello al paese dov'era il
cardinale; ma dai fatti che siam per raccontare, risulta che non doveva esser
più che una lunga passeggiata. Dal solo accorrere de' valligiani, e anche di
gente più lontana, a quel paese, questo non si potrebbe argomentare; giacché
nelle memorie di quel tempo troviamo che da venti e più miglia veniva gente in
folla, per veder Federigo.
I bravi che s'abbattevano sulla salita, si fermavano rispettosamente al
passar del signore, aspettando se mai avesse ordini da dar loro, o se volesse
prenderli seco, per qualche spedizione; e non sapevan che si pensare della sua
aria, e dell'occhiate che dava in risposta a' loro inchini.
Quando fu nella strada pubblica, quello che faceva maravigliare i
passeggieri, era di vederlo senza seguito. Del resto, ognuno gli faceva luogo,
prendendola larga, quanto sarebbe bastato anche per il seguito, e levandosi
rispettosamente il cappello. Arrivato al paese, trovò una gran folla; ma il suo
nome passò subito di bocca in bocca; e la folla s'apriva. S'accostò a uno, e
gli domandò dove fosse il cardinale. - In casa del curato, - rispose quello,
inchinandosi, e gl'indicò dov'era. Il signore andò là, entrò in un
cortiletto dove c'eran molti preti, che tutti lo guardarono con un'attenzione
maravigliata e sospettosa. Vide dirimpetto un uscio spalancato, che metteva in
un salottino, dove molti altri preti eran congregati. Si levò la carabina, e
l'appoggiò in un canto del cortile; poi entrò nel salottino: e anche lì,
occhiate, bisbigli, un nome ripetuto, e silenzio. Lui, voltatosi a uno di
quelli, gli domandò dove fosse il cardinale; e che voleva parlargli.
- Io son forestiero, - rispose l'interrogato, e data un'occhiata intorno,
chiamò il cappellano crocifero, che in un canto del salottino, stava appunto
dicendo sotto voce a un suo compagno: - colui? quel famoso? che ha a far qui
colui? alla larga! - Però, a quella chiamata che risonò nel silenzio generale,
dovette venire l'innominato, stette a sentir quel che voleva, e alzando con una
curiosità inquieta gli occhi su quel viso, e riabbassandoli subito, rimase lì
un poco, poi disse o balbettò: - non saprei se monsignore illustrissimo... in
questo momento... si trovi... sia... possa... Basta, vado a vedere -. E andò a
malincorpo a far l'imbasciata nella stanza vicina, dove si trovava il cardinale.
A questo punto della nostra storia, noi non possiam far a meno di non
fermarci qualche poco, come il viandante, stracco e tristo da un lungo camminare
per un terreno arido e salvatico, si trattiene e perde un po' di tempo all'ombra
d'un bell'albero, sull'erba, vicino a una fonte d'acqua viva. Ci siamo abbattuti
in un personaggio, il nome e la memoria del quale, affacciandosi, in qualunque
tempo alla mente, la ricreano con una placida commozione di riverenza, e con un
senso giocondo di simpatia: ora, quanto più dopo tante immagini di dolore, dopo
la contemplazione d'una moltiplice e fastidiosa perversità! Intorno a questo
personaggio bisogna assolutamente che noi spendiamo quattro parole: chi non si
curasse di sentirle, e avesse però voglia d'andare avanti nella storia, salti
addirittura al capitolo seguente.
Federigo Borromeo, nato nel 1564, fu degli uomini rari in qualunque tempo,
che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d'una grand'opulenza,
tutti i vantaggi d'una condizione privilegiata, un intento continuo, nella
ricerca e nell'esercizio del meglio. La sua vita è come un ruscello che,
scaturito limpido dalla roccia, senza ristagnare né intorbidarsi mai, in un
lungo corso per diversi terreni, va limpido a gettarsi nel fiume. Tra gli agi e
le pompe, badò fin dalla puerizia a quelle parole d'annegazione e d'umiltà, a
quelle massime intorno alla vanità de' piaceri, all'ingiustizia dell'orgoglio,
alla vera dignità e a' veri beni, che, sentite o non sentite ne' cuori, vengono
trasmesse da una generazione all'altra, nel più elementare insegnamento della
religione. Badò, dico, a quelle parole, a quelle massime, le prese sul serio,
le gustò, le trovò vere; vide che non potevan dunque esser vere altre parole e
altre massime opposte, che pure si trasmettono di generazione in generazione,
con la stessa sicurezza, e talora dalle stesse labbra; e propose di prender per
norma dell'azioni e de' pensieri quelle che erano il vero. Persuaso che la vita
non è già destinata ad essere un peso per molti, e una festa per alcuni, ma
per tutti un impiego, del quale ognuno renderà conto, cominciò da fanciullo a
pensare come potesse render la sua utile e santa.
Nel 1580 manifestò la risoluzione di dedicarsi al ministero ecclesiastico, e
ne prese l'abito dalle mani di quel suo cugino Carlo, che una fama, già fin
d'allora antica e universale, predicava santo. Entrò poco dopo nel collegio
fondato da questo in Pavia, e che porta ancora il nome del loro casato; e lì,
applicandosi assiduamente alle occupazioni che trovò prescritte, due altre ne
assunse di sua volontà; e furono d'insegnar la dottrina cristiana ai più rozzi
e derelitti del popolo, e di visitare, servire, consolare e soccorrere
gl'infermi. Si valse dell'autorità che tutto gli conciliava in quel luogo, per
attirare i suoi compagni a secondarlo in tali opere; e in ogni cosa onesta e
profittevole esercitò come un primato d'esempio, un primato che le sue doti
personali sarebbero forse bastate a procacciargli, se fosse anche stato l'infimo
per condizione. I vantaggi d'un altro genere, che la sua gli avrebbe potuto
procurare, non solo non li ricercò, ma mise ogni studio a schivarli. Volle una
tavola piuttosto povera che frugale, usò un vestiario piuttosto povero che
semplice; a conformità di questo, tutto il tenore della vita e il contegno. Ne
credette mai di doverlo mutare, per quanto alcuni congiunti gridassero e si
lamentassero che avvilisse così la dignità della casa. Un'altra guerra ebbe a
sostenere con gl'istitutori, i quali, furtivamente e come per sorpresa,
cercavano di mettergli davanti, addosso, intorno, qualche suppellettile più
signorile, qualcosa che lo facesse distinguer dagli altri, e figurare come il
principe del luogo: o credessero di farsi alla lunga ben volere con ciò; o
fossero mossi da quella svisceratezza servile che s'invanisce e si ricrea nello
splendore altrui; o fossero di que' prudenti che s'adombrano delle virtù come
de' vizi, predicano sempre che la perfezione sta nel mezzo; e il mezzo lo fissan
giusto in quel punto dov'essi sono arrivati, e ci stanno comodi. Federigo, non
che lasciarsi vincere da que' tentativi, riprese coloro che li facevano; e ciò
tra la pubertà e la giovinezza.
Che, vivente il cardinal Carlo, maggior di lui di ventisei anni, davanti a
quella presenza grave, solenne, ch'esprimeva così al vivo la santità, e ne
rammentava le opere, e alla quale, se ce ne fosse stato bisogno, avrebbe
aggiunto autorità ogni momento l'ossequio manifesto e spontaneo de'
circostanti, quali e quanti si fossero, Federigo fanciullo e giovinetto cercasse
di conformarsi al contegno e al pensare d'un tal superiore, non è certamente da
farsene maraviglia; ma è bensì cosa molto notabile che, dopo la morte di lui,
nessuno si sia potuto accorgere che a Federigo, allor di vent'anni, fosse
mancata una guida e un censore. La fama crescente del suo ingegno, della sua
dottrina e della sua pietà, la parentela e gl'impegni di più d'un cardinale
potente, il credito della sua famiglia, il nome stesso, a cui Carlo aveva quasi
annessa nelle menti un'idea di santità e di preminenza, tutto ciò che deve, e
tutto ciò che può condurre gli uomini alle dignità ecclesiastiche, concorreva
a pronosticargliele. Ma egli, persuaso in cuore di ciò che nessuno il quale
professi cristianesimo può negar con la bocca, non ci esser giusta superiorità
d'uomo sopra gli uomini, se non in loro servizio, temeva le dignità, e cercava
di scansarle; non certamente perché sfuggisse di servire altrui; che poche vite
furono spese in questo come la sua; ma perché non si stimava abbastanza degno
né capace di così alto e pericoloso servizio. Perciò, venendogli, nel 1595,
proposto da Clemente VIII l'arcivescovado di Milano, apparve fortemente turbato,
e ricusò senza esitare. Cedette poi al comando espresso del papa.
Tali dimostrazioni, e chi non lo sa? non sono né difficili né rare; e
l'ipocrisia non ha bisogno d'un più grande sforzo d'ingegno per farle, che la
buffoneria per deriderle a buon conto, in ogni caso. Ma cessan forse per questo
d'esser l'espressione naturale d'un sentimento virtuoso e sapiente? La vita è
il paragone delle parole: e le parole ch'esprimono quel sentimento, fossero
anche passate sulle labbra di tutti gl'impostori e di tutti i beffardi del
mondo, saranno sempre belle, quando siano precedute e seguite da una vita di
disinteresse e di sacrifizio.
In Federigo arcivescovo apparve uno studio singolare e continuo di non
prender per sé, delle ricchezze, del tempo, delle cure, di tutto se stesso in
somma, se non quanto fosse strettamente necessario. Diceva, come tutti dicono,
che le rendite ecclesiastiche sono patrimonio de' poveri: come poi intendesse
infatti una tal massima, si veda da questo. Volle che si stimasse a quanto
poteva ascendere il suo mantenimento e quello della sua servitù; e dettogli che
seicento scudi (scudo si chiamava allora quella moneta d'oro che, rimanendo
sempre dello stesso peso e titolo, fu poi detta zecchino), diede ordine che
tanti se ne contasse ogni anno dalla sua cassa particolare a quella della mensa;
non credendo che a lui ricchissimo fosse lecito vivere di quel patrimonio. Del
suo poi era così scarso e sottile misuratore a se stesso, che badava di non
ismettere un vestito, prima che fosse logoro affatto: unendo però, come fu
notato da scrittori contemporanei, al genio della semplicità quello d'una
squisita pulizia: due abitudini notabili infatti, in quell'età sudicia e
sfarzosa. Similmente, affinché nulla si disperdesse degli avanzi della sua
mensa frugale, gli assegnò a un ospizio di poveri; e uno di questi, per suo
ordine, entrava ogni giorno nella sala del pranzo a raccoglier ciò che fosse
rimasto. Cure, che potrebbero forse indur concetto d'una virtù gretta, misera,
angustiosa, d'una mente impaniata nelle minuzie, e incapace di disegni elevati;
se non fosse in piedi questa biblioteca ambrosiana, che Federigo ideò con sì
animosa lautezza, ed eresse, con tanto dispendio, da' fondamenti; per fornir la
quale di libri e di manoscritti, oltre il dono de' già raccolti con grande
studio e spesa da lui, spedì otto uomini, de' più colti ed esperti che poté
avere, a farne incetta, per l'Italia, per la Francia, per la Spagna, per la
Germania, per le Fiandre, nella Grecia, al Libano, a Gerusalemme. Così riuscì
a radunarvi circa trentamila volumi stampati, e quattordicimila manoscritti.
Alla biblioteca unì un collegio di dottori (furon nove, e pensionati da lui fin
che visse; dopo, non bastando a quella spesa l'entrate ordinarie, furon
ristretti a due); e il loro ufizio era di coltivare vari studi, teologia,
storia, lettere, antichità ecclesiastiche, lingue orientali, con l'obbligo ad
ognuno di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli; v'unì un
collegio da lui detto trilingue, per lo studio delle lingue greca, latina e
italiana; un collegio d'alunni, che venissero istruiti in quelle facoltà e
lingue, per insegnarle un giorno; v'unì una stamperia di lingue orientali,
dell'ebraica cioè, della caldea, dell'arabica, della persiana, dell'armena; una
galleria di quadri, una di statue, e, una scuola delle tre principali arti del
disegno. Per queste, poté trovar professori già formati; per il rimanente,
abbiam visto che da fare gli avesse dato la raccolta de' libri e de'
manoscritti; certo più difficili a trovarsi dovevano essere i tipi di quelle
lingue, allora molto men coltivate in Europa che al presente; più ancora de'
tipi, gli uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese tra i
giovani alunni del seminario; e da questo si può argomentare che giudizio
facesse degli studi consumati e delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio
conforme a quello che par che n'abbia portato la posterità, col mettere gli uni
e le altre in dimenticanza. Nelle regole che stabilì per l'uso e per il governo
della biblioteca, si vede un intento d'utilità perpetua, non solamente bello in
sé, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là dell'idee e
dell'abitudini comuni di quel tempo. Prescrisse al bibliotecario che mantenesse
commercio con gli uomini più dotti d'Europa, per aver da loro notizie dello
stato delle scienze, e avviso de' libri migliori che venissero fuori in ogni
genere, e farne acquisto; gli prescrisse d'indicare agli studiosi i libri che
non conoscessero, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero
cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di servirsene, secondo il
bisogno. Una tale intenzione deve ora parere ad ognuno troppo naturale, e
immedesimata con la fondazione d'una biblioteca: allora non era così. E in una
storia dell'ambrosiana, scritta (col costrutto e con l'eleganze comuni del
secolo) da un Pierpaolo Bosca, che vi fu bibliotecario dopo la morte di
Federigo, vien notato espressamente, come cosa singolare, che in questa
libreria, eretta da un privato, quasi tutta a sue spese, i libri fossero esposti
alla vista del pubblico, dati a chiunque li chiedesse, e datogli anche da
sedere, e carta, penne e calamaio, per prender gli appunti che gli potessero
bisognare; mentre in qualche altra insigne biblioteca pubblica d'Italia, i libri
non erano nemmen visibili, ma chiusi in armadi, donde non si levavano se non per
gentilezza de' bibliotecari, quando si sentivano di farli vedere un momento; di
dare ai concorrenti il comodo di studiare, non se n'aveva neppur l'idea.
Dimodoché arricchir tali biblioteche era un sottrar libri all'uso comune: una
di quelle coltivazioni, come ce n'era e ce n'è tuttavia molte, che
isteriliscono il campo.
Non domandate quali siano stati gli effetti di questa fondazione del Borromeo
sulla coltura pubblica: sarebbe facile dimostrare in due frasi, al modo che si
dimostra, che furon miracolosi, o che non furon niente; cercare e spiegare, fino
a un certo segno, quali siano stati veramente, sarebbe cosa di molta fatica, di
poco costrutto, e fuor di tempo. Ma pensate che generoso, che giudizioso, che
benevolo, che perseverante amatore del miglioramento umano, dovesse essere colui
che volle una tal cosa, la volle in quella maniera, e l'eseguì, in mezzo a
quell'ignorantaggine, a quell'inerzia, a quell'antipatia generale per ogni
applicazione studiosa, e per conseguenza in mezzo ai cos'importa? e c'era
altro da pensare? e che bell'invenzione! e mancava anche questa,
e simili; che saranno certissimamente stati più che gli scudi spesi da lui in
quell'impresa; i quali furon centocinquemila, la più parte de' suoi.
Per chiamare un tal uomo sommamente benefico e liberale, può parer che non
ci sia bisogno di sapere se n'abbia spesi molt'altri in soccorso immediato de'
bisognosi; e ci son forse ancora di quelli che pensano che le spese di quel
genere, e sto per dire tutte le spese, siano la migliore e la più utile
elemosina. Ma Federigo teneva l'elemosina propriamente detta per un dovere
principalissimo; e qui, come nel resto, i suoi fatti furon consentanei
all'opinione. La sua vita fu un continuo profondere ai poveri; e a proposito di
questa stessa carestia di cui ha già parlato la nostra storia, avremo tra poco
occasione di riferire alcuni tratti, dai quali si vedrà che sapienza e che
gentilezza abbia saputo mettere anche in questa liberalità. De' molti esempi
singolari che d'una tale sua virtù hanno notati i suoi biografi, ne citeremo
qui un solo. Avendo risaputo che un nobile usava artifizi e angherie per far
monaca una sua figlia, la quale desiderava piuttosto di maritarsi, fece venire
il padre; e cavatogli di bocca che il vero motivo di quella vessazione era il
non avere quattromila scudi che, secondo lui, sarebbero stati necessari a
maritar la figlia convenevolmente, Federigo la dotò di quattromila scudi. Forse
a taluno parrà questa una larghezza eccessiva, non ben ponderata, troppo
condiscendente agli stolti capricci d'un superbo; e che quattromila scudi
potevano esser meglio impiegati in cent'altre maniere. A questo non abbiamo
nulla da rispondere, se non che sarebbe da desiderarsi che si vedessero spesso
eccessi d'una virtù così libera dall'opinioni dominanti (ogni tempo ha le
sue), così indipendente dalla tendenza generale, come, in questo caso, fu
quella che mosse un uomo a dar quattromila scudi, perché una giovine non fosse
fatta monaca.
La carità inesausta di quest'uomo, non meno che nel dare, spiccava in tutto
il suo contegno. Di facile abbordo con tutti, credeva di dovere specialmente a
quelli che si chiamano di bassa condizione, un viso gioviale, una cortesia
affettuosa; tanto più, quanto ne trovan meno nel mondo. E qui pure ebbe a
combattere co' galantuomini del ne quid nimis, i quali, in ogni cosa,
avrebbero voluto farlo star ne' limiti, cioè ne' loro limiti. Uno di costoro,
una volta che, nella visita d'un paese alpestre e salvatico, Federigo istruiva
certi poveri fanciulli, e, tra l'interrogare e l'insegnare, gli andava
amorevolmente accarezzando, l'avvertì che usasse più riguardo nel far tante
carezze a que' ragazzi, perche eran troppo sudici e stomacosi: come se
supponesse, il buon uomo, che Federigo non avesse senso abbastanza per fare una
tale scoperta, o non abbastanza perspicacia, per trovar da sé quel ripiego
così fino. Tale è, in certe condizioni di tempi e di cose, la sventura degli
uomini costituiti in certe dignità: che mentre così di rado si trova chi gli
avvisi de' loro mancamenti, non manca poi gente coraggiosa a riprenderli del
loro far bene. Ma il buon vescovo, non senza un certo risentimento, rispose: -
sono mie anime, e forse non vedranno mai più la mia faccia; e non volete che
gli abbracci?
Ben raro però era il risentimento in lui, ammirato per la soavità de' suoi
modi, per una pacatezza imperturbabile, che si sarebbe attribuita a una
felicità straordinaria di temperamento; ed era l'effetto d'una disciplina
costante sopra un'indole viva e risentita. Se qualche volta si mostrò severo,
anzi brusco, fu co' pastori suoi subordinati che scoprisse rei d'avarizia o di
negligenza o d'altre tacce specialmente opposte allo spirito del loro nobile
ministero. Per tutto ciò che potesse toccare o il suo interesse, o la sua
gloria temporale, non dava mai segno di gioia, né di rammarico, né d'ardore,
né d'agitazione: mirabile se questi moti non si destavano nell'animo suo, più
mirabile se vi si destavano. Non solo da' molti conclavi ai quali assistette,
riportò il concetto di non aver mai aspirato a quel posto così desiderabile
all'ambizione, e così terribile alla pietà; ma una volta che un collega, il
quale contava molto, venne a offrirgli il suo voto e quelli della sua fazione
(brutta parola, ma era quella che usavano), Federigo rifiutò una tal proposta
in modo, che quello depose il pensiero, e si rivolse altrove. Questa stessa
modestia, quest'avversione al predominare apparivano ugualmente nell'occasioni
più comuni della vita. Attento e infaticabile a disporre e a governare, dove
riteneva che fosse suo dovere il farlo, sfuggì sempre d'impicciarsi negli
affari altrui; anzi si scusava a tutto potere dall'ingerirvisi ricercato:
discrezione e ritegno non comune, come ognuno sa, negli uomini zelatori del
bene, qual era Federigo.
Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del
suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in
apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme. Però non ometteremo di
notare un'altra singolarità di quella bella vita: che, piena come fu
d'attività, di governo, di funzioni, d'insegnamento, d'udienze, di visite
diocesane, di viaggi, di contrasti, non solo lo studio c'ebbe una parte, ma ce
n'ebbe tanta, che per un letterato di professione sarebbe bastato. E infatti,
con tant'altri e diversi titoli di lode, Federigo ebbe anche, presso i suoi
contemporanei, quello d'uom dotto.
Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in
pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d'oggi parrebbero a ognuno
piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran
voglia di trovarle giuste. Chi lo volesse difendere in questo, ci sarebbe quella
scusa così corrente e ricevuta, ch'erano errori del suo tempo, piuttosto che
suoi: scusa che, per certe cose, e quando risulti dall'esame particolare de'
fatti, può aver qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e
alla cieca, come si fa d'ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non
volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo
un episodio, tralasceremo anche d'esporle; bastandoci d'avere accennato così
alla sfuggita che, d'un uomo così ammirabile in complesso, noi non pretendiamo
che ogni cosa lo fosse ugualmente; perché non paia che abbiam voluto scrivere
un'orazion funebre.
Non è certamente fare ingiuria ai nostri lettori il supporre che qualcheduno
di loro domandi se di tanto ingegno e di tanto studio quest'uomo abbia lasciato
qualche monumento. Se n'ha lasciati! Circa cento son l'opere che rimangon di
lui, tra grandi e piccole, tra latine e italiane, tra stampate e manoscritte,
che si serbano nella biblioteca da lui fondata: trattati di morale, orazioni,
dissertazioni di storia, d'antichità sacra e profana, di letteratura, d'arti e
d'altro. "E come mai, dirà codesto lettore, tante opere sono dimenticate,
o almeno così poco conosciute, così poco ricercate? Come mai, con tanto
ingegno, con tanto studio, con tanta pratica degli uomini e delle cose, con
tanto meditare, con tanta passione per il buono e per il bello, con tanto candor
d'animo, con tant'altre di quelle qualità che fanno il grande scrittore,
questo, in cento opere, non ne ha lasciata neppur una di quelle che son riputate
insigni anche da chi non le approva in tutto, e conosciute di titolo anche da
chi non le legge? Come mai, tutte insieme, non sono bastate a procurare, almeno
col numero, al suo nome una fama letteraria presso noi posteri?"
La domanda è ragionevole senza dubbio, e la questione, molto interessante;
perché le ragioni di questo fenomeno si troverebbero con l'osservar molti fatti
generali: e trovate, condurrebbero alla spiegazione di più altri fenomeni
simili. Ma sarebbero molte e prolisse: e poi se non v'andassero a genio? se vi
facessero arricciare il naso? Sicché sarà meglio che riprendiamo il filo della
storia, e che, in vece di cicalar più a lungo intorno a quest'uomo, andiamo a
vederlo in azione, con la guida del nostro autore.
CAPITOLO XXIII
Il cardinal Federigo, intanto che aspettava l'ora d'andar in chiesa a
celebrar gli ufizi divini, stava studiando, com'era solito di fare in tutti i
ritagli di tempo; quando entrò il cappellano crocifero, con un viso alterato.
- Una strana visita, strana davvero, monsignore illustrissimo!
- Chi è? - domandò il cardinale.
- Niente meno che il signor... - riprese il cappellano- e spiccando le
sillabe con una gran significazione, proferì quel nome che noi non possiamo
scrivere ai nostri lettori. Poi soggiunse: - è qui fuori in persona; e chiede
nient'altro che d'esser introdotto da vossignoria illustrissima.
- Lui! - disse il cardinale, con un viso animato, chiudendo il libro, e
alzandosi da sedere: - venga! venga subito!
- Ma... - replicò il cappellano, senza moversi: - vossignoria illustrissima
deve sapere chi è costui: quel bandito, quel famoso...
- E non è una fortuna per un vescovo, che a un tal uomo sia nata la volontà
di venirlo a trovare?
- Ma... - insistette il cappellano: - noi non possiamo mai parlare di certe
cose, perché monsignore dice che le son ciance: però quando viene il caso, mi
pare che sia un dovere... Lo zelo fa de' nemici, monsignore; e noi sappiamo
positivamente che più d'un ribaldo ha osato vantarsi che, un giorno o
l'altro...
- E che hanno fatto? - interruppe il cardinale.
- Dico che costui è un appaltatore di delitti, un disperato, che tiene
corrispondenza co' disperati più furiosi, e che può esser mandato...
- Oh, che disciplina è codesta, - interruppe ancora sorridendo Federigo, -
che i soldati esortino il generale ad aver paura? - Poi, divenuto serio e
pensieroso, riprese: - san Carlo non si sarebbe trovato nel caso di dibattere se
dovesse ricevere un tal uomo: sarebbe andato a cercarlo. Fatelo entrar subito:
ha già aspettato troppo.
Il cappellano si mosse, dicendo tra sé: "non c'è rimedio: tutti
questi santi sono ostinati".
Aperto l'uscio, e affacciatosi alla stanza dov'era il signore e la brigata,
vide questa ristretta in una parte, a bisbigliare e a guardar di sott'occhio
quello, lasciato solo in un canto. S'avviò verso di lui; e intanto
squadrandolo, come poteva, con la coda dell'occhio, andava pensando che diavolo
d'armeria poteva esser nascosta sotto quella casacca; e che, veramente, prima
d'introdurlo, avrebbe dovuto proporgli almeno... ma non si seppe risolvere. Gli
s'accostò, e disse: - monsignore aspetta vossignoria. Si contenti di venir con
me -. E precedendolo in quella piccola folla, che subito fece ala, dava a destra
e a sinistra occhiate, le quali significavano: cosa volete? non lo sapete anche
voi altri, che fa sempre a modo suo?
Appena introdotto l'innominato, Federigo gli andò incontro, con un volto
premuroso e sereno, e con le braccia aperte, come a una persona desiderata, e
fece subito cenno al cappellano che uscisse: il quale ubbidì.
I due rimasti stettero alquanto senza parlare, e diversamente sospesi.
L'innominato, ch'era stato come portato lì per forza da una smania
inesplicabile, piuttosto che condotto da un determinato disegno, ci stava anche
come per forza, straziato da due passioni opposte, quel desiderio e quella
speranza confusa di trovare un refrigerio al tormento interno, e dall'altra
parte una stizza, una vergogna di venir lì come un pentito, come un sottomesso,
come un miserabile, a confessarsi in colpa, a implorare un uomo: e non trovava
parole, né quasi ne cercava. Però, alzando gli occhi in viso a quell'uomo, si
sentiva sempre più penetrare da un sentimento di venerazione imperioso insieme
e soave, che, aumentando la fiducia, mitigava il dispetto, e senza prender
l'orgoglio di fronte, l'abbatteva, e, dirò così, gl'imponeva silenzio.
La presenza di Federigo era infatti di quelle che annunziano una
superiorità, e la fanno amare. Il portamento era naturalmente composto, e quasi
involontariamente maestoso, non incurvato né impigrito punto dagli anni;
l'occhio grave e vivace, la fronte serena e pensierosa; con la canizie, nel
pallore, tra i segni dell'astinenza, della meditazione, della fatica, una specie
di floridezza verginale: tutte le forme del volto indicavano che, in altre età,
c'era stata quella che più propriamente si chiama bellezza; l'abitudine de'
pensieri solenni e benevoli, la pace interna d'una lunga vita, l'amore degli
uomini, la gioia continua d'una speranza ineffabile, vi avevano sostituita una,
direi quasi, bellezza senile, che spiccava ancor più in quella magnifica
semplicità della porpora.
Tenne anche lui, qualche momento, fisso nell'aspetto dell'innominato il suo
sguardo penetrante, ed esercitato da lungo tempo a ritrarre dai sembianti i
pensieri; e, sotto a quel fosco e a quel turbato, parendogli di scoprire sempre
più qualcosa di conforme alla speranza da lui concepita al primo annunzio d'una
tal visita, tutt'animato, - oh! - disse: - che preziosa visita è questa! e
quanto vi devo esser grato d'una sì buona risoluzione; quantunque per me abbia
un po' del rimprovero!
- Rimprovero! - esclamò il signore maravigliato, ma raddolcito da quelle
parole e da quel fare, e contento che il cardinale avesse rotto il ghiaccio, e
avviato un discorso qualunque.
- Certo, m'è un rimprovero, - riprese questo, - ch'io mi sia lasciato
prevenir da voi; quando, da tanto tempo, tante volte, avrei dovuto venir da voi
io.
- Da me, voi! Sapete chi sono? V'hanno detto bene il mio nome?
- E questa consolazione ch'io sento, e che, certo, vi si manifesta nel mio
aspetto, vi par egli ch'io dovessi provarla all'annunzio, alla vista d'uno
sconosciuto? Siete voi che me la fate provare; voi, dico, che avrei dovuto
cercare; voi che almeno ho tanto amato e pianto, per cui ho tanto pregato; voi,
de' miei figli, che pure amo tutti e di cuore, quello che avrei più desiderato
d'accogliere e d'abbracciare, se avessi creduto di poterlo sperare. Ma Dio sa
fare Egli solo le maraviglie, e supplisce alla debolezza, alla lentezza de' suoi
poveri servi.
L'innominato stava attonito a quel dire così infiammato, a quelle parole,
che rispondevano tanto risolutamente a ciò che non aveva ancor detto, né era
ben determinato di dire; e commosso ma sbalordito, stava in silenzio. - E che? -
riprese, ancor più affettuosamente, Federigo: - voi avete una buona nuova da
darmi, e me la fate tanto sospirare?
- Una buona nuova, io? Ho l'inferno nel cuore; e vi darò una buona nuova?
Ditemi voi, se lo sapete, qual è questa buona nuova che aspettate da un par
mio.
- Che Dio v'ha toccato il cuore, e vuol farvi suo, - rispose pacatamente il
cardinale.
- Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov'è questo Dio?
- Voi me lo domandate? voi? E chi più di voi l'ha vicino? Non ve lo sentite
in cuore, che v'opprime, che v'agita, che non vi lascia stare, e nello stesso
tempo v'attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione, d'una
consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo
confessiate, l'imploriate?
- Oh, certo! ho qui qualche cosa che m'opprime, che mi rode! Ma Dio! Se c'è
questo Dio, se è quello che dicono, cosa volete che faccia di me?
Queste parole furon dette con un accento disperato; ma Federigo, con un tono
solenne, come di placida ispirazione, rispose: - cosa può far Dio di voi? cosa
vuol farne? Un segno della sua potenza e della sua bontà: vuol cavar da voi una
gloria che nessun altro gli potrebbe dare. Che il mondo gridi da tanto tempo
contro di voi, che mille e mille voci detestino le vostre opere... -
(l'innominato si scosse, e rimase stupefatto un momento nel sentir quel
linguaggio così insolito, più stupefatto ancora di non provarne sdegno, anzi
quasi un sollievo); - che gloria, - proseguiva Federigo, - ne viene a Dio? Son
voci di terrore, son voci d'interesse; voci forse anche di giustizia, ma d'una
giustizia così facile, così naturale! alcune forse, pur troppo, d'invidia di
codesta vostra sciagurata potenza, di codesta, fino ad oggi, deplorabile
sicurezza d'animo. Ma quando voi stesso sorgerete a condannare la vostra vita,
ad accusar voi stesso, allora! allora Dio sarà glorificato! E voi domandate
cosa Dio possa far di voi? Chi son io pover'uomo, che sappia dirvi fin d'ora che
profitto possa ricavar da voi un tal Signore? cosa possa fare di codesta
volontà impetuosa, di codesta imperturbata costanza, quando l'abbia animata,
infiammata d'amore, di speranza, di pentimento? Chi siete voi, pover'uomo, che
vi pensiate d'aver saputo da voi immaginare e fare cose più grandi nel male,
che Dio non possa farvene volere e operare nel bene? Cosa può Dio far di voi? E
perdonarvi? e farvi salvo? e compire in voi l'opera della redenzione? Non son
cose magnifiche e degne di Lui? Oh pensate! se io omiciattolo, io miserabile, e
pur così pieno di me stesso, io qual mi sono, mi struggo ora tanto della vostra
salute, che per essa darei con gaudio (Egli m'è testimonio) questi pochi giorni
che mi rimangono; oh pensate! quanta, quale debba essere la carità di Colui che
m'infonde questa così imperfetta, ma così viva; come vi ami, come vi voglia
Quello che mi comanda e m'ispira un amore per voi che mi divora!
A misura che queste parole uscivan dal suo labbro, il volto, lo sguardo, ogni
moto ne spirava il senso. La faccia del suo ascoltatore, di stravolta e
convulsa, si fece da principio attonita e intenta; poi si compose a una
commozione più profonda e meno angosciosa; i suoi occhi, che dall'infanzia più
non conoscevan le lacrime, si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si
coprì il viso con le mani, e diede in un dirotto pianto, che fu come l'ultima e
più chiara risposta.
- Dio grande e buono! - esclamò Federigo, alzando gli occhi e le mani al
cielo: - che ho mai fatto io, servo inutile, pastore sonnolento, perche Voi mi
chiamaste a questo convito di grazia, perche mi faceste degno d'assistere a un
sì giocondo prodigio! - Così dicendo, stese la mano a prender quella
dell'innominato.
- No! - gridò questo, - no! lontano, lontano da me voi: non lordate quella
mano innocente e benefica. Non sapete tutto ciò che ha fatto questa che volete
stringere.
- Lasciate, - disse Federigo, prendendola con amorevole violenza, - lasciate
ch'io stringa codesta mano che riparerà tanti torti, che spargerà tante
beneficenze, che solleverà tanti afflitti, che si stenderà disarmata,
pacifica, umile a tanti nemici.
- È troppo! - disse, singhiozzando, l'innominato. - Lasciatemi, monsignore;
buon Federigo, lasciatemi. Un popolo affollato v'aspetta; tant'anime buone,
tant'innocenti, tanti venuti da lontano, per vedervi una volta, per sentirvi: e
voi vi trattenete... con chi!
- Lasciamo le novantanove pecorelle, - rispose il cardinale: - sono in sicuro
sul monte: io voglio ora stare con quella ch'era smarrita. Quell'anime son forse
ora ben più contente, che di vedere questo povero vescovo. Forse Dio, che ha
operato in voi il prodigio della misericordia, diffonde in esse una gioia di cui
non sentono ancora la cagione. Quel popolo è forse unito a noi senza saperlo:
forse lo Spirito mette ne' loro cuori un ardore indistinto di carità, una
preghiera ch'esaudisce per voi, un rendimento di grazie di cui voi siete
l'oggetto non ancor conosciuto -. Così dicendo, stese le braccia al collo
dell'innominato; il quale, dopo aver tentato di sottrarsi, e resistito un
momento, cedette, come vinto da quell'impeto di carità, abbracciò anche lui il
cardinale, e abbandonò sull'omero di lui il suo volto tremante e mutato. Le sue
lacrime ardenti cadevano sulla porpora incontaminata di Federigo; e le mani
incolpevoli di questo stringevano affettuosamente quelle membra, premevano
quella casacca, avvezza a portar l'armi della violenza e del tradimento.
L'innominato, sciogliendosi da quell'abbraccio, si coprì di nuovo gli occhi
con una mano, e, alzando insieme la faccia, esclamò: - Dio veramente grande!
Dio veramente buono! io mi conosco ora, comprendo chi sono; le mie iniquità mi
stanno davanti; ho ribrezzo di me stesso; eppure...! eppure provo un refrigerio,
una gioia, sì una gioia, quale non ho provata mai in tutta questa mia orribile
vita!
È un saggio, - disse Federigo, - che Dio vi dà per cattivarvi al suo
servizio, per animarvi ad entrar risolutamente nella nuova vita in cui avrete
tanto da disfare, tanto da riparare, tanto da piangere! - Me sventurato! -
esclamò il signore, - quante, quante... cose, le quali non potrò se non
piangere! Ma almeno ne ho d'intraprese, d'appena avviate, che posso, se non
altro, rompere a mezzo: una ne ho, che posso romper subito, disfare, riparare.
Federigo si mise in attenzione; e l'innominato raccontò brevemente, ma con
parole d'esecrazione anche più forti di quelle che abbiamo adoprato noi, la
prepotenza fatta a Lucia, i terrori, i patimenti della poverina, e come aveva
implorato, e la smania che quell'implorare aveva messa addosso a lui, e come
essa era ancor nel castello...
- Ah, non perdiam tempo! - esclamò Federigo, ansante di pietà e di
sollecitudine. - Beato voi! Questo è pegno del perdono di Dio! far che possiate
diventare strumento di salvezza a chi volevate esser di rovina. Dio vi benedica!
Dio v'ha benedetto! Sapete di dove sia questa povera nostra travagliata?
Il signore nominò il paese di Lucia.
- Non è lontano di qui, - disse il cardinale: - lodato sia Dio; e
probabilmente... - Così dicendo, corse a un tavolino, e scosse un campanello. E
subito entrò con ansietà il cappellano crocifero, e per la prima cosa, guardò
l'innominato; e vista quella faccia mutata, e quegli occhi rossi di pianto,
guardò il cardinale; e sotto quell'inalterabile compostezza, scorgendogli in
volto come un grave contento, e una premura quasi impaziente, era per rimanere
estatico con la bocca aperta, se il cardinale non l'avesse subito svegliato da
quella contemplazione, domandandogli se, tra i parrochi radunati lì, si
trovasse quello di ***.
- C'è, monsignore illustrissimo, - rispose il cappellano.
- Fatelo venir subito, - disse Federigo, - e con lui il parroco qui della
chiesa.
Il cappellano uscì, e andò nella stanza dov'eran que' preti riuniti: tutti
gli occhi si rivolsero a lui. Lui, con la bocca tuttavia aperta, col viso ancor
tutto dipinto di quell'estasi, alzando le mani, e movendole per aria, disse: -
signori! signori! haec mutatio dexterae Excelsi-. E stette un momento
senza dir altro. Poi, ripreso il tono e la voce della carica, soggiunse: - sua
signoria illustrissima e reverendissima vuole il signor curato della parrocchia,
e il signor curato di ***.
Il primo chiamato venne subito avanti, e nello stesso tempo, uscì di mezzo
alla folla un: - io? - strascicato, con un'intonazione di maraviglia.
- Non è lei il signor curato di ***? - riprese il cappellano.
- Per l'appunto; ma...
- Sua signoria illustrissima e reverendissima vuol lei.
- Me? - disse ancora quella voce, significando chiaramente in quel
monosillabo: come ci posso entrar io? Ma questa volta, insieme con la voce,
venne fuori l'uomo, don Abbondio in persona, con un passo forzato, e con un viso
tra l'attonito e il disgustato. Il cappellano gli fece un cenno con la mano, che
voleva dire: a noi, andiamo; ci vuol tanto? E precedendo i due curati, andò
all'uscio, l'aprì, e gl'introdusse.
Il cardinale lasciò andar la mano dell'innominato, col quale intanto aveva
concertato quello che dovevan fare; si discostò un poco, e chiamò con un cenno
il curato della chiesa. Gli disse in succinto di che si trattava; e se saprebbe
trovar subito una buona donna che volesse andare in una lettiga al castello, a
prender Lucia: una donna di cuore e di testa, da sapersi ben governare in una
spedizione così nuova, e usar le maniere più a proposito, trovar le parole
più adattate, a rincorare, a tranquillizzare quella poverina, a cui, dopo tante
angosce, e in tanto turbamento, la liberazione stessa poteva metter nell'animo
una nuova confusione. Pensato un momento, il curato disse che aveva la persona a
proposito, e uscì. Il cardinale chiamò con un altro cenno il cappellano, al
quale ordinò che facesse preparare subito la lettiga e i lettighieri, e sellare
due mule. Uscito anche il cappellano, si voltò a don Abbondio.
Questo, che già gli era vicino, per tenersi lontano da quell'altro signore,
e che intanto dava un'occhiatina di sotto in su ora all'uno ora all'altro,
seguitando a almanaccar tra sé che cosa mai potesse essere tutto quel rigirìo,
s'accostò di più, fece una riverenza, e disse: - m'hanno significato che
vossignoria illustrissima mi voleva me; ma io credo che abbiano sbagliato.
- Non hanno sbagliato, - rispose Federigo: - ho una buona nuova da darvi, e
un consolante, un soavissimo incarico. Una vostra parrocchiana, che avrete
pianta per ismarrita, Lucia Mondella, è ritrovata, è qui vicino, in casa di
questo mio caro amico; e voi anderete ora con lui, e con una donna che il signor
curato di qui è andato a cercare, anderete, dico, a prendere quella vostra
creatura, e l'accompagnerete qui.
Don Abbondio fece di tutto per nascondere la noia, che dico? l'affanno e
l'amaritudine che gli dava una tale proposta, o comando che fosse; e non essendo
più a tempo a sciogliere e a scomporre un versaccio già formato sulla sua
faccia, lo nascose, chinando profondamente la testa, in segno d'ubbidienza. E
non l'alzò che per fare un altro profondo inchino all'innominato, con
un'occhiata pietosa che diceva: sono nelle vostre mani: abbiate misericordia: parcere
subjectis.
Gli domandò poi il cardinale, che parenti avesse Lucia.
- Di stretti, e con cui viva, o vivesse, non ha che la madre, - rispose don
Abbondio.
- E questa si trova al suo paese?
- Monsignor, sì.
- Giacché, - riprese Federigo, - quella povera giovine non potrà esser
così presto restituita a casa sua, le sarà una gran consolazione di veder
subito la madre: quindi, se il signor curato di qui non torna prima ch'io vada
in chiesa, fatemi voi il piacere di dirgli che trovi un baroccio o una
cavalcatura; e spedisca un uomo di giudizio a cercar quella donna, per condurla
qui.
- E se andassi io? - disse don Abbondio.
- No, no, voi: v'ho già pregato d'altro, - rispose il cardinale.
- Dicevo, - replicò don Abbondio, - per disporre quella povera madre. È una
donna molto sensitiva; e ci vuole uno che la conosca, e la sappia prendere per
il suo verso, per non farle male in vece di bene.
- E per questo, vi prego d'avvertire il signor curato che scelga un uomo di
proposito: voi siete molto più necessario altrove, - rispose il cardinale. E
avrebbe voluto dire: quella povera giovine ha molto più bisogno di veder subito
una faccia conosciuta, una persona sicura, in quel castello, dopo tant'ore di
spasimo, e in una terribile oscurità dell'avvenire. Ma questa non era ragione
da dirsi così chiaramente davanti a quel terzo. Parve però strano al cardinale
che don Abbondio non l'avesse intesa per aria, anzi pensata da sé; e così fuor
di luogo gli parve la proposta e l'insistenza, che pensò doverci esser sotto
qualche cosa. Lo guardò in viso, e vi scoprì facilmente la paura di viaggiare
con quell'uomo tremendo, d'andare in quella casa, anche per pochi momenti.
Volendo quindi dissipare affatto quell'ombre codarde, e non piacendogli di
tirare in disparte il curato e di bisbigliar con lui in segreto, mentre il suo
nuovo amico era lì in terzo, pensò che il mezzo più opportuno era di far ciò
che avrebbe fatto anche senza questo motivo, parlare all'innominato medesimo; e
dalle sue risposte don Abbondio intenderebbe finalmente che quello non era più
uomo da averne paura. S'avvicinò dunque all'innominato, e con quell'aria di
spontanea confidenza, che si trova in una nuova e potente affezione, come in
un'antica intrinsichezza, - non crediate, - gli disse, - ch'io mi contenti di
questa visita per oggi. Voi tornerete, n'è vero? in compagnia di questo
ecclesiastico dabbene?
- S'io tornerò? - rispose l'innominato: - quando voi mi rifiutaste, rimarrei
ostinato alla vostra porta, come il povero. Ho bisogno di parlarvi! ho bisogno
di sentirvi, di vedervi! ho bisogno di voi!
Federigo gli prese la mano, gliela strinse, e disse: - favorirete dunque di
restare a desinare con noi. V'aspetto. Intanto, io vo a pregare, e a render
grazie col popolo; e voi a cogliere i primi frutti della misericordia.
Don Abbondio, a quelle dimostrazioni, stava come un ragazzo pauroso, che veda
uno accarezzar con sicurezza un suo cagnaccio grosso, rabbuffato, con gli occhi
rossi, con un nomaccio famoso per morsi e per ispaventi, e senta dire al padrone
che il suo cane è un buon bestione, quieto, quieto: guarda il padrone, e non
contraddice né approva; guarda il cane, e non ardisce accostarglisi, per timore
che il buon bestione non gli mostri i denti, fosse anche per fargli le feste;
non ardisce allontanarsi, per non farsi scorgere; e dice in cuor suo: oh se
fossi a casa mia!
Al cardinale, che s'era mosso per uscire, tenendo sempre per la mano e
conducendo seco l'innominato, diede di nuovo nell'occhio il pover'uomo, che
rimaneva indietro, mortificato, malcontento, facendo il muso senza volerlo. E
pensando che forse quel dispiacere gli potesse anche venire dal parergli d'esser
trascurato, e come lasciato in un canto, tanto più in paragone d'un facinoroso
così ben accolto, così accarezzato, se gli voltò nel passare, si fermò un
momento, e con un sorriso amorevole, gli disse: - signor curato, voi siete
sempre con me nella casa del nostro buon Padre; ma questo... questo perierat,
et inventus est.
- Oh quanto me ne rallegro! - disse don Abbondio, facendo una gran riverenza
a tutt'e due in comune.
L'arcivescovo andò avanti, spinse l'uscio, che fu subito spalancato di fuori
da due servitori, che stavano uno di qua e uno di là: e la mirabile coppia
apparve agli sguardi bramosi del clero raccolto nella stanza. Si videro que' due
volti sui quali era dipinta una commozione diversa, ma ugualmente profonda; una
tenerezza riconoscente, un'umile gioia nell'aspetto venerabile di Federigo; in
quello dell'innominato, una confusione temperata di conforto, un nuovo pudore,
una compunzione, dalla quale però traspariva tuttavia il vigore di quella
selvaggia e risentita natura. E si seppe poi, che a più d'uno de' riguardanti
era allora venuto in mente quel detto d'Isaia: il lupo e l'agnello andranno
ad un pascolo; il leone e il bue mangeranno insieme lo strame. Dietro veniva
don Abbondio, a cui nessuno badò.
Quando furono nel mezzo della stanza, entrò dall'altra parte l'aiutante di
camera del cardinale, e gli s'accostò, per dirgli che aveva eseguiti gli ordini
comunicatigli dal cappellano; che la lettiga e le due mule eran preparate, e
s'aspettava soltanto la donna che il curato avrebbe condotta. Il cardinale gli
disse che, appena arrivato questo, lo facesse parlar subito con don Abbondio: e
tutto poi fosse agli ordini di questo e dell'innominato; al quale strinse di
nuovo la mano, in atto di commiato, dicendo: - v'aspetto -. Si voltò a salutar
don Abbondio, e s'avviò dalla parte che conduceva alla chiesa. Il clero gli
andò dietro, tra in folla e in processione: i due compagni di viaggio rimasero
soli nella stanza.
Stava l'innominato tutto raccolto in sé, pensieroso, impaziente che venisse
il momento d'andare a levar di pene e di carcere la sua Lucia: sua ora in un
senso così diverso da quello che lo fosse il giorno avanti: e il suo viso
esprimeva un'agitazione concentrata, che all'occhio ombroso di don Abbondio
poteva facilmente parere qualcosa di peggio. Lo sogguardava, avrebbe voluto
attaccare un discorso amichevole; ma, "cosa devo dirgli? - pensava: - devo
dirgli ancora: mi rallegro? Mi rallegro di che? che essendo stato finora un
demonio, vi siate finalmente risoluto di diventare un galantuomo come gli altri?
Bel complimento! Eh eh eh! in qualunque maniera io le rigiri, le congratulazioni
non vorrebbero dir altro che questo. E se sarà poi vero che sia diventato
galantuomo: così a un tratto! Delle dimostrazioni se ne fanno tante a questo
mondo, e per tante cagioni! Che so io, alle volte? E intanto mi tocca a andar
con lui! in quel castello! Oh che storia! che storia! che storia! Chi me
l'avesse detto stamattina! Ah, se posso uscirne a salvamento, m'ha da sentire la
signora Perpetua, d'avermi cacciato qui per forza, quando non c'era necessità,
fuor della mia pieve: e che tutti i parrochi d'intorno accorrevano, anche più
da lontano; e che non bisognava stare indietro; e che questo, e che quest'altro;
e imbarcarmi in un affare di questa sorte! Oh povero me! Eppure qualcosa
bisognerà dirgli a costui". E pensa e ripensa, aveva trovato che gli
avrebbe potuto dire: non mi sarei mai aspettato questa fortuna d'incontrarmi in
una così rispettabile compagnia; e stava per aprir bocca, quando entrò
l'aiutante di camera, col curato del paese, il quale annunziò che la donna era
pronta nella lettiga; e poi si voltò a don Abbondio, per ricevere da lui
l'altra commissione del cardinale. Don Abbondio se ne sbrigò come poté, in
quella confusione di mente; e accostatosi poi all'aiutante, gli disse: - mi dia
almeno una bestia quieta; perché, dico la verità, sono un povero cavalcatore.
- Si figuri, - rispose l'aiutante, con un mezzo sogghigno: - è la mula del
segretario, che è un letterato.
- Basta... - replicò don Abbondio, e continuò pensando: "il cielo me
la mandi buona".
Il signore s'era incamminato di corsa, al primo avviso: arrivato all'uscio,
s'accorse di don Abbondio, ch'era rimasto indietro. Si fermò ad aspettarlo; e
quando questo arrivò frettoloso, in aria di chieder perdono, l'inchinò, e lo
fece passare avanti, con un atto cortese e umile: cosa che raccomodò alquanto
lo stomaco al povero tribolato. Ma appena messo piede nel cortiletto, vide
un'altra novità che gli guastò quella poca consolazione; vide l'innominato
andar verso un canto, prender per la canna, con una mano, la sua carabina, poi
per la cigna con l'altra, e, con un movimento spedito, come se facesse
l'esercizio, mettersela ad armacollo.
"Ohi! ohi! ohi! - pensò don Abbondio: - cosa vuol farne di
quell'ordigno, costui? Bel cilizio, bella disciplina da convertito! E se gli
salta qualche grillo? Oh che spedizione! oh che spedizione!"
Se quel signore avesse potuto appena sospettare che razza di pensieri
passavano per la testa al suo compagno, non si può dire cosa avrebbe fatto per
rassicurarlo; ma era lontano le mille miglia da un tal sospetto; e don Abbondio
stava attento a non far nessun atto che significasse chiaramente: non mi fido di
vossignoria. Arrivati all'uscio di strada, trovarono le due cavalcature in
ordine: l'innominato saltò su quella che gli fu presentata da un palafreniere.
- Vizi non ne ha? - disse all'aiutante di camera don Abbondio, rimettendo in
terra il piede, che aveva già alzato verso la staffa.
- Vada pur su di buon animo: è un agnello -. Don Abbondio, arrampicandosi
alla sella, sorretto dall'aiutante, su, su, su, è a cavallo.
La lettiga, ch'era innanzi qualche passo, portata da due mule, si mosse, a
una voce del lettighiero; e la comitiva partì.
Si doveva passar davanti alla chiesa piena zeppa di popolo, per una piazzetta
piena anch'essa d'altro popolo del paese e forestieri, che non avevan potuto
entrare in quella. Già la gran nuova era corsa; e all'apparir della comitiva,
all'apparir di quell'uomo, oggetto ancor poche ore prima di terrore e
d'esecrazione, ora di lieta maraviglia, s'alzò nella folla un mormorìo quasi
d'applauso; e facendo largo, si faceva insieme alle spinte, per vederlo da
vicino. La lettiga passò, l'innominato passò; e davanti alla porta spalancata
della chiesa, si levò il cappello, e chinò quella fronte tanto temuta, fin
sulla criniera della mula, tra il susurro di cento voci che dicevano: Dio la
benedica! Don Abbondio si levò anche lui il cappello, si chinò, si raccomandò
al cielo; ma sentendo il concerto solenne de' suoi confratelli che cantavano a
distesa, provò un'invidia, una mesta tenerezza, un accoramento tale, che durò
fatica a tener le lacrime.
Fuori poi dell'abitato, nell'aperta campagna, negli andirivieni talvolta
affatto deserti della strada, un velo più nero si stese sui suoi pensieri.
Altro oggetto non aveva su cui riposar con fiducia lo sguardo, che il
lettighiero, il quale, essendo al servizio del cardinale, doveva essere
certamente un uomo dabbene, e insieme non aveva aria d'imbelle. Ogni tanto,
comparivano viandanti, anche a comitive, che accorrevano per vedere il
cardinale; ed era un ristoro per don Abbondio; ma passeggiero, ma s'andava verso
quella valle tremenda, dove non s'incontrerebbe che sudditi dell'amico: e che
sudditi! Con l'amico avrebbe desiderato ora più che mai d'entrare in discorso,
tanto per tastarlo sempre più, come per tenerlo in buona; ma vedendolo così
soprappensiero, gliene passava la voglia. Dovette dunque parlar con se stesso;
ed ecco una parte di ciò che il pover'uomo si disse in quel tragitto: ché, a
scriver tutto, ci sarebbe da farne un libro.
"È un gran dire che tanto i santi come i birboni gli abbiano a aver
l'argento vivo addosso, e non si contentino d'esser sempre in moto loro, ma
voglian tirare in ballo, se potessero, tutto il genere umano; e che i più
faccendoni mi devan proprio venire a cercar me, che non cerco nessuno, e tirarmi
per i capelli ne' loro affari: io che non chiedo altro che d'esser lasciato
vivere! Quel matto birbone di don Rodrigo! Cosa gli mancherebbe per esser l'uomo
il più felice di questo mondo, se avesse appena un pochino di giudizio? Lui
ricco, lui giovine, lui rispettato, lui corteggiato: gli dà noia il bene stare;
e bisogna che vada accattando guai per sé e per gli altri. Potrebbe far l'arte
di Michelaccio; no signore: vuol fare il mestiere di molestar le femmine: il
più pazzo, il più ladro, il più arrabbiato mestiere di questo mondo; potrebbe
andare in paradiso in carrozza, e vuol andare a casa del diavolo a piè zoppo. E
costui...!" E qui lo guardava, come se avesse sospetto che quel costui
sentisse i suoi pensieri, "costui, dopo aver messo sottosopra il mondo con
le scelleratezze, ora lo mette sottosopra con la conversione... se sarà vero.
Intanto tocca a me a farne l'esperienza!... È finita: quando son nati con
quella smania in corpo, bisogna che faccian sempre fracasso. Ci vuol tanto a
fare il galantuomo tutta la vita, com'ho fatt'io? No signore: si deve squartare,
ammazzare, fare il diavolo... oh povero me!... e poi uno scompiglio, anche per
far penitenza. La penitenza, quando s'ha buona volontà, si può farla a casa
sua, quietamente, senza tant'apparato, senza dar tant'incomodo al prossimo. E
sua signoria illustrissima, subito subito, a braccia aperte, caro amico, amico
caro; stare a tutto quel che gli dice costui, come se l'avesse visto far
miracoli; e prendere addirittura una risoluzione, mettercisi dentro con le mani
e co' piedi, presto di qua, presto di là: a casa mia si chiama precipitazione.
E senza avere una minima caparra, dargli in mano un povero curato! questo si
chiama giocare un uomo a pari e caffo. Un vescovo santo, com'è lui, de' curati
dovrebbe esserne geloso, come della pupilla degli occhi suoi. Un pochino di
flemma, un pochino di prudenza, un pochino di carità, mi pare che possa stare
anche con la santità... E se fosse tutto un'apparenza? Chi può conoscer tutti
i fini degli uomini? e dico degli uomini come costui? A pensare che mi tocca a
andar con lui, a casa sua! Ci può esser sotto qualche diavolo: oh povero me! è
meglio non ci pensare. Che imbroglio è questo di Lucia? Che ci fosse un'intesa
con don Rodrigo? che gente! ma almeno la cosa sarebbe chiara. Ma come l'ha avuta
nell'unghie costui? Chi lo sa? È tutto un segreto con monsignore: e a me che mi
fanno trottare in questa maniera, non si dice nulla. Io non mi curo di sapere i
fatti degli altri; ma quando uno ci ha a metter la pelle, ha anche ragione di
sapere. Se fosse proprio per andare a prendere quella povera creatura, pazienza!
Benché, poteva ben condurla con sé addirittura. E poi, se è così convertito,
se è diventato un santo padre, che bisogno c'era di me? Oh che caos! Basta;
voglia il cielo che la sia così: sarà stato un incomodo grosso, ma pazienza!
Sarò contento anche per quella povera Lucia: anche lei deve averla scampata
grossa; sa il cielo cos'ha patito: la compatisco; ma è nata per la mia
rovina... Almeno potessi vedergli proprio in cuore a costui, come la pensa. Chi
lo può conoscere? Ecco lì, ora pare sant'Antonio nel deserto; ora pare
Oloferne in persona. Oh povero me! povero me! Basta: il cielo è in obbligo
d'aiutarmi, perché non mi ci son messo io di mio capriccio".
Infatti, sul volto dell'innominato si vedevano, per dir così, passare i
pensieri, come, in un'ora burrascosa, le nuvole trascorrono dinanzi alla faccia
del sole, alternando ogni momento una luce arrabbiata e un freddo buio. L'animo,
ancor tutto inebriato dalle soavi parole di Federigo, e come rifatto e
ringiovanito nella nuova vita, s'elevava a quell'idee di misericordia, di
perdono e d'amore; poi ricadeva sotto il peso del terribile passato. Correva con
ansietà a cercare quali fossero le iniquità riparabili, cosa si potesse
troncare a mezzo, quali i rimedi più espedienti e più sicuri, come scioglier
tanti nodi, che fare di tanti complici: era uno sbalordimento a pensarci. A
quella stessa spedizione, ch'era la più facile e così vicina al termine,
andava con un'impazienza mista d'angoscia, pensando che intanto quella creatura
pativa, Dio sa quanto, e che lui, il quale pure si struggeva di liberarla, era
lui che la teneva intanto a patire. Dove c'eran due strade, il lettighiero si
voltava, per saper quale dovesse prendere: l'innominato gliel'indicava con la
mano, e insieme accennava di far presto.
Entrano nella valle. Come stava allora il povero don Abbondio! Quella valle
famosa, della quale aveva sentito raccontar tante storie orribili, esserci
dentro: que' famosi uomini, il fiore della braveria d'Italia, quegli uomini
senza paura e senza misericordia, vederli in carne e in ossa; incontrarne uno o
due o tre a ogni voltata di strada. Si chinavano sommessamente al signore; ma
certi visi abbronzati! certi baffi irti! certi occhiacci, che a don Abbondio
pareva che volessero dire: fargli la festa a quel prete? A segno che, in un
punto di somma costernazione, gli venne detto tra sé: "gli avessi
maritati! non mi poteva accader di peggio". Intanto s'andava avanti per un
sentiero sassoso, lungo il torrente: al di là quel prospetto di balze aspre,
scure, disabitate; al di qua quella popolazione da far parer desiderabile ogni
deserto: Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge.
Passan davanti la Malanotte; bravacci sull'uscio, inchini al signore,
occhiate al suo compagno e alla lettiga. Coloro non sapevan cosa si pensare:
già la partenza dell'innominato solo, la mattina, aveva dello straordinario; il
ritorno non lo era meno. Era una preda che conduceva? E come l'aveva fatta da
sé? E come una lettiga forestiera? E di chi poteva esser quella livrea?
Guardavano, guardavano, ma nessuno si moveva, perché questo era l'ordine che il
padrone dava loro con dell'occhiate.
Fanno la salita, sono in cima. I bravi che si trovan sulla spianata e sulla
porta, si ritirano di qua e di là, per lasciare il passo libero: l'innominato
fa segno che non si movan di più; sprona, e passa davanti alla lettiga; accenna
al lettighiero e a don Abbondio che lo seguano; entra in un primo cortile, da
quello in un secondo; va verso un usciolino, fa stare indietro con un gesto un
bravo che accorreva per tenergli la staffa, e gli dice: - tu sta' costì, e non
venga nessuno -. Smonta, lega in fretta la mula a un'inferriata, va alla
lettiga, s'accosta alla donna, che aveva tirata la tendina, e le dice sottovoce:
- consolatela subito; fatele subito capire che è libera, in mano d'amici. Dio
ve ne renderà merito -. Poi fa cenno al lettighiero, che apra; poi s'avvicina a
don Abbondio, e, con un sembiante così sereno come questo non gliel aveva ancor
visto, né credeva che lo potesse avere, con dipintavi la gioia dell'opera buona
che finalmente stava per compire, gli dice, ancora sotto voce: - signor curato,
non le chiedo scusa dell'incomodo che ha per cagion mia: lei lo fa per Uno che
paga bene, e per questa sua poverina -. Ciò detto, prende con una mano il
morso, con l'altra la staffa, per aiutar don Abbondio a scendere.
Quel volto, quelle parole, quell'atto, gli avevan dato la vita. Mise un
sospiro, che da un'ora gli s'aggirava dentro, senza mai trovar l'uscita; si
chinò verso l'innominato, rispose a voce bassa bassa: - le pare? Ma, ma, ma,
ma,...! - e sdrucciolò alla meglio dalla sua cavalcatura. L'innominato legò
anche quella, e detto al lettighiero che stesse lì a aspettare, si levò una
chiave di tasca, aprì l'uscio, entrò, fece entrare il curato e la donna,
s'avviò davanti a loro alla scaletta; e tutt'e tre salirono in silenzio.
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