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CAPITOLO XXIV
Lucia s'era risentita da poco tempo; e di quel tempo una parte aveva penato a
svegliarsi affatto, a separar le torbide visioni del sonno dalle memorie e
dall'immagini di quella realtà troppo somigliante a una funesta visione
d'infermo. La vecchia le si era subito avvicinata, e, con quella voce
forzatamente umile, le aveva detto: - ah! avete dormito? Avreste potuto dormire
in letto: ve l'ho pur detto tante volte ier sera -. E non ricevendo risposta,
aveva continuato, sempre con un tono di supplicazione stizzosa: - mangiate una
volta: abbiate giudizio. Uh come siete brutta! Avete bisogno di mangiare. E poi
se, quando torna, la piglia con me?
- No, no; voglio andar via, voglio andar da mia madre. Il padrone me l'ha
promesso, ha detto: domattina. Dov'è il padrone?
- È uscito; m'ha detto che tornerà presto, e che farà tutto quel che
volete.
- Ha detto così? ha detto così? Ebbene; io voglio andar da mia madre;
subito, subito.
Ed ecco si sente un calpestìo nella stanza vicina; poi un picchio all'uscio.
La vecchia accorre, domanda: - chi è?
- Apri, - risponde sommessamente la nota voce. La vecchia tira il paletto;
l'innominato, spingendo leggermente i battenti, fa un po' di spiraglio: ordina
alla vecchia di venir fuori, fa entrar subito don Abbondio con la buona donna.
Socchiude poi di nuovo l'uscio, si ferma dietro a quello, e manda la vecchia in
una parte lontana del castellaccio; come aveva già mandata via anche l'altra
donna che stava fuori, di guardia.
Tutto questo movimento, quel punto d'aspetto, il primo apparire di persone
nuove, cagionarono un soprassalto d'agitazione a Lucia, alla quale, se lo stato
presente era intollerabile, ogni cambiamento però era motivo di sospetto e di
nuovo spavento. Guardò, vide un prete, una donna; si rincorò alquanto: guarda
più attenta: è lui, o non è lui? Riconosce don Abbondio, e rimane con gli
occhi fissi, come incantata. La donna, andatale vicino, si chinò sopra di lei,
e, guardandola pietosamente, prendendole le mani, come per accarezzarla e
alzarla a un tempo, le disse: - oh poverina! venite, venite con noi.
- Chi siete? - le domandò Lucia; ma, senza aspettar la risposta, si voltò
ancora a don Abbondio, che s'era trattenuto discosto due passi, con un viso,
anche lui, tutto compassionevole; lo fissò di nuovo, e esclamò: - lei! è lei?
il signor curato? Dove siamo?... Oh povera me! son fuori di sentimento!
- No, no, - rispose don Abbondio: - son io davvero: fatevi coraggio. Vedete?
siam qui per condurvi via. Son proprio il vostro curato, venuto qui apposta, a
cavallo...
Lucia, come riacquistate in un tratto tutte le sue forze, si rizzò
precipitosamente; poi fissò ancora lo sguardo su que' due visi, e disse: - è
dunque la Madonna che vi ha mandati.
- Io credo di sì, - disse la buona donna.
- Ma possiamo andar via, possiamo andar via davvero? - riprese Lucia,
abbassando la voce, e con uno sguardo timido e sospettoso. - E tutta quella
gente...? - continuò, con le labbra contratte e tremanti di spavento e
d'orrore: - e quel signore...! quell'uomo...! Già, me l'aveva promesso...
- È qui anche lui in persona, venuto apposta con noi, - disse don Abbondio:
- è qui fuori che aspetta. Andiamo presto; non lo facciamo aspettare, un par
suo.
Allora, quello di cui si parlava, spinse l'uscio, e si fece vedere; Lucia,
che poco prima lo desiderava, anzi, non avendo speranza in altra cosa del mondo,
non desiderava che lui, ora, dopo aver veduti visi, e sentite voci amiche, non
poté reprimere un subitaneo ribrezzo; si riscosse, ritenne il respiro, si
strinse alla buona donna, e le nascose il viso in seno. L'innominato, alla vista
di quell'aspetto sul quale già la sera avanti non aveva potuto tener fermo lo
sguardo, di quell'aspetto reso ora più squallido, sbattuto, affannato dal
patire prolungato e dal digiuno, era rimasto lì fermo, quasi sull'uscio; nel
veder poi quell'atto di terrore, abbassò gli occhi, stette ancora un momento
immobile e muto; indi rispondendo a ciò che la poverina non aveva detto, - è
vero, - esclamò: - perdonatemi!
- Viene a liberarvi; non è più quello; è diventato buono: sentite che vi
chiede perdono? - diceva la buona donna all'orecchio di Lucia.
- Si può dir di più? Via, su quella testa; non fate la bambina; che
possiamo andar presto, - le diceva don Abbondio. Lucia alzò la testa, guardò
l'innominato, e, vedendo bassa quella fronte, atterrato e confuso quello
sguardo, presa da un misto sentimento di conforto, di riconoscenza e di pietà,
disse: - oh, il mio signore! Dio le renda merito della sua misericordia!
- E a voi, cento volte, il bene che mi fanno codeste vostre parole.
Così detto, si voltò, andò verso l'uscio, e uscì il primo. Lucia, tutta
rianimata, con la donna che le dava braccio, gli andò dietro; don Abbondio in
coda. Scesero la scala, arrivarono all'uscio che metteva nel cortile.
L'innominato lo spalancò, andò alla lettiga, aprì lo sportello, e, con una
certa gentilezza quasi timida (due cose nuove in lui) sorreggendo il braccio di
Lucia, l'aiutò ad entrarvi, poi la buona donna. Slegò quindi la mula di don
Abbondio, e l'aiutò anche lui a montare.
- Oh che degnazione! - disse questo; e montò molto più lesto che non avesse
fatto la prima volta. La comitiva si mosse quando l'innominato fu anche lui a
cavallo. La sua fronte s'era rialzata; lo sguardo aveva ripreso la solita
espressione d'impero. I bravi che incontrava, vedevan bene sul suo viso i segni
d'un forte pensiero, d'una preoccupazione straordinaria; ma non capivano, né
potevan capire più in là. Al castello, non si sapeva ancor nulla della gran
mutazione di quell'uomo; e per congettura, certo, nessun di coloro vi sarebbe
arrivato.
La buona donna aveva subito tirate le tendine della lettiga: prese poi
affettuosamente le mani di Lucia, s'era messa a confortarla, con parole di
pietà, di congratulazione e di tenerezza. E vedendo come, oltre la fatica di
tanto travaglio sofferto, la confusione e l'oscurità degli avvenimenti
impedivano alla poverina di sentir pienamente la contentezza della sua
liberazione, le disse quanto poteva trovar di più atto a distrigare, a
ravviare, per dir così, i suoi poveri pensieri. Le nominò il paese dove
andavano.
- Sì? - disse Lucia, la qual sapeva ch'era poco discosto dal suo. - Ah
Madonna santissima, vi ringrazio! Mia madre! mia madre!
- La manderemo a cercar subito, - disse la buona donna, la quale non sapeva
che la cosa era già fatta.
- Sì, sì; che Dio ve ne renda merito... E voi, chi siete? Come siete
venuta...
- M'ha mandata il nostro curato, - disse la buona donna: - perché questo
signore, Dio gli ha toccato il cuore (sia benedetto!), ed è venuto al nostro
paese, per parlare al signor cardinale arcivescovo (che l'abbiamo là in visita,
quel sant'uomo), e s'è pentito de' suoi peccatacci, e vuol mutar vita; e ha
detto al cardinale che aveva fatta rubare una povera innocente, che siete voi,
d'intesa con un altro senza timor di Dio, che il curato non m'ha detto chi possa
essere.
Lucia alzò gli occhi al cielo.
- Lo saprete forse voi, - continuò la buona donna: - basta; dunque il signor
cardinale ha pensato che, trattandosi d'una giovine, ci voleva una donna per
venire in compagnia, e ha detto al curato che ne cercasse una; e il curato, per
sua bontà, è venuto da me...
- Oh! il Signore vi ricompensi della vostra carità!
- Che dite mai, la mia povera giovine? E m'ha detto il signor curato, che vi
facessi coraggio, e cercassi di sollevarvi subito, e farvi intendere come il
Signore v'ha salvata miracolosamente...
- Ah sì! proprio miracolosamente; per intercession della Madonna.
- Dunque, che stiate di buon animo, e perdonare a chi v'ha fatto del male, e
esser contenta che Dio gli abbia usata misericordia, anzi pregare per lui; ché,
oltre all'acquistarne merito, vi sentirete anche allargare il cuore.
Lucia rispose con uno sguardo che diceva di sì, tanto chiaro come avrebbero
potuto far le parole, e con una dolcezza che le parole non avrebbero saputa
esprimere.
- Brava giovine! - riprese la donna: - e trovandosi al nostro paese anche il
vostro curato (che ce n'è tanti tanti, di tutto il contorno, da mettere insieme
quattro ufizi generali), ha pensato il signor cardinale di mandarlo anche lui in
compagnia; ma è stato di poco aiuto. Già l'avevo sentito dire ch'era un uomo
da poco; ma in quest'occasione, ho dovuto proprio vedere che è più impicciato
che un pulcin nella stoppa.
- E questo... - domandò Lucia, - questo che è diventato buono... chi è?
- Come! non lo sapete? - disse la buona donna, e lo nominò.
- Oh misericordia! - esclamò Lucia. Quel nome, quante volte l'aveva sentito
ripetere con orrore in più d'una storia, in cui figurava sempre come in altre
storie quello dell'orco! E ora, al pensiero d'essere stata nel suo terribil
potere, e d'essere sotto la sua guardia pietosa; al pensiero d'una così orrenda
sciagura, e d'una così improvvisa redenzione; a considerare di chi era quel
viso che aveva veduto burbero, poi commosso, poi umiliato, rimaneva come
estatica, dicendo solo, ogni poco: - oh misericordia!
- È una gran misericordia davvero! - diceva la buona donna: - dev'essere un
gran sollievo per mezzo mondo. A pensare quanta gente teneva sottosopra; e ora,
come m'ha detto il nostro curato... e poi, solo a guardarlo in viso, è
diventato un santo! E poi si vedon subito le opere.
Dire che questa buona donna non provasse molta curiosità di conoscere un po'
più distintamente la grand'avventura nella quale si trovava a fare una parte,
non sarebbe la verità. Ma bisogna dire a sua gloria che, compresa d'una pietà
rispettosa per Lucia, sentendo in certo modo la gravità e la dignità
dell'incarico che le era stato affidato, non pensò neppure a farle una domanda
indiscreta, ne oziosa: tutte le sue parole, in quel tragitto, furono di conforto
e di premura per la povera giovine.
- Dio sa quant'è che non avete mangiato!
- Non me ne ricordo più... Da un pezzo.
- Poverina! Avrete bisogno di ristorarvi.
- Sì, - rispose Lucia con voce fioca.
- A casa mia, grazie a Dio, troveremo subito qualcosa. Fatevi coraggio, che
ormai c'è poco.
Lucia si lasciava poi cader languida sul fondo della lettiga, come assopita;
e allora la buona donna la lasciava in riposo.
Per don Abbondio questo ritorno non era certo così angoscioso come l'andata
di poco prima; ma non fu neppur esso un viaggio di piacere. Al cessar di quella
pauraccia, s'era da principio sentito tutto scarico, ma ben presto cominciarono
a spuntargli in cuore cent'altri dispiaceri; come, quand'è stato sbarbato un
grand'albero, il terreno rimane sgombro per qualche tempo, ma poi si copre tutto
d'erbacce. Era diventato più sensibile a tutto il resto; e tanto nel presente,
quanto ne' pensieri dell'avvenire, non gli mancava pur troppo materia di
tormentarsi. Sentiva ora, molto più che nell'andare, l'incomodo di quel modo di
viaggiare, al quale non era molto avvezzo; e specialmente sul principio, nella
scesa dal castello al fondo della valle. Il lettighiero, stimolato da' cenni
dell'innominato, faceva andar di buon passo le sue bestie; le due cavalcature
andavan dietro dietro, con lo stesso passo; onde seguiva che, a certi luoghi
più ripidi, il povero don Abbondio, come se fosse messo a leva per di dietro,
tracollava sul davanti, e, per reggersi, doveva appuntellarsi con la mano
all'arcione; e non osava però pregare che s'andasse più adagio, e dall'altra
parte avrebbe voluto esser fuori di quel paese più presto che fosse possibile.
Oltre di ciò, dove la strada era sur un rialto, sur un ciglione, la mula,
secondo l'uso de' pari suoi, pareva che facesse per dispetto a tener sempre
dalla parte di fuori, e a metter proprio le zampe sull'orlo; e don Abbondio
vedeva sotto di sé, quasi a perpendicolo, un salto, o come pensava lui, un
precipizio. "Anche tu, - diceva tra sé alla bestia, - hai quel maledetto
gusto d'andare a cercare i pericoli, quando c'è tanto sentiero!" E tirava
la briglia dall'altra parte; ma inutilmente. Sicché, al solito, rodendosi di
stizza e di paura, si lasciava condurre a piacere altrui. I bravi non gli
facevan più tanto spavento, ora che sapeva più di certo come la pensava il
padrone. "Ma, - rifletteva però, - se la notizia di questa gran
conversione si sparge qua dentro, intanto che ci siamo ancora, chi sa come
l'intenderanno costoro! Chi sa cosa nasce! Che s'andassero a immaginare che sia
venuto io a fare il missionario! Povero me! mi martirizzano!" Il cipiglio
dell'innominato non gli dava fastidio. "Per tenere a segno quelle facce
lì, - pensava, - non ci vuol meno di questa qui; lo capisco anch'io; ma perché
deve toccare a me a trovarmi tra tutti costoro!"
Basta; s'arrivò in fondo alla scesa, e s'uscì finalmente anche dalla valle.
La fronte dell'innominato s'andò spianando. Anche don Abbondio prese una faccia
più naturale, sprigionò alquanto la testa di tra le spalle, sgranchì le
braccia e le gambe, si mise a stare un po' più sulla vita, che faceva un
tutt'altro vedere, mandò più larghi respiri, e, con animo più riposato, si
mise a considerare altri lontani pericoli. "Cosa dirà quel bestione di don
Rodrigo? Rimaner con tanto di naso a questo modo, col danno e con le beffe,
figuriamoci se la gli deve parere amara. Ora è quando fa il diavolo davvero.
Sta a vedere che se la piglia anche con me, perché mi son trovato dentro in
questa cerimonia. Se ha avuto cuore fin d'allora di mandare que' due demòni a
farmi una figura di quella sorte sulla strada, ora poi, chi sa cosa farà! Con
sua signoria illustrissima non la può prendere, che è un pezzo molto più
grosso di lui; lì bisognerà rodere il freno. Intanto il veleno l'avrà in
corpo, e sopra qualcheduno lo vorrà sfogare. Come finiscono queste faccende? I
colpi cascano sempre all'ingiù; i cenci vanno all'aria. Lucia, di ragione, sua
signoria illustrissima penserà a metterla in salvo: quell'altro poveraccio mal
capitato è fuor del tiro, e ha già avuto la sua: ecco che il cencio son
diventato io. La sarebbe barbara, dopo tant'incomodi, dopo tante agitazioni, e
senza acquistarne merito, che ne dovessi portar la pena io. Cosa farà ora sua
signoria illustrissima per difendermi, dopo avermi messo in ballo? Mi può star
mallevadore lui che quel dannato non mi faccia un'azione peggio della prima? E
poi, ha tanti affari per la testa! mette mano a tante cose! Come si può badare
a tutto? Lascian poi alle volte le cose più imbrogliate di prima. Quelli che
fanno il bene, lo fanno all'ingrosso: quand'hanno provata quella soddisfazione,
n'hanno abbastanza, e non si voglion seccare a star dietro a tutte le
conseguenze; ma coloro che hanno quel gusto di fare il male, ci mettono più
diligenza, ci stanno dietro fino alla fine, non prendon mai requie, perché
hanno quel canchero che li rode. Devo andar io a dire che son venuto qui per
comando espresso di sua signoria illustrissima, e non di mia volontà? Parrebbe
che volessi tenere dalla parte dell'iniquità. Oh santo cielo! Dalla parte
dell'iniquità io! Per gli spassi che la mi dà! Basta; il meglio sarà
raccontare a Perpetua la cosa com'è; e lascia poi fare a Perpetua a mandarla in
giro. Purché a monsignore non venga il grillo di far qualche pubblicità,
qualche scena inutile, e mettermici dentro anche me. A buon conto, appena siamo
arrivati, se è uscito di chiesa, vado a riverirlo in fretta in fretta; se no,
lascio le mie scuse, e me ne vo diritto diritto a casa mia. Lucia è bene
appoggiata; di me non ce n'è più bisogno; e dopo tant'incomodi, posso
pretendere anch'io d'andarmi a riposare. E poi... che non venisse anche
curiosità a monsignore di saper tutta la storia, e mi toccasse a render conto
dell'affare del matrimonio! Non ci mancherebbe altro. E se viene in visita anche
alla mia parrocchia!... Oh! sarà quel che sarà; non vo' confondermi prima del
tempo: n'ho abbastanza de' guai. Per ora vo a chiudermi in casa. Fin che
monsignore si trova da queste parti, don Rodrigo non avrà faccia di far pazzie.
E poi... E poi? Ah! vedo che i miei ultimi anni ho da passarli male!"
La comitiva arrivò che le funzioni di chiesa non erano ancor terminate;
passò per mezzo alla folla medesima non meno commossa della prima volta; e poi
si divise. I due a cavallo voltarono sur una piazzetta di fianco, in fondo a cui
era la casa del parroco; la lettiga andò avanti verso quella della buona donna.
Don Abbondio fece quello che aveva pensato: appena smontato, fece i più
sviscerati complimenti all'innominato, e lo pregò di volerlo scusar con
monsignore; ché lui doveva tornare alla parrocchia addirittura, per affari
urgenti. Andò a cercare quel che chiamava il suo cavallo, cioè il bastone che
aveva lasciato in un cantuccio del salotto, e s'incamminò. L'innominato stette
a aspettare che il cardinale tornasse di chiesa.
La buona donna, fatta seder Lucia nel miglior luogo della sua cucina,
s'affaccendava a preparar qualcosa da ristorarla, ricusando, con una certa
rustichezza cordiale, i ringraziamenti e le scuse che questa rinnovava ogni
tanto.
Presto presto, rimettendo stipa sotto un calderotto, dove notava un buon
cappone, fece alzare il bollore al brodo, e riempitane una scodella già
guarnita di fette di pane, poté finalmente presentarla a Lucia. E nel vedere la
poverina a riaversi a ogni cucchiaiata, si congratulava ad alta voce con se
stessa che la cosa fosse accaduta in un giorno in cui, com'essa diceva, non
c'era il gatto nel fuoco. - Tutti s'ingegnano oggi a far qualcosina, -
aggiungeva: - meno que' poveri poveri che stentano a aver pane di vecce e
polenta di saggina; però oggi da un signore così caritatevole sperano di
buscar tutti qualcosa. Noi, grazie al cielo, non siamo in questo caso: tra il
mestiere di mio marito, e qualcosa che abbiamo al sole, si campa. Sicché
mangiate senza pensieri intanto; ché presto il cappone sarà a tiro, e potrete
ristorarvi un po' meglio -. Così detto, ritornò ad accudire al desinare, e ad
apparecchiare.
Lucia, tornatele alquanto le forze, e acquietandosele sempre più l'animo,
andava intanto assettandosi, per un'abitudine, per un istinto di pulizia e di
verecondia: rimetteva e fermava le trecce allentate e arruffate, raccomodava il
fazzoletto sul seno, e intorno al collo. In far questo, le sue dita
s'intralciarono nella corona che ci aveva messa, la notte avanti; lo sguardo vi
corse; si fece nella mente un tumulto istantaneo; la memoria del voto, oppressa
fino allora e soffogata da tante sensazioni presenti, vi si suscitò
d'improvviso, e vi comparve chiara e distinta. Allora tutte le potenze del suo
animo, appena riavute, furon sopraffatte di nuovo, a un tratto: e se quell'animo
non fosse stato così preparato da una vita d'innocenza, di rassegnazione e di
fiducia, la costernazione che provò in quel momento, sarebbe stata
disperazione. Dopo un ribollimento di que' pensieri che non vengono con parole,
le prime che si formarono nella sua mente furono: "oh povera me, cos'ho
fatto!"
Ma non appena l'ebbe pensate, ne risentì come uno spavento. Le tornarono in
mente tutte le circostanze del voto, l'angoscia intollerabile, il non avere una
speranza di soccorso, il fervore della preghiera, la pienezza del sentimento con
cui la promessa era stata fatta. E dopo avere ottenuta la grazia, pentirsi della
promessa, le parve un'ingratitudine sacrilega, una perfidia verso Dio e la
Madonna; le parve che una tale infedeltà le attirerebbe nuove e più terribili
sventure, in mezzo alle quali non potrebbe più sperare neppur nella preghiera;
e s'affrettò di rinnegare quel pentimento momentaneo. Si levò con divozione la
corona dal collo, e tenendola nella mano tremante, confermò, rinnovò il voto,
chiedendo nello stesso tempo, con una supplicazione accorata, che le fosse
concessa la forza d'adempirlo, che le fossero risparmiati i pensieri e
l'occasioni le quali avrebbero potuto, se non ismovere il suo animo, agitarlo
troppo. La lontananza di Renzo, senza nessuna probabilità di ritorno, quella
lontananza che fin allora le era stata così amara, le parve ora una
disposizione della Provvidenza, che avesse fatti andare insieme i due
avvenimenti per un fine solo; e si studiava di trovar nell'uno la ragione
d'esser contenta dell'altro. E dietro a quel pensiero, s'andava figurando
ugualmente che quella Provvidenza medesima, per compir l'opera, saprebbe trovar
la maniera di far che Renzo si rassegnasse anche lui, non pensasse più... Ma
una tale idea, appena trovata, mise sottosopra la mente ch'era andata a
cercarla. La povera Lucia, sentendo che il cuore era lì lì per pentirsi,
ritornò alla preghiera, alle conferme, al combattimento, dal quale s'alzò, se
ci si passa quest'espressione, come il vincitore stanco e ferito, di sopra il
nemico abbattuto: non dico ucciso.
Tutt'a un tratto, si sente uno scalpiccìo, e un chiasso di voci allegre. Era
la famigliola che tornava di chiesa. Due bambinette e un fanciullo entran
saltando; si fermano un momento a dare un'occhiata curiosa a Lucia, poi corrono
alla mamma, e le s'aggruppano intorno: chi domanda il nome dell'ospite
sconosciuta, e il come e il perché; chi vuol raccontare le maraviglie vedute:
la buona donna risponde a tutto e a tutti con un - zitti, zitti -. Entra poi,
con un passo più quieto, ma con una premura cordiale dipinta in viso, il
padrone di casa. Era, se non l'abbiamo ancor detto, il sarto del villaggio, e
de' contorni; un uomo che sapeva leggere, che aveva letto in fatti più d'una
volta il Leggendario de' Santi, il Guerrin meschino e i Reali di Francia, e
passava, in quelle parti, per un uomo di talento e di scienza: lode però che
rifiutava modestamente, dicendo soltanto che aveva sbagliato la vocazione; e che
se fosse andato agli studi, in vece di tant'altri...! Con questo, la miglior
pasta del mondo. Essendosi trovato presente quando sua moglie era stata pregata
dal curato d'intraprendere quel viaggio caritatevole, non solo ci aveva data la
sua approvazione, ma le avrebbe fatto coraggio, se ce ne fosse stato bisogno. E
ora che la funzione, la pompa, il concorso, e soprattutto la predica del
cardinale avevano, come si dice, esaltati tutti i suoi buoni sentimenti, tornava
a casa con un'aspettativa, con un desiderio ansioso di sapere come la cosa fosse
riuscita, e di trovare la povera innocente salvata.
- Guardate un poco, - gli disse, al suo entrare, la buona donna, accennando
Lucia; la quale fece il viso rosso, s'alzò, e cominciava a balbettar qualche
scusa. Ma lui, avvicinatosele, l'interruppe facendole una gran festa, e
esclamando: - ben venuta, ben venuta! Siete la benedizione del cielo in questa
casa. Come son contento di vedervi qui! Già ero sicuro che sareste arrivata a
buon porto; perché non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un
miracolo senza finirlo bene; ma son contento di vedervi qui. Povera giovine! Ma
è però una gran cosa d'aver ricevuto un miracolo!
Né si creda che fosse lui il solo a qualificar così quell'avvenimento,
perché aveva letto il Leggendario: per tutto il paese e per tutt'i contorni non
se ne parlò con altri termini, fin che ce ne rimase la memoria. E, a dir la
verità, con le frange che vi s'attaccarono, non gli poteva convenire altro
nome.
Accostatosi Poi passo passo alla moglie, che staccava il calderotto dalla
catena, le disse sottovoce: - è andato bene ogni cosa?
- Benone: ti racconterò poi tutto.
- Sì, sì; con comodo.
Messo poi subito in tavola, la padrona andò a prender Lucia, ve
l'accompagnò, la fece sedere; e staccata un'ala di quel cappone, gliela mise
davanti; si mise a sedere anche lei e il marito, facendo tutt'e due coraggio
all'ospite abbattuta e vergognosa, perché mangiasse. Il sarto cominciò, ai
primi bocconi, a discorrere con grand'enfasi, in mezzo all'interruzioni de'
ragazzi, che mangiavano ritti intorno alla tavola, e che in verità avevano
viste troppe cose straordinarie, per fare alla lunga la sola parte
d'ascoltatori. Descriveva le cerimonie solenni, poi saltava a parlare della
conversione miracolosa. Ma ciò che gli aveva fatto più impressione, e su cui
tornava più spesso, era la predica del cardinale.
- A vederlo lì davanti all'altare, - diceva, - un signore di quella sorte,
come un curato...
- E quella cosa d'oro che aveva in testa... - diceva una bambinetta.
- Sta' zitta. A pensare, dico, che un signore di quella sorte, e un uomo
tanto sapiente, che, a quel che dicono, ha letto tutti i libri che ci sono, cosa
a cui non è mai arrivato nessun altro, né anche in Milano; a pensare che
sappia adattarsi a dir quelle cose in maniera che tutti intendano...
- Ho inteso anch'io, - disse l'altra chiacchierina.
- Sta' zitta! cosa vuoi avere inteso, tu?
- Ho inteso che spiegava il Vangelo in vece del signor curato.
- Sta' zitta. Non dico chi sa qualche cosa; ché allora uno è obbligato a
intendere; ma anche i più duri di testa, i più ignoranti, andavan dietro al
filo del discorso. Andate ora a domandar loro se saprebbero ripeter le parole
che diceva: sì; non ne ripescherebbero una; ma il sentimento lo hanno qui. E
senza mai nominare quel signore, come si capiva che voleva parlar di lui! E poi,
per capire, sarebbe bastato osservare quando aveva le lacrime agli occhi. E
allora tutta la gente a piangere...
- E proprio vero, - scappò fuori il fanciullo: - ma perché piangevan tutti
a quel modo, come bambini?
- Sta' zitto. E sì che c'è de' cuori duri in questo paese. E ha fatto
proprio vedere che, benché ci sia la carestia, bisogna ringraziare il Signore,
ed esser contenti: far quel che si può, industriarsi, aiutarsi, e poi esser
contenti. Perché la disgrazia non è il patire, e l'esser poveri; la disgrazia
è il far del male. E non son belle parole; perché si sa che anche lui vive da
pover'uomo, e si leva il pane di bocca per darlo agli affamati; quando potrebbe
far vita scelta, meglio di chi si sia. Ah! allora un uomo dà soddisfazione a
sentirlo discorrere; non come tant'altri, fate quello che dico, e non fate quel
che fo. E poi ha fatto proprio vedere che anche coloro che non son signori, se
hanno più del necessario, sono obbligati di farne parte a chi patisce.
Qui interruppe il discorso da sé, come sorpreso da un pensiero. Stette un
momento; poi mise insieme un piatto delle vivande ch'eran sulla tavola, e
aggiuntovi un pane, mise il piatto in un tovagliolo, e preso questo per le
quattro cocche, disse alla sua bambinetta maggiore: - piglia qui -. Le diede
nell'altra mano un fiaschetto di vino, e soggiunse: - va' qui da Maria vedova;
lasciale questa roba, e dille che è per stare un po' allegra co' suoi bambini.
Ma con buona maniera, ve'; che non paia che tu le faccia l'elemosina. E non dir
niente, se incontri qualcheduno; e guarda di non rompere.
Lucia fece gli occhi rossi, e sentì in cuore una tenerezza ricreatrice; come
già da' discorsi di prima aveva ricevuto un sollievo che un discorso fatto
apposta non le avrebbe potuto dare. L'animo attirato da quelle descrizioni, da
quelle fantasie di pompa, da quelle commozioni di pietà e di maraviglia, preso
dall'entusiasmo medesimo del narratore, si staccava da' pensieri dolorosi di
sé; e anche ritornandoci sopra, si trovava più forte contro di essi. Il
pensiero stesso del gran sacrifizio, non già che avesse perduto il suo amaro,
ma insiem con esso aveva un non so che d'una gioia austera e solenne.
Poco dopo, entrò il curato del paese, e disse d'esser mandato dal cardinale
a informarsi di Lucia, ad avvertirla che monsignore voleva vederla in quel
giorno, e a ringraziare in suo nome il sarto e la moglie. E questi e quella,
commossi e confusi, non trovavan parole per corrispondere a tali dimostrazioni
d'un tal personaggio.
- E vostra madre non è ancora arrivata? - disse il curato a Lucia.
- Mia madre! - esclamò questa. Dicendole poi il curato, che l'aveva mandata
a prendere, d'ordine dell'arcivescovo, si mise il grembiule agli occhi, e diede
in un dirotto pianto, che durò un pezzo dopo che fu andato via il curato.
Quando poi gli affetti tumultuosi che le si erano suscitati a quell'annunzio,
cominciarono a dar luogo a pensieri più posati, la poverina si ricordò che
quella consolazione allora così vicina, di riveder la madre, una consolazione
così inaspettata poche ore prima, era stata da lei espressamente implorata in
quell'ore terribili, e messa quasi come una condizione al voto. Fatemi tornar
salva con mia madre, aveva detto; e queste parole le ricomparvero ora
distinte nella memoria. Si confermò più che mai nel proposito di mantener la
promessa, e si fece di nuovo, e più amaramente, scrupolo di quel povera me!
che le era scappato detto tra sé, nel primo momento.
Agnese infatti, quando si parlava di lei, era già poco lontana. È facile
pensare come la povera donna fosse rimasta, a quell'invito così inaspettato, e
a quella notizia, necessariamente tronca e confusa, d'un pericolo, si poteva
dir, cessato, ma spaventoso; d'un caso terribile, che il messo non sapeva né
circostanziare né spiegare; e lei non aveva a che attaccarsi per ispiegarlo da
sé. Dopo essersi cacciate le mani ne' capelli, dopo aver gridato più volte: -
ah Signore! ah Madonna! -, dopo aver fatte al messo varie domande, alle quali
questo non sapeva che rispondere, era entrata in fretta e in furia nel baroccio,
continuando per la strada a esclamare e interrogare, senza profitto. Ma, a un
certo punto, aveva incontrato don Abbondio che veniva adagio adagio, mettendo
avanti, a ogni passo, il suo bastone. Dopo un - oh! - di tutt'e due le parti,
lui s'era fermato, lei aveva fatto fermare, ed era smontata; e s'eran tirati in
disparte in un castagneto che costeggiava la strada. Don Abbondio l'aveva
ragguagliata di ciò che aveva potuto sapere e dovuto vedere. La cosa non era
chiara; ma almeno Agnese fu assicurata che Lucia era affatto in salvo; e
respirò.
Dopo, don Abbondio era voluto entrare in un altro discorso, e darle una lunga
istruzione sulla maniera di regolarsi con l'arcivescovo, se questo, com'era
probabile, avesse desiderato di parlar con lei e con la figliuola; e soprattutto
che non conveniva far parola del matrimonio... Ma Agnese, accorgendosi che il
brav'uomo non parlava che per il suo proprio interesse, l'aveva piantato, senza
promettergli, anzi senza risolver nulla; ché aveva tutt'altro da pensare. E
s'era rimessa in istrada.
Finalmente il baroccio arriva, e si ferma alla casa del sarto. Lucia s'alza
precipitosamente; Agnese scende, e dentro di corsa: sono nelle braccia l'una
dell'altra. La moglie del sarto, ch'era la sola che si trovava lì presente, fa
coraggio a tutt'e due, le acquieta, si rallegra con loro, e poi, sempre
discreta, le lascia sole, dicendo che andava a preparare un letto per loro; che
aveva il modo, senza incomodarsi; ma che, in ogni caso, tanto lei, come suo
marito, avrebbero piuttosto voluto dormire in terra, che lasciarle andare a
cercare un ricovero altrove.
Passato quel primo sfogo d'abbracciamenti e di singhiozzi, Agnese volle
sapere i casi di Lucia, e questa si mise affannosamente a raccontarglieli. Ma,
come il lettore sa, era una storia che nessuno la conosceva tutta; e per Lucia
stessa c'eran delle parti oscure, inesplicabili affatto. E principalmente quella
fatale combinazione d'essersi la terribile carrozza trovata lì sulla strada,
per l'appunto quando Lucia vi passava per un caso straordinario: su di che la
madre e la figlia facevan cento congetture, senza mai dar nel segno, anzi senza
neppure andarci vicino.
In quanto all'autor principale della trama, tanto l'una che l'altra non
potevano fare a meno di non pensare che fosse don Rodrigo.
- Ah anima nera! ah tizzone d'inferno! - esclamava Agnese: - ma verrà la sua
ora anche per lui. Domeneddio lo pagherà secondo il merito; e allora proverà
anche lui...
- No, no, mamma; no! - interruppe Lucia: - non gli augurate di patire, non
l'augurate a nessuno! Se sapeste cosa sia patire! Se aveste provato! No, no!
preghiamo piuttosto Dio e la Madonna per lui: che Dio gli tocchi il cuore, come
ha fatto a quest'altro povero signore, ch'era peggio di lui; e ora è un santo.
Il ribrezzo che Lucia provava nel tornare sopra memorie così recenti e così
crudeli, la fece più d'una volta restare a mezzo; più d'una volta disse che
non le bastava l'animo di continuare, e dopo molte lacrime, riprese la parola a
stento. Ma un sentimento diverso la tenne sospesa, a un certo punto del
racconto: quando fu al voto. Il timore che la madre le desse dell'imprudente e
della precipitosa; e che, come aveva fatto nell'affare del matrimonio, mettesse
in campo qualche sua regola larga di coscienza, e volesse fargliela trovar
giusta per forza; o che, povera donna, dicesse la cosa a qualcheduno in
confidenza, se non altro per aver lume e consiglio, e la facesse così divenir
pubblica, cosa che Lucia, solamente a pensarci, si sentiva venire il viso rosso;
anche una certa vergogna della madre stessa, una ripugnanza inesplicabile a
entrare in quella materia; tutte queste cose insieme fecero che nascose quella
circostanza importante, proponendosi di farne prima la confidenza al padre
Cristoforo. Ma come rimase allorché, domandando di lui, si sentì rispondere
che non c'era più, ch'era stato mandato in un paese lontano lontano, in un
paese che aveva un certo nome!
- E Renzo? - disse Agnese.
- È in salvo, n'è vero? - disse ansiosamente Lucia.
- Questo è sicuro, perché tutti lo dicono; si tien per certo che si sia
ricoverato sul bergamasco; ma il luogo proprio nessuno lo sa dire: e lui finora
non ha mai fatto saper nulla. Che non abbia ancora trovata la maniera.
- Ah, se è in salvo, sia ringraziato il Signore! - disse Lucia; e cercava di
cambiar discorso; quando il discorso fu interrotto da una novità inaspettata:
la comparsa del cardinale arcivescovo.
Questo, tornato di chiesa, dove l'abbiam lasciato, sentito dall'innominato
che Lucia era arrivata, sana e salva, era andato a tavola con lui, facendoselo
sedere a destra, in mezzo a una corona di preti, che non potevano saziarsi di
dare occhiate a quell'aspetto così ammansato senza debolezza, così umiliato
senza abbassamento, e di paragonarlo con l'idea che da lungo tempo s'eran fatta
del personaggio.
Finito di desinare, loro due s'eran ritirati di nuovo insieme. Dopo un
colloquio che durò molto più del primo, l'innominato era partito per il suo
castello, su quella stessa mula della mattina; e il cardinale, fatto chiamare il
curato, gli aveva detto che desiderava d'esser condotto alla casa dov'era
ricoverata Lucia.
- Oh! monsignore, - aveva risposto il curato, - non s'incomodi: manderò io
subito ad avvertire che venga qui la giovine, la madre, se è arrivata, anche
gli ospiti, se monsignore li vuole, tutti quelli che desidera vossignoria
illustrissima.
- Desidero d'andar io a trovarli, - aveva replicato Federigo.
- Vossignoria illustrissima non deve incomodarsi: manderò io subito a
chiamarli: è cosa d'un momento, - aveva insistito il curato guastamestieri
(buon uomo del resto), non intendendo che il cardinale voleva con quella visita
rendere onore alla sventura, all'innocenza, all'ospitalità e al suo proprio
ministero in un tempo. Ma, avendo il superiore espresso di nuovo il medesimo
desiderio, l'inferiore s'inchinò e si mosse.
Quando i due personaggi furon veduti spuntar nella strada, tutta la gente che
c'era andò verso di loro; e in pochi momenti n'accorse da ogni parte,
camminando loro ai fianchi chi poteva, e gli altri dietro, alla rinfusa. Il
curato badava a dire: - via, indietro, ritiratevi; ma! ma! - Federigo gli
diceva: - lasciateli fare, - e andava avanti, ora alzando la mano a benedir la
gente, ora abbassandola ad accarezzare i ragazzi che gli venivan tra' piedi.
Così arrivarono alla casa, e c'entrarono: la folla rimase ammontata al di
fuori. Ma nella folla si trovava anche il sarto, il quale era andato dietro come
gli altri, con gli occhi fissi e con la bocca aperta, non sapendo dove si
riuscirebbe. Quando vide quel dove inaspettato, si fece far largo, pensate con
che strepito, gridando e rigridando: - lasciate passare chi ha da passare -; e
entrò.
Agnese e Lucia sentirono un ronzìo crescente nella strada; mentre pensavano
cosa potesse essere, videro l'uscio spalancarsi, e comparire il porporato col
parroco.
- È quella? - domandò il primo al secondo; e, a un cenno affermativo, andò
verso Lucia, ch'era rimasta lì con la madre, tutt'e due immobili e mute dalla
sorpresa e dalla vergogna. Ma il tono di quella voce, l'aspetto, il contegno, e
soprattutto le parole di Federigo l'ebbero subito rianimate. - Povera giovine, -
cominciò: - Dio ha permesso che foste messa a una gran prova; ma v'ha anche
fatto vedere che non aveva levato l'occhio da voi, che non v'aveva dimenticata.
V'ha rimessa in salvo; e s'è servito di voi per una grand'opera, per fare una
gran misericordia a uno, e per sollevar molti nello stesso tempo.
Qui comparve nella stanza la padrona, la quale, al rumore, s'era affacciata
anch'essa alla finestra, e avendo veduto chi le entrava in casa, aveva sceso le
scale, di corsa, dopo essersi raccomodata alla meglio; e quasi nello stesso
tempo, entrò il sarto da un altr'uscio. Vedendo avviato il discorso, andarono a
riunirsi in un canto, dove rimasero con gran rispetto. Il cardinale, salutatili
cortesemente, continuò a parlar con le donne, mescolando ai conforti qualche
domanda, per veder se nelle risposte potesse trovar qualche congiuntura di far
del bene a chi aveva tanto patito.
- Bisognerebbe che tutti i preti fossero come vossignoria, che tenessero un
po' dalla parte de' poveri, e non aiutassero a metterli in imbroglio, per
cavarsene loro, - disse Agnese, animata dal contegno così famigliare e
amorevole di Federigo, e stizzita dal pensare che il signor don Abbondio, dopo
aver sempre sacrificati gli altri, pretendesse poi anche d'impedir loro un
piccolo sfogo, un lamento con chi era al di sopra di lui, quando, per un caso
raro, n'era venuta l'occasione.
- Dite pure tutto quel che pensate, - disse il cardinale: - parlate
liberamente.
- Voglio dire che, se il nostro signor curato avesse fatto il suo dovere, la
cosa non sarebbe andata così.
Ma facendole il cardinale nuove istanze perché si spiegasse meglio, quella
cominciò a trovarsi impicciata a dover raccontare una storia nella quale aveva
anch'essa una parte che non si curava di far sapere, specialmente a un tal
personaggio. Trovò però il verso d'accomodarla con un piccolo stralcio:
raccontò del matrimonio concertato, del rifiuto di don Abbondio, non lasciò
fuori il pretesto de' superiori che lui aveva messo in campo (ah,
Agnese!); e saltò all'attentato di don Rodrigo, e come, essendo stati
avvertiti, avevano potuto scappare. - Ma sì, - soggiunse e concluse: - scappare
per inciamparci di nuovo. Se in vece il signor curato ci avesse detto
sinceramente la cosa, e avesse subito maritati i miei poveri giovani, noi ce
n'andavamo via subito, tutti insieme, di nascosto, lontano, in luogo che né
anche l'aria non l'avrebbe saputo. Così s'è perduto tempo; ed è nato quel che
è nato.
- Il signor curato mi renderà conto di questo fatto, - disse il cardinale.
- No, signore, no, signore, - disse subito Agnese: - non ho parlato per
questo: non lo gridi, perché già quel che è stato è stato; e poi non serve a
nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe lo stesso.
Ma Lucia, non contenta di quella maniera di raccontar la storia, soggiunse: -
anche noi abbiamo fatto del male: si vede che non era la volontà del Signore
che la cosa dovesse riuscire.
- Che male avete potuto far voi, povera giovine? - disse Federigo.
Lucia, malgrado gli occhiacci che la madre cercava di farle alla sfuggita,
raccontò la storia del tentativo fatto in casa di don Abbondio; e concluse
dicendo: - abbiam fatto male; e Dio ci ha gastigati.
- Prendete dalla sua mano i patimenti che avete sofferti, e state di buon
animo, - disse Federigo: - perché, chi avrà ragione di rallegrarsi e di
sperare, se non chi ha patito, e pensa ad accusar se medesimo?
Domandò allora dove fosse il promesso sposo, e sentendo da Agnese (Lucia
stava zitta, con la testa e gli occhi bassi) ch'era scappato dal suo paese, ne
provò e ne mostrò maraviglia e dispiacere; e volle sapere il perché.
Agnese raccontò alla meglio tutto quel poco che sapeva della storia di
Renzo.
- Ho sentito parlare di questo giovine, - disse il cardinale: - ma come mai
uno che si trovò involto in affari di quella sorte, poteva essere in trattato
di matrimonio con una ragazza così?
- Era un giovine dabbene, - disse Lucia, facendo il viso rosso, ma con voce
sicura.
- Era un giovine quieto, fin troppo, - soggiunse Agnese: - e questo lo può
domandare a chi si sia, anche al signor curato. Chi sa che imbroglio avranno
fatto laggiù, che cabale? I poveri, ci vuol poco a farli comparir birboni.
È vero pur troppo, - disse il cardinale: - m'informerò di lui senza dubbio
-: e fattosi dire nome e cognome del giovine, ne prese l'appunto sur un
libriccin di memorie. Aggiunse poi che contava di portarsi al loro paese tra
pochi giorni, che allora Lucia potrebbe venir là senza timore, e che intanto
penserebbe lui a provvederla d'un luogo dove potesse esser al sicuro, fin che
ogni cosa fosse accomodata per il meglio.
Si voltò quindi ai padroni di casa, che vennero subito avanti. Rinnovò i
ringraziamenti che aveva fatti fare dal curato, e domandò se sarebbero stati
contenti di ricoverare, per que' pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro
mandate.
- Oh! sì signore, - rispose la donna, con un tono di voce e con un viso
ch'esprimeva molto più di quell'asciutta risposta, strozzata dalla vergogna. Ma
il marito, messo in orgasmo dalla presenza d'un tale interrogatore, dal
desiderio di farsi onore in un'occasione di tanta importanza, studiava
ansiosamente qualche bella risposta. Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in
traverso, strinse le labbra, tese a tutta forza l'arco dell'intelletto, cercò,
frugò, sentì di dentro un cozzo d'idee monche e di mezze parole: ma il momento
stringeva; il cardinale accennava già d'avere interpretato il silenzio: il
pover'uomo aprì la bocca, e disse: - si figuri! - Altro non gli volle venire.
Cosa, di cui non solo rimase avvilito sul momento; ma sempre poi quella
rimembranza importuna gli guastava la compiacenza del grand'onore ricevuto. E
quante volte, tornandoci sopra, e rimettendosi col pensiero in quella
circostanza, gli venivano in mente, quasi per dispetto, parole che tutte
sarebbero state meglio di quell'insulso si figuri! Ma, come dice un
antico proverbio, del senno di poi ne son piene le fosse.
Il cardinale partì, dicendo: - la benedizione del Signore sia sopra questa
casa.
Domandò poi la sera al curato come si sarebbe potuto in modo convenevole
ricompensare quell'uomo, che non doveva esser ricco, dell'ospitalità costosa,
specialmente in que' tempi. Il curato rispose che, per verità, né i guadagni
della professione, né le rendite di certi campicelli, che il buon sarto aveva
del suo, non sarebbero bastate, in quell'annata, a metterlo in istato d'esser
liberale con gli altri; ma che, avendo fatto degli avanzi negli anni addietro,
si trovava de' più agiati del contorno, e poteva far qualche spesa di più,
senza dissesto, come certo faceva questa volentieri; e che, del rimanente, non
ci sarebbe stato verso di fargli accettare nessuna ricompensa.
- Avrà probabilmente, - disse il cardinale, - crediti con gente che non può
pagare.
- Pensi, monsignore illustrissimo: questa povera gente paga con quel che le
avanza della raccolta: l'anno scorso, non avanzò nulla; in questo, tutti
rimangono indietro del necessario.
- Ebbene, - disse Federigo: - prendo io sopra di me tutti que' debiti; e voi
mi farete il piacere d'aver da lui la nota delle partite, e di saldarle.
- Sarà una somma ragionevole.
- Tanto meglio: e avrete pur troppo di quelli ancor più bisognosi, che non
hanno debiti perché non trovan credenza.
- Eh, pur troppo! Si fa quel che si può; ma come arrivare a tutto, in tempi
di questa sorte?
- Fate che lui li vesta a mio conto, e pagatelo bene. Veramente, in
quest'anno, mi par rubato tutto ciò che non va in pane; ma questo è un caso
particolare.
Non vogliam però chiudere la storia di quella giornata, senza raccontar
brevemente come la terminasse l'innominato.
Questa volta, la nuova della sua conversione l'aveva preceduto nella valle;
vi s'era subito sparsa, e aveva messo per tutto uno sbalordimento, un'ansietà,
un cruccio, un susurro. Ai primi bravi, o servitori (era tutt'uno) che vide,
accennò che lo seguissero: e così di mano in mano. Tutti venivan dietro, con
una sospensione nuova, e con la suggezione solita; finché, con un seguito
sempre crescente, arrivò al castello. Accennò a quelli che si trovavan sulla
porta, che gli venissero dietro con gli altri; entrò nel primo cortile, andò
verso il mezzo, e lì, essendo ancora a cavallo, mise un suo grido tonante: era
il segno usato, al quale accorrevano tutti que' suoi che l'avessero sentito. In
un momento, quelli ch'erano sparsi per il castello, vennero dietro alla voce, e
s'univano ai già radunati, guardando tutti il padrone.
- Andate ad aspettarmi nella sala grande, - disse loro; e dall'alto della sua
cavalcatura, gli stava a veder partire. Ne scese poi, la menò lui stesso alla
stalla, e andò dov'era aspettato. Al suo apparire, cessò subito un gran
bisbiglìo che c'era; tutti si ristrinsero da una parte, lasciando voto per lui
un grande spazio della sala: potevano essere una trentina.
L'innominato alzò la mano, come per mantener quel silenzio improvviso; alzò
la testa, che passava tutte quelle della brigata, e disse: - ascoltate tutti, e
nessuno parli, se non è interrogato. Figliuoli! la strada per la quale siamo
andati finora, conduce nel fondo dell'inferno. Non è un rimprovero ch'io voglia
farvi, io che sono avanti a tutti, il peggiore di tutti; ma sentite ciò che
v'ho da dire. Dio misericordioso m'ha chiamato a mutar vita; e io la muterò,
l'ho già mutata: così faccia con tutti voi. Sappiate dunque, e tenete per
fermo che son risoluto di prima morire che far più nulla contro la sua santa
legge. Levo a ognun di voi gli ordini scellerati che avete da me; voi
m'intendete; anzi vi comando di non far nulla di ciò che v'era comandato. E
tenete per fermo ugualmente, che nessuno, da qui avanti, potrà far del male con
la mia protezione, al mio servizio. Chi vuol restare a questi patti, sarà per
me come un figliuolo: e mi troverei contento alla fine di quel giorno, in cui
non avessi mangiato per satollar l'ultimo di voi, con l'ultimo pane che mi
rimanesse in casa. Chi non vuole, gli sarà dato quello che gli è dovuto di
salario, e un regalo di più: potrà andarsene; ma non metta più piede qui:
quando non fosse per mutar vita; che per questo sarà sempre ricevuto a braccia
aperte. Pensateci questa notte: domattina vi chiamerò, a uno a uno, a darmi la
risposta; e allora vi darò nuovi ordini. Per ora, ritiratevi, ognuno al suo
posto. E Dio che ha usato con me tanta misericordia, vi mandi il buon pensiero.
Qui finì, e tutto rimase in silenzio. Per quanto vari e tumultuosi fossero i
pensieri che ribollivano in que' cervellacci, non ne apparve di fuori nessun
segno. Erano avvezzi a prender la voce del loro signore come la manifestazione
d'una volontà con la quale non c'era da ripetere: e quella voce, annunziando
che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita. A
nessuno di loro passò neppur per la mente che, per esser lui convertito, si
potesse prendergli il sopravvento, rispondergli come a un altr'uomo. Vedevano in
lui un santo, ma un di que' santi che si dipingono con la testa alta, e con la
spada in pugno. Oltre il timore, avevano anche per lui (principalmente quelli
ch'eran nati sul suo, ed erano una gran parte) un'affezione come d'uomini ligi;
avevan poi tutti una benevolenza d'ammirazione; e alla sua presenza sentivano
una specie di quella, dirò pur così, verecondia, che anche gli animi più
zotici e più petulanti provano davanti a una superiorità che hanno già
riconosciuta. Le cose poi che allora avevan sentite da quella bocca, erano
bensì odiose a' loro orecchi, ma non false né affatto estranee ai loro
intelletti: se mille volte se n'eran fatti beffe, non era già perché non le
credessero, ma per prevenir con le beffe la paura che gliene sarebbe venuta, a
pensarci sul serio. E ora, a veder l'effetto di quella paura in un animo come
quello del loro padrone, chi più, chi meno, non ce ne fu uno che non gli se
n'attaccasse, almeno per qualche tempo. S'aggiunga a tutto ciò, che quelli tra
loro che, trovandosi la mattina fuor della valle, avevan risaputa per i primi la
gran nuova, avevano insieme veduto, e avevano anche riferito la gioia, la
baldanza della popolazione, l'amore e la venerazione per l'innominato, ch'erano
entrati in luogo dell'antico odio e dell'antico terrore. Di maniera che,
nell'uomo che avevan sempre riguardato, per dir così, di basso in alto, anche
quando loro medesimi erano in gran parte la sua forza, vedevano ora la
maraviglia, l'idolo d'una moltitudine; lo vedevano al di sopra degli altri, ben
diversamente di prima, ma non meno; sempre fuori della schiera comune, sempre
capo.
Stavano adunque sbalorditi, incerti l'uno dell'altro, e ognun di sé. Chi si
rodeva, chi faceva disegni del dove sarebbe andato a cercar ricovero e impiego;
chi s'esaminava se avrebbe potuto adattarsi a diventar galantuomo; chi anche,
tocco da quelle parole, se ne sentiva una certa inclinazione; chi, senza
risolver nulla, proponeva di prometter tutto a buon conto, di rimanere intanto a
mangiare quel pane offerto così di buon cuore, e allora così scarso, e
d'acquistar tempo: nessuno fiatò. E quando l'innominato, alla fine delle sue
parole, alzò di nuovo quella mano imperiosa per accennar che se n'andassero,
quatti quatti, come un branco di pecore, tutti insieme se la batterono. Uscì
anche lui, dietro a loro, e, piantatosi prima nel mezzo del cortile, stette a
vedere al barlume come si sbrancassero, e ognuno s'avviasse al suo posto. Salito
poi a prendere una sua lanterna, girò di nuovo i cortili, i corridoi, le sale,
visitò tutte l'entrature, e, quando vide ch'era tutto quieto, andò finalmente
a dormire. Sì, a dormire; perché aveva sonno.
Affari intralciati, e insieme urgenti, per quanto ne fosse sempre andato in
cerca, non se n'era mai trovati addosso tanti, in nessuna congiuntura, come
allora; eppure aveva sonno. I rimorsi che gliel avevan levato la notte avanti,
non che essere acquietati, mandavano anzi grida più alte, più severe, più
assolute; eppure aveva sonno. L'ordine, la specie di governo stabilito là
dentro da lui in tant'anni, con tante cure, con un tanto singolare accoppiamento
d'audacia e di perseveranza, ora l'aveva lui medesimo messo in forse, con poche
parole; la dipendenza illimitata di que' suoi, quel loro esser disposti a tutto,
quella fedeltà da masnadieri, sulla quale era avvezzo da tanto tempo a
riposare, l'aveva ora smossa lui medesimo; i suoi mezzi, gli aveva fatti
diventare un monte d'imbrogli, s'era messa la confusione e l'incertezza in casa;
eppure aveva sonno.
Andò dunque in camera, s'accostò a quel letto in cui la notte avanti aveva
trovate tante spine; e vi s'inginocchiò accanto, con l'intenzione di pregare.
Trovò in fatti in un cantuccio riposto e profondo della mente, le preghiere
ch'era stato ammaestrato a recitar da bambino; cominciò a recitarle; e quelle
parole, rimaste lì tanto tempo ravvolte insieme, venivano l'una dopo l'altra
come sgomitolandosi. Provava in questo un misto di sentimenti indefinibile; una
certa dolcezza in quel ritorno materiale all'abitudini dell'innocenza; un
inasprimento di dolore al pensiero dell'abisso che aveva messo tra quel tempo e
questo; un ardore d'arrivare, con opere di espiazione, a una coscienza nuova, a
uno stato il più vicino all'innocenza, a cui non poteva tornare; una
riconoscenza, una fiducia in quella misericordia che lo poteva condurre a quello
stato, e che gli aveva già dati tanti segni di volerlo. Rizzatosi poi, andò a
letto, e s'addormentò immediatamente.
Così terminò quella giornata, tanto celebre ancora quando scriveva il
nostro anonimo; e ora, se non era lui, non se ne saprebbe nulla, almeno de'
particolari; giacché il Ripamonti e il Rivola, citati di sopra, non dicono se
non che quel sì segnalato tiranno, dopo un abboccamento con Federigo, mutò
mirabilmente vita, e per sempre. E quanti son quelli che hanno letto i libri di
que' due? Meno ancora di quelli che leggeranno il nostro. E chi sa se, nella
valle stessa, chi avesse voglia di cercarla, e l'abilità di trovarla, sarà
rimasta qualche stracca e confusa tradizione del fatto? Son nate tante cose da
quel tempo in poi!
CAPITOLO XXV
Il giorno seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco,
non si parlava che di lei, dell'innominato, dell'arcivescovo e d'un altro tale,
che, quantunque gli piacesse molto d'andar per le bocche degli uomini,
n'avrebbe, in quella congiuntura, fatto volentieri di meno: vogliam dire il
signor don Rodrigo.
Non già che prima d'allora non si parlasse de' fatti suoi; ma eran discorsi
rotti, segreti: bisognava che due si conoscessero bene bene tra di loro, per
aprirsi sur un tale argomento. E anche, non ci mettevano tutto il sentimento di
che sarebbero stati capaci: perché gli uomini, generalmente parlando, quando
l'indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo, non solo dimostran
meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in effetto.
Ma ora, chi si sarebbe tenuto d'informarsi, e di ragionare d'un fatto così
strepitoso, in cui s'era vista la mano del cielo, e dove facevan buona figura
due personaggi tali? uno, in cui un amore della giustizia tanto animoso andava
unito a tanta autorità; l'altro, con cui pareva che la prepotenza in persona si
fosse umiliata, che la braverìa fosse venuta, per dir così, a render l'armi, e
a chiedere il riposo. A tali paragoni, il signor don Rodrigo diveniva un po'
piccino. Allora si capiva da tutti cosa fosse tormentar l'innocenza per poterla
disonorare, perseguitarla con un'insistenza così sfacciata, con sì atroce
violenza, con sì abbominevoli insidie. Si faceva, in quell'occasione, una
rivista di tant'altre prodezze di quel signore: e su tutto la dicevan come la
sentivano, incoraggiti ognuno dal trovarsi d'accordo con tutti. Era un susurro,
un fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti que' bravi che colui
aveva d'intorno.
Una buona parte di quest'odio pubblico cadeva ancora sui suoi amici e
cortigiani. Si rosolava bene il signor podestà, sempre sordo e cieco e muto sui
fatti di quel tiranno; ma alla lontana, anche lui, perché, se non aveva i
bravi, aveva i birri. Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva se non
chiacchiere e cabale, e con altri cortigianelli suoi pari, non s'usava tanti
riguardi: eran mostrati a dito, e guardati con occhi torti; di maniera che, per
qualche tempo, stimaron bene di non farsi veder per le strade.
Don Rodrigo, fulminato da quella notizia così impensata, così diversa
dall'avviso che aspettava di giorno in giorno, di momento in momento, stette
rintanato nel suo palazzotto, solo co' suoi bravi, a rodersi, per due giorni; il
terzo, partì per Milano. Se non fosse stato altro che quel mormoracchiare della
gente, forse, poiché le cose erano andate tant'avanti, sarebbe rimasto apposta
per affrontarlo, anzi per cercar l'occasione di dare un esempio a tutti sopra
qualcheduno de' più arditi; ma chi lo cacciò, fu l'essersi saputo per certo,
che il cardinale veniva da quelle parti. Il conte zio, il quale di tutta quella
storia non sapeva se non quel che gli aveva detto Attilio, avrebbe certamente
preteso che, in una congiuntura simile, don Rodrigo facesse una gran figura, e
avesse in pubblico dal cardinale le più distinte accoglienze: ora, ognun vede
come ci fosse incamminato. L'avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto
minutamente; perché era un'occasione importante di far vedere in che stima
fosse tenuta la famiglia da una primaria autorità. Per levarsi da un impiccio
così noioso, don Rodrigo, alzatosi una mattina prima del sole, si mise in una
carrozza, col Griso e con altri bravi, di fuori, davanti e di dietro; e,
lasciato l'ordine che il resto della servitù venisse poi in seguito, partì
come un fuggitivo, come (ci sia un po' lecito di sollevare i nostri personaggi
con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando, e giurando di
tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette.
Intanto, il cardinale veniva visitando, a una per giorno, le parrocchie del
territorio di Lecco. Il giorno in cui doveva arrivare a quella di Lucia, già
una gran parte degli abitanti erano andati sulla strada a incontrarlo.
All'entrata del paese, proprio accanto alla casetta delle nostre due donne,
c'era un arco trionfale, costrutto di stili per il ritto, e di pali per il
traverso, rivestito di paglia e di borraccina, e ornato di rami verdi di
pugnitopo e d'agrifoglio, distinti di bacche scarlatte; la facciata della chiesa
era parata di tappezzerie; al davanzale d'ogni finestra pendevano coperte e
lenzoli distesi, fasce di bambini disposte a guisa di pendoni; tutto quel poco
necessario che fosse atto a fare, o bene o male, figura di superfluo. Verso le
ventidue, ch'era l'ora in cui s'aspettava il cardinale, quelli ch'eran rimasti
in casa, vecchi, donne e fanciulli la più parte, s'avviarono anche loro a
incontrarlo, parte in fila, parte in truppa, preceduti da don Abbondio, uggioso
in mezzo a tanta festa, e per il fracasso che lo sbalordiva, e per il brulicar
della gente innanzi e indietro, che, come andava ripetendo, gli faceva girar la
testa, e per il rodìo segreto che le donne avesser potuto cicalare, e dovesse
toccargli a render conto del matrimonio.
Quand'ecco si vede spuntare il cardinale, o per dir meglio, la turba in mezzo
a cui si trovava nella sua lettiga, col suo seguito d'intorno; perché di tutto
questo non si vedeva altro che un indizio in aria, al di sopra di tutte le
teste, un pezzo della croce portata dal cappellano che cavalcava una mula. La
gente che andava con don Abbondio, s'affrettò alla rinfusa, a raggiunger
quell'altra: e lui, dopo aver detto, tre e quattro volte: - adagio; in fila;
cosa fate? - si voltò indispettito; e seguitando a borbottare: - è una
babilonia, è una babilonia, - entrò in chiesa, intanto ch'era vota; e stette
lì ad aspettare.
Il cardinale veniva avanti, dando benedizioni con la mano, e ricevendone
dalle bocche della gente, che quelli del seguito avevano un bel da fare a tenere
un po' indietro. Per esser del paese di Lucia, avrebbe voluto quella gente fare
all'arcivescovo dimostrazioni straordinarie; ma la cosa non era facile, perché
era uso che, per tutto dove arrivava, tutti facevano più che potevano. Già sul
principio stesso del suo pontificato, nel primo solenne ingresso in duomo, la
calca e l'impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far temere della
sua vita; e alcuni gentiluomini che gli eran più vicini, avevano sfoderate le
spade, per atterrire e respinger la folla. Tanto c'era in que' costumi di
scomposto e di violento, che, anche nel far dimostrazioni di benevolenza a un
vescovo in chiesa, e nel moderarle, si dovesse andar vicino all'ammazzare. E
quella difesa non sarebbe forse bastata, se il maestro e il sottomaestro delle
cerimonie, un Clerici e un Picozzi, giovani preti che stavan bene di corpo e
d'animo, non l'avessero alzato sulle braccia, e portato di peso, dalla porta
fino all'altar maggiore. D'allora in poi, in tante visite episcopali ch'ebbe a
fare, il primo entrar nella chiesa si può senza scherzo contarlo tra le sue
pastorali fatiche, e qualche volta, tra i pericoli passati da lui.
Entrò anche in questa come poté; andò all'altare e, dopo essere stato
alquanto in orazione, fece, secondo il suo solito, un piccol discorso al popolo,
sul suo amore per loro, sul suo desiderio della loro salvezza, e come dovessero
disporsi alle funzioni del giorno dopo. Ritiratosi poi nella casa del parroco,
tra gli altri discorsi, gli domandò informazione di Renzo. Don Abbondio disse
ch'era un giovine un po' vivo, un po' testardo, un po' collerico. Ma, a più
particolari e precise domande, dovette rispondere ch'era un galantuomo, e che
anche lui non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle
diavolerie che avevan detto.
- In quanto alla giovine, - riprese il cardinale, - pare anche a voi che
possa ora venir sicuramente a dimorare in casa sua?
- Per ora, - rispose don Abbondio, - può venire e stare, come vuole: dico,
per ora; ma, - soggiunse poi con un sospiro, - bisognerebbe che vossignoria
illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino.
- Il Signore è sempre vicino, - disse il cardinale: - del resto, penserò io
a metterla al sicuro -. E diede subito ordine che, il giorno dopo, si spedisse
di buon'ora la lettiga, con una scorta, a prender le due donne.
Don Abbondio uscì di lì tutto contento che il cardinale gli avesse parlato
de' due giovani, senza chiedergli conto del suo rifiuto di maritarli. "Dunque non sa niente, - diceva tra sé: - Agnese è stata zitta: miracolo! È
vero che s'hanno a tornare a vedere; ma le daremo un'altra istruzione, le daremo". E non sapeva, il pover'uomo, che Federigo non era entrato in
quell'argomento, appunto perché intendeva di parlargliene a lungo, in tempo
più libero; e, prima di dargli ciò che gli era dovuto, voleva sentire anche le
sue ragioni.
Ma i pensieri del buon prelato per metter Lucia al sicuro eran divenuti
inutili: dopo che l'aveva lasciata, eran nate delle cose, che dobbiamo
raccontare.
Le due donne, in que' pochi giorni ch'ebbero a passare nella casuccia
ospitale del sarto, avevan ripreso, per quanto avevan potuto, ognuna il suo
antico tenor di vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare; e, come aveva
fatto nel monastero, cuciva, cuciva, ritirata in una stanzina, lontano dagli
occhi della gente. Agnese andava un po' fuori, un po' lavorava in compagnia
della figlia. I loro discorsi eran tanto più tristi, quanto più affettuosi:
tutt'e due eran preparate a una separazione; giacché la pecora non poteva
tornare a star così vicino alla tana del lupo: e quando, quale, sarebbe il
termine di questa separazione? L'avvenire era oscuro, imbrogliato: per una di
loro principalmente. Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue congetture
allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro,
dovrebbe presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da lavorare e da
stabilirsi, se (e come dubitarne?) stava fermo nelle sue promesse, perché non
si potrebbe andare a star con lui? E di tali speranze, ne parlava e ne riparlava
alla figlia, per la quale non saprei dire se fosse maggior dolore il sentire, o
pena il rispondere. Il suo gran segreto l'aveva sempre tenuto in sé; e,
inquietata bensì dal dispiacere di fare a una madre così buona un sotterfugio,
che non era il primo; ma trattenuta, come invincibilmente, dalla vergogna e da'
vari timori che abbiam detto di sopra, andava d'oggi in domani, senza dir nulla.
I suoi disegni eran ben diversi da quelli della madre, o, per dir meglio, non
n'aveva; s'era abbandonata alla Provvidenza. Cercava dunque di lasciar cadere, o
di stornare quel discorso; o diceva, in termini generali, di non aver più
speranza, né desiderio di cosa di questo mondo, fuorché di poter presto
riunirsi con sua madre; le più volte, il pianto veniva opportunamente a troncar
le parole.
- Sai perché ti par così? - diceva Agnese: - perché hai tanto patito, e
non ti par vero che la possa voltarsi in bene. Ma lascia fare al Signore; e
se... Lascia che si veda un barlume, appena un barlume di speranza; e allora mi
saprai dire se non pensi più a nulla -. Lucia baciava la madre, e piangeva.
Del resto, tra loro e i loro ospiti era nata subito una grand'amicizia: e
dove nascerebbe, se non tra beneficati e benefattori, quando gli uni e gli altri
son buona gente? Agnese specialmente faceva di gran chiacchiere con la padrona.
Il sarto poi dava loro un po' di svago con delle storie, e con de' discorsi
morali: e, a desinare soprattutto, aveva sempre qualche bella cosa da
raccontare, di Bovo d'Antona o de' Padri del deserto.
Poco distante da quel paesetto, villeggiava una coppia d'alto affare; don
Ferrante e donna Prassede: il casato, al solito, nella penna dell'anonimo. Era
donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far del bene: mestiere
certamente il più degno che l'uomo possa esercitare; ma che pur troppo può
anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e,
al pari d'ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre
passioni, per mezzo de' nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso
stanno come possono. Con l'idee donna Prassede si regolava come dicono che si
deve far con gli amici: n'aveva poche; ma a quelle poche era molto affezionata.
Tra le poche, ce n'era per disgrazia molte delle storte; e non eran quelle che
le fossero men care. Le accadeva quindi, o di proporsi per bene ciò che non lo
fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piuttosto far riuscire dalla
parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per una
certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più di
quel che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c'era di
reale, o di vederci ciò che non c'era; e molte altre cose simili, che possono
accadere, e che accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna
Prassede, troppo spesso e, non di rado, tutte in una volta.
Al sentire il gran caso di Lucia, e tutto ciò che, in quell'occasione, si
diceva della giovine, le venne la curiosità di vederla; e mandò una carrozza,
con un vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia. Questa si ristringeva
nelle spalle, e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro l'imbasciata, che
trovasse maniera di scusarla. Finché s'era trattato di gente alla buona che
cercava di conoscer la giovine del miracolo, il sarto le aveva reso volentieri
un tal servizio; ma in questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di
ribellione. Fece tanti versi, tant'esclamazioni, disse tante cose: e che non si
faceva così, e ch'era una casa grande, e che ai signori non si dice di no, e
che poteva esser la loro fortuna, e che la signora donna Prassede, oltre il
resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia si dovette arrendere:
molto più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con altrettanti - sicuro,
sicuro.
Arrivate davanti alla signora, essa fece loro grand'accoglienza, e molte
congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con una certa superiorità
quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da tanta
premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco
dopo, cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da principio
aveva loro incusso quella signorile presenza; anzi ci trovarono una certa
attrattiva. E per venire alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale
s'era incaricato di trovare a Lucia un ricovero, punta dal desiderio di
secondare e di prevenire a un tratto quella buona intenzione, s'esibì di
prender la giovine in casa, dove, senz'essere addetta ad alcun servizio
particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l'altre donne ne' loro lavori. E
soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore.
Oltre il bene chiaro e immediato che c'era in un'opera tale, donna Prassede
ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse più considerabile, secondo lei;
di raddirizzare un cervello, di metter sulla buona strada chi n'aveva gran
bisogno. Perché, fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di Lucia,
s'era subito persuasa che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un
poco di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca in somma, qualche magagna,
qualche pecca nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei.
La vista di Lucia aveva confermata quella persuasione. Non che, in fondo, come
si dice, non le paresse una buona giovine; ma c'era molto da ridire. Quella
testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non
rispondere, o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar
verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva molto a
indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell'arrossire ogni momento,
e quel rattenere i sospiri... Due occhioni poi, che a donna Prassede non
piacevan punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che
tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con
quel poco di buono, e un avviso per far che se ne staccasse affatto; e stante
questo, si proponeva di cooperare a un così buon fine. Giacché, come diceva
spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri
del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender per cielo il
suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò bene
di darne il minimo indizio. Era una delle sue massime questa, che, per riuscire
a far del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de' casi, è di
non metterli a parte del disegno.
La madre e la figlia si guardarono in viso. Nella dolorosa necessità di
dividersi, l'esibizione parve a tutt'e due da accettarsi, se non altro per esser
quella villa così vicina al loro paesetto: per cui, alla peggio de' peggi, si
ravvicinerebbero e potrebbero trovarsi insieme, alla prossima villeggiatura.
Visto, l'una negli occhi dell'altra, il consenso, si voltaron tutt'e due a donna
Prassede con quel ringraziare che accetta. Essa rinnovò le gentilezze e le
promesse, e disse che manderebbe subito una lettera da presentare a monsignore.
Partite le donne, la lettera se la fece distendere da don Ferrante, di cui,
per esser letterato, come diremo più in particolare, si serviva per segretario,
nell'occasioni d'importanza. Trattandosi d'una di questa sorte, don Ferrante ci
mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da copiare alla consorte, le
raccomandò caldamente l'ortografia; ch'era una delle molte cose che aveva
studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa. Donna
Prassede copiò diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto.
Questo fu due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per
ricondur le donne al loro paese.
Arrivate, smontarono alla casa parrocchiale, dove si trovava il cardinale.
C'era ordine d'introdurle subito: il cappellano, che fu il primo a vederle,
l'eseguì, trattenendole solo quant'era necessario per dar loro, in fretta in
fretta, un po' d'istruzione sul cerimoniale da usarsi con monsignore, e sui
titoli da dargli; cosa che soleva fare, ogni volta che lo potesse di nascosto a
lui. Era per il pover'uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine che
regnava intorno al cardinale, su quel particolare: - tutto, - diceva con gli
altri della famiglia, - per la troppa bontà di quel benedett'uomo; per quella
gran famigliarità -. E raccontava d'aver perfino sentito più d'una volta co'
suoi orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no.
Stava in quel momento il cardinale discorrendo con don Abbondio, sugli affari
della parrocchia: dimodoché questo non ebbe campo di dare anche lui, come
avrebbe desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo, nel passar loro accanto,
mentre usciva, e quelle venivano avanti, poté dar loro d'occhio, per accennare
ch'era contento di loro, e che continuassero, da brave, a non dir nulla.
Dopo le prime accoglienze da una parte, e i primi inchini dall'altra, Agnese
si cavò di seno la lettera, e la presentò al cardinale, dicendo: - è della
signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto vossignoria
illustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro signori grandi, si devon
conoscer tutti. Quand'avrà letto, vedrà.
- Bene, - disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il sugo del senso da'
fiori di don Ferrante. Conosceva quella casa quanto bastasse per esser certo che
Lucia c'era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe sicura dall'insidie
e dalla violenza del suo persecutore. Che concetto avesse della testa di donna
Prassede, non n'abbiam notizia positiva. Probabilmente, non era quella la
persona che avrebbe scelta a un tal intento; ma, come abbiam detto o fatto
intendere altrove, non era suo costume di disfar le cose che non toccavano a
lui, per rifarle meglio.
- Prendete in pace anche questa separazione, e l'incertezza in cui vi
trovate, - soggiunse poi: - confidate che sia per finir presto, e che il Signore
voglia guidar le cose a quel termine a cui pare che le avesse indirizzate; ma
tenete per certo che quello che vorrà Lui, sarà il meglio per voi -. Diede a
Lucia in particolare qualche altro ricordo amorevole; qualche altro conforto a
tutt'e due; le benedisse, e le lasciò andare. Appena fuori, si trovarono
addosso uno sciame d'amici e d'amiche, tutto il comune, si può dire, che le
aspettava, e le condusse a casa, come in trionfo. Era tra tutte quelle donne una
gara di congratularsi, di compiangere, di domandare; e tutte esclamavano dal
dispiacere, sentendo che Lucia se n'anderebbe il giorno dopo. Gli uomini
gareggiavano nell'offrir servizi; ognuno voleva star quella notte a far la
guardia alla casetta. Sul qual fatto, il nostro anonimo credé bene di formare
un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno.
Tante accoglienze confondevano e sbalordivano Lucia: Agnese non s'imbrogliava
così per poco. Ma in sostanza fecero bene anche a Lucia, distraendola alquanto
da' pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo, anche in mezzo al frastono, le
si risvegliavano, su quell'uscio, in quelle stanzucce, alla vista d'ogni
oggetto.
Al tocco della campana che annunziava vicino il cominciar delle funzioni,
tutti si mossero verso la chiesa, e fu per le nostre donne un'altra passeggiata
trionfale.
Terminate le funzioni, don Abbondio, ch'era corso a vedere se Perpetua aveva
ben disposto ogni cosa per il desinare, fu chiamato dal cardinale. Andò subito
dal grand'ospite, il quale, lasciatolo venir vicino, - signor curato, -
cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire, ch'erano il
principio d'un discorso lungo e serio: - signor curato; perché non avete voi
unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?
"Hanno votato il sacco stamattina coloro", pensò don Abbondio; e
rispose borbottando: - monsignore illustrissimo avrà ben sentito parlare degli
scompigli che son nati in quell'affare: è stata una confusione tale, da non
poter, neppure al giorno d'oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria
illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti
accidenti, come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove
sia.
- Domando, - riprese il cardinale, - se è vero che, prima di tutti codesti
casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio, quando n'eravate richiesto,
nel giorno fissato; e il perché.
- Veramente... se vossignoria illustrissima sapesse... che intimazioni... che
comandi terribili ho avuti di non parlare... - E restò lì senza concludere, in
un cert'atto, da far rispettosamente intendere che sarebbe indiscrezione il
voler saperne di più.
- Ma! - disse il cardinale, con voce e con aria grave fuor del consueto: - è
il vostro vescovo che, per suo dovere e per vostra giustificazione, vuol saper
da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via regolare, era obbligo
vostro di fare.
- Monsignore, - disse don Abbondio, facendosi piccino piccino, - non ho già
voluto dire... Ma m'è parso che, essendo cose intralciate, cose vecchie e senza
rimedio, fosse inutile di rimestare... Però, però, dico... so che vossignoria
illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco. Perché vede bene,
monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui
esposto... Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.
- Dite: io non vorrei altro che trovarvi senza colpa.
Allora don Abbondio si mise a raccontare la dolorosa storia; ma tacque il
nome principale, e vi sostituì: un gran signore; dando così alla prudenza
tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
- E non avete avuto altro motivo? - domandò il cardinale, quando don
Abbondio ebbe finito.
- Ma forse non mi sono spiegato abbastanza, - rispose questo: - sotto pena
della vita, m'hanno intimato di non far quel matrimonio.
- E vi par codesta una ragion bastante, per lasciar d'adempire un dovere
preciso?
- Io ho sempre cercato di farlo, il mio dovere, anche con mio grave incomodo,
ma quando si tratta della vita...
- E quando vi siete presentato alla Chiesa, - disse, con accento ancor più
grave, Federigo, - per addossarvi codesto ministero, v'ha essa fatto sicurtà
della vita? V'ha detto che i doveri annessi al ministero fossero liberi da ogni
ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto forse che dove cominciasse il
pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente detto il contrario?
Non v'ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi
che c'eran de' violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe
comandato? Quello da Cui abbiam la dottrina e l'esempio, ad imitazione di Cui ci
lasciam nominare e ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne
l'ufizio, mise forse per condizione d'aver salva la vita? E per salvarla, per
conservarla, dico, qualche giorno di più sulla terra, a spese della carità e
del dovere, c'era bisogno dell'unzione santa, dell'imposizion delle mani, della
grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa virtù, a insegnar questa
dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il mondo fa
anch'esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo
anch'esso, un vangelo di superbia e d'odio; e non vuol che si dica che l'amore
della vita sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è
ubbidito. E noi! noi figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa,
se codesto vostro linguaggio fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove
sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con codeste dottrine?
Don Abbondio stava a capo basso: il suo spirito si trovava tra quegli
argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che lo tengono sollevato in
una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirata. Vedendo che
qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: -
monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non
so cosa mi dire. Ma quando s'ha che fare con certa gente, con gente che ha la
forza, e che non vuol sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei
cosa ci si potesse guadagnare. È un signore quello, con cui non si può né
vincerla né impattarla.
- E non sapete voi che il soffrire per la giustizia è il nostro vincere? E
se non sapete questo, che cosa predicate? di che siete maestro? qual è la buona
nuova che annunziate a' poveri? Chi pretende da voi che vinciate la forza
con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate saputo fare
stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo. Ma
vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch'erano in vostra mano per
far ciò che v'era prescritto, anche quando avessero la temerità di
proibirvelo.
"Anche questi santi son curiosi, - pensava intanto don Abbondio: - in
sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore gli amori di due giovani,
che la vita d'un povero sacerdote". E, in quant'a lui, si sarebbe
volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a
ogni pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o
un'apologia, qualcosa in somma.
- Torno a dire, monsignore, - rispose dunque, - che avrò torto io... Il
coraggio, uno non se lo può dare.
- E perché dunque, potrei dirvi, vi siete voi impegnato in un ministero che
v'impone di stare in guerra con le passioni del secolo? Ma come, vi dirò
piuttosto, come non pensate che, se in codesto ministero, comunque vi ci siate
messo, v'è necessario il coraggio, per adempir le vostre obbligazioni, c'è Chi
ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi che tutti que'
milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero
naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a
gustarla, tanti vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire,
tante donzelle, tante spose, tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il
coraggio era necessario, ed essi confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i
vostri doveri, avete voi pensato a prepararvi ai passi difficili a cui potevate
trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto? Ah! se per tant'anni d'ufizio
pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro gregge, se avete riposto
in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il coraggio non
doveva mancarvi al bisogno: l'amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate,
quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate
figliuoli; quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come
la debolezza della carne v'ha fatto tremar per voi, così la carità v'avrà
fatto tremar per loro. Vi sarete umiliato di quel primo timore, perché era un
effetto della vostra miseria; avrete implorato la forza per vincerlo, per
discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor santo e nobile per gli
altri, per i vostri figliuoli, quello l'avrete ascoltato, quello non v'avrà
dato pace, quello v'avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si
potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava... Cosa v'ha ispirato il
timore, l'amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
E tacque in atto di chi aspetta.
CAPITOLO XXVI
A una siffatta domanda, don Abbondio, che pur s'era ingegnato di risponder
qualcosa a delle meno precise, restò lì senza articolar parola. E, per dir la
verità, anche noi, con questo manoscritto davanti, con una penna in mano, non
avendo da contrastare che con le frasi, né altro da temere che le critiche de'
nostri lettori; anche noi, dico, sentiamo una certa ripugnanza a proseguire:
troviamo un non so che di strano in questo mettere in campo, con così poca
fatica, tanti bei precetti di fortezza e di carità, di premura operosa per gli
altri, di sacrifizio illimitato di sé. Ma pensando che quelle cose erano dette
da uno che poi le faceva, tiriamo avanti con coraggio.
- Voi non rispondete? - riprese il cardinale. - Ah, se aveste fatto, dalla
parte vostra, ciò che la carità, ciò che il dovere richiedeva; in qualunque
maniera poi le cose fossero andate, non vi mancherebbe ora una risposta. Vedete
dunque voi stesso cosa avete fatto. Avete ubbidito all'iniquità, non curando
ciò che il dovere vi prescriveva. L'avete ubbidita puntualmente: s'era fatta
vedere a voi, per intimarvi il suo desiderio; ma voleva rimanere occulta a chi
avrebbe potuto ripararsi da essa, e mettersi in guardia; non voleva che si
facesse rumore, voleva il segreto, per maturare a suo bell'agio i suoi disegni
d'insidie o di forza; vi comandò la trasgressione e il silenzio: voi avete
trasgredito, e non parlavate. Domando ora a voi se non avete fatto di più; voi
mi direte se è vero che abbiate mendicati de' pretesti al vostro rifiuto, per
non rivelarne il motivo -. E stette lì alquanto, aspettando di nuovo una
risposta.
"Anche questa gli hanno rapportata le chiacchierone", pensava don
Abbondio; ma non dava segno d'aver nulla da dire; onde il cardinale riprese: -
se è vero, che abbiate detto a que' poverini ciò che non era, per tenerli
nell'ignoranza, nell'oscurità, in cui l'iniquità li voleva... Dunque lo devo
credere; dunque non mi resta che d'arrossirne con voi, e di sperare che voi ne
piangerete con me. Vedete a che v'ha condotto (Dio buono! e pur ora voi la
adducevate per iscusa) quella premura per la vita che deve finire. V'ha
condotto... ribattete liberamente queste parole, se vi paiono ingiuste,
prendetele in umiliazione salutare, se non lo sono... v'ha condotto a ingannare
i deboli, a mentire ai vostri figliuoli.
"Ecco come vanno le cose, - diceva ancora tra sé don Abbondio: - a
quel satanasso, - e pensava all'innominato, - le braccia al collo; e con me, per
una mezza bugia, detta a solo fine di salvar la pelle, tanto chiasso. Ma sono
superiori; hanno sempre ragione. È il mio pianeta, che tutti m'abbiano a dare
addosso; anche i santi". E ad alta voce, disse: - ho mancato; capisco che
ho mancato; ma cosa dovevo fare, in un frangente di quella sorte?
- E ancor lo domandate? E non ve l'ho detto? E dovevo dirvelo? Amare,
figliuolo; amare e pregare. Allora avreste sentito che l'iniquità può aver
bensì delle minacce da fare, de' colpi da dare, ma non de' comandi; avreste
unito, secondo la legge di Dio, ciò che l'uomo voleva separare; avreste
prestato a quegl'innocenti infelici il ministero che avevan ragione di richieder
da voi: delle conseguenze sarebbe restato mallevadore Iddio, perché si sarebbe
andati per la sua strada: avendone presa un'altra, ne restate mallevadore voi; e
di quali conseguenze! Ma forse che tutti i ripari umani vi mancavano? forse che
non era aperta alcuna via di scampo, quand'aveste voluto guardarvi d'intorno,
pensarci, cercare? Ora voi potete sapere che que' vostri poverini, quando
fossero stati maritati, avrebbero pensato da sé al loro scampo, eran disposti a
fuggire dalla faccia del potente, s'eran già disegnato il luogo di rifugio. Ma
anche senza questo, non vi venne in mente che alla fine avevate un superiore? Il
quale, come mai avrebbe quest'autorità di riprendervi d'aver mancato al vostro
ufizio, se non avesse anche l'obbligo d'aiutarvi ad adempirlo? Perché non avete
pensato a informare il vostro vescovo dell'impedimento che un'infame violenza
metteva all'esercizio del vostro ministero?
"I pareri di Perpetua!" pensava stizzosamente don Abbondio, a
cui, in mezzo a que' discorsi, ciò che stava più vivamente davanti, era
l'immagine di que' bravi, e il pensiero che don Rodrigo era vivo e sano, e, un
giorno o l'altro, tornerebbe glorioso e trionfante, e arrabbiato. E benché
quella dignità presente, quell'aspetto e quel linguaggio, lo facessero star
confuso, e gl'incutessero un certo timore, era però un timore che non lo
soggiogava affatto, né impediva al pensiero di ricalcitrare: perché c'era in
quel pensiero, che, alla fin delle fini, il cardinale non adoprava né schioppo,
né spada, né bravi.
- Come non avete pensato, - proseguiva questo, - che, se a quegli innocenti
insidiati non fosse stato aperto altro rifugio, c'ero io, per accoglierli, per
metterli in salvo, quando voi me gli aveste indirizzati, indirizzati dei
derelitti a un vescovo, come cosa sua, come parte preziosa, non dico del suo
carico, ma delle sue ricchezze? E in quanto a voi, io, sarei divenuto inquieto
per voi; io, avrei dovuto non dormire, fin che non fossi sicuro che non vi
sarebbe torto un capello. Ch'io non avessi come, dove, mettere in sicuro la
vostra vita? Ma quell'uomo che fu tanto ardito, credete voi che non gli si
sarebbe scemato punto l'ardire, quando avesse saputo che le sue trame eran note
fuor di qui, note a me, ch'io vegliavo, ed ero risoluto d'usare in vostra difesa
tutti i mezzi che fossero in mia mano? Non sapevate che, se l'uomo promette
troppo spesso più che non sia per mantenere, minaccia anche non di rado, più
che non s'attenti poi di commettere? Non sapevate che l'iniquità non si fonda
soltanto sulle sue forze, ma anche sulla credulità e sullo spavento altrui?
"Proprio le ragioni di Perpetua", pensò anche qui don Abbondio,
senza riflettere che quel trovarsi d'accordo la sua serva e Federigo Borromeo su
ciò che si sarebbe potuto e dovuto fare, voleva dir molto contro di lui.
- Ma voi, - proseguì e concluse il cardinale, - non avete visto, non avete
voluto veder altro che il vostro pericolo temporale; qual maraviglia che vi sia
parso tale, da trascurar per esso ogni altra cosa?
- Gli è perché le ho viste io quelle facce, - scappò detto a don Abbondio;
- le ho sentite io quelle parole. Vossignoria illustrissima parla bene; ma
bisognerebbe esser ne' panni d'un povero prete, e essersi trovato al punto.
Appena ebbe proferite queste parole, si morse la lingua; s'accorse d'essersi
lasciato troppo vincere dalla stizza, e disse tra sé: "ora vien la
grandine". Ma alzando dubbiosamente lo sguardo, fu tutto maravigliato, nel
veder l'aspetto di quell'uomo, che non gli riusciva mai d'indovinare né di
capire, nel vederlo, dico, passare, da quella gravità autorevole e correttrice,
a una gravità compunta e pensierosa.
- Pur troppo! - disse Federigo, - tale è la misera e terribile nostra
condizione. Dobbiamo esigere rigorosamente dagli altri quello che Dio sa se noi
saremmo pronti a dare: dobbiamo giudicare, correggere, riprendere; e Dio sa quel
che faremmo noi nel caso stesso, quel che abbiam fatto in casi somiglianti! Ma
guai s'io dovessi prender la mia debolezza per misura del dovere altrui, per
norma del mio insegnamento! Eppure è certo che, insieme con le dottrine, io
devo dare agli altri l'esempio, non rendermi simile al dottor della legge, che
carica gli altri di pesi che non posson portare, e che lui non toccherebbe con
un dito. Ebbene, figliuolo e fratello; poiché gli errori di quelli che
presiedono, sono spesso più noti agli altri che a loro; se voi sapete ch'io
abbia, per pusillanimità, per qualunque rispetto, trascurato qualche mio
obbligo, ditemelo francamente, fatemi ravvedere; affinché, dov'è mancato
l'esempio, supplisca almeno la confessione. Rimproveratemi liberamente le mie
debolezze; e allora le parole acquisteranno più valore nella mia bocca, perché
sentirete più vivamente, che non son mie, ma di Chi può dare a voi e a me la
forza necessaria per far ciò che prescrivono.
"Oh che sant'uomo! ma che tormento! - pensava don Abbondio: - anche
sopra di sé: purché frughi, rimesti, critichi, inquisisca; anche sopra di sé". Disse poi ad alta voce: - oh, monsignore! che mi fa celia? Chi non
conosce il petto forte, lo zelo imperterrito di vossignoria illustrissima? - E
tra sé soggiunse: "anche troppo".
- Io non vi chiedevo una lode, che mi fa tremare, - disse Federigo, - perché
Dio conosce i miei mancamenti, e quello che ne conosco anch'io, basta a
confondermi. Ma avrei voluto, vorrei che ci confondessimo insieme davanti a Lui,
per confidare insieme. Vorrei, per amor vostro, che intendeste quanto la vostra
condotta sia stata opposta, quanto sia opposto il vostro linguaggio alla legge
che pur predicate, e secondo la quale sarete giudicato.
- Tutto casca addosso a me, - disse don Abbondio: - ma queste persone che son
venute a rapportare, non le hanno poi detto d'essersi introdotte in casa mia, a
tradimento, per sorprendermi, e per fare un matrimonio contro le regole.
- Me l'hanno detto, figliuolo: ma questo m'accora, questo m'atterra, che voi
desideriate ancora di scusarvi; che pensiate di scusarvi, accusando; che
prendiate materia d'accusa da ciò che dovrebb'esser parte della vostra
confessione. Chi gli ha messi, non dico nella necessità, ma nella tentazione di
far ciò che hanno fatto? Avrebbero essi cercata quella via irregolare, se la
legittima non fosse loro stata chiusa? pensato a insidiare il pastore, se
fossero stati accolti nelle sue braccia, aiutati, consigliati da lui? a
sorprenderlo, se non si fosse nascosto? E a questi voi date carico? e vi
sdegnate perché, dopo tante sventure, che dico? nel mezzo della sventura,
abbian detto una parola di sfogo al loro, al vostro pastore? Che il ricorso
dell'oppresso, la querela dell'afflitto siano odiosi al mondo, il mondo è tale;
ma noi! E che pro sarebbe stato per voi, se avessero taciuto? Vi tornava conto
che la loro causa andasse intera al giudizio di Dio? Non è per voi una nuova
ragione d'amar queste persone (e già tante ragioni n'avete), che v'abbian dato
occasione di sentir la voce sincera del vostro vescovo, che v'abbian dato un
mezzo di conoscer meglio, e di scontare in parte il gran debito che avete con
loro? Ah! se v'avessero provocato, offeso, tormentato, vi direi (e dovrei io
dirvelo?) d'amarli, appunto per questo. Amateli perché hanno patito, perché
patiscono, perché son vostri, perché son deboli, perché avete bisogno d'un
perdono, a ottenervi il quale, pensate di qual forza possa essere la loro
preghiera.
Don Abbondio stava zitto; ma non era più quel silenzio forzato e impaziente:
stava zitto come chi ha più cose da pensare che da dire. Le parole che sentiva,
eran conseguenze inaspettate, applicazioni nuove, ma d'una dottrina antica però
nella sua mente, e non contrastata. Il male degli altri, dalla considerazion del
quale l'aveva sempre distratto la paura del proprio, gli faceva ora
un'impressione nuova. E se non sentiva tutto il rimorso che la predica voleva
produrre (ché quella stessa paura era sempre lì a far l'ufizio di difensore),
ne sentiva però; sentiva un certo dispiacere di sé, una compassione per gli
altri, un misto di tenerezza e di confusione. Era, se ci si lascia passare
questo paragone, come lo stoppino umido e ammaccato d'una candela, che
presentato alla fiamma d'una gran torcia, da principio fuma, schizza,
scoppietta, non ne vuol saper nulla; ma alla fine s'accende e, bene o male,
brucia. Si sarebbe apertamente accusato, avrebbe pianto, se non fosse stato il
pensiero di don Rodrigo; ma tuttavia si mostrava abbastanza commosso, perché il
cardinale dovesse accorgersi che le sue parole non erano state senza effetto.
- Ora, - proseguì questo, - uno fuggitivo da casa sua, l'altra in procinto
d'abbandonarla, tutt'e due con troppo forti motivi di starne lontani, senza
probabilità di riunirsi mai qui, e contenti di sperare che Dio li riunisca
altrove; ora, pur troppo, non hanno bisogno di voi; pur troppo, voi non avete
occasione di far loro del bene; né il corto nostro prevedere può scoprirne
alcuna nell'avvenire. Ma chi sa se Dio misericordioso non ve ne prepara? Ah non
le lasciate sfuggire! cercatele, state alle velette, pregatelo che le faccia
nascere.
- Non mancherò, monsignore, non mancherò, davvero, - rispose don Abbondio,
con una voce che, in quel momento, veniva proprio dal cuore.
- Ah sì, figliuolo, sì! - esclamò Federigo; e con una dignità piena
d'affetto, concluse: - lo sa il cielo se avrei desiderato di tener con voi
tutt'altri discorsi. Tutt'e due abbiamo già vissuto molto: lo sa il cielo se
m'è stato duro di dover contristar con rimproveri codesta vostra canizie, e
quanto sarei stato più contento di consolarci insieme delle nostre cure comuni,
de' nostri guai, parlando della beata speranza, alla quale siamo arrivati così
vicino. Piaccia a Dio che le parole le quali ho pur dovuto usar con voi, servano
a voi e a me. Non fate che m'abbia a chieder conto, in quel giorno, d'avervi
mantenuto in un ufizio, al quale avete così infelicemente mancato. Ricompriamo
il tempo: la mezzanotte è vicina; lo Sposo non può tardare; teniamo accese le
nostre lampade. Presentiamo a Dio i nostri cuori miseri, vòti, perché Gli
piaccia riempirli di quella carità, che ripara al passato, che assicura
l'avvenire, che teme e confida, piange e si rallegra, con sapienza; che diventa
in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno.
Così detto, si mosse; e don Abbondio gli andò dietro.
Qui l'anonimo ci avvisa che non fu questo il solo abboccamento di que' due
personaggi, né Lucia il solo argomento de' loro abboccamenti; ma che lui s'è
ristretto a questo, per non andar lontano dal soggetto principale del racconto.
E che, per lo stesso motivo, non farà menzione d'altre cose notabili, dette da
Federigo in tutto il corso della visita, né delle sue liberalità, né delle
discordie sedate, degli odi antichi tra persone, famiglie, terre intere, spenti
o (cosa ch'era pur troppo più frequente) sopiti, né di qualche bravaccio o
tirannello ammansato, o per tutta la vita, o per qualche tempo; cose tutte delle
quali ce n'era sempre più o meno, in ogni luogo della diocesi dove quell'uomo
eccellente facesse qualche soggiorno.
Dice poi, che, la mattina seguente, venne donna Prassede, secondo il fissato,
a prender Lucia, e a complimentare il cardinale, il quale gliela lodò, e
raccomandò caldamente. Lucia si staccò dalla madre, potete pensar con che
pianti; e uscì dalla sua casetta; disse per la seconda volta addio al paese,
con quel senso di doppia amarezza, che si prova lasciando un luogo che fu
unicamente caro, e che non può esserlo più. Ma i congedi con la madre non eran
gli ultimi; perché donna Prassede aveva detto che si starebbe ancor qualche
giorno in quella sua villa, la quale non era molto lontana; e Agnese promise
alla figlia d'andar là a trovarla, a dare e a ricevere un più doloroso addio.
Il cardinale era anche lui sulle mosse per continuar la sua visita, quando
arrivò, e chiese di parlargli il curato della parrocchia, in cui era il
castello dell'innominato. Introdotto, gli presentò un gruppo e una lettera di
quel signore, la quale lo pregava di far accettare alla madre di Lucia cento
scudi d'oro ch'eran nel gruppo, per servir di dote alla giovine, o per quell'uso
che ad esse sarebbe parso migliore; lo pregava insieme di dir loro, che, se mai,
in qualunque tempo, avessero creduto che potesse render loro qualche servizio,
la povera giovine sapeva pur troppo dove stesse; e per lui, quella sarebbe una
delle fortune più desiderate. Il cardinale fece subito chiamare Agnese, le
riferì la commissione, che fu sentita con altrettanta soddisfazione che
maraviglia; e le presentò il rotolo, ch'essa prese, senza far gran complimenti.
- Dio gliene renda merito, a quel signore, - disse: - e vossignoria
illustrissima lo ringrazi tanto tanto. E non dica nulla a nessuno, perché
questo è un certo paese... Mi scusi, veda; so bene che un par suo non va a
chiacchierare di queste cose; ma... lei m'intende.
Andò a casa, zitta, zitta; si chiuse in camera, svoltò il rotolo, e
quantunque preparata, vide con ammirazione, tutti in un mucchietto e suoi, tanti
di que' ruspi, de' quali non aveva forse mai visto più d'uno per volta, e anche
di rado; li contò, penò alquanto a metterli di nuovo per taglio, e a tenerli
lì tutti, ché ogni momento facevan pancia, e sgusciavano dalle sue dita
inesperte; ricomposto finalmente un rotolo alla meglio, lo mise in un cencio, ne
fece un involto, un batuffoletto, e legatolo bene in giro con della cordellina,
l'andò a ficcare in un cantuccio del suo saccone. Il resto di quel giorno, non
fece altro che mulinare, far disegni sull'avvenire, e sospirar l'indomani.
Andata a letto, stette desta un pezzo, col pensiero in compagnia di que' cento
che aveva sotto: addormentata, li vide in sogno. All'alba, s'alzò e
s'incamminò subito verso la villa, dov'era Lucia.
Questa, dal canto suo, quantunque non le fosse diminuita quella gran
ripugnanza a parlar del voto, pure era risoluta di farsi forza, e d'aprirsene
con la madre in quell'abboccamento, che per lungo tempo doveva chiamarsi
l'ultimo.
Appena poterono esser sole, Agnese, con una faccia tutta animata, e insieme a
voce bassa, come se ci fosse stato presente qualcheduno a cui non volesse farsi
sentire, cominciò: - ho da dirti una gran cosa; - e le raccontò l'inaspettata
fortuna.
- Iddio lo benedica, quel signore, - disse Lucia: - così avrete da star bene
voi, e potrete anche far del bene a qualchedun altro.
- Come? - rispose Agnese: - non vedi quante cose possiamo fare, con tanti
danari? Senti; io non ho altro che te, che voi due, posso dire; perché Renzo,
da che cominciò a discorrerti, l'ho sempre riguardato come un mio figliuolo.
Tutto sta che non gli sia accaduta qualche disgrazia, a vedere che non ha mai
fatto saper nulla: ma eh! deve andar tutto male? Speriamo di no, speriamo. Per
me, avrei avuto caro di lasciar l'ossa nel mio paese; ma ora che tu non ci puoi
stare, in grazia di quel birbone, e anche solamente a pensare d'averlo vicino
colui, m'è venuto in odio il mio paese: e con voi altri io sto per tutto. Ero
disposta, fin d'allora, a venir con voi altri, anche in capo al mondo; e son
sempre stata di quel parere; ma senza danari come si fa? Intendi ora? Que'
quattro, che quel poverino aveva messi da parte, con tanto stento e con tanto
risparmio, è venuta la giustizia, e ha spazzato ogni cosa; ma, per ricompensa,
il Signore ha mandato la fortuna a noi. Dunque, quando avrà trovato il bandolo
di far sapere se è vivo, e dov'è, e che intenzioni ha, ti vengo a prender io a
Milano; io ti vengo a prendere. Altre volte mi sarebbe parso un gran che; ma le
disgrazie fanno diventar disinvolti; fino a Monza ci sono andata, e so cos'è
viaggiare. Prendo con me un uomo di proposito, un parente, come sarebbe a dire
Alessio di Maggianico: ché, a voler dir proprio in paese, un uomo di proposito
non c'è: vengo con lui: già la spesa la facciamo noi, e... intendi?
Ma vedendo che, in vece d'animarsi, Lucia s'andava accorando, e non
dimostrava che una tenerezza senz'allegria, lasciò il discorso a mezzo, e
disse: - ma cos'hai? non ti pare?
- Povera mamma! - esclamò Lucia, gettandole un braccio al collo, e
nascondendo il viso nel seno di lei.
- Cosa c'è? - domandò di nuovo ansiosamente la madre.
- Avrei dovuto dirvelo prima, - rispose Lucia, alzando il viso, e
asciugandosi le lacrime; - ma non ho mai avuto cuore: compatitemi.
- Ma dì su, dunque.
- Io non posso più esser moglie di quel poverino!
- Come? come?
Lucia, col capo basso, col petto ansante, lacrimando senza piangere, come chi
racconta una cosa che, quand'anche dispiacesse, non si può cambiare, rivelò il
voto; e insieme, giungendo le mani, chiese di nuovo perdono alla madre, di non
aver parlato fin allora; la pregò di non ridir la cosa ad anima vivente, e
d'aiutarla ad adempire ciò che aveva promesso.
Agnese era rimasta stupefatta e costernata. Voleva sdegnarsi del silenzio
tenuto con lei; ma i gravi pensieri del caso soffogavano quel dispiacere suo
proprio; voleva dirle: cos'hai fatto? ma le pareva che sarebbe un prendersela
col cielo: tanto più che Lucia tornava a dipinger co' più vivi colori quella
notte, la desolazione così nera, e la liberazione così impreveduta, tra le
quali la promessa era stata fatta, così espressa, così solenne. E intanto, ad
Agnese veniva anche in mente questo e quell'esempio, che aveva sentito raccontar
più volte, che lei stessa aveva raccontato alla figlia, di gastighi strani e
terribili, venuti per la violazione di qualche voto. Dopo esser rimasta un poco
come incantata, disse: - e ora cosa farai?
- Ora, - rispose Lucia, - tocca al Signore a pensarci; al Signore e alla
Madonna. Mi son messa nelle lor mani: non m'hanno abbandonata finora; non
m'abbandoneranno ora che... La grazia che chiedo per me al Signore, la sola
grazia, dopo la salvazion dell'anima, è che mi faccia tornar con voi: e me la
concederà, sì, me la concederà. Quel giorno... in quella carrozza... ah
Vergine santissima!... quegli uomini!... chi m'avrebbe detto che mi menavano da
colui che mi doveva menare a trovarmi con voi, il giorno dopo?
- Ma non parlarne subito a tua madre! - disse Agnese con una certa stizzetta
temperata d'amorevolezza e di pietà.
- Compatitemi; non avevo cuore... e che sarebbe giovato d'affliggervi qualche
tempo prima?
- E Renzo? - disse Agnese, tentennando il capo. `
- Ah! - esclamò Lucia, riscotendosi, - io non ci devo pensar più a quel
poverino. Già si vede che non era destinato... Vedete come pare che il Signore
ci abbia voluti proprio tener separati. E chi sa...? ma no, no: l'avrà
preservato Lui da' pericoli, e lo farà esser fortunato anche di più, senza di
me.
- Ma intanto, - riprese la madre, - se non fosse che tu ti sei legata per
sempre, a tutto il resto, quando a Renzo non gli sia accaduta qualche disgrazia,
con que' danari io ci avevo trovato rimedio.
- Ma que' danari, - replicò Lucia, - ci sarebbero venuti, s'io non avessi
passata quella notte? È il Signore che ha voluto che tutto andasse così: sia
fatta la sua volontà -. E la parola morì nel pianto.
A quell'argomento inaspettato, Agnese rimase lì pensierosa. Dopo qualche
momento, Lucia, rattenendo i singhiozzi, riprese: - ora che la cosa è fatta,
bisogna adattarsi di buon animo; e voi, povera mamma, voi mi potete aiutare,
prima, pregando il Signore per la vostra povera figlia, e poi... bisogna bene
che quel poverino lo sappia. Pensateci voi, fatemi anche questa carità; ché
voi ci potete pensare. Quando saprete dov'è, fategli scrivere, trovate un
uomo... appunto vostro cugino Alessio, che è un uomo prudente e caritatevole, e
ci ha sempre voluto bene, e non ciarlerà: fategli scriver da lui la cosa com'è
andata, dove mi son trovata, come ho patito, e che Dio ha voluto così, e che
metta il cuore in pace, e ch'io non posso mai mai esser di nessuno. E fargli
capir la cosa con buona grazia, spiegargli che ho promesso, che ho proprio fatto
voto. Quando saprà che ho promesso alla Madonna... ha sempre avuto il timor di
Dio. E voi, la prima volta che avrete le sue nuove, fatemi scrivere, fatemi
saper che è sano; e poi... non mi fate più saper nulla.
Agnese, tutta intenerita, assicurò la figlia che ogni cosa si farebbe come
desiderava.
- Vorrei dirvi un'altra cosa, - riprese questa: - quel poverino, se non
avesse avuto la disgrazia di pensare a me, non gli sarebbe accaduto ciò che gli
è accaduto. È per il mondo; gli hanno troncato il suo avviamento, gli hanno
portato via la sua roba, que' risparmi che aveva fatti, poverino, sapete
perché... E noi abbiamo tanti danari! Oh mamma! giacché il Signore ci ha
mandato tanto bene, e quel poverino, è proprio vero che lo riguardavate come
vostro... sì, come un figliuolo, oh! fate mezzo per uno; ché, sicuro, Iddio
non ci mancherà. Cercate un'occasione fidata, e mandateglieli, ché sa il cielo
come n'ha bisogno!
- Ebbene, cosa credi? - rispose Agnese: - glieli manderò davvero. Povero
giovine! Perché pensi tu ch'io fossi così contenta di que' danari? Ma...! io
era proprio venuta qui tutta contenta. Basta, io glieli manderò, povero Renzo!
ma anche lui... so quel che dico; certo che i danari fanno piacere a chi n'ha
bisogno; ma questi non saranno quelli che lo faranno ingrassare.
Lucia ringraziò la madre di quella pronta e liberale condiscendenza, con una
gratitudine, con un affetto, da far capire a chi l'avesse osservata, che il suo
cuore faceva ancora a mezzo con Renzo, forse più che lei medesima non lo
credesse.
- E senza di te, che farò io povera donna? - disse Agnese, piangendo
anch'essa.
- E io senza di voi, povera mamma? e in casa di forestieri? e laggiù in quel
Milano...! Ma il Signore sarà con tutt'e due; e poi ci farà tornare insieme.
Tra otto o nove mesi ci rivedremo; e di qui allora, e anche prima, spero, avrà
accomodate le cose Lui, per riunirci. Lasciamo fare a Lui. La chiederò sempre
sempre alla Madonna questa grazia. Se avessi qualche altra cosa da offrirle, lo
farei; ma è tanto misericordiosa, che me l'otterrà per niente.
Con queste ed altre simili, e più volte ripetute parole di lamento e di
conforto, di rammarico e di rassegnazione, con molte raccomandazioni e promesse
di non dir nulla, con molte lacrime, dopo lunghi e rinnovati abbracciamenti, le
donne si separarono, promettendosi a vicenda di rivedersi il prossimo autunno,
al più tardi; come se il mantenere dipendesse da loro, e come però si fa
sempre in casi simili.
Intanto cominciò a passar molto tempo senza che Agnese potesse saper nulla
di Renzo. Né lettere né imbasciate da parte di lui, non ne veniva: di tutti
quelli del paese, o del contorno, a cui poté domandare, nessuno ne sapeva più
di lei.
E non era la sola che facesse invano una tal ricerca: il cardinal Federigo,
che non aveva detto per cerimonia alle povere donne, di voler prendere
informazioni del povero giovine, aveva infatti scritto subito per averne.
Tornato poi dalla visita a Milano, aveva ricevuto la risposta in cui gli si
diceva che non s'era potuto trovar recapito dell'indicato soggetto; che
veramente era stato qualche tempo in casa d'un suo parente, nel tal paese, dove
non aveva fatto dir di sé; ma, una mattina, era scomparso all'improvviso, e
quel suo parente stesso non sapeva cosa ne fosse stato, e non poteva che
ripetere certe voci in aria e contraddittorie che correvano, essersi il giovine
arrolato per il Levante, esser passato in Germania, perito nel guadare un fiume:
che non si mancherebbe di stare alle velette, se mai si potesse saper qualcosa
di più positivo, per farne subito parte a sua signoria illustrissima e
reverendissima.
Più tardi, quelle ed altre voci si sparsero anche nel territorio di Lecco, e
vennero per conseguenza agli orecchi d'Agnese. La povera donna faceva di tutto
per venire in chiaro qual fosse la vera, per arrivare alla fonte di questa e di
quella, ma non riusciva mai a trovar di più di quel dicono, che, anche
al giorno d'oggi, basta da sé ad attestar tante cose. Talora, appena glien'era
stata raccontata una, veniva uno e le diceva che non era vero nulla; ma per
dargliene in cambio un'altra, ugualmente strana o sinistra. Tutte ciarle: ecco
il fatto.
Il governatore di Milano e capitano generale in Italia, don Gonzalo Fernandez
di Cordova, aveva fatto un gran fracasso col signor residente di Venezia in
Milano, perché un malandrino, un ladrone pubblico, un promotore di saccheggio e
d'omicidio, il famoso Lorenzo Tramaglino, che, nelle mani stesse della
giustizia, aveva eccitato sommossa per farsi liberare, fosse accolto e ricettato
nel territorio bergamasco. Il residente avea risposto che la cosa gli riusciva
nuova, e che scriverebbe a Venezia, per poter dare a sua eccellenza quella
spiegazione che il caso avesse portato.
A Venezia avevan per massima di secondare e di coltivare l'inclinazione degli
operai di seta milanesi a trasportarsi nel territorio bergamasco, e quindi di
far che ci trovassero molti vantaggi e, soprattutto quello senza di cui ogni
altro è nulla, la sicurezza. Siccome però, tra due grossi litiganti, qualche
cosa, per poco che sia, bisogna sempre che il terzo goda; così Bortolo fu
avvisato in confidenza, non si sa da chi, che Renzo non istava bene in quel
paese, e che farebbe meglio a entrare in qualche altra fabbrica, cambiando anche
nome per qualche tempo. Bortolo intese per aria, non domandò altro, corse a dir
la cosa al cugino, lo prese con sé in un calessino, lo condusse a un altro
filatoio, discosto da quello forse quindici miglia, e lo presentò, sotto il
nome d'Antonio Rivolta, al padrone, ch'era nativo anche lui dello stato di
Milano, e suo antico conoscente. Questo, quantunque l'annata fosse scarsa, non
si fece pregare a ricevere un operaio che gli era raccomandato come onesto e
abile, da un galantuomo che se n'intendeva. Alla prova poi, non ebbe che a
lodarsi dell'acquisto; meno che, sul principio, gli era parso che il giovine
dovesse essere un po' stordito, perché, quando si chiamava: Antonio! le più
volte non rispondeva.
Poco dopo, venne un ordine da Venezia, in istile pacato, al capitano di
Bergamo, che prendesse e desse informazione, se nella sua giurisdizione, e
segnatamente nel tal paese, si trovasse il tal soggetto. Il capitano, fatte le
sue diligenze, come aveva capito che si volevano, trasmise la risposta negativa,
la quale fu trasmessa al residente in Milano, che la trasmettesse al gran
cancelliere che potrebbe trasmetterla a don Gonzalo Fernandez di Cordova.
Non mancavan poi curiosi, che volessero saper da Bortolo il perché quel
giovine non c'era più, e dove fosse andato. Alla prima domanda Bortolo
rispondeva: - ma! è scomparso -. Per mandar poi in pace i più insistenti,
senza dar loro sospetto di quel che n'era davvero, aveva creduto bene di regalar
loro, a chi l'una, a chi l'altra delle notizie da noi riferite di sopra: però,
come cose incerte, che aveva sentite dire anche lui, senza averne un riscontro
positivo.
Ma quando la domanda gli venne fatta per commission del cardinale, senza
nominarlo, e con un certo apparato d'importanza e di mistero, lasciando capire
ch'era in nome d'un gran personaggio, tanto più Bortolo s'insospettì, e credé
necessario di risponder secondo il solito; anzi, trattandosi d'un gran
personaggio, diede in una volta tutte le notizie che aveva stampate a una a una,
in quelle diverse occorrenze.
Non si creda però che don Gonzalo, un signore di quella sorte, l'avesse
proprio davvero col povero filatore di montagna; che informato forse del poco
rispetto usato, e delle cattive parole dette da colui al suo re moro incatenato
per la gola, volesse fargliela pagare; o che lo credesse un soggetto tanto
pericoloso, da perseguitarlo anche fuggitivo, da non lasciarlo vivere anche
lontano, come il senato romano con Annibale. Don Gonzalo aveva troppe e troppo
gran cose in testa, per darsi tanto pensiero de' fatti di Renzo; e se parve che
se ne desse, nacque da un concorso singolare di circostanze, per cui il
poveraccio, senza volerlo, e senza saperlo né allora né mai, si trovò, con un
sottilissimo e invisibile filo, attaccato a quelle troppe e troppo gran cose.
CAPITOLO XXVII
Già più d'una volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora
bolliva, per la successione agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di
quel nome; ma c'è occorso sempre in momenti di gran fretta: sicché non abbiam
mai potuto darne più che un cenno alla sfuggita. Ora però, all'intelligenza
del nostro racconto si richiede proprio d'averne qualche notizia più
particolare. Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma siccome, per
un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest'opera non possa
esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto
basti per infarinarne chi n'avesse bisogno.
Abbiam detto che, alla morte di quel duca, il primo chiamato in linea di
successione, Carlo Gonzaga, capo d'un ramo cadetto trapiantato in Francia, dove
possedeva i ducati di Nevers e di Rhetel, era entrato al possesso di Mantova; e
ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l'aveva fatto lasciar
nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche
questo) escludere da que' due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva
bisogno d'una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero
ingiuste), s'era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su
Mantova un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo
Emanuele I, duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena. Don
Gonzalo, ch'era della casa del gran capitano, e ne portava il nome, e che aveva
già fatto la guerra in Fiandra, voglioso oltremodo di condurne una in Italia,
era forse quello che faceva più fuoco, perché questa si dichiarasse; e
intanto, interpretando l'intenzioni e precorrendo gli ordini della corte
suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d'invasione e di
divisione del Monferrato; e n'aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal
conte duca, facendogli creder molto agevole l'acquisto di Casale, ch'era il
punto più difeso della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in
nome di questo, di non volere occupar paese, se non a titolo di deposito, fino
alla sentenza dell'imperatore; il quale, in parte per gli ufizi altrui, in parte
per suoi propri motivi, aveva intanto negata l'investitura al nuovo duca, e
intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati controversi: lui poi,
sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere. Cosa alla quale il
Nevers non s'era voluto piegare.
Aveva anche lui amici d'importanza: il cardinale di Richelieu, i signori
veneziani, e il papa, ch'era, come abbiam detto, Urbano VIII. Ma il primo,
impegnato allora nell'assedio della Roccella e in una guerra con l'Inghilterra,
attraversato dal partito della regina madre, Maria de' Medici, contraria, per
certi suoi motivi, alla casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I
veneziani non volevan moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito
francese non fosse calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come
potevano, con la corte di Madrid e col governatore di Milano stavano sulle
proteste, sulle proposte, sull'esortazioni, placide o minacciose, secondo i
momenti. Il papa raccomandava il Nevers agli amici, intercedeva in suo favore
presso gli avversari, faceva progetti d'accomodamento; di metter gente in campo
non ne voleva saper nulla.
Così i due alleati alle offese poterono, tanto più sicuramente, cominciar
l'impresa concertata. Il duca di Savoia era entrato, dalla sua parte, nel
Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia, l'assedio a Casale; ma non
ci trovava tutta quella soddisfazione che s'era immaginato: che non credeste che
nella guerra sia tutto rose. La corte non l'aiutava a seconda de' suoi
desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l'alleato l'aiutava
troppo: voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando
quella assegnata al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa
dire; ma temendo, se faceva appena un po' di rumore, che quel Carlo Emanuele,
così attivo ne' maneggi e mobile ne' trattati, come prode nell'armi, si
voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio, mandarla giù, e stare zitto.
L'assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto all'indietro, e per il contegno
saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui poca gente, e, al
dire di qualche storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo noi
lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente
così, a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell'impresa sia restato
morto, smozzicato, storpiato qualche uomo di meno, e, ceteris paribus,
anche soltanto un po' meno danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti
ricevette la nuova della sedizione di Milano, e ci accorse in persona.
Qui, nel ragguaglio che gli si diede, fu fatta anche menzione della fuga
ribelle e clamorosa di Renzo, de' fatti veri e supposti ch'erano stati cagione
del suo arresto; e gli si seppe anche dire che questo tale s'era rifugiato sul
territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l'attenzione di don Gonzalo.
Era informato da tutt'altra parte, che a Venezia avevano alzata la cresta, per
la sommossa di Milano; che da principio avevan creduto che sarebbe costretto a
levar l'assedio da Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito, e
in gran pensiero: tanto più che, subito dopo quell'avvenimento, era arrivata la
notizia, sospirata da que' signori e temuta da lui, della resa della Roccella. E
scottandogli molto, e come uomo e come politico, che que' signori avessero un
tal concetto de' fatti suoi, spiava ogni occasione di persuaderli, per via
d'induzione, che non aveva perso nulla dell'antica sicurezza; giacché il dire
espressamente: non ho paura, è come non dir nulla. Un buon mezzo è di fare il
disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò, essendo venuto il residente
di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme, nella sua faccia e
nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa è
politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto,
leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quel fracasso che
sapete a proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne in conseguenza.
Dopo, non s'occupò più d'un affare così minuto e, in quanto a lui, terminato;
e quando poi, che fu un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo sopra
Casale, dov'era tornato, e dove aveva tutt'altri pensieri, alzò e dimenò la
testa, come un baco da seta che cerchi la foglia; stette lì un momento, per
farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non ci rimaneva più che
un'ombra; si rammentò della cosa, ebbe un'idea fugace e confusa del
personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più.
Ma Renzo, il quale, da quel poco che gli s'era fatto veder per aria, doveva
supporre tutt'altro che una così benigna noncuranza, stette un pezzo senz'altro
pensiero o, per dir meglio, senz'altro studio, che di viver nascosto. Pensate se
si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d'aver le loro; ma c'eran due
gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un segretario,
perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso
della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor
Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si
dice; ma era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo
tempo: lo scritto è un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere un
terzo a parte de' suoi interessi, d'un segreto così geloso: e un uomo che
sapesse tener la penna in mano, e di cui uno si potesse fidare, a que' tempi non
si trovava così facilmente; tanto più in un paese dove non s'avesse nessuna
antica conoscenza. L'altra difficoltà era d'avere anche un corriere; un uomo
che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della lettera, e
darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a
trovarsi in un uomo solo.
Finalmente, cerca e ricerca, trovò chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se
le donne fossero ancora a Monza, o dove, credé bene di fare accluder la lettera
per Agnese in un'altra diretta al padre Cristoforo. Lo scrivano prese anche
l'incarico di far recapitare il plico; lo consegnò a uno che doveva passare non
lontano da Pescarenico; costui lo lasciò, con molte raccomandazioni, in
un'osteria sulla strada, al punto più vicino; trattandosi che il plico era
indirizzato a un convento, ci arrivò; ma cosa n'avvenisse dopo, non s'è mai
saputo. Renzo, non vedendo comparir risposta, fece stendere un'altra lettera, a
un di presso come la prima, e accluderla in un'altra a un suo amico di Lecco, o
parente che fosse. Si cercò un altro latore, si trovò; questa volta la lettera
arrivò a chi era diretta. Agnese trottò a Maggianico, se la fece leggere e
spiegare da quell'Alessio suo cugino: concertò con lui una risposta, che questo
mise in carta; si trovò il mezzo di mandarla ad Antonio Rivolta nel luogo del
suo domicilio: tutto questo però non così presto come noi lo raccontiamo.
Renzo ebbe la risposta, e fece riscrivere. In somma, s'avviò tra le due parti
un carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli,
continuato.
Ma per avere un'idea di quel carteggio, bisogna sapere un poco come andassero
allora tali cose, anzi come vadano; perché, in questo particolare, credo che ci
sia poco o nulla di cambiato.
Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si
rivolge a uno che conosca quell'arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli
della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco; l'informa,
con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella
stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte
frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate
fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri
dell'altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia
anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c'è
rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle
loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli andare un po' a
modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di dire
tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro: accade
anche a noi altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta
arriva alle mani del corrispondente, che anche lui non abbia pratica
dell'abbiccì, la porta a un altro dotto di quel calibro, il quale gliela legge
e gliela spiega. Nascono delle questioni sul modo d'intendere; perché
l'interessato, fondandosi sulla cognizione de' fatti antecedenti, pretende che
certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla pratica che ha della
composizione, pretende che ne vogliano dire un'altra. Finalmente bisogna che chi
non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della risposta: la
quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un'interpretazione
simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po' geloso;
se c'entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo,
caso mai che la lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c'è stata anche
l'intenzione positiva di non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la
corrispondenza duri, le parti finiscono a intendersi tra di loro come altre
volte due scolastici che da quattr'ore disputassero sull'entelechia: per non
prendere una similitudine da cose vive; che ci avesse poi a toccare qualche
scappellotto.
Ora, il caso de' nostri due corrispondenti era appunto quello che abbiam
detto. La prima lettera scritta in nome di Renzo conteneva molte materie. Da
principio, oltre un racconto della fuga, molto più conciso, ma anche più
arruffato di quello che avete letto, un ragguaglio delle sue circostanze
attuali; dal quale, tanto Agnese quanto il suo turcimanno furono ben lontani di
ricavare un costrutto chiaro e intero: avviso segreto, cambiamento di nome,
esser sicuro, ma dovere star nascosto; cose per sé non troppo famigliari a'
loro intelletti, e nella lettera dette anche un po' in cifra. C'era poi delle
domande affannose, appassionate, su' casi di Lucia, con de' cenni oscuri e
dolenti, intorno alle voci che n'erano arrivate fino a Renzo. C'erano finalmente
speranze incerte, e lontane, disegni lanciati nell'avvenire, e intanto promesse
e preghiere di mantener la fede data, di non perder la pazienza né il coraggio,
d'aspettar migliori circostanze.
Dopo un po' di tempo, Agnese trovò un mezzo fidato di far pervenire nelle
mani di Renzo una risposta, co' cinquanta scudi assegnatigli da Lucia. Al veder
tant'oro, Renzo non sapeva cosa si pensare; e con l'animo agitato da una
maraviglia e da una sospensione che non davan luogo a contentezza, corse in
cerca del segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d'un
così strano mistero.
Nella lettera, il segretario d'Agnese, dopo qualche lamento sulla poca
chiarezza della proposta, passava a descrivere, con chiarezza a un di presso
uguale, la tremenda storia di quella persona (così diceva); e qui rendeva
ragione de' cinquanta scudi; poi veniva a parlar del voto, ma per via di
perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e aperte, il consiglio di
mettere il cuore in pace, e di non pensarci più.
Renzo, poco mancò che non se la prendesse col lettore interprete: tremava,
inorridiva, s'infuriava, di quel che aveva capito, e di quel che non aveva
potuto capire. Tre o quattro volte si fece rileggere il terribile scritto, ora
parendogli d'intender meglio, ora divenendogli buio ciò che prima gli era parso
chiaro. E in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse subito
mano alla penna, e rispondesse. Dopo l'espressioni più forti che si possano
immaginare di pietà e di terrore per i casi di Lucia, - scrivete, - proseguiva
dettando, - che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò
mai; e che non son pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li
toccherò; che li ripongo, e li tengo in deposito, per la dote della giovine;
che già la giovine dev'esser mia; che io non so di promessa; e che ho ben
sempre sentito dire che la Madonna c'entra per aiutare i tribolati, e per
ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non l'ho
sentito mai; e che codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a
metter su casa qui; e che, se ora sono un po' imbrogliato, l'è una burrasca che
passerà presto -; e cose simili.
Agnese ricevé poi quella lettera, e fece riscrivere; e il carteggio
continuò, nella maniera che abbiam detto.
Lucia, quando la madre ebbe potuto, non so per qual mezzo, farle sapere che
quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì un gran sollievo, e non
desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per dir la cosa
proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento
volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoprava anche ogni
mezzo, per mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d'occuparsi
tutta in quello: quando l'immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a
cantare orazioni a mente. Ma quell'immagine, proprio come se avesse avuto
malizia, non veniva per lo più, così alla scoperta; s'introduceva di soppiatto
dietro all'altre, in modo che la mente non s'accorgesse d'averla ricevuta, se
non dopo qualche tempo che la c'era. Il pensiero di Lucia stava spesso con la
madre: come non ci sarebbe stato? e il Renzo ideale veniva pian piano a mettersi
in terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le persone, in
tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E se
la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire,
anche lì compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò.
Però, se il non pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno
intensamente che il cuore avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo
segno: ci sarebbe anche riuscita meglio, se fosse stata sola a volerlo. Ma c'era
donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal canto suo a levarle dall'animo
colui, non aveva trovato miglior espediente che di parlargliene spesso. -
Ebbene? - le diceva: - non ci pensiam più a colui?
- Io non penso a nessuno, - rispondeva Lucia.
Donna Prassede non s'appagava d'una risposta simile; replicava che ci volevan
fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul costume delle giovani, le quali,
diceva, - quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è lì che inclinano
sempre), non se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d'un
galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son
subito rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile -. E allora principiava
il panegirico del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e
scannare; e voleva far confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver
fatte, sicuramente anche al suo paese.
Lucia, con la voce tremante di vergogna, di dolore, e di quello sdegno che
poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella sua umile fortuna, assicurava e
attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai fatto parlar di sé,
altro che in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente qualcheduno di
là, per fargli far testimonianza. Anche sull'avventure di Milano, delle quali
non era ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui
e de' suoi portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di
difenderlo, per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la
parola con la quale spiegava a se stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da
queste apologie donna Prassede ricavava nuovi argomenti per convincer Lucia, che
il suo cuore era ancora perso dietro a colui. E per verità, in que' momenti,
non saprei ben dire come la cosa stesse. L'indegno ritratto che la vecchia
faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più viva e più distinta che
mai, nella mente della giovine l'idea che vi s'era formata in una così lunga
consuetudine; le rimembranze compresse a forza, si svolgevano in folla;
l'avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima; l'odio
cieco e violento faceva sorger più forte la pietà: e con questi affetti, chi
sa quanto ci potesse essere o non essere di quell'altro che dietro ad essi
s'introduce così facilmente negli animi; figuriamoci cosa farà in quelli,
donde si tratti di scacciarlo per forza. Sia come si sia, il discorso, per la
parte di Lucia, non sarebbe mai andato molto in lungo; ché le parole finivan
presto in pianto.
Se donna Prassede fosse stata spinta a trattarla in quella maniera da qualche
odio inveterato contro di lei, forse quelle lacrime l'avrebbero, tocca e fatta
smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti, senza lasciarsi smovere:
come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere l'arme d'un
nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatto però bene il suo dovere per quella
volta, dalle stoccate e da' rabbuffi veniva all'esortazioni, ai consigli,
conditi anche di qualche lode, per temperar così l'agro col dolce, e ottener
meglio l'effetto, operando sull'animo in tutti i versi. Certo, di quelle baruffe
(che avevan sempre a un di presso lo stesso principio, mezzo e fine), non
rimaneva alla buona Lucia propriamente astio contro l'acerba predicatrice, la
quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza; e anche in questo, si vedeva
una buona intenzione. Le rimaneva bensì un ribollimento, una sollevazione di
pensieri e d'affetti tale, che ci voleva molto tempo e molta fatica per tornare
a quella qualunque calma di prima.
Buon per lei, che non era la sola a cui donna Prassede avesse a far del bene;
sicché le baruffe non potevano esser così frequenti. Oltre il resto della
servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno, d'esser raddirizzati e
guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio, per buon
cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non
s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan
più da pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e
donna Prassede si trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui
soprintendere: impresa vasta e complicata, e tanto più faticosa, che due
mariti, spalleggiati da padri, da madri, da fratelli, e tre badesse,
fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano accettare la
sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili, fino a
un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione
continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere
le sue richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare.
Non parlo de' contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri
affari anche più estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più
volte, farlo per forza. Dove il suo zelo poteva esercitarsi liberamente, era in
casa: lì ogni persona era soggetta, in tutto e per tutto, alla sua autorità,
fuorché don Ferrante, col quale le cose andavano in un modo affatto
particolare.
Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né d'ubbidire. Che, in
tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la padrona, alla buon'ora; ma lui
servo, no. E se, pregato, le prestava a un'occorrenza l'ufizio della penna, era
perché ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo sapeva dir di no,
quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere. - La
s'ingegni, - diceva in que' casi; - faccia da sé, giacché la cosa le par tanto
chiara -. Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di
tirarlo dal lasciar fare al fare, s'era ristretta a brontolare spesso contro di
lui, a nominarlo uno schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato;
titolo nel quale, insieme con la stizza, c'entrava anche un po' di compiacenza.
Don Ferrante passava di grand'ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di
libri considerabile, poco meno di trecento volumi: tutta roba scelta, tutte
opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna delle quali era più o
meno versato. Nell'astrologia, era tenuto, e con ragione, per più che un
dilettante; perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel
vocabolario comune, d'influssi, d'aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a
proposito, e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de' circoli
massimi, de' gradi lucidi e tenebrosi, d'esaltazione e di deiezione, di transiti
e di rivoluzioni, de' princìpi in somma più certi e più reconditi della
scienza. Ed eran forse vent'anni che, in dispute frequenti e lunghe, sosteneva
la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato ferocemente a
quella dell'Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale,
riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire
quel non voler dar ragione a' moderni, anche dove l'hanno chiara che la vedrebbe
ognuno. Conosceva anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva
a un bisogno citare le più celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente
ed eruditamente sopra altre celebri predizioni andate a vòto, per dimostrar che
la colpa non era della scienza, ma di chi non l'aveva saputa adoprar bene.
Della filosofia antica aveva imparato quanto poteva bastare, e n'andava di
continuo imparando di più, dalla lettura di Diogene Laerzio. Siccome però que'
sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli tutti; e, a voler esser
filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva scelto
Aristotile, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno; è il
filosofo. Aveva anche varie opere de' più savi e sottili seguaci di lui, tra i
moderni: quelle de' suoi impugnatori non aveva mai voluto leggerle, per non
buttar via il tempo, diceva; né comprarle, per non buttar via i danari. Per
eccezione però, dava luogo nella sua libreria a que' celebri ventidue libri De
subtilitate, e a qualche altr'opera antiperipatetica del Cardano, in grazia
del suo valore in astrologia; dicendo che chi aveva potuto scrivere il trattato De
restitutione temporum et motuum coelestium, e il libro Duodecim
geniturarum, meritava d'essere ascoltato, anche quando spropositava; e che
il gran difetto di quell'uomo era stato d'aver troppo ingegno; e che nessuno si
può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato sempre
nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio de' dotti, don
Ferrante passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di
saperne abbastanza; e più d'una volta disse, con gran modestia, che l'essenza,
gli universali, l'anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto
chiare, quanto si potrebbe credere.
Della filosofia naturale s'era fatto più un passatempo che uno studio;
l'opere stesse d'Aristotile su questa materia, e quelle di Plinio le aveva
piuttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con le notizie
raccolte incidentemente da' trattati di filosofia generale, con qualche scorsa
data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium,
plantarum, del Cardano, al Trattato dell'erbe, delle piante, degli animali,
d'Alberto Magno, a qualche altr'opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere
una conversazione ragionando delle virtù più mirabili e delle curiosità più
singolari di molti semplici; descrivendo esattamente le forme e l'abitudini
delle sirene e dell'unica fenice; spiegando come la salamandra stia nel fuoco
senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia la forza e l'abilità di
fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave; come le gocciole
della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte si
cibi d'aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l'andar de' secoli, si
formi il cristallo; e altri de' più maravigliosi segreti della natura.
In quelli della magia e della stregoneria s'era internato di più,
trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto più in voga e più
necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e più a
mano, da poterli verificare. Non c'è bisogno di dire che, in un tale studio,
non aveva mai avuta altra mira che d'istruirsi e di conoscere a fondo le pessime
arti de' maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta
principalmente del gran Martino Delrio (l'uomo della scienza), era in grado di
discorrere ex professo del maleficio amatorio, del maleficio sonnifero,
del maleficio ostile, e dell'infinite specie che, pur troppo, dice ancora
l'anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre generi capitali di
malìe, con effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le
cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella
quale i suoi autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il
Guazzo, i più riputati in somma.
Ma cos'è mai la storia, diceva spesso don Ferrante, senza la politica? Una
guida che cammina, cammina, con nessuno dietro che impari la strada, e per
conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la storia è uno che
cammina senza guida. C'era dunque ne' suoi scaffali un palchetto assegnato agli
statisti; dove, tra molti di piccola mole, e di fama secondaria, spiccavano il
Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini. Due però erano i
libri che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia;
due che, fino a un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi
risolvere a qual de' due convenisse unicamente quel grado: l'uno, il Principe
e i Discorsi del celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don
Ferrante, ma profondo: l'altro, la Ragion di Stato del non men celebre
Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto. Ma, poco prima del tempo
nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto fuori il libro che
terminò la questione del primato, passando avanti anche all'opere di que' due matadori,
diceva don Ferrante; il libro in cui si trovan racchiuse e come stillate tutte
le malizie, per poterle conoscere, e tutte le virtù, per poterle praticare;
quel libro piccino, ma tutto d'oro; in una parola, lo Statista Regnante
di don Valeriano Castiglione, di quell'uomo celeberrimo, di cui si può dire,
che i più gran letterati lo esaltavano a gara, e i più gran personaggi
facevano a rubarselo; di quell'uomo, che il papa Urbano VIII onorò, come è
noto, di magnifiche lodi; che il cardinal Borghese e il vicerè di Napoli, don
Pietro di Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo V,
l'altro le guerre del re cattolico in Italia, l'uno e l'altro invano; di
quell'uomo, che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del cardinal di
Richelieu, nominò suo istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia
conferì la stessa carica; in lode di cui, per tralasciare altre gloriose
testimonianze, la duchessa Cristina, figlia del cristianissimo re Enrico IV,
poté in un diploma, con molti altri titoli, annoverare "la certezza della
fama ch'egli ottiene in Italia, di primo scrittore de' nostri tempi".
Ma se, in tutte le scienze suddette, don Ferrante poteva dirsi addottrinato,
una ce n'era in cui meritava e godeva il titolo di professore: la scienza
cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato frequentemente
d'intervenire in affari d'onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella sua
libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal
materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il Muzio, il Romei,
l'Albergato, il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva
anche in pronto, e a un bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi così
della Gerusalemme Liberata, come della Conquistata, che possono far testo in
materia di cavalleria. L'autore però degli autori, nel suo concetto, era il
nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più d'una volta, a
dar giudizio sopra casi d'onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don
Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner fuori i Discorsi
Cavallereschi di quell'insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza
esitazione, che quest'opera avrebbe rovinata l'autorità dell'Olevano, e sarebbe
rimasta, insieme con l'altre sue nobili sorelle, come codice di primaria
autorità presso ai posteri: profezia, dice l'anonimo, che ognun può vedere
come si sia avverata.
Da questo passa poi alle lettere amene; ma noi cominciamo a dubitare se
veramente il lettore abbia una gran voglia d'andar avanti con lui in questa
rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di copiator servile
per noi, e quello di seccatore da dividersi con l'anonimo sullodato, per averlo
bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella
quale probabilmente non s'è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far
vedere che non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è
scritto, per non perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per
rimetterci in istrada: tanto più che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere,
senza incontrare alcun de' nostri personaggi, e uno più lungo ancora, prima di
trovar quelli ai fatti de' quali certamente il lettore s'interessa di più, se a
qualche cosa s'interessa in tutto questo.
Fino all'autunno del seguente anno 1629, rimasero tutti, chi per volontà,
chi per forza, nello stato a un di presso in cui gli abbiam lasciati, senza che
ad alcuno accadesse, né che alcun altro potesse far cosa degna d'esser
riferita. Venne l'autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di
ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto
all'aria: e fu questo certamente uno de' suoi più piccoli effetti. Seguiron poi
altri grandi avvenimenti, che pero non portarono nessun cambiamento notabile
nella sorte de' nostri personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più
forti, più estremi, arrivarono anche fino a loro, fino agli infimi di loro,
secondo la scala del mondo: come un turbine vasto, incalzante, vagabondo,
scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo campanili,
abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli
nascosti tra l'erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che
un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina.
Ora, perché i fatti privati che ci rimangon da raccontare, riescan chiari,
dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla meglio di quei pubblici,
prendendola anche un po' da lontano.
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