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CAPITOLO XXXII
Divenendo sempre più difficile il supplire all'esigenze dolorose della
circostanza, era stato, il 4 di maggio, deciso nel consiglio de' decurioni, di
ricorrer per aiuto al governatore. E, il 22, furono spediti al campo due di quel
corpo, che gli rappresentassero i guai e le strettezze della città: le spese
enormi, le casse vote, le rendite degli anni avvenire impegnate, le imposte
correnti non pagate, per la miseria generale, prodotta da tante cause, e dal
guasto militare in ispecie; gli mettessero in considerazione che, per leggi e
consuetudini non interrotte, e per decreto speciale di Carlo V, le spese della
peste dovevan essere a carico del fisco: in quella del 1576 avere il
governatore, marchese d'Ayamonte, non solo sospese tutte le imposizioni
camerali, ma data alla città una sovvenzione di quaranta mila scudi della
stessa Camera; chiedessero finalmente quattro cose: che l'imposizioni fossero
sospese, come s'era fatto allora; la Camera desse danari; il governatore
informasse il re, delle miserie della città e della provincia; dispensasse da
nuovi alloggiamenti militari il paese già rovinato dai passati. Il governatore
scrisse in risposta condoglianze, e nuove esortazioni: dispiacergli di non poter
trovarsi nella città, per impiegare ogni sua cura in sollievo di quella; ma
sperare che a tutto avrebbe supplito lo zelo di que' signori: questo essere il
tempo di spendere senza risparmio, d'ingegnarsi in ogni maniera. In quanto alle
richieste espresse, proueeré en el mejor modo que el tiempo y necesidades
presentes permitieren. E sotto, un girigogolo, che voleva dire Ambrogio
Spinola, chiaro come le sue promesse. Il gran cancelliere Ferrer gli scrisse che
quella risposta era stata letta dai decurioni, con gran desconsuelo; ci
furono altre andate e venute, domande e risposte; ma non trovo che se ne venisse
a più strette conclusioni. Qualche tempo dopo, nel colmo della peste, il
governatore trasferì, con lettere patenti, la sua autorità a Ferrer medesimo,
avendo lui, come scrisse, da pensare alla guerra. La quale, sia detto qui
incidentemente, dopo aver portato via, senza parlar de' soldati, un milion di
persone, a dir poco, per mezzo del contagio, tra la Lombardia, il Veneziano, il
Piemonte, la Toscana, e una parte della Romagna; dopo aver desolati, come s'è
visto di sopra, i luoghi per cui passò, e figuratevi quelli dove fu fatta; dopo
la presa e il sacco atroce di Mantova; finì con riconoscerne tutti il nuovo
duca, per escludere il quale la guerra era stata intrapresa. Bisogna però dire
che fu obbligato a cedere al duca di Savoia un pezzo del Monferrato, della
rendita di quindici mila scudi, e a Ferrante duca di Guastalla altre terre,
della rendita di sei mila; e che ci fu un altro trattato a parte e segretissimo,
col quale il duca di Savoia suddetto cedé Pinerolo alla Francia: trattato
eseguito qualche tempo dopo, sott'altri pretesti, e a furia di furberie.
Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un'altra: di
chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne,
portando per la città il corpo di san Carlo.
Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in
un mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come
pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo (Memoria delle cose notabili
successe in Milano intorno al mal contaggioso l'anno 1630, ec. raccolte da D.
Pio la Croce, Milano, 1730. Č tratta evidentemente da scritto inedito d'autore
vissuto al tempo della pestilenza: se pure non è una semplice edizione,
piuttosto che una nuova compilazione.). Temeva di più, che, se pur c'era di
questi untori, la processione fosse un'occasion troppo comoda al delitto: se
non ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il
contagio: pericolo ben più reale (Si unguenta scelerata et unctores in
urbe essent... Si non essent... Certiusque adeo malum. Ripamonti, pag 185.).
Ché il sospetto sopito dell'unzioni s'era intanto ridestato, più generale e
più furioso di prima.
S'era visto di nuovo, o questa volta era parso di vedere, unte muraglie,
porte d'edifizi pubblici, usci di case, martelli. Le nuove di tali scoperte
volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son
preoccupati, il sentire faceva l'effetto del vedere. Gli animi, sempre più
amareggiati dalla presenza de' mali, irritati dall'insistenza del pericolo,
abbracciavano più volentieri quella credenza: ché la collera aspira a punire:
e, come osservò acutamente, a questo stesso proposito, un uomo d'ingegno (P.
Verri, Osservazioni sulla tortura: Scrittori italiani d'economia politica: parte
moderna, tom. 17, pag. 203.), le piace più d'attribuire i mali a una
perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da
una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi. Un veleno
squisito, istantaneo, penetrantissimo, eran parole più che bastanti a spiegar
la violenza, e tutti gli accidenti più oscuri e disordinati del morbo. Si
diceva composto, quel veleno, di rospi, di serpenti, di bava e di materia
d'appestati, di peggio, di tutto ciò che selvagge e stravolte fantasie
sapessero trovar di sozzo e d'atroce. Vi s'aggiunsero poi le malìe, per le
quali ogni effetto diveniva possibile, ogni obiezione perdeva la forza, si
scioglieva ogni difficoltà. Se gli effetti non s'eran veduti subito dopo quella
prima unzione, se ne capiva il perché; era stato un tentativo sbagliato di
venefici ancor novizi: ora l'arte era perfezionata, e le volontà più accanite
nell'infernale proposito. Ormai chi avesse sostenuto ancora ch'era stata una
burla, chi avesse negata l'esistenza d'una trama, passava per cieco, per
ostinato; se pur non cadeva in sospetto d'uomo interessato a stornar dal vero
l'attenzion del pubblico, di complice, d'untore: il vocabolo fu ben presto
comune, solenne, tremendo. Con una tal persuasione che ci fossero untori, se ne
doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all'erta; ogni
atto poteva dar gelosia. E la gelosia diveniva facilmente certezza, la certezza
furore.
Due fatti ne adduce in prova il Ripamonti, avvertendo d'averli scelti, non
come i più atroci tra quelli che seguivano giornalmente, ma perché dell'uno e
dell'altro era stato pur troppo testimonio.
Nella chiesa di sant'Antonio, un giorno di non so quale solennità, un
vecchio più che ottuagenario, dopo aver pregato alquanto inginocchioni, volle
mettersi a sedere; e prima, con la cappa, spolverò la panca. - Quel vecchio
unge le panche! - gridarono a una voce alcune donne che vider l'atto. La gente
che si trovava in chiesa (in chiesa!), fu addosso al vecchio; lo prendon per i
capelli, bianchi com'erano; lo carican di pugni e di calci; parte lo tirano,
parte lo spingon fuori; se non lo finirono, fu per istrascinarlo, così
semivivo, alla prigione, ai giudici, alle torture. "Io lo vidi mentre lo
strascinavan così, - dice il Ripamonti: - e non ne seppi più altro: credo bene
che non abbia potuto sopravvivere più di qualche momento".
L'altro caso (e seguì il giorno dopo) fu ugualmente strano, ma non
ugualmente funesto. Tre giovani compagni francesi, un letterato, un pittore, un
meccanico, venuti per veder l'Italia, per istudiarvi le antichità, e per
cercarvi occasion di guadagno, s'erano accostati a non so qual parte esterna del
duomo, e stavan lì guardando attentamente. Uno che passava, li vede e si ferma;
gli accenna a un altro, ad altri che arrivano: si formò un crocchio, a
guardare, a tener d'occhio coloro, che il vestiario, la capigliatura, le
bisacce, accusavano di stranieri e, quel ch'era peggio, di francesi. Come per
accertarsi ch'era marmo, stesero essi la mano a toccare. Bastò. Furono
circondati, afferrati, malmenati, spinti, a furia di percosse, alle carceri. Per
buona sorte, il palazzo di giustizia è poco lontano dal duomo; e, per una sorte
ancor più felice, furon trovati innocenti, e rilasciati.
Né tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s'era propagata come
il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de' contadini, fuor della
strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si
buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di
strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi
si fosse, al grido d'un ragazzo, si sonava a martello, s'accorreva; gl'infelici
eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in
prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era
un porto di salvamento.
Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan
replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente.
Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello
che poté il senno d'un uomo, contro la forza de' tempi, e l'insistenza di
molti. In quello stato d'opinioni, con l'idea del pericolo, confusa com'era
allora, contrastata, ben lontana dall'evidenza che ci si trova ora, non è
difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente,
esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o
non avesse parte un po' di debolezza della volontà, sono misteri del cuore
umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l'errore
all'intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que' pochi (e
questo fu ben del numero), nella vita intera de' quali apparisca un ubbidir
risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere.
Al replicar dell'istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la
processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la
cassa dov'eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per
otto giorni, sull'altar maggiore del duomo.
Non trovo che il tribunale della sanità, né altri, facessero rimostranza
né opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune
precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse
più strette regole per l'entrata delle persone in città; e, per assicurarne
l'esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d'escludere, per
quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar
gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto
di questa sorte, la semplice affermazione d'uno scrittore, e d'uno scrittore di
quel tempo, eran circa cinquecento (Alleggiamento dello Stato di Milano etc. di
C. G. Cavatio della Somaglia. Milano, 1653, pag. 482.).
Tre giorni furono spesi in preparativi: l'undici di giugno, ch'era il giorno
stabilito, la processione uscì, sull'alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga
schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d'ampi zendali, molte
scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l'arti, precedute da' loro gonfaloni, le
confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero
secolare, ognuno con l'insegne del grado, e con una candela o un torcetto in
mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di
canti, sotto un ricco baldacchino, s'avanzava la cassa, portata da quattro
canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli
traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e
mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora
distinguere qualche vestigio dell'antico sembiante, quale lo rappresentano
l'immagini, quale alcuni si ricordavan d'averlo visto e onorato in vita. Dietro
la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo
questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità,
così ora anche di persona, veniva l'arcivescovo Federigo. Seguiva l'altra parte
del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili,
quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in
segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso;
tutti con torcetti. Finalmente una coda d'altro popolo misto.
Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le
suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da
de' vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra
i parati, c'eran de' rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni,
imprese; su' davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie,
rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati
guardavan la processione, e l'accompagnavano con le loro preci. L'altre strade,
mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l'orecchio al
ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti
sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio,
qualche cosa.
La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que'
crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne' borghi, e che
allora serbavano l'antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si
faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata
eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia
in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno.
Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa
fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver
troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della
città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne
vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze
mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme
tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti
fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che
gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno. Si
disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti
più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, né
appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di
persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all'occhio così
attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di
nessuna sorte, su' muri, né altrove; così si ricorse, per la spiegazion del
fatto, a quell'altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza
comune d'Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali,
sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero
attaccate agli strascichi de' vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero
erano quel giorno andati in giro scalzi. "Vide pertanto, - dice uno
scrittore contemporaneo (Agostino Lampugnano; La pestilenza seguita in Milano,
l'anno 1630. Milano 1634, pag. 44.), - l'istesso giorno della processione, la
pietà cozzar con l'empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con
l'acquisto". Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co' fantasmi
creati da sé.
Da quel giorno, la furia del contagio andò sempre crescendo: in poco tempo,
non ci fu quasi più casa che non fosse toccata: in poco tempo la popolazione
del lazzeretto, al dir del Somaglia citato di sopra, montò da duemila a dodici
mila: più tardi, al dir di quasi tutti, arrivò fino a sedici mila. Il 4 di
luglio, come trovo in un'altra lettera de' conservatori della sanità al
governatore, la mortalità giornaliera oltrepassava i cinquecento. Più innanzi,
e nel colmo, arrivò, secondo il calcolo più comune, a mille dugento, mille
cinquecento; e a più di tremila cinquecento, se vogliam credere al Tadino. Il
quale anche afferma che, "per le diligenze fatte", dopo la peste, si
trovò la popolazion di Milano ridotta a poco più di sessantaquattro mila
anime, e che prima passava le dugento cinquanta mila. Secondo il Ripamonti, era
di sole dugento mila: de' morti, dice che ne risultava cento quaranta mila da'
registri civici, oltre quelli di cui non si poté tener conto. Altri dicon più
o meno, ma ancor più a caso.
Si pensi ora in che angustie dovessero trovarsi i decurioni, addosso ai quali
era rimasto il peso di provvedere alle pubbliche necessità, di riparare a ciò
che c'era di riparabile in un tal disastro. Bisognava ogni giorno sostituire,
ogni giorno aumentare serventi pubblici di varie specie: monatti, apparitori,
commissari. I primi erano addetti ai servizi più penosi e pericolosi della
pestilenza: levar dalle case, dalle strade, dal lazzeretto, i cadaveri; condurli
sui carri alle fosse, e sotterrarli; portare o guidare al lazzeretto gl'infermi,
e governarli; bruciare, purgare la roba infetta e sospetta. Il nome, vuole il
Ripamonti che venga dal greco monos; Gaspare Bugatti (in una descrizion
della peste antecedente), dal latino monere; ma insieme dubita, con più
ragione, che sia parola tedesca, per esser quegli uomini arrolati la più parte
nella Svizzera e ne' Grigioni. Né sarebbe infatti assurdo il crederlo una
troncatura del vocabolo monathlich (mensuale); giacché, nell'incertezza
di quanto potesse durare il bisogno, è probabile che gli accordi non fossero
che di mese in mese. L'impiego speciale degli apparitori era di precedere i
carri, avvertendo, col suono d'un campanello, i passeggieri, che si ritirassero.
I commissari regolavano gli uni e gli altri, sotto gli ordini immediati del
tribunale della sanità. Bisognava tener fornito il lazzeretto di medici, di
chirurghi, di medicine, di vitto, di tutti gli attrezzi d'infermeria; bisognava
trovare e preparar nuovo alloggio per gli ammalati che sopraggiungevano ogni
giorno. Si fecero a quest'effetto costruire in fretta capanne di legno e di
paglia nello spazio interno del lazzeretto; se ne piantò un nuovo, tutto di
capanne, cinto da un semplice assito, e capace di contener quattromila persone.
E non bastando, ne furon decretati due altri; ci si mise anche mano; ma, per
mancanza di mezzi d'ogni genere, rimasero in tronco. I mezzi, le persone, il
coraggio, diminuivano di mano in mano che il bisogno cresceva.
E non solo l'esecuzione rimaneva sempre addietro de' progetti e degli ordini;
non solo, a molte necessità, pur troppo riconosciute, si provvedeva
scarsamente, anche in parole; s'arrivò a quest'eccesso d'impotenza e di
disperazione, che a molte, e delle più pietose, come delle più urgenti, non si
provvedeva in nessuna maniera. Moriva, per esempio, d'abbandono una gran
quantità di bambini, ai quali eran morte le madri di peste: la Sanità propose
che s'istituisse un ricovero per questi e per le partorienti bisognose, che
qualcosa si facesse per loro; e non poté ottener nulla. "Si doueua non di
meno, - dice il Tadino, - compatire ancora alli Decurioni della Città, li quali
si trouauano afflitti, mesti et lacerati dalla Soldatesca senza regola, et
rispetto alcuno; come molto meno nell'infelice Ducato, atteso che aggiutto
alcuno, né prouisione si poteua hauere dal Gouernatore, se non che si trouaua
tempo di guerra, et bisognaua trattar bene li Soldati" (Pag. 117.). Tanto
importava il prender Casale! Tanto par bella la lode del vincere,
indipendentemente dalla cagione, dallo scopo per cui si combatta!
Così pure, trovandosi colma di cadaveri un'ampia, ma unica fossa, ch'era
stata scavata vicino al lazzeretto; e rimanendo, non solo in quello, ma in ogni
parte della città, insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più, i
magistrati, dopo avere invano cercato braccia per il tristo lavoro, s'eran
ridotti a dire di non saper più che partito prendere. Né si vede come sarebbe
andata a finire, se non veniva un soccorso straordinario. Il presidente della
Sanità ricorse, per disperato, con le lacrime agli occhi, a que' due bravi
frati che soprintendevano al lazzeretto; e il padre Michele s'impegnò a dargli,
in capo a quattro giorni, sgombra la città di cadaveri; in capo a otto, aperte
fosse sufficienti, non solo al bisogno presente, ma a quello che si potesse
preveder di peggio nell'avvenire. Con un frate compagno, e con persone del
tribunale, dategli dal presidente, andò fuor della città, in cerca di
contadini; e, parte con l'autorità del tribunale, parte con quella dell'abito e
delle sue parole, ne raccolse circa dugento, ai quali fece scavar tre
grandissime fosse; spedì poi dal lazzeretto monatti a raccogliere i morti;
tanto che, il giorno prefisso, la sua promessa si trovò adempita.
Una volta, il lazzeretto rimase senza medici; e, con offerte di grosse paghe
e d'onori, a fatica e non subito, se ne poté avere; ma molto men del bisogno.
Fu spesso lì lì per mancare affatto di viveri, a segno di temere che ci
s'avesse a morire anche di fame; e più d'una volta, mentre non si sapeva più
dove batter la testa per trovare il bisognevole, vennero a tempo abbondanti
sussidi, per inaspettato dono di misericordia privata: ché, in mezzo allo
stordimento generale, all'indifferenza per gli altri, nata dal continuo temer
per sé, ci furono degli animi sempre desti alla carità, ce ne furon degli
altri in cui la carità nacque al cessare d'ogni allegrezza terrena; come, nella
strage e nella fuga di molti a cui toccava di soprintendere e di provvedere, ce
ne furono alcuni, sani sempre di corpo, e saldi di coraggio al loro posto: ci
furon pure altri che, spinti dalla pietà, assunsero e sostennero virtuosamente
le cure a cui non eran chiamati per impiego.
Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri
difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici. Ai lazzeretti, nella
città, non mancò mai la loro assistenza: dove si pativa, ce n'era; sempre si
videro mescolati, confusi co' languenti, co' moribondi, languenti e moribondi
qualche volta loro medesimi; ai soccorsi spirituali aggiungevano, per quanto
potessero, i temporali; prestavano ogni servizio che richiedessero le
circostanze. Più di sessanta parrochi, della città solamente, moriron di
contagio: gli otto noni, all'incirca.
Federigo dava a tutti, com'era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio.
Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza
parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s'allontanasse dal
pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette
all'istanze, con quell'animo, con cui scriveva ai parrochi: "siate
disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia,
questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un
premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un'anima a Cristo"
(Ripamonti, pag. 164.). Non trascurò quelle cautele che non gl'impedissero di
fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e
insieme non curò il pericolo, né parve che se n'avvedesse, quando, per far del
bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali
era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro
andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle
che fosse aperto l'adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i
lazzeretti, per dar consolazione agl'infermi, e per animare i serventi; scorreva
la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli
usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di
consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo della
pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d'esserne uscito illeso.
Così, ne' pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni di quel qual si
sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una sublimazione di virtù; ma,
pur troppo, non manca mai insieme un aumento, e d'ordinario ben più generale,
di perversità. E questo pure fu segnalato. I birboni che la peste risparmiava e
non atterriva, trovarono nella confusion comune, nel rilasciamento d'ogni forza
pubblica, una nuova occasione d'attività, e una nuova sicurezza d'impunità a
un tempo. Che anzi, l'uso della forza pubblica stessa venne a trovarsi in gran
parte nelle mani de' peggiori tra loro. All'impiego di monatti e d'apparitori
non s'adattavano generalmente che uomini sui quali l'attrattiva delle rapine e
della licenza potesse più che il terror del contagio, che ogni naturale
ribrezzo. Erano a costoro prescritte strettissime regole, intimate severissime
pene, assegnati posti, dati per superiori de' commissari, come abbiam detto;
sopra questi e quelli eran delegati in ogni quartiere, magistrati e nobili, con
l'autorità di provveder sommariamente a ogni occorrenza di buon governo. Un tal
ordin di cose camminò, e fece effetto, fino a un certo tempo; ma, crescendo,
ogni giorno, il numero di quelli che morivano, di quelli che andavan via, di
quelli che perdevan la testa, venner coloro a non aver quasi più nessuno che li
tenesse a freno; si fecero, i monatti principalmente, arbitri d'ogni cosa.
Entravano da padroni, da nemici nelle case, e, senza parlar de' rubamenti, e
come trattavano gl'infelici ridotti dalla peste a passar per tali mani, le
mettevano, quelle mani infette e scellerate, sui sani, figliuoli, parenti,
mogli, mariti, minacciando di strascinarli al lazzeretto, se non si
riscattavano, o non venivano riscattati con danari. Altre volte, mettevano a
prezzo i loro servizi, ricusando di portar via i cadaveri già putrefatti, a
meno di tanti scudi. Si disse (e tra la leggerezza degli uni e la malvagità
degli altri, è ugualmente malsicuro il credere e il non credere), si disse, e
l'afferma anche il Tadino (Pag. 102.), che monatti e apparitori lasciassero
cadere apposta dai carri robe infette, per propagare e mantenere la pestilenza,
divenuta per essi un'entrata, un regno, una festa. Altri sciagurati, fingendosi
monatti, portando un campanello attaccato a un piede, com'era prescritto a
quelli, per distintivo e per avviso del loro avvicinarsi, s'introducevano nelle
case a farne di tutte le sorte. In alcune, aperte e vote d'abitanti, o abitate
soltanto da qualche languente, da qualche moribondo, entravan ladri, a man
salva, a saccheggiare: altre venivan sorprese, invase da birri che facevan lo
stesso, e anche cose peggiori.
Del pari con la perversità, crebbe la pazzia: tutti gli errori già
dominanti più o meno, presero dallo sbalordimento, e dall'agitazione delle
menti, una forza straordinaria, produssero effetti più rapidi e più vasti. E
tutti servirono a rinforzare e a ingrandire quella paura speciale dell'unzioni,
la quale, ne' suoi effetti, ne' suoi sfoghi, era spesso, come abbiam veduto,
un'altra perversità. L'immagine di quel supposto pericolo assediava e
martirizzava gli animi, molto più che il pericolo reale e presente. "E
mentre, - dice il Ripamonti, - i cadaveri sparsi, o i mucchi di cadaveri, sempre
davanti agli occhi, sempre tra' piedi, facevano della città tutta come un solo
mortorio, c'era qualcosa di più brutto, di più funesto, in quell'accanimento
vicendevole, in quella sfrenatezza e mostruosità di sospetti... Non del vicino
soltanto si prendeva ombra, dell'amico, dell'ospite; ma que' nomi, que' vincoli
dell'umana carità, marito e moglie, padre e figlio, fratello e fratello, eran
di terrore: e, cosa orribile e indegna a dirsi! la mensa domestica, il letto
nuziale, si temevano, come agguati, come nascondigli di venefizio".
La vastità immaginata, la stranezza della trama turbavan tutti i giudizi,
alteravan tutte le ragioni della fiducia reciproca. Da principio, si credeva
soltanto che quei supposti untori fosser mossi dall'ambizione e dalla cupidigia;
andando avanti, si sognò, si credette che ci fosse una non so quale voluttà
diabolica in quell'ungere, un'attrattiva che dominasse le volontà. I
vaneggiamenti degl'infermi che accusavan se stessi di ciò che avevan temuto
dagli altri, parevano rivelazioni, e rendevano ogni cosa, per dir così,
credibile d'ognuno. E più delle parole, dovevan far colpo le dimostrazioni, se
accadeva che appestati in delirio andasser facendo di quegli atti che s'erano
figurati che dovessero fare gli untori: cosa insieme molto probabile, e atta a
dar miglior ragione della persuasion generale e dell'affermazioni di molti
scrittori. Così, nel lungo e tristo periodo de' processi per stregoneria, le
confessioni, non sempre estorte, degl'imputati, non serviron poco a promovere e
a mantener l'opinione che regnava intorno ad essa: ché, quando un'opinione
regna per lungo tempo, e in una buona parte del mondo, finisce a esprimersi in
tutte le maniere, a tentar tutte l'uscite, a scorrer per tutti i gradi della
persuasione; ed è difficile che tutti o moltissimi credano a lungo che una cosa
strana si faccia, senza che venga alcuno il quale creda di farla.
Tra le storie che quel delirio dell'unzioni fece immaginare, una merita che
se ne faccia menzione, per il credito che acquistò, e per il giro che fece. Si
raccontava, non da tutti nell'istessa maniera (che sarebbe un troppo singolar
privilegio delle favole), ma a un di presso, che un tale, il tal giorno, aveva
visto arrivar sulla piazza del duomo un tiro a sei, e dentro, con altri, un gran
personaggio, con una faccia fosca e infocata, con gli occhi accesi, coi capelli
ritti, e il labbro atteggiato di minaccia. Mentre quel tale stava intento a
guardare, la carrozza s'era fermata; e il cocchiere l'aveva invitato a salirvi;
e lui non aveva saputo dir di no. Dopo diversi rigiri, erano smontati alla porta
d'un tal palazzo, dove entrato anche lui, con la compagnia, aveva trovato
amenità e orrori, deserti e giardini, caverne e sale; e in esse, fantasime
sedute a consiglio. Finalmente, gli erano state fatte vedere gran casse di
danaro, e detto che ne prendesse quanto gli fosse piaciuto, con questo però,
che accettasse un vasetto d'unguento, e andasse con esso ungendo per la città.
Ma, non avendo voluto acconsentire, s'era trovato, in un batter d'occhio, nel
medesimo luogo dove era stato preso. Questa storia, creduta qui generalmente dal
popolo, e, al dir del Ripamonti, non abbastanza derisa da qualche uomo di peso
(Apud prudentium plerosque, non sicuti debuerat irrisa. De Peste etc., pag.
77.), girò per tutta Italia e fuori. In Germania se ne fece una stampa:
l'elettore arcivescovo di Magonza scrisse al cardinal Federigo, per domandargli
cosa si dovesse credere de' fatti maravigliosi che si raccontavan di Milano; e
n'ebbe in risposta ch'eran sogni.
D'ugual valore, se non in tutto d'ugual natura, erano i sogni de' dotti; come
disastrosi del pari n'eran gli effetti. Vedevano, la più parte di loro,
l'annunzio e la ragione insieme de' guai in una cometa apparsa l'anno 1628, e in
una congiunzione di Saturno con Giove, "inclinando, - scrive il Tadino, -
la congiontione sodetta sopra questo anno 1630, tanto chiara, che ciascun la
poteua intendere. Mortales parat morbos, miranda videntur". Questa
predizione, cavata, dicevano, da un libro intitolato Specchio degli
almanacchi perfetti, stampato in Torino, nel 1623, correva per le bocche di
tutti. Un'altra cometa, apparsa nel giugno dell'anno stesso della peste, si
prese per un nuovo avviso; anzi per una prova manifesta dell'unzioni. Pescavan
ne' libri, e pur troppo ne trovavano in quantità, esempi di peste, come
dicevano, manufatta: citavano Livio, Tacito, Dione, che dico? Omero e Ovidio, i
molti altri antichi che hanno raccontati o accennati fatti somiglianti: di
moderni ne avevano ancor più in abbondanza. Citavano cent'altri autori che
hanno trattato dottrinalmente, o parlato incidentemente di veleni, di malìe,
d'unti, di polveri: il Cesalpino, il Cardano, il Grevino, il Salio, il Pareo, lo
Schenchio, lo Zachia e, per finirla, quel funesto Delrio, il quale, se la
rinomanza degli autori fosse in ragione del bene e del male prodotto dalle loro
opere, dovrebb'essere uno de' più famosi; quel Delrio, le cui veglie costaron
la vita a più uomini che l'imprese di qualche conquistatore: quel Delrio, le
cui Disquisizioni Magiche (il ristretto di tutto ciò che gli uomini
avevano, fino a' suoi tempi, sognato in quella materia), divenute il testo più
autorevole, più irrefragabile, furono, per più d'un secolo, norma e impulso
potente di legali, orribili, non interrotte carnificine.
Da' trovati del volgo, la gente istruita prendeva ciò che si poteva
accomodar con le sue idee; da' trovati della gente istruita, il volgo prendeva
ciò che ne poteva intendere, e come lo poteva; e di tutto si formava una massa
enorme e confusa di pubblica follia.
Ma ciò che reca maggior maraviglia, è il vedere i medici, dico i medici che
fin da principio avevan creduta la peste, dico in ispecie il Tadino, il quale
l'aveva pronosticata, vista entrare, tenuta d'occhio, per dir così, nel suo
progresso, il quale aveva detto e predicato che l'era peste, e s'attaccava col
contatto, che non mettendovi riparo, ne sarebbe infettato tutto il paese,
vederlo poi, da questi effetti medesimi cavare argomento certo dell'unzioni
venefiche e malefiche; lui che in quel Carlo Colonna, il secondo che morì di
peste in Milano, aveva notato il delirio come un accidente della malattia,
vederlo poi addurre in prova dell'unzioni e della congiura diabolica, un fatto
di questa sorte: che due testimoni deponevano d'aver sentito raccontare da un
loro amico infermo, come, una notte, gli eran venute persone in camera, a
esibirgli la guarigione e danari, se avesse voluto unger le case del contorno; e
come al suo rifiuto quelli se n'erano andati, e in loro vece, era rimasto un
lupo sotto il letto, e tre gattoni sopra, "che sino al far del giorno vi
dimororno" (Pag. 123, 124.). Se fosse stato uno solo che connettesse
così, si dovrebbe dire che aveva una testa curiosa; o piuttosto non ci sarebbe
ragion di parlarne; ma siccome eran molti, anzi quasi tutti, così è storia
dello spirito umano, e dà occasion d'osservare quanto una serie ordinata e
ragionevole d'idee possa essere scompigliata da un'altra serie d'idee, che ci si
getti a traverso. Del resto, quel Tadino era qui uno degli uomini più riputati
del suo tempo.
Due illustri e benemeriti scrittori hanno affermato che il cardinal Federigo
dubitasse del fatto dell'unzioni (Muratori; Del governo della peste,
Modena, 1714, pag. 117. - P. Verri; opuscolo citato, pag. 261.). Noi vorremmo
poter dare a quell'inclita e amabile memoria una lode ancor più intera, e
rappresentare il buon prelato, in questo, come in tant'altre cose, superiore
alla più parte de' suoi contemporanei, ma siamo in vece costretti di notar di
nuovo in lui un esempio della forza d'un'opinione comune anche sulle menti più
nobili. S'è visto, almeno da quel che ne dice il Ripamonti, come da principio,
veramente stesse in dubbio: ritenne poi sempre che in quell'opinione avesse gran
parte la credulità, l'ignoranza, la paura, il desiderio di scusarsi d'aver
così tardi riconosciuto il contagio, e pensato a mettervi riparo; che molto ci
fosse d'esagerato, ma insieme, che qualche cosa ci fosse di vero. Nella
biblioteca ambrosiana si conserva un'operetta scritta di sua mano intorno a
quella peste; e questo sentimento c'è accennato spesso, anzi una volta
enunciato espressamente. "Era opinion comune, - dice a un di presso, - che
di questi unguenti se ne componesse in vari luoghi, e che molte fossero l'arti
di metterlo in opera: delle quali alcune ci paion vere, altre inventate"
(Ecco le sue parole: Unguenta uero haec aiebant componi conficique multifariam,
fraudisque uias fuisse complures; quarum sane fraudum, et artium aliis quidem
assentimur, alias uero fictas fuisse comentitiasque arbitramur. De
pestilentia quae Mediolani anno 1630 magnam stragem edidit. Cap. V.).
Ci furon però di quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che
tutto fosse immaginazione: e lo sappiamo, non da loro, ché nessuno fu
abbastanza ardito per esporre al pubblico un sentimento così opposto a quello
del pubblico; lo sappiamo dagli scrittori che lo deridono o lo riprendono o lo
ribattono, come un pregiudizio d'alcuni, un errore che non s'attentava di venire
a disputa palese, ma che pur viveva; lo sappiamo anche da chi ne aveva notizia
per tradizione. "Ho trovato gente savia in Milano, - dice il buon
Muratori, nel luogo sopraccitato, - che aveva buone relazioni dai loro maggiori,
e non era molto persuasa che fosse vero il fatto di quegli unti velenosi".
Si vede ch'era uno sfogo segreto della verità, una confidenza domestica: il
buon senso c'era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune.
I magistrati, scemati ogni giorno, e sempre più smarriti e confusi, tutta,
per dir così, quella poca risoluzione di cui eran capaci, l'impiegarono a
cercar di questi untori. Tra le carte del tempo della peste, che si conservano
nell'archivio nominato di sopra, c'è una lettera (senza alcun altro documento
relativo) in cui il gran cancelliere informa, sul serio e con gran premura, il
governatore d'aver ricevuto un avviso che, in una casa di campagna de' fratelli
Girolamo e Giulio Monti, gentiluomini milanesi, si componeva veleno in tanta
quantità, che quaranta uomini erano occupati en este exercicio, con
l'assistenza di quattro cavalieri bresciani, i quali facevano venir materiali
dal veneziano, para la fábrica del veneno. Soggiunge che lui aveva
preso, in gran segreto, i concerti necessari per mandar là il podestà di
Milano e l'auditore della Sanità, con trenta soldati di cavalleria; che pur
troppo uno de' fratelli era stato avvertito a tempo per poter trafugare
gl'indizi del delitto, e probabilmente dall'auditor medesimo, suo amico; e che
questo trovava delle scuse per non partire; ma che non ostante, il podestà co'
soldati era andato a reconocer la casa, y a ver si hallará algunos vestigios,
e prendere informazioni, e arrestar tutti quelli che fossero incolpati.
La cosa dové finire in nulla, giacché gli scritti del tempo che parlano de'
sospetti che c'eran su que' gentiluomini, non citano alcun fatto. Ma pur troppo,
in un'altra occasione, si credé d'aver trovato.
I processi che ne vennero in conseguenza, non eran certamente i primi d'un
tal genere: e non si può neppur considerarli come una rarità nella storia
della giurisprudenza. Ché, per tacere dell'antichità, e accennar solo qualcosa
de' tempi più vicini a quello di cui trattiamo, in Palermo, del 1526; in
Ginevra, del 1530, poi del 1545, poi ancora del 1574; in Casal Monferrato, del
1536; in Padova, del 1555; in Torino, del 1599, e di nuovo, in quel medesim'anno
1630, furon processati e condannati a supplizi, per lo più atrocissimi, dove
qualcheduno, dove molti infelici, come rei d'aver propagata la peste, con
polveri, o con unguenti, o con malìe, o con tutto ciò insieme. Ma l'affare
delle così dette unzioni di Milano, come fu il più celebre, così è
fors'anche il più osservabile; o, almeno, c'è più campo di farci sopra
osservazione, per esserne rimasti documenti più circostanziati e più
autentici. E quantunque uno scrittore lodato poco sopra se ne sia occupato,
pure, essendosi lui proposto, non tanto di farne propriamente la storia, quanto
di cavarne sussidio di ragioni, per un assunto di maggiore, o certo di più
immediata importanza, c'è parso che la storia potesse esser materia d'un nuovo
lavoro. Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il luogo di
trattarla con l'estensione che merita. E oltre di ciò, dopo essersi fermato su
que' casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che
rimane del nostro racconto. Serbando però a un altro scritto la storia e
l'esame di quelli (V. l'opuscolo in fine del volume.), torneremo finalmente a'
nostri personaggi, per non lasciarli più, fino alla fine.
CAPITOLO XXXIII
Una notte, verso la fine d'agosto, proprio nel colmo della peste, tornava don
Rodrigo a casa sua, in Milano, accompagnato dal fedel Griso, l'uno de' tre o
quattro che, di tutta la famiglia, gli eran rimasti vivi. Tornava da un ridotto
d'amici soliti a straviziare insieme, per passar la malinconia di quel tempo: e
ogni volta ce n'eran de' nuovi, e ne mancava de' vecchi. Quel giorno, don
Rodrigo era stato uno de' più allegri; e tra l'altre cose, aveva fatto rider
tanto la compagnia, con una specie d'elogio funebre del conte Attilio, portato
via dalla peste, due giorni prima.
Camminando però, sentiva un mal essere, un abbattimento, una fiacchezza di
gambe, una gravezza di respiro, un'arsione interna, che avrebbe voluto attribuir
solamente al vino, alla veglia, alla stagione. Non aprì bocca, per tutta la
strada; e la prima parola, arrivati a casa, fu d'ordinare al Griso che gli
facesse lume per andare in camera. Quando ci furono, il Griso osservò il viso
del padrone, stravolto, acceso, con gli occhi in fuori, e lustri lustri; e gli
stava alla lontana: perché, in quelle circostanze, ogni mascalzone aveva dovuto
acquistar, come si dice, l'occhio medico.
- Sto bene, ve', - disse don Rodrigo, che lesse nel fare del Griso il
pensiero che gli passava per la mente. - Sto benone; ma ho bevuto, ho bevuto
forse un po' troppo. C'era una vernaccia!... Ma, con una buona dormita, tutto se
ne va. Ho un gran sonno... Levami un po' quel lume dinanzi, che m'accieca... mi
dà una noia...!
- Scherzi della vernaccia, - disse il Griso, tenendosi sempre alla larga. -
Ma vada a letto subito, ché il dormire le farà bene.
- Hai ragione: se posso dormire... Del resto, sto bene. Metti qui vicino, a
buon conto, quel campanello, se per caso, stanotte avessi bisogno di qualche
cosa: e sta' attento, ve', se mai senti sonare. Ma non avrò bisogno di nulla...
Porta via presto quel maledetto lume, - riprese poi, intanto che il Griso
eseguiva l'ordine, avvicinandosi meno che poteva. - Diavolo! che m'abbia a dar
tanto fastidio!
Il Griso prese il lume, e, augurata la buona notte al padrone, se n'andò in
fretta, mentre quello si cacciava sotto.
Ma le coperte gli parvero una montagna. Le buttò via, e si rannicchiò, per
dormire; ché infatti moriva dal sonno. Ma, appena velato l'occhio, si svegliava
con un riscossone, come se uno, per dispetto, fosse venuto a dargli una
tentennata; e sentiva cresciuto il caldo, cresciuta la smania. Ricorreva col
pensiero all'agosto, alla vernaccia, al disordine; avrebbe voluto poter dar loro
tutta la colpa; ma a queste idee si sostituiva sempre da sé quella che allora
era associata con tutte, ch'entrava, per dir così, da tutti i sensi, che s'era
ficcata in tutti i discorsi dello stravizio, giacché era ancor più facile
prenderla in ischerzo, che passarla sotto silenzio: la peste.
Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente s'addormentò, e cominciò a fare i più
brutti e arruffati sogni del mondo. E d'uno in un altro, gli parve di trovarsi
in una gran chiesa, in su, in su, in mezzo a una folla; di trovarcisi, ché non
sapeva come ci fosse andato, come gliene fosse venuto il pensiero, in quel tempo
specialmente; e n'era arrabbiato. Guardava i circostanti; eran tutti visi
gialli, distrutti, con cert'occhi incantati, abbacinati, con le labbra
spenzolate; tutta gente con certi vestiti che cascavano a pezzi; e da' rotti si
vedevano macchie e bubboni. - Largo canaglia! - gli pareva di gridare, guardando
alla porta, ch'era lontana lontana, e accompagnando il grido con un viso
minaccioso, senza però moversi, anzi ristringendosi, per non toccar que' sozzi
corpi, che già lo toccavano anche troppo da ogni parte. Ma nessuno di
quegl'insensati dava segno di volersi scostare, e nemmeno d'avere inteso; anzi
gli stavan più addosso: e sopra tutto gli pareva che qualcheduno di loro, con
le gomita o con altro, lo pigiasse a sinistra, tra il cuore e l'ascella, dove
sentiva una puntura dolorosa, e come pesante. E se si storceva, per veder di
liberarsene, subito un nuovo non so che veniva a puntarglisi al luogo medesimo.
Infuriato, volle metter mano alla spada; e appunto gli parve che, per la calca,
gli fosse andata in su, e fosse il pomo di quella che lo premesse in quel luogo;
ma, mettendoci la mano, non ci trovò la spada, e sentì in vece una trafitta
più forte. Strepitava, era tutt'affannato, e voleva gridar più forte; quando
gli parve che tutti que' visi si rivolgessero a una parte. Guardò anche lui;
vide un pulpito, e dal parapetto di quello spuntar su un non so che di convesso,
liscio e luccicante; poi alzarsi e comparir distinta una testa pelata, poi due
occhi, un viso, una barba lunga e bianca, un frate ritto, fuor del parapetto
fino alla cintola, fra Cristoforo. Il quale, fulminato uno sguardo in giro su
tutto l'uditorio, parve a don Rodrigo che lo fermasse in viso a lui, alzando
insieme la mano, nell'attitudine appunto che aveva presa in quella sala a
terreno del suo palazzotto. Allora alzò anche lui la mano in furia, fece uno
sforzo, come per islanciarsi ad acchiappar quel braccio teso per aria; una voce
che gli andava brontolando sordamente nella gola, scoppiò in un grand'urlo; e
si destò. Lasciò cadere il braccio che aveva alzato davvero; stentò alquanto
a ritrovarsi, ad aprir ben gli occhi; ché la luce del giorno già inoltrato gli
dava noia, quanto quella della candela, la sera avanti; riconobbe il suo letto,
la sua camera; si raccapezzò che tutto era stato un sogno: la chiesa, il
popolo, il frate, tutto era sparito; tutto fuorché una cosa, quel dolore dalla
parte sinistra. Insieme si sentiva al cuore una palpitazion violenta, affannosa,
negli orecchi un ronzìo, un fischìo continuo, un fuoco di dentro, una gravezza
in tutte le membra, peggio di quando era andato a letto. Esitò qualche momento,
prima di guardar la parte dove aveva il dolore; finalmente la scoprì, ci diede
un'occhiata paurosa; e vide un sozzo bubbone d'un livido paonazzo.
L'uomo si vide perduto: il terror della morte l'invase, e, con un senso per
avventura più forte, il terrore di diventar preda de' monatti, d'esser portato,
buttato al lazzeretto. E cercando la maniera d'evitare quest'orribile sorte,
sentiva i suoi pensieri confondersi e oscurarsi, sentiva avvicinarsi il momento
che non avrebbe più testa, se non quanto bastasse per darsi alla disperazione.
Afferrò il campanello, e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il
quale stava all'erta. Si fermò a una certa distanza dal letto; guardò
attentamente il padrone, e s'accertò di quello che, la sera, aveva
congetturato.
- Griso! - disse don Rodrigo, rizzandosi stentatamente a sedere: - tu sei
sempre stato il mio fido.
- Sì, signore.
- T'ho sempre fatto del bene.
- Per sua bontà.
- Di te mi posso fidare...!
- Diavolo!
- Sto male, Griso.
- Me n'ero accorto.
- Se guarisco, ti farò del bene ancor più di quello che te n'ho fatto per
il passato.
Il Griso non rispose nulla, e stette aspettando dove andassero a parare
questi preamboli.
- Non voglio fidarmi d'altri che di te, - riprese don Rodrigo: - fammi un
piacere, Griso.
- Comandi, - disse questo, rispondendo con la formola solita a
quell'insolita.
- Sai dove sta di casa il Chiodo chirurgo?
- Lo so benissimo.
- Č un galantuomo, che, chi lo paga bene, tien segreti gli ammalati. Va' a
chiamarlo: digli che gli darò quattro, sei scudi per visita, di più, se di
più ne chiede; ma che venga qui subito; e fa' la cosa bene, che nessun se
n'avveda.
- Ben pensato, - disse il Griso: - vo e torno subito.
- Senti, Griso: dammi prima un po' d'acqua. Mi sento un'arsione, che non ne
posso più.
- No, signore, - rispose il Griso: - niente senza il parere del medico. Son
mali bisbetici: non c'è tempo da perdere. Stia quieto: in tre salti son qui col
Chiodo.
Così detto, uscì, raccostando l'uscio.
Don Rodrigo, tornato sotto, l'accompagnava con l'immaginazione alla casa del
Chiodo, contava i passi, calcolava il tempo. Ogni tanto ritornava a guardare il
suo bubbone; ma voltava subito la testa dall'altra parte, con ribrezzo. Dopo
qualche tempo, cominciò a stare in orecchi, per sentire se il chirurgo
arrivava: e quello sforzo d'attenzione sospendeva il sentimento del male, e
teneva in sesto i suoi pensieri. Tutt'a un tratto, sente uno squillo lontano, ma
che gli par che venga dalle stanze, non dalla strada. Sta attento; lo sente più
forte, più ripetuto, e insieme uno stropiccìo di piedi: un orrendo sospetto
gli passa per la mente. Si rizza a sedere, e si mette ancor più attento; sente
un rumor cupo nella stanza vicina, come d'un peso che venga messo giù con
riguardo; butta le gambe fuor del letto, come per alzarsi, guarda all'uscio, lo
vede aprirsi, vede presentarsi e venire avanti due logori e sudici vestiti
rossi, due facce scomunicate, due monatti, in una parola; vede mezza la faccia
del Griso che, nascosto dietro un battente socchiuso, riman lì a spiare.
- Ah traditore infame!... Via, canaglia! Biondino! Carlotto! aiuto! son
assassinato! - grida don Rodrigo; caccia una mano sotto il capezzale, per
cercare una pistola; l'afferra, la tira fuori; ma al primo suo grido, i monatti
avevan preso la rincorsa verso il letto; il più pronto gli è addosso, prima
che lui possa far nulla; gli strappa la pistola di mano, la getta lontano, lo
butta a giacere, e lo tien lì, gridando, con un versaccio di rabbia insieme e
di scherno: - ah birbone! contro i monatti! contro i ministri del tribunale!
contro quelli che fanno l'opere di misericordia!
- Tienlo bene, fin che lo portiam via, - disse il compagno, andando verso uno
scrigno. E in quella il Griso entrò, e si mise con colui a scassinar la
serratura.
- Scellerato! - urlò don Rodrigo, guardandolo per di sotto all'altro che lo
teneva, e divincolandosi tra quelle braccia forzute. - Lasciatemi ammazzar
quell'infame, - diceva quindi ai monatti, - e poi fate di me quel che volete -.
Poi ritornava a chiamar con quanta voce aveva, gli altri suoi servitori; ma era
inutile, perché l'abbominevole Griso gli aveva mandati lontano, con finti
ordini del padrone stesso, prima d'andare a fare ai monatti la proposta di
venire a quella spedizione, e divider le spoglie.
- Sta' buono, sta' buono, - diceva allo sventurato Rodrigo l'aguzzino che lo
teneva appuntellato sul letto. E voltando poi il viso ai due che facevan
bottino, gridava: - fate le cose da galantuomini!
- Tu! tu! - mugghiava don Rodrigo verso il Griso, che vedeva affaccendarsi a
spezzare, a cavar fuori danaro, roba, a far le parti, - Tu! dopo...! Ah diavolo
dell'inferno! Posso ancora guarire! posso guarire! - Il Griso non fiatava, e
neppure, per quanto poteva, si voltava dalla parte di dove venivan quelle
parole.
- Tienlo forte, - diceva l'altro monatto: - è fuor di sé.
Ed era ormai vero. Dopo un grand'urlo, dopo un ultimo e più violento sforzo
per mettersi in libertà, cadde tutt'a un tratto rifinito e stupido: guardava
però ancora, come incantato, e ogni tanto si riscoteva, o si lamentava.
I monatti lo presero, uno per i piedi, e l'altro per le spalle, e andarono a
posarlo sur una barella che avevan lasciata nella stanza accanto; poi uno tornò
a prender la preda; quindi, alzato il miserabil peso, lo portaron via.
Il Griso rimase a scegliere in fretta quel di più che potesse far per lui;
fece di tutto un fagotto, e se n'andò. Aveva bensì avuto cura di non toccar
mai i monatti, di non lasciarsi toccar da loro; ma, in quell'ultima furia del
frugare, aveva poi presi, vicino al letto, i panni del padrone, e gli aveva
scossi, senza pensare ad altro, per veder se ci fosse danaro. C'ebbe però a
pensare il giorno dopo, che, mentre stava gozzovigliando in una bettola, gli
vennero a un tratto de' brividi, gli s'abbagliaron gli occhi, gli mancaron le
forze, e cascò. Abbandonato da' compagni, andò in mano de' monatti, che,
spogliatolo di quanto aveva indosso di buono, lo buttarono sur un carro; sul
quale spirò, prima d'arrivare al lazzeretto, dov'era stato portato il suo
padrone.
Lasciando ora questo nel soggiorno de' guai, dobbiamo andare in cerca d'un
altro, la cui storia non sarebbe mai stata intralciata con la sua, se lui non
l'avesse voluto per forza; anzi si può dir di certo che non avrebbero avuto
storia né l'uno né l'altro: Renzo, voglio dire, che abbiam lasciato al nuovo
filatoio, sotto il nome d'Antonio Rivolta.
C'era stato cinque o sei mesi, salvo il vero; dopo i quali, dichiarata
l'inimicizia tra la repubblica e il re di Spagna, e cessato quindi ogni timore
di ricerche e d'impegni dalla parte di qui, Bortolo s'era dato premura d'andarlo
a prendere, e di tenerlo ancora con sé, e perché gli voleva bene, e perché
Renzo, come giovine di talento, e abile nel mestiere, era, in una fabbrica, di
grande aiuto al factotum, senza poter mai aspirare a divenirlo lui, per
quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano. Siccome anche
questa ragione c'era entrata per qualche cosa, così abbiam dovuto accennarla.
Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo.
Quello era così.
Renzo era poi sempre rimasto a lavorare presso di lui. Più d'una volta, e
specialmente dopo aver ricevuta qualcheduna di quelle benedette lettere da parte
d'Agnese, gli era saltato il grillo di farsi soldato, e finirla: e l'occasioni
non mancavano; ché, appunto in quell'intervallo di tempo, la repubblica aveva
avuto bisogno di far gente. La tentazione era qualche volta stata per Renzo
tanto più forte, che s'era anche parlato d'invadere il milanese; e naturalmente
a lui pareva che sarebbe stata una bella cosa, tornare in figura di vincitore a
casa sua, riveder Lucia, e spiegarsi una volta con lei. Ma Bortolo, con buona
maniera, aveva sempre saputo smontarlo da quella risoluzione.
- Se ci hanno da andare, - gli diceva, - ci anderanno anche senza di te, e tu
potrai andarci dopo, con tuo comodo; se tornano col capo rotto, non sarà meglio
essere stato a casa tua? Disperati che vadano a far la strada, non ne mancherà.
E, prima che ci possan mettere i piedi...! Per me, sono eretico: costoro
abbaiano; ma sì; lo stato di Milano non è un boccone da ingoiarsi così
facilmente. Si tratta della Spagna, figliuolo mio: sai che affare è la Spagna?
San Marco è forte a casa sua; ma ci vuol altro. Abbi pazienza: non istai bene
qui?... Vedo cosa vuoi dire; ma, se è destinato lassù che la cosa riesca, sta'
sicuro che, a non far pazzie, riuscirà anche meglio. Qualche santo t'aiuterà.
Credi pure che non è mestiere per te. Ti par che convenga lasciare d'incannar
seta, per andare a ammazzare? Cosa vuoi fare con quella razza di gente? Ci vuol
degli uomini fatti apposta.
Altre volte Renzo si risolveva d'andar di nascosto, travestito, e con un nome
finto. Ma anche da questo, Bortolo seppe svolgerlo ogni volta, con ragioni
troppo facili a indovinarsi.
Scoppiata poi la peste nel milanese, e appunto, come abbiam detto, sul
confine del bergamasco, non tardò molto a passarlo; e... non vi sgomentate,
ch'io non vi voglio raccontar la storia anche di questa: chi la volesse, la
c'è, scritta per ordine pubblico da un certo Lorenzo Ghirardelli: libro raro
però e sconosciuto, quantunque contenga forse più roba che tutte insieme le
descrizioni più celebri di pestilenze: da tante cose dipende la celebrità de'
libri! Quel ch'io volevo dire è che Renzo prese anche lui la peste, si curò da
sé, cioè non fece nulla; ne fu in fin di morte, ma la sua buona complessione
vinse la forza del male: in pochi giorni, si trovò fuor di pericolo. Col tornar
della vita, risorsero più che mai rigogliose nell'animo suo le memorie, i
desidèri, le speranze, i disegni della vita; val a dire che pensò più che mai
a Lucia. Cosa ne sarebbe di lei, in quel tempo, che il vivere era come
un'eccezione? E, a così poca distanza, non poterne saper nulla? E rimaner, Dio
sa quanto, in una tale incertezza! E quand'anche questa si fosse poi dissipata,
quando, cessato ogni pericolo, venisse a risaper che Lucia fosse in vita; c'era
sempre quell'altro mistero, quell'imbroglio del voto. "Anderò io, anderò
a sincerarmi di tutto in una volta, - disse tra sé, e lo disse prima d'essere
ancora in caso di reggersi. - Purché sia viva! Trovarla, la troverò io;
sentirò una volta da lei proprio, cosa sia questa promessa, le farò conoscere
che non può stare, e la conduco via con me, lei e quella povera Agnese, se è
viva! che m'ha sempre voluto bene, e son sicuro che me ne vuole ancora. La
cattura? eh! adesso hanno altro da pensare, quelli che son vivi. Giran sicuri,
anche qui, certa gente, che n'hann'addosso... Ci ha a esser salvocondotto
solamente per i birboni? E a Milano, dicono tutti che l'è una confusione
peggio. Se lascio scappare una occasion così bella, - (La peste! Vedete un poco
come ci fa qualche volta adoprar le parole quel benedetto istinto di riferire e
di subordinar tutto a noi medesimi!) - non ne ritorna più una simile!"
Giova sperare, caro il mio Renzo.
Appena poté strascicarsi, andò in cerca di Bortolo, il quale, fino allora,
aveva potuto scansar la peste, e stava riguardato. Non gli entrò in casa, ma,
datogli una voce dalla strada, lo fece affacciare alla finestra.
- Ah ah! - disse Bortolo: - l'hai scampata, tu. Buon per te!
- Sto ancora un po' male in gambe, come vedi, ma, in quanto al pericolo, ne
son fuori.
- Eh! vorrei esser io ne' tuoi piedi. A dire: sto bene, le altre volte,
pareva di dir tutto; ma ora conta poco. Chi può arrivare a dire: sto meglio;
quella sì è una bella parola!
Renzo, fatto al cugino qualche buon augurio, gli comunicò la sua
risoluzione.
- Va', questa volta, che il cielo ti benedica, - rispose quello: - cerca di
schivar la giustizia, com'io cercherò di schivare il contagio; e, se Dio vuole
che la ci vada bene a tutt'e due, ci rivedremo.
- Oh! torno sicuro: e se potessi non tornar solo! Basta; spero.
- Torna pure accompagnato; chè, se Dio vuole, ci sarà da lavorar per tutti,
e ci faremo buona compagnia. Purché tu mi ritrovi, e che sia finito questo
diavolo d'influsso!
- Ci rivedremo, ci rivedremo; ci dobbiam rivedere!
- Torno a dire: Dio voglia!
Per alquanti giorni, Renzo si tenne in esercizio, per esperimentar le sue
forze, e accrescerle; e appena gli parve di poter far la strada, si dispose a
partire. Si mise sotto panni una cintura, con dentro que' cinquanta scudi, che
non aveva mai intaccati, e de' quali non aveva mai fatto parola, neppur con
Bortolo; prese alcuni altri pochi quattrini, che aveva messi da parte giorno per
giorno, risparmiando su tutto; prese sotto il braccio un fagottino di panni; si
mise in tasca un benservito, che s'era fatto fare a buon conto, dal secondo
padrone, sotto il nome d'Antonio Rivolta; in un taschino de' calzoni si mise un
coltellaccio, ch'era il meno che un galantuomo potesse portare a que' tempi; e
s'avviò, agli ultimi d'agosto, tre giorni dopo che don Rodrigo era stato
portato al lazzeretto. Prese verso Lecco, volendo, per non andar così alla
cieca a Milano, passar dal suo paese, dove sperava di trovare Agnese viva, e di
cominciare a saper da lei qualcheduna delle tante cose che si struggeva di
sapere.
I pochi guariti dalla peste erano, in mezzo al resto della popolazione,
veramente come una classe privilegiata. Una gran parte dell'altra gente languiva
o moriva; e quelli ch'erano stati fin allora illesi dal morbo, ne vivevano in
continuo timore; andavan riservati, guardinghi, con passi misurati, con visi
sospettosi, con fretta ed esitazione insieme: ché tutto poteva esser contro di
loro arme di ferita mortale. Quegli altri all'opposto, sicuri a un di presso del
fatto loro (giacché aver due volte la peste era caso piuttosto prodigioso che
raro), giravano per mezzo al contagio franchi e risoluti; come i cavalieri
d'un'epoca del medio evo, ferrati fin dove ferro ci poteva stare, e sopra
palafreni accomodati anch'essi, per quanto era fattibile, in quella maniera,
andavano a zonzo (donde quella loro gloriosa denominazione d'erranti), a zonzo e
alla ventura, in mezzo a una povera marmaglia pedestre di cittadini e di
villani, che, per ribattere e ammortire i colpi, non avevano indosso altro che
cenci. Bello, savio ed utile mestiere! mestiere, proprio, da far la prima figura
in un trattato d'economia politica.
Con una tale sicurezza, temperata però dall'inquietudini che il lettore sa,
e contristata dallo spettacolo frequente, dal pensiero incessante della
calamità comune, andava Renzo verso casa sua, sotto un bel cielo e per un bel
paese, ma non incontrando, dopo lunghi tratti di tristissima solitudine, se non
qualche ombra vagante piuttosto che persona viva, o cadaveri portati alla fossa,
senza onor d'esequie, senza canto, senza accompagnamento. A mezzo circa della
giornata, si fermò in un boschetto, a mangiare un po' di pane e di companatico
che aveva portato con sé. Frutte, n'aveva a sua disposizione, lungo la strada,
anche più del bisogno: fichi, pesche, susine, mele, quante n'avesse volute;
bastava ch'entrasse ne' campi a coglierne, o a raccattarle sotto gli alberi,
dove ce n'era come se fosse grandinato; giacché l'anno era straordinariamente
abbondante, di frutte specialmente; e non c'era quasi chi se ne prendesse
pensiero: anche l'uve nascondevano, per dir così, i pampani, ed eran lasciate
in balìa del primo occupante.
Verso sera, scoprì il suo paese. A quella vista, quantunque ci dovesse esser
preparato, si sentì dare come una stretta al cuore: fu assalito in un punto da
una folla di rimembranze dolorose, e di dolorosi presentimenti: gli pareva
d'aver negli orecchi que' sinistri tocchi a martello che l'avevan come
accompagnato, inseguito, quand'era fuggito da que' luoghi; e insieme sentiva,
per dir così, un silenzio di morte che ci regnava attualmente. Un turbamento
ancor più forte provò allo sboccare sulla piazzetta davanti alla chiesa; e
ancora peggio s'aspettava al termine del cammino: ché dove aveva disegnato
d'andare a fermarsi, era a quella casa ch'era stato solito altre volte di
chiamar la casa di Lucia. Ora non poteva essere, tutt'al più, che quella
d'Agnese; e la sola grazia, che sperava dal cielo era di trovarcela in vita e in
salute. E in quella casa si proponeva di chiedere alloggio, congetturando bene
che la sua non dovesse esser più abitazione che da topi e da faine.
Non volendo farsi vedere, prese per una viottola di fuori, quella stessa per
cui era venuto in buona compagnia, quella notte così fatta, per sorprendere il
curato. A mezzo circa, c'era da una parte la vigna, e dall'altra la casetta di
Renzo; sicché, passando, potrebbe entrare un momento nell'una e nell'altra, a
vedere un poco come stesse il fatto suo.
Andando, guardava innanzi, ansioso insieme e timoroso di veder qualcheduno;
e, dopo pochi passi, vide infatti un uomo in camicia, seduto in terra, con le
spalle appoggiate a una siepe di gelsomini, in un'attitudine d'insensato: e, a
questa, e poi anche alla fisonomia, gli parve di raffigurar quel povero mezzo
scemo di Gervaso ch'era venuto per secondo testimonio alla sciagurata
spedizione. Ma essendosegli avvicinato, dovette accertarsi ch'era in vece quel
Tonio così sveglio che ce l'aveva condotto. La peste, togliendogli il vigore
del corpo insieme e della mente, gli aveva svolto in faccia e in ogni suo atto
un piccolo e velato germe di somiglianza che aveva con l'incantato fratello.
- Oh Tonio! - gli disse Renzo, fermandosegli davanti: - sei tu?
Tonio alzò gli occhi, senza mover la testa.
- Tonio! non mi riconosci?
- A chi la tocca, la tocca, - rispose Tonio, rimanendo poi con la bocca
aperta.
- L'hai addosso eh? povero Tonio; ma non mi riconosci più?
- A chi la tocca, la tocca, - replicò quello, con un certo sorriso sciocco.
Renzo, vedendo che non ne caverebbe altro, seguitò la sua strada, più
contristato. Ed ecco spuntar da una cantonata, e venire avanti una cosa nera,
che riconobbe subito per don Abbondio. Camminava adagio adagio, portando il
bastone come chi n'è portato a vicenda; e di mano in mano che s'avvicinava,
sempre più si poteva conoscere nel suo volto pallido e smunto, e in ogni atto,
che anche lui doveva aver passata la sua burrasca. Guardava anche lui; gli
pareva e non gli pareva: vedeva qualcosa di forestiero nel vestiario; ma era
appunto forestiero di quel di Bergamo.
"Č lui senz'altro!" disse tra sé, e alzò le mani al cielo, con
un movimento di maraviglia scontenta, restandogli sospeso in aria il bastone che
teneva nella destra; e si vedevano quelle povere braccia ballar nelle maniche,
dove altre volte stavano appena per l'appunto. Renzo gli andò incontro,
allungando il passo, e gli fece una riverenza; ché, sebbene si fossero lasciati
come sapete, era però sempre il suo curato.
- Siete qui, voi? - esclamò don Abbondio.
- Son qui, come lei vede. Si sa niente di Lucia?
- Che volete che se ne sappia? Non se ne sa niente. Č a Milano, se pure è
ancora in questo mondo. Ma voi...
- E Agnese, è viva?
- Può essere; ma chi volete che lo sappia? non è qui. Ma...
- Dov'è?
- Č andata a starsene nella Valsassina, da que' suoi parenti, a Pasturo,
sapete bene; ché là dicono che la peste non faccia il diavolo come qui. Ma
voi, dico...
- Questa la mi dispiace. E il padre Cristoforo...?
- Č andato via che è un pezzo. Ma...
- Lo sapevo; me l'hanno fatto scrivere: domandavo se per caso fosse tornato
da queste parti.
- Oh giusto! non se n'è più sentito parlare. Ma voi...
- La mi dispiace anche questa.
- Ma voi, dico, cosa venite a far da queste parti, per l'amor del cielo? Non
sapete che bagattella di cattura...?
- Cosa m'importa? Hanno altro da pensare. Ho voluto venire anch'io una volta
a vedere i fatti miei. E non si sa proprio...?
- Cosa volete vedere? che or ora non c'è più nessuno, non c'è più niente.
E dico, con quella bagattella di cattura, venir qui, proprio in paese, in bocca
al lupo, c'è giudizio? Fate a modo d'un vecchio che è obbligato ad averne più
di voi, e che vi parla per l'amore che vi porta; legatevi le scarpe bene, e,
prima che nessuno vi veda, tornate di dove siete venuto; e se siete stato visto,
tanto più tornatevene di corsa. Vi pare che sia aria per voi, questa? Non
sapete che sono venuti a cercarvi, che hanno frugato, frugato, buttato
sottosopra...
- Lo so pur troppo, birboni!
- Ma dunque...!
- Ma se le dico che non ci penso. E colui, è vivo ancora? è qui?
- Vi dico che non c'è nessuno; vi dico che non pensiate alle cose di qui; vi
dico che...
- Domando se è qui, colui.
- Oh santo cielo! Parlate meglio. Possibile che abbiate ancora addosso tutto
quel fuoco, dopo tante cose!
- C'è, o non c'è?
- Non c'è, via. Ma, e la peste, figliuolo, la peste! Chi è che vada in
giro, in questi tempi?
- Se non ci fosse altro che la peste in questo mondo... dico per me: l'ho
avuta, e son franco.
- Ma dunque! ma dunque! non sono avvisi questi? Quando se n'è scampata una
di questa sorte, mi pare che si dovrebbe ringraziare il cielo, e...
- Lo ringrazio bene.
- E non andarne a cercar dell'altre, dico. Fate a modo mio...
- L'ha avuta anche lei, signor curato, se non m'inganno.
- Se l'ho avuta! Perfida e infame è stata: son qui per miracolo: basta dire
che m'ha conciato in questa maniera che vedete. Ora avevo proprio bisogno d'un
po' di quiete, per rimettermi in tono: via, cominciavo a stare un po' meglio...
In nome del cielo, cosa venite a far qui? Tornate...
- Sempre l'ha con questo tornare, lei. Per tornare, tanto n'avevo a non
movermi. Dice: cosa venite? cosa venite? Oh bella! vengo, anch'io, a casa mia.
- Casa vostra...
- Mi dica; ne son morti molti qui?...
- Eh eh! - esclamò don Abbondio; e, cominciando da Perpetua, nominò una
filastrocca di persone e di famiglie intere. Renzo s'aspettava pur troppo
qualcosa di simile; ma al sentir tanti nomi di persone che conosceva, d'amici,
di parenti, stava addolorato, col capo basso, esclamando ogni momento: -
poverino! poverina! poverini!
- Vedete! - continuò don Abbondio: - e non è finita. Se quelli che restano
non metton giudizio questa volta, e scacciar tutti i grilli dalla testa, non
c'è più altro che la fine del mondo.
- Non dubiti; che già non fo conto di fermarmi qui.
- Ah! sia ringraziato il cielo, che la v'è entrata! E, già s'intende, fate
ben conto di ritornar sul bergamasco.
- Di questo non si prenda pensiero.
- Che! non vorreste già farmi qualche sproposito peggio di questo?
- Lei non ci pensi, dico; tocca a me: non son più bambino: ho l'uso della
ragione. Spero che, a buon conto, non dirà a nessuno d'avermi visto. Č
sacerdote; sono una sua pecora: non mi vorrà tradire.
- Ho inteso, - disse don Abbondio, sospirando stizzosamente: - ho inteso.
Volete rovinarvi voi, e rovinarmi me. Non vi basta di quelle che avete passate
voi; non vi basta di quelle che ho passate io. Ho inteso, ho inteso -. E,
continuando a borbottar tra i denti quest'ultime parole, riprese per la sua
strada.
Renzo rimase lì tristo e scontento, a pensar dove anderebbe a fermarsi. In
quella enumerazion di morti fattagli da don Abbondio, c'era una famiglia di
contadini portata via tutta dal contagio, salvo un giovinotto, dell'età di
Renzo a un di presso, e suo compagno fin da piccino; la casa era pochi passi
fuori del paese. Pensò d'andar lì.
E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito
argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d'albero di
quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si
vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S'affacciò all'apertura (del
cancello non c'eran più neppure i gangheri); diede un'occhiata in giro: povera
vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna -
nel luogo di quel poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d'ogni sorte,
tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però
ancora i vestigi dell'antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che
pure segnavano la traccia de' filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti
di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva
sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e
cresciuta senza l'aiuto della man dell'uomo. Era una marmaglia d'ortiche, di
felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d'avene salvatiche, d'amaranti
verdi, di radicchielle, d'acetoselle, di panicastrelle e d'altrettali piante; di
quelle, voglio dire, di cui il contadino d'ogni paese ha fatto una gran classe a
modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di
steli, che facevano a soverchiarsi l'uno con l'altro nell'aria, o a passarsi
avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una
confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di
cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi,
rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n'era alcune di più
rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l'uva turca, più
alta di tutte, co' suoi rami allargati, rosseggianti, co' suoi pomposi foglioni
verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co' suoi grappoli ripiegati, guarniti
di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di
fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra,
e lo stelo diritto all'aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi
fiori gialli: cardi, ispidi ne' rami, nelle foglie, ne' calici, donde uscivano
ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal
vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni
arrampicati e avvoltati a' nuovi rampolli d'un gelso, gli avevan tutti ricoperti
delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor
campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co' suoi chicchi vermigli,
s'era avviticchiata ai nuovi tralci d'una vite; la quale, cercato invano un più
saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando
i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a
vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l'uno con l'altro per
appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all'altra, saliva,
scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e,
attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il
passo, anche al padrone.
Ma questo non si curava d'entrare in una tal vigna; e forse non istette tanto
a guardarla, quanto noi a farne questo po' di schizzo. Tirò di lungo: poco
lontano c'era la sua casa; attraversò l'orto, camminando fino a mezza gamba tra
l'erbacce di cui era popolato, coperto, come la vigna. Mise piede sulla soglia
d'una delle due stanze che c'era a terreno: al rumore de' suoi passi, al suo
affacciarsi, uno scompiglìo, uno scappare incrocicchiato di topacci, un
cacciarsi dentro il sudiciume che copriva tutto il pavimento: era ancora il
letto de' lanzichenecchi. Diede un'occhiata alle pareti: scrostate, imbrattate,
affumicate. Alzò gli occhi al palco: un parato di ragnateli. Non c'era altro.
Se n'andò anche di là, mettendosi le mani ne' capelli; tornò indietro,
rifacendo il sentiero che aveva aperto lui, un momento prima; dopo pochi passi,
prese un'altra straducola a mancina, che metteva ne' campi; e senza veder né
sentire anima vivente, arrivò vicino alla casetta dove aveva pensato di
fermarsi. Già principiava a farsi buio. L'amico era sull'uscio, a sedere sur un
panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi fissi al cielo,
come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e insalvatichito dalla solitudine.
Sentendo un calpestìo, si voltò a guardar chi fosse, e, a quel che gli parve
di vedere così al barlume, tra i rami e le fronde, disse, ad alta voce,
rizzandosi e alzando le mani: - non ci son che io? non ne ho fatto abbastanza
ieri? Lasciatemi un po' stare, che sarà anche questa un'opera di misericordia.
Renzo, non sapendo cosa volesse dir questo, gli rispose chiamandolo per nome.
- Renzo...! - disse quello, esclamando insieme e interrogando.
- Proprio, - disse Renzo; e si corsero incontro.
- Sei proprio tu! - disse l'amico, quando furon vicini: - oh che gusto ho di
vederti! Chi l'avrebbe pensato? T'avevo preso per Paolin de' morti, che vien
sempre a tormentarmi, perché vada a sotterrare. Sai che son rimasto solo? solo!
solo, come un romito!
- Lo so pur troppo, - disse Renzo. E così, barattando e mescolando in fretta
saluti, domande e risposte, entrarono insieme nella casuccia. E lì, senza
sospendere i discorsi, l'amico si mise in faccende per fare un po' d'onore a
Renzo, come si poteva così all'improvviso e in quel tempo. Mise l'acqua al
fuoco, e cominciò a far la polenta; ma cedé poi il matterello a Renzo, perché
la dimenasse; e se n'andò dicendo: - son rimasto solo; ma! son rimasto solo!
Tornò con un piccol secchio di latte, con un po' di carne secca, con un paio
di raveggioli, con fichi e pesche; e posato il tutto, scodellata la polenta
sulla tafferìa, si misero insieme a tavola, ringraziandosi scambievolmente,
l'uno della visita, l'altro del ricevimento. E, dopo un'assenza di forse due
anni, si trovarono a un tratto molto più amici di quello che avesser mai saputo
d'essere nel tempo che si vedevano quasi ogni giorno; perché all'uno e
all'altro, dice qui il manoscritto, eran toccate di quelle cose che fanno
conoscere che balsamo sia all'animo la benevolenza; tanto quella che si sente,
quanto quella che si trova negli altri.
Certo, nessuno poteva tenere presso di Renzo il luogo d'Agnese, né
consolarlo della di lei assenza, non solo per quell'antica e speciale affezione,
ma anche perché, tra le cose che a lui premeva di decifrare, ce n'era una di
cui essa sola aveva la chiave. Stette un momento tra due, se dovesse continuare
il suo viaggio, o andar prima in cerca d'Agnese, giacché n'era così poco
lontano; ma, considerato che della salute di Lucia, Agnese non ne saprebbe
nulla, restò nel primo proposito d'andare addirittura a levarsi questo dubbio,
a aver la sua sentenza, e di portar poi lui le nuove alla madre. Però, anche
dall'amico seppe molte cose che ignorava, e di molte venne in chiaro che non
sapeva bene, sui casi di Lucia, e sulle persecuzioni che gli avevan fatte a lui,
e come don Rodrigo se n'era andato con la coda tra le gambe, e non s'era più
veduto da quelle parti; insomma su tutto quell'intreccio di cose. Seppe anche (e
non era per Renzo cognizione di poca importanza) come fosse proprio il casato di
don Ferrante: ché Agnese gliel aveva bensì fatto scrivere dal suo segretario;
ma sa il cielo com'era stato scritto; e l'interprete bergamasco, nel leggergli
la lettera, n'aveva fatta una parola tale, che, se Renzo fosse andato con essa a
cercar ricapito di quella casa in Milano, probabilmente non avrebbe trovato
persona che indovinasse di chi voleva parlare. Eppure quello era l'unico filo
che avesse, per andar in cerca di Lucia. In quanto alla giustizia, poté
confermarsi sempre più ch'era un pericolo abbastanza lontano, per non darsene
gran pensiero: il signor podestà era morto di peste: chi sa quando se ne
manderebbe un altro; anche la sbirraglia se n'era andata la più parte; quelli
che rimanevano, avevan tutt'altro da pensare che alle cose vecchie.
Raccontò anche lui all'amico le sue vicende, e n'ebbe in contraccambio cento
storie, del passaggio dell'esercito, della peste, d'untori, di prodigi. - Son
cose brutte, - disse l'amico, accompagnando Renzo in una camera che il contagio
aveva resa disabitata; - cose che non si sarebbe mai creduto di vedere; cose da
levarvi l'allegria per tutta la vita; ma però, a parlarne tra amici, è un
sollievo.
Allo spuntar del giorno, eran tutt'e due in cucina; Renzo in arnese da
viaggio, con la sua cintura nascosta sotto il farsetto, e il coltellaccio nel
taschino de' calzoni: il fagottino, per andar più lesto, lo lasciò in deposito
presso all'ospite. - Se la mi va bene, - gli disse, - se la trovo in vita, se...
basta... ripasso di qui; corro a Pasturo, a dar la buona nuova a quella povera
Agnese, e poi, e poi... Ma se, per disgrazia, per disgrazia che Dio non
voglia... allora, non so quel che farò, non so dov'anderò: certo, da queste
parti non mi vedete più -. E così parlando, ritto sulla soglia dell'uscio, con
la testa per aria, guardava con un misto di tenerezza e d'accoramento, l'aurora
del suo paese che non aveva più veduta da tanto tempo. L'amico gli disse, come
s'usa, di sperar bene; volle che prendesse con sé qualcosa da mangiare;
l'accompagnò per un pezzetto di strada, e lo lasciò con nuovi augùri.
Renzo, s'incamminò con la sua pace, bastandogli d'arrivar vicino a Milano in
quel giorno, per entrarci il seguente, di buon'ora, e cominciar subito la sua
ricerca. Il viaggio fu senza accidenti e senza nulla che potesse distrar Renzo
da' suoi pensieri, fuorché le solite miserie e malinconie. Come aveva fatto il
giorno avanti, si fermò a suo tempo, in un boschetto a mangiare un boccone, e a
riposarsi. Passando per Monza, davanti a una bottega aperta, dove c'era de' pani
in mostra, ne chiese due, per non rimanere sprovvisto, in ogni caso. Il fornaio,
gl'intimò di non entrare, e gli porse sur una piccola pala una scodelletta, con
dentro acqua e aceto, dicendogli che buttasse lì i danari; e fatto questo, con
certe molle, gli porse, l'uno dopo l'altro, i due pani, che Renzo si mise uno
per tasca.
Verso sera, arriva a Greco, senza però saperne il nome; ma, tra un po' di
memoria de' luoghi, che gli era rimasta dell'altro viaggio, e il calcolo del
cammino fatto da Monza in poi, congetturando che doveva esser poco lontano dalla
città, uscì dalla strada maestra, per andar ne' campi in cerca di qualche
cascinotto, e lì passar la notte; ché con osterie non si voleva impicciare.
Trovò meglio di quel che cercava: vide un'apertura in una siepe che cingeva il
cortile d'una cascina; entrò a buon conto. Non c'era nessuno: vide da un canto
un gran portico, con sotto del fieno ammontato, e a quello appoggiata una scala
a mano; diede un'occhiata in giro, e poi salì alla ventura; s'accomodò per
dormire, e infatti s'addormentò subito, per non destarsi che all'alba. Allora,
andò carpon carponi verso l'orlo di quel gran letto; mise la testa fuori, e non
vedendo nessuno, scese di dov'era salito, uscì di dov'era entrato, s'incamminò
per viottole, prendendo per sua stella polare il duomo; e dopo un brevissimo
cammino, venne a sbucar sotto le mura di Milano, tra porta Orientale e porta
Nuova, e molto vicino a questa.
CAPITOLO XXXIV
In quanto alla maniera di penetrare in città, Renzo aveva sentito, così
all'ingrosso, che c'eran ordini severissimi di non lasciar entrar nessuno, senza
bulletta di sanità; ma che in vece ci s'entrava benissimo, chi appena sapesse
un po' aiutarsi e cogliere il momento. Era infatti così; e lasciando anche da
parte le cause generali, per cui in que' tempi ogni ordine era poco eseguito;
lasciando da parte le speciali, che rendevano così malagevole la rigorosa
esecuzione di questo; Milano si trovava ormai in tale stato, da non veder cosa
giovasse guardarlo, e da cosa; e chiunque ci venisse, poteva parer piuttosto
noncurante della propria salute, che pericoloso a quella de' cittadini.
Su queste notizie, il disegno di Renzo era di tentare d'entrar dalla prima
porta a cui si fosse abbattuto; se ci fosse qualche intoppo, riprender le mura
di fuori, finché ne trovasse un'altra di più facile accesso. E sa il cielo
quante porte s'immaginava che Milano dovesse avere. Arrivato dunque sotto le
mura, si fermò a guardar d'intorno, come fa chi, non sapendo da che parte gli
convenga di prendere, par che n'aspetti, e ne chieda qualche indizio da ogni
cosa. Ma, a destra e a sinistra, non vedeva che due pezzi d'una strada storta;
dirimpetto, un tratto di mura; da nessuna parte, nessun segno d'uomini viventi:
se non che, da un certo punto del terrapieno, s'alzava una colonna d'un fumo
oscuro e denso, che salendo s'allargava e s'avvolgeva in ampi globi, perdendosi
poi nell'aria immobile e bigia. Eran vestiti, letti e altre masserizie infette
che si bruciavano: e di tali triste fiammate se ne faceva di continuo, non lì
soltanto, ma in varie parti delle mura.
Il tempo era chiuso, l'aria pesante, il cielo velato per tutto da una nuvola
o da un nebbione uguale, inerte, che pareva negare il sole, senza prometter la
pioggia; la campagna d'intorno, parte incolta, e tutta arida; ogni verzura
scolorita, e neppure una gocciola di rugiada sulle foglie passe e cascanti. Per
di più, quella solitudine, quel silenzio, così vicino a una gran città,
aggiungevano una nuova costernazione all'inquietudine di Renzo, e rendevan più
tetri tutti i suoi pensieri.
Stato lì alquanto, prese la diritta, alla ventura, andando, senza saperlo,
verso porta Nuova, della quale, quantunque vicina, non poteva accorgersi, a
cagione d'un baluardo, dietro cui era allora nascosta. Dopo pochi passi,
principiò a sentire un tintinnìo di campanelli, che cessava e ricominciava
ogni tanto, e poi qualche voce d'uomo. Andò avanti e, passato il canto del
baluardo, vide per la prima cosa, un casotto di legno, e sull'uscio, una guardia
appoggiata al moschetto, con una cert'aria stracca e trascurata: dietro c'era
uno stecconato, e dietro quello, la porta, cioè due alacce di muro, con una
tettoia sopra, per riparare i battenti; i quali erano spalancati, come pure il
cancello dello stecconato. Però, davanti appunto all'apertura, c'era in terra
un tristo impedimento: una barella, sulla quale due monatti accomodavano un
poverino, per portarlo via. Era il capo de' gabellieri, a cui, poco prima, s'era
scoperta la peste. Renzo si fermò, aspettando la fine: partito il convoglio, e
non venendo nessuno a richiudere il cancello, gli parve tempo, e ci s'avviò in
fretta; ma la guardia, con una manieraccia, gli gridò: - olà! - Renzo si
fermò di nuovo su due piedi, e, datogli d'occhio, tirò fuori un mezzo
ducatone, e glielo fece vedere. Colui, o che avesse già avuta la peste, o che
la temesse meno di quel che amava i mezzi ducatoni, accennò a Renzo che glielo
buttasse; e vistoselo volar subito a' piedi, susurrò: - va' innanzi presto -.
Renzo non se lo fece dir due volte; passò lo stecconato, passò la porta, andò
avanti, senza che nessuno s'accorgesse di lui, o gli badasse; se non che, quando
ebbe fatti forse quaranta passi, sentì un altro - olà - che un gabelliere gli
gridava dietro. Questa volta, fece le viste di non sentire, e, senza voltarsi
nemmeno, allungò il passo. - Olà! - gridò di nuovo il gabelliere, con una
voce però che indicava più impazienza che risoluzione di farsi ubbidire; e non
essendo ubbidito, alzò le spalle, e tornò nella sua casaccia, come persona a
cui premesse più di non accostarsi troppo ai passeggieri, che d'informarsi de'
fatti loro.
La strada che Renzo aveva presa, andava allora, come adesso, diritta fino al
canale detto il Naviglio: i lati erano siepi o muri d'orti, chiese e
conventi, e poche case. In cima a questa strada, e nel mezzo di quella che
costeggia il canale, c'era una colonna, con una croce detta la croce di
sant'Eusebio. E per quanto Renzo guardasse innanzi, non vedeva altro che quella
croce. Arrivato al crocicchio che divide la strada circa alla metà, e guardando
dalle due parti, vide a dritta, in quella strada che si chiama lo stradone di
santa Teresa, un cittadino che veniva appunto verso di lui. "Un cristiano,
finalmente!" disse tra sé; e si voltò subito da quella parte, pensando
di farsi insegnar la strada da lui. Questo pure aveva visto il forestiero che
s'avanzava; e andava squadrandolo da lontano, con uno sguardo sospettoso; e
tanto più, quando s'accorse che, in vece d'andarsene per i fatti suoi, gli
veniva incontro. Renzo, quando fu poco distante, si levò il cappello, da quel
montanaro rispettoso che era; e tenendolo con la sinistra, mise l'altra mano nel
cocuzzolo, e andò più direttamente verso lo sconosciuto. Ma questo,
stralunando gli occhi affatto, fece un passo addietro, alzò un noderoso
bastone, e voltata la punta, ch'era di ferro, alla vita di Renzo, gridò: - via!
via! via!
- Oh oh! - gridò il giovine anche lui; rimise il cappello in testa, e,
avendo tutt'altra voglia, come diceva poi, quando raccontava la cosa, che di
metter su lite in quel momento, voltò le spalle a quello stravagante, e
continuò la sua strada, o, per meglio dire, quella in cui si trovava avviato.
L'altro tirò avanti anche lui per la sua, tutto fremente, e voltandosi, ogni
momento, indietro. E arrivato a casa, raccontò che gli s'era accostato un
untore, con un'aria umile, mansueta, con un viso d'infame impostore, con lo
scatolino dell'unto, o l'involtino della polvere (non era ben certo qual de'
due) in mano, nel cocuzzolo del cappello, per fargli il tiro, se lui non
l'avesse saputo tener lontano. - Se mi s'accostava un passo di più, -
soggiunse, - l'infilavo addirittura, prima che avesse tempo d'accomodarmi me, il
birbone. La disgrazia fu ch'eravamo in un luogo così solitario, ché se era in
mezzo Milano, chiamavo gente, e mi facevo aiutare a acchiapparlo. Sicuro che gli
si trovava quella scellerata porcheria nel cappello. Ma lì da solo a solo, mi
son dovuto contentare di fargli paura, senza risicare di cercarmi un malanno;
perché un po' di polvere è subito buttata; e coloro hanno una destrezza
particolare; e poi hanno il diavolo dalla loro. Ora sarà in giro per Milano:
chi sa che strage fa! - E fin che visse, che fu per molt'anni, ogni volta che si
parlasse d'untori, ripeteva la sua storia, e soggiungeva: - quelli che
sostengono ancora che non era vero, non lo vengano a dire a me; perché le cose
bisogna averle viste.
Renzo, lontano dall'immaginarsi come l'avesse scampata bella, e agitato più
dalla rabbia che dalla paura, pensava, camminando, a quell'accoglienza, e
indovinava bene a un di presso ciò che lo sconosciuto aveva pensato di lui; ma
la cosa gli pareva così irragionevole, che concluse tra sé che colui doveva
essere un qualche mezzo matto. "La principia male, - pensava però: - par
che ci sia un pianeta per me, in questo Milano. Per entrare, tutto mi va a
seconda; e poi, quando ci son dentro, trovo i dispiaceri lì apparecchiati.
Basta... coll'aiuto di Dio... se trovo... se ci riesco a trovare... eh! tutto
sarà stato niente".
Arrivato al ponte, voltò, senza esitare, a sinistra, nella strada di san
Marco, parendogli, a ragione, che dovesse condurre verso l'interno della città.
E andando avanti, guardava in qua e in là, per veder se poteva scoprire qualche
creatura umana; ma non ne vide altra che uno sformato cadavere nel piccol fosso
che corre tra quelle poche case (che allora erano anche meno), e un pezzo della
strada. Passato quel pezzo, sentì gridare: - o quell'uomo! - e guardando da
quella parte, vide poco lontano, a un terrazzino d'una casuccia isolata, una
povera donna, con una nidiata di bambini intorno; la quale, seguitandolo a
chiamare, gli fece cenno anche con la mano. Ci andò di corsa; e quando fu
vicino, - o quel giovine, - disse quella donna: - per i vostri poveri morti,
fate la carità d'andare a avvertire il commissario che siamo qui dimenticati.
Ci hanno chiusi in casa come sospetti, perché il mio povero marito è morto; ci
hanno inchiodato l'uscio, come vedete; e da ier mattina, nessuno è venuto a
portarci da mangiare. In tante ore che siam qui, non m'è mai capitato un
cristiano che me la facesse questa carità: e questi poveri innocenti moion di
fame.
- Di fame! - esclamò Renzo; e, cacciate le mani nelle tasche, - ecco, ecco,
- disse, tirando fuori i due pani: - calatemi giù qualcosa da metterli dentro.
- Dio ve ne renda merito; aspettate un momento, - disse quella donna; e andò
a cercare un paniere, e una fune da calarlo, come fece. A Renzo intanto gli
vennero in mente que' pani che aveva trovati vicino alla croce, nell'altra sua
entrata in Milano, e pensava: "ecco: è una restituzione, e forse meglio
che se gli avessi restituiti al proprio padrone: perché qui è veramente
un'opera di misericordia".
In quanto al commissario che dite, la mia donna, - disse poi, mettendo i pani
nel paniere, - io non vi posso servire in nulla; perché, per dirvi la verità,
son forestiero, e non son niente pratico di questo paese. Però, se incontro
qualche uomo un po' domestico e umano, da potergli parlare, lo dirò a lui.
La donna lo pregò che facesse così, e gli disse il nome della strada, onde
lui sapesse indicarla.
- Anche voi, - riprese Renzo, - credo che potrete farmi un piacere, una vera
carità, senza vostro incomodo. Una casa di cavalieri, di gran signoroni, qui di
Milano, casa *** sapreste insegnarmi dove sia?
- So che la c'è questa casa, - rispose la donna: - ma dove sia, non lo so
davvero. Andando avanti di qua, qualcheduno che ve la insegni, lo troverete. E
ricordatevi di dirgli anche di noi.
- Non dubitate, - disse Renzo, e andò avanti.
A ogni passo, sentiva crescere e avvicinarsi un rumore che già aveva
cominciato a sentire mentre era lì fermo a discorrere: un rumor di ruote e di
cavalli, con un tintinnìo di carnpanelli, e ogni tanto un chioccar di fruste,
con un accompagnamento d'urli. Guardava innanzi, ma non vedeva nulla. Arrivato
allo sbocco di quella strada, scoprendosegli davanti la piazza di san Marco, la
prima cosa che gli diede nell'occhio, furon due travi ritte, con una corda, e
con certe carrucole; e non tardò a riconoscere (ch'era cosa famigliare in quel
tempo) l'abbominevole macchina della tortura. Era rizzata in quel luogo, e non
in quello soltanto, ma in tutte le piazze e nelle strade più spaziose,
affinché i deputati d'ogni quartiere, muniti a questo d'ogni facoltà più
arbitraria, potessero farci applicare immediatamente chiunque paresse loro
meritevole di pena: o sequestrati che uscissero di casa, o subalterni che non
facessero il loro dovere, o chiunque altro. Era uno di que' rimedi eccessivi e
inefficaci de' quali, a quel tempo, e in que' momenti specialmente, si faceva
tanto scialacquìo.
Ora, mentre Renzo guarda quello strumento, pensando perché possa essere
alzato in quel luogo, sente avvicinarsi sempre più il rumore, e vede spuntar
dalla cantonata della chiesa un uomo che scoteva un campanello: era un
apparitore; e dietro a lui due cavalli che, allungando il collo, e puntando le
zampe, venivano avanti a fatica; e strascinato da quelli, un carro di morti, e
dopo quello un altro, e poi un altro e un altro; e di qua e di là, monatti alle
costole de' cavalli, spingendoli, a frustate, a punzoni, a bestemmie. Eran que'
cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involtati in qualche cencio,
ammonticchiati, intrecciati insieme, come un gruppo di serpi che lentamente si
svolgano al tepore della primavera; ché, a ogni intoppo, a ogni scossa, si
vedevan que' mucchi funesti tremolare e scompaginarsi bruttamente, e ciondolar
teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle
rote, mostrando all'occhio già inorridito come un tale spettacolo poteva
divenire più doloroso e più sconcio.
Il giovine s'era fermato sulla cantonata della piazza, vicino alla sbarra del
canale, e pregava intanto per que' morti sconosciuti. Un atroce pensiero gli
balenò in mente: "forse là, là insieme, là sotto... Oh, Signore! fate
che non sia vero! fate ch'io non ci pensi!"
Passato il convoglio funebre, Renzo si mosse, attraversò la piazza,
prendendo lungo il canale a mancina, senz'altra ragione della scelta, se non che
il convoglio era andato dall'altra parte. Fatti que' quattro passi tra il fianco
della chiesa e il canale, vide a destra il ponte Marcellino; prese di lì, e
riuscì in Borgo Nuovo. E guardando innanzi, sempre con quella mira di trovar
qualcheduno da farsi insegnar la strada, vide in fondo a quella un.prete in
farsetto, con un bastoncino in mano, ritto vicino a un uscio socchiuso, col capo
chinato, e l'orecchio allo spiraglio; e poco dopo lo vide alzar la mano e
benedire. Congetturò quello ch'era di fatto, cioè che finisse di confessar
qualcheduno; e disse tra sé: "questo è l'uomo che fa per me. Se un
prete, in funzion di prete, non ha un po' di carità, un po' d'amore e di buona
grazia, bisogna dire che non ce ne sia più in questo mondo".
Intanto il prete, staccatosi dall'uscio, veniva dalla parte di Renzo,
tenendosi, con gran riguardo, nel mezzo della strada. Renzo, quando gli fu
vicino, si levò il cappello, e gli accennò che desiderava parlargli,
fermandosi nello stesso tempo, in maniera da fargli intendere che non si sarebbe
accostato di più. Quello pure si fermò, in atto di stare a sentire, puntando
però in terra il suo bastoncino davanti a sé, come per farsene un baluardo.
Renzo espose la sua domanda, alla quale il prete soddisfece, non solo con dirgli
il nome della strada dove la casa era situata, ma dandogli anche, come vide che
il poverino n'aveva bisogno, un po' d'itinerario; indicandogli, cioè, a forza
di diritte e di mancine, di chiese e di croci, quell'altre sei o otto strade che
aveva da passare per arrivarci.
- Dio la mantenga sano, in questi tempi, e sempre, - disse Renzo: e mentre
quello si moveva per andarsene, - un'altra carità, - soggiunse; e gli disse
della povera donna dimenticata. Il buon prete ringraziò lui d'avergli dato
occasione di fare una carità così necessaria; e, dicendo che andava ad
avvertire chi bisognava, tirò avanti. Renzo si mosse anche lui, e, camminando,
cercava di fare a se stesso una ripetizione dell'itinerario, per non esser da
capo a dover domandare a ogni cantonata. Ma non potreste immaginarvi come
quell'operazione gli riuscisse penosa, e non tanto per la difficoltà della cosa
in sé, quanto per un nuovo turbamento che gli era nato nell'animo. Quel nome
della strada, quella traccia del cammino l'avevan messo così sottosopra. Era
l'indizio che aveva desiderato e domandato, e del quale non poteva far di meno;
né gli era stato detto nient'altro, da che potesse ricavare nessun augurio
sinistro; ma che volete? quell'idea un po' più distinta d'un termine vicino,
dove uscirebbe d'una grand'incertezza, dove potrebbe sentirsi dire: è viva, o
sentirsi dire: è morta; quell'idea l'aveva così colpito che, in quel momento,
gli sarebbe piaciuto più di trovarsi ancora ai buio di tutto, d'essere al
principio del viaggio, di cui ormai toccava la fine. Raccolse però le sue
forze, e disse a se stesso: "ehi! se principiamo ora a fare il ragazzo,
com'anderà?" Così rinfrancato alla meglio, seguitò la sua strada,
inoltrandosi nella città.
Quale città! e cos'era mai, al paragone, quello ch'era stata l'anno avanti,
per cagion della fame!
Renzo s'abbatteva appunto a passare per una delle parti più squallide e più
desolate: quella crociata di strade che si chiamava il carrobio di porta
Nuova. (C'era allora una croce nel mezzo, e, dirimpetto ad essa, accanto a dove
ora è san Francesco di Paola, una vecchia chiesa col titolo di sant'Anastasia).
Tanta era stata in quel vicinato la furia del contagio, e il fetor de' cadaveri
lasciati lì che i pochi rimasti vivi erano stati costretti a sgomberare:
sicché, alla mestizia che dava al passeggiero quell'aspetto di solitudine e
d'abbandono, s'aggiungeva l'orrore e lo schifo delle tracce e degli avanzi della
recente abitazione. Renzo affrettò il passo, facendosi coraggio col pensare che
la meta non doveva essere così vicina, e sperando che, prima d'arrivarci,
troverebbe mutata, almeno in parte, la scena; e infatti, di lì a non molto,
riuscì in un luogo che poteva pur dirsi città di viventi; ma quale città
ancora, e quali viventi! Serrati, per sospetto e per terrore, tutti gli usci di
strada, salvo quelli che fossero spalancati per esser le case disabitate, o
invase; altri inchiodati e sigillati, per esser nelle case morta o ammalata
gente di peste; altri segnati d'una croce fatta col carbone, per indizio ai
monatti, che c'eran de' morti da portar via: il tutto più alla ventura che
altro, secondo che si fosse trovato piuttosto qua che là un qualche commissario
della Sanità o altro impiegato, che avesse voluto eseguir gli ordini, o fare
un'angheria. Per tutto cenci e, più ributtanti de' cenci, fasce marciose,
strame ammorbato, o lenzoli buttati dalle finestre; talvolta corpi, o di persone
morte all'improvviso, nella strada, e lasciati lì fin che passasse un carro da
portarli via, o cascati da' carri medesimi, o buttati anch'essi dalle finestre:
tanto l'insistere e l'imperversar del disastro aveva insalvatichiti gli animi, e
fatto dimenticare ogni cura di pietà, ogni, riguardo sociale! Cessato per tutto
ogni rumor di botteghe, ogni strepito di carrozze, ogni grido di venditori, ogni
chiacchierìo di passeggieri, era ben raro che quel silenzio di morte fosse
rotto da altro che da rumor di carri funebri, da lamenti di poveri, da
rammarichìo d'infermi, da urli di frenetici, da grida di monatti. All'alba, a
mezzogiorno, a sera, una campana del duomo dava il segno di recitar certe preci
assegnate dall'arcivescovo: a quel tocco rispondevan le campane dell'altre
chiese; e allora avreste veduto persone affacciarsi alle finestre, a pregare in
comune; avreste sentito un bisbiglio di voci e di gemiti, che spirava una
tristezza mista pure di qualche conforto.
Morti a quell'ora forse i due terzi de' cittadini, andati via o ammalati una
buona parte del resto, ridotto quasi a nulla il concorso della gente di fuori,
de' pochi che andavan per le strade, non se ne sarebbe per avventura, in un
lungo giro, incontrato uno solo in cui non si vedesse qualcosa di strano, e che
dava indizio d'una funesta mutazione di cose. Si vedevano gli uomini più
qualificati, senza cappa né mantello, parte allora essenzialissima del
vestiario civile; senza sottana i preti, e anche de' religiosi in farsetto;
dismessa in somma ogni sorte di vestito che potesse con gli svolazzi toccar
qualche cosa, o dare (ciò che si temeva più di tutto il resto) agio agli
untori. E fuor di questa cura d'andar succinti e ristretti il più che fosse
possibile, negletta e trasandata ogni persona; lunghe le barbe di quelli che
usavan portarle, cresciute a quelli che prima costumavan di raderle; lunghe pure
e arruffate le capigliature, non solo per quella trascuranza che nasce da un
invecchiato abbattimento, ma per esser divenuti sospetti i barbieri, da che era
stato preso e condannato, come untor famoso, uno di loro, Giangiacomo Mora: nome
che, per un pezzo, conservò una celebrità municipale d'infamia, e ne
meriterebbe una ben più diffusa e perenne di pietà. I più tenevano da una
mano un bastone, alcuni anche una pistola, per avvertimento minaccioso a chi
avesse voluto avvicinarsi troppo; dall'altra pasticche odorose, o palle di
metallo o di legno traforate, con dentro spugne inzuppate d'aceti medicati; e se
le andavano ogni tanto mettendo al naso, o ce le tenevano di continuo. Portavano
alcuni attaccata al collo una boccetta con dentro un po' d'argento vivo,
persuasi che avesse la virtù d'assorbire e di ritenere ogni esalazione
pestilenziale; e avevan poi cura di rinnovarlo ogni tanti giorni. I
gentiluomini, non solo uscivano senza il solito seguito, ma si vedevano, con una
sporta in braccio, andare a comprar le cose necessarie al vitto. Gli amici,
quando pur due s'incontrassero per la strada, si salutavan da lontano, con cenni
taciti e frettolosi. Ognuno, camminando, aveva molto da fare, per iscansare gli
schifosi e mortiferi inciampi di cui il terreno era sparso e, in qualche luogo,
anche affatto ingombro: ognuno cercava di stare in mezzo alla strada, per timore
d'altro sudiciume, o d'altro più funesto peso che potesse venir giù dalle
finestre; per timore delle polveri venefiche che si diceva esser spesso buttate
da quelle su' passeggieri; per timore delle muraglie, che potevan esser unte.
Così l'ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora angustie
all'angustie, e dava falsi terrori, in compenso de' ragionevoli e salutari che
aveva levati da principio.
Tal era ciò che di meno deforme e di men compassionevole si faceva vedere
intorno, i sani, gli agiati: ché, dopo tante immagini di miseria, e pensando a
quella ancor più grave, per mezzo alla quale dovrem condurre il lettore, non ci
fermeremo ora a dir qual fosse lo spettacolo degli appestati che si
strascicavano o giacevano per le strade, de' poveri, de' fanciulli, delle donne.
Era tale, che il riguardante poteva trovar quasi un disperato conforto in ciò
che ai lontani e ai posteri fa la più forte e dolorosa impressione; nel
pensare, dico, nel vedere quanto que' viventi fossero ridotti a pochi.
In mezzo a questa desolazione aveva Renzo fatto già una buona parte del suo
cammino, quando, distante ancor molti passi da una strada in cui doveva voltare,
sentì venir da quella un vario frastono, nel quale si faceva distinguere quel
solito orribile tintinnìo.
Arrivato alla cantonata della strada, ch'era una delle più larghe, vide
quattro carri fermi nel mezzo; e come, in un mercato di granaglie, si vede un
andare e venire di gente, un caricare e un rovesciar di sacchi, tale era il
movimento in quel luogo: monatti ch'entravan nelle case, monatti che n'uscivan
con un peso su le spalle, e lo mettevano su l'uno o l'altro carro: alcuni con la
divisa rossa, altri senza quel distintivo, molti con uno ancor più odioso,
pennacchi e fiocchi di vari colori, che quegli sciagurati portavano come per
segno d'allegria, in tanto pubblico lutto. Ora da una, ora da un'altra finestra,
veniva una voce lugubre: - qua, monatti! - E con suono ancor più sinistro, da
quel tristo brulichìo usciva qualche vociaccia che rispondeva: - ora, ora -.
Ovvero eran pigionali che brontolavano, e dicevano di far presto: ai quali i
monatti rispondevano con bestemmie.
Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar
quegl'ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo
sguardo s'incontrò in un oggetto singolare di pietà, d'una pietà che
invogliava l'animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza
volerlo.
Scendeva dalla soglia d'uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una
donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi
traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione,
e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla
nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi
non davan lacrime, ma portavan segno d'averne sparse tante; c'era in quel dolore
un non so che di pacato e di profondo, che attestava un'anima tutta consapevole
e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la
indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel
sentimento ormai stracco e ammortito ne' cuori. Portava essa in collo una
bambina di forse nov'anni, morta; ma tutta ben accomodata, co' capelli divisi
sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l'avessero
adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva
a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto,
come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera
spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava
sull'omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre,
ché, se anche la somiglianza de' volti non n'avesse fatto fede, l'avrebbe detto
chiaramente quello de' due ch'esprimeva ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie
però d'insolito rispetto, con un'esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi
indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, - no! - disse: - non me la
toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete -. Così dicendo,
aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il
monatto le tese. Poi continuò: - promettetemi di non levarle un filo d'intorno,
né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così.
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi
ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per
l'inaspettata ricompensa, s'affaccendò a far un po' di posto sul carro per la
morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un
letto, ce l'accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l'ultime parole:
- addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre
insieme. Prega intanto per noi; ch'io pregherò per te e per gli altri -. Poi
voltatasi di nuovo al monatto, - voi, - disse, - passando di qui verso sera,
salirete a prendere anche me, e non me sola.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra,
tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte
in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché
il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté
fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per
morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col
fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del
prato.
- O Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua
creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!
Riavuto da quella commozione straordinaria, e mentre cerca di tirarsi in
mente l'itinerario per trovare se alla prima strada deve voltare, e se a diritta
o a mancina, sente anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono
confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, un pianger di donne, un mugolìo
di fanciulli.
Andò avanti, con in cuore quella solita trista e oscura aspettativa.
Arrivato al crocicchio, vide da una parte una moltitudine confusa che
s'avanzava, e si fermò lì, per lasciarla passare. Erano ammalati che venivan
condotti al lazzeretto; alcuni, spinti a forza, resistevano in vano, in vano
gridavano che volevan morire sul loro letto, e rispondevano con inutili
imprecazioni alle bestemmie e ai comandi de' monatti che li guidavano; altri
camminavano in silenzio, senza mostrar dolore, né alcun altro sentimento, come
insensati; donne co' bambini in collo; fanciulli spaventati dalle grida, da
quegli ordini, da quella compagnia, più che dal pensiero confuso della morte, i
quali ad alte strida imploravano la madre e le sue braccia fidate, e la casa
loro. Ahi! e forse la madre, che credevano d'aver lasciata addormentata sul suo
letto, ci s'era buttata, sorpresa tutt'a un tratto dalla peste; e stava lì
senza sentimento, per esser portata sur un carro al lazzeretto, o alla fossa, se
il carro veniva più tardi. Forse, o sciagura degna di lacrime ancor più amare!
la madre, tutta occupata de' suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche
i figli, e non aveva più che un pensiero: di morire in pace. Pure, in tanta
confusione, si vedeva ancora qualche esempio di fermezza e di pietà: padri,
madri, fratelli, figli, consorti, che sostenevano i cari loro, e gli
accompagnavano con parole di conforto: né adulti soltanto, ma ragazzetti, ma
fanciulline che guidavano i fratellini più teneri, e, con giudizio e con
compassione da grandi, raccomandavano loro d'essere ubbidienti, gli assicuravano
che s'andava in un luogo dove c'era chi avrebbe cura di loro per farli guarire.
In mezzo alla malinconia e alla tenerezza di tali viste, una cosa toccava
più sul vivo, e teneva in agitazione il nostro viaggiatore. La casa doveva
esser lì vicina, e chi sa se tra quella gente... Ma passata tutta la comitiva,
e cessato quel dubbio, si voltò a un monatto che veniva dietro, e gli domandò
della strada e della casa di don Ferrante. - In malora, tanghero, - fu la
risposta che n'ebbe. Né si curò di dare a colui quella che si meritava; ma,
visto, a due passi, un commissario che veniva in coda al convoglio, e aveva un
viso un po' più di cristiano, fece a lui la stessa domanda. Questo, accennando
con un bastone la parte donde veniva, disse: - la prima strada a diritta,
l'ultima casa grande a sinistra.
Con una nuova e più forte ansietà in cuore, il giovine prende da quella
parte. Č nella strada; distingue subito la casa tra l'altre, più basse e
meschine; s'accosta al portone che è chiuso, mette la mano sul martello, e ce
la tien sospesa, come in un'urna, prima di tirar su la polizza dove fosse
scritta la sua vita, o la sua morte. Finalmente alza il martello, e dà un
picchio risoluto.
Dopo qualche momento, s'apre un poco una finestra; una donna fa capolino,
guardando chi era, con un viso ombroso che par che dica: monatti? vagabondi?
commissari? untori? diavoli?
- Quella signora, - disse Renzo guardando in su, e con voce non troppo
sicura: - ci sta qui a servire una giovine di campagna, che ha nome Lucia?
- La non c'è più; andate, - rispose quella donna, facendo atto di chiudere.
- Un momento, per carità! La non c'è più? Dov'è?
- Al lazzeretto -; e di nuovo voleva chiudere.
- Ma un momento, per l'amor del cielo! Con la peste?
- Già. Cosa nuova, eh? Andate.
- Oh povero me! Aspetti: era ammalata molto? Quanto tempo è...?
Ma intanto la finestra fu chiusa davvero.
- Quella signora! quella signora! una parola, per carità! per i suoi poveri
morti! Non le chiedo niente del suo: ohe! - Ma era come dire al muro.
Afflitto della nuova, e arrabbiato della maniera, Renzo afferrò ancora il
martello, e, così appoggiato alla porta, andava stringendolo e storcendolo,
l'alzava per picchiar di nuovo alla disperata, poi lo teneva sospeso. In
quest'agitazione, si voltò per vedere se mai ci fosse d'intorno qualche vicino,
da cui potesse forse aver qualche informazione più precisa, qualche indizio,
qualche lume. Ma la prima, l'unica persona che vide, fu un'altra donna, distante
forse un venti passi; la quale, con un viso ch'esprimeva terrore, odio,
impazienza e malizia, con cert'occhi stravolti che volevano insieme guardar lui,
e guardar lontano, spalancando la bocca come in atto di gridare a più non
posso, ma rattenendo anche il respiro, alzando due braccia scarne, allungando e
ritirando due mani grinzose e piegate a guisa d'artigli, come se cercasse
d'acchiappar qualcosa, si vedeva che voleva chiamar gente, in modo che
qualcheduno non se n'accorgesse. Quando s'incontrarono a guardarsi, colei,
fattasi ancor più brutta, si riscosse come persona sorpresa.
- Che diamine...? - cominciava Renzo, alzando anche lui le mani verso la
donna; ma questa, perduta la speranza di poterlo far cogliere all'improvviso,
lasciò scappare il grido che aveva rattenuto fin allora: - l'untore! dàgli!
dàgli! dàgli all'untore!
- Chi? io! ah strega bugiarda! sta' zitta, - gridò Renzo; e fece un salto
verso di lei, per impaurirla e farla chetare. Ma s'avvide subito, che aveva
bisogno piuttosto di pensare ai casi suoi. Allo strillar della vecchia,
accorreva gente di qua e di là; non la folla che, in un caso simile, sarebbe
stata, tre mesi prima; ma più che abbastanza per poter fare d'un uomo solo quel
che volessero. Nello stesso tempo, s'aprì di nuovo la finestra, e quella
medesima sgarbata di prima ci s'affacciò questa volta, e gridava anche lei: -
pigliatelo, pigliatelo; che dev'essere uno di que' birboni che vanno in giro a
unger le porte de' galantuomini.
Renzo non istette lì a pensare: gli parve subito miglior partito sbrigarsi
da coloro, che rimanere a dir le sue ragioni: diede un'occhiata a destra e a
sinistra, da che parte ci fosse men gente, e svignò di là. Rispinse con un
urtone uno che gli parava la strada; con un gran punzone nel petto, fece dare
indietro otto o dieci passi un altro che gli correva incontro; e via di galoppo,
col pugno in aria, stretto, nocchiuto, pronto per qualunque altro gli fosse
venuto tra' piedi. La strada davanti era sempre libera; ma dietro le spalle
sentiva il calpestìo e, più forti del calpestìo, quelle grida amare: -
dàgli! dàgli! all'untore! - Non sapeva quando fossero per fermarsi; non vedeva
dove si potrebbe mettere in salvo. L'ira divenne rabbia, l'angoscia si cangiò
in disperazione; e, perso il lume degli occhi, mise mano al suo coltellaccio, lo
sfoderò, si fermò su due piedi, voltò indietro il viso più torvo e più
cagnesco che avesse fatto a' suoi giorni; e, col braccio teso, brandendo in aria
la lama luccicante, gridò: - chi ha cuore, venga avanti, canaglia! che
l'ungerò io davvero con questo.
Ma, con maraviglia, e con un sentimento confuso di consolazione, vide che i
suoi persecutori s'eran già fermati, e stavan lì come titubanti, e che,
seguitando a urlare, facevan, con le mani per aria, certi cenni da spiritati,
come a gente che venisse di lontano dietro a lui. Si voltò di nuovo, e vide
(ché il gran turbamento non gliel aveva lasciato vedere un momento prima) un
carro che s'avanzava, anzi una fila di que' soliti carri funebri, col solito
accompagnamento; e dietro, a qualche distanza, un altro mucchietto di gente che
avrebbero voluto anche loro dare addosso all'untore, e prenderlo in mezzo; ma
eran trattenuti dall'impedimento medesimo. Vistosi così tra due fuochi, gli
venne in mente che ciò che era di terrore a coloro, poteva essere a lui di
salvezza; pensò che non era tempo di far lo schizzinoso; rimise il coltellaccio
nel fodero, si tirò da una parte, prese la rincorsa verso i carri, passò il
primo, e adocchiò nel secondo un buono spazio voto. Prende la mira, spicca un
salto; è su, piantato sul piede destro, col sinistro in aria, e con le braccia
alzate.
- Bravo! bravo! - esclamarono, a una voce, i monatti, alcuni de' quali
seguivano il convoglio a piedi, altri eran seduti sui carri, altri, per dire
l'orribil cosa com'era, sui cadaveri, trincando da un gran fiasco che andava in
giro. - Bravo! bel colpo!
- Sei venuto a metterti sotto la protezione de' monatti; fa' conto d'essere
in chiesa, - gli disse uno de' due che stavano sul carro dov'era montato.
I nemici, all'avvicinarsi del treno, avevano, i più, voltate le spalle, e se
n'andavano, non lasciando di gridare: - dàgli! dàgli! all'untore! -
Qualcheduno si ritirava più adagio, fermandosi ogni tanto, e voltandosi, con
versacci e con gesti di minaccia, a Renzo; il quale, dal carro, rispondeva loro
dibattendo i pugni in aria.
- Lascia fare a me, - gli disse un monatto; e strappato d'addosso a un
cadavere un laido cencio, l'annodò in fretta, e, presolo per una delle cocche,
l'alzò come una fionda verso quegli ostinati, e fece le viste di buttarglielo,
gridando: - aspetta, canaglia! - A quell'atto, fuggiron tutti, inorriditi; e
Renzo non vide più che schiene di nemici, e calcagni che ballavano rapidamente
per aria, a guisa di gualchiere.
Tra i monatti s'alzò un urlo di trionfo, uno scroscio procelloso di risa, un
- uh! - prolungato, come per accompagnar quella fuga.
- Ah ah! vedi se noi sappiamo proteggere i galantuomini? disse a Renzo quel
monatto: - val più uno di noi che cento di que' poltroni.
- Certo, posso dire che vi devo la vita, - rispose Renzo: - e vi ringrazio
con tutto il cuore.
- Di che cosa? - disse il monatto: - tu lo meriti: si vede che sei un bravo
giovine. Fai bene a ungere questa canaglia: ungili, estirpali costoro, che non
vaglion qualcosa, se non quando son morti; che, per ricompensa della vita che
facciamo, ci maledicono, e vanno dicendo che, finita la morìa, ci voglion fare
impiccar tutti. Hanno a finir prima loro che la morìa, e i monatti hanno a
restar soli, a cantar vittoria, e a sguazzar per Milano.
- Viva la morìa, e moia la marmaglia! - esclamò l'altro; e, con questo bel
brindisi, si mise il fiasco alla bocca, e, tenendolo con tutt'e due le mani, tra
le scosse del carro, diede una buona bevuta, poi lo porse a Renzo, dicendo: -
bevi alla nostra salute.
- Ve l'auguro a tutti, con tutto il cuore, - disse Renzo: - ma non ho sete;
non ho proprio voglia di bere in questo momento.
- Tu hai avuto una bella paura, a quel che mi pare, - disse il monatto: -
m'hai l'aria d'un pover'uomo; ci vuol altri visi a far l'untore.
- Ognuno s'ingegna come può, - disse l'altro.
- Dammelo qui a me, - disse uno di quelli che venivano a piedi accanto al
carro, - ché ne voglio bere anch'io un altro sorso, alla salute del suo
padrone, che si trova qui in questa bella compagnia... lì, lì, appunto, mi
pare, in quella bella carrozzata.
E, con un suo atroce e maledetto ghigno, accennava il carro davanti a quello
su cui stava il povero Renzo. Poi, composto il viso a un atto di serietà ancor
più bieco e fellonesco, fece una riverenza da quella parte, e riprese: - si
contenta, padron mio, che un povero monattuccio assaggi di quello della sua
cantina? Vede bene: si fa certe vite: siam quelli che l'abbiam messo in
carrozza, per condurlo in villeggiatura. E poi, già a loro signori il vino fa
subito male: i poveri monatti han lo stomaco buono.
E tra le risate de' compagni, prese il fiasco, e l'alzò; ma, prima di bere,
si voltò a Renzo, gli fissò gli occhi in viso, e gli disse, con una cert'aria
di compassione sprezzante: - bisogna che il diavolo col quale hai fatto il
patto, sia ben giovine; ché, se non eravamo lì noi a salvarti, lui ti dava un
bell'aiuto -. E tra un nuovo scroscio di risa, s'attaccò il fiasco alle labbra.
- E noi? eh! e noi? - gridaron più voci dal carro ch'era avanti. Il birbone,
tracannato quanto ne volle, porse, con tutt'e due le mani, il gran fiasco a
quegli altri suoi simili, i quali se lo passaron dall'uno all'altro, fino a uno
che, votatolo, lo prese per il collo, gli fece fare il mulinello, e lo scagliò
a fracassarsi sulle lastre, gridando: - viva la morìa! - Dietro a queste
parole, intonò una loro canzonaccia; e subito alla sua voce s'accompagnaron
tutte l'altre di quel turpe coro. La cantilena infernale, mista al tintinnìo
de' campanelli, al cigolìo de' carri, al calpestìo de' cavalli, risonava nel
voto silenzioso delle strade, e, rimbombando nelle case, stringeva amaramente il
cuore de' pochi che ancor le abitavano.
Ma cosa non può alle volte venire in acconcio? cosa non può far piacere in
qualche caso? Il pericolo d'un momento prima aveva resa più che tollerabile a
Renzo la compagnia di que' morti e di que' vivi; e ora fu a' suoi orecchi una
musica, sto per dire, gradita, quella che lo levava dall'impiccio d'una tale
conversazione. Ancor mezzo affannato, e tutto sottosopra, ringraziava intanto
alla meglio in cuor suo la Provvidenza, d'essere uscito d'un tal frangente,
senza ricever male né farne; la pregava che l'aiutasse ora a liberarsi anche
da' suoi liberatori; e dal canto suo, stava all'erta, guardava quelli, guardava
la strada, per cogliere il tempo di sdrucciolar giù quatto quatto, senza dar
loro occasione di far qualche rumore, qualche scenata, che mettesse in malizia i
passeggieri.
Tutt'a un tratto, a una cantonata, gli parve di riconoscere il luogo: guardò
più attentamente, e ne fu sicuro. Sapete dov'era? Sul corso di porta orientale,
in quella strada per cui era venuto adagio, e tornato via in fretta, circa venti
mesi prima. Gli venne subito in mente che di lì s'andava diritto al lazzeretto;
e questo trovarsi sulla strada giusta, senza studiare, senza domandare, l'ebbe
per un tratto speciale della Provvidenza, e per buon augurio del rimanente. In
quel punto, veniva incontro ai carri un commissario, gridando a' monatti di
fermare, e non so che altro: il fatto è che il convoglio si fermò, e la musica
si cambiò in un diverbio rumoroso, Uno de' monatti ch'eran sul carro di Renzo,
saltò giù: Renzo disse all'altro: - vi ringrazio della vostra carità: Dio ve
ne renda merito -; e giù anche lui, dall'altra parte.
- Va', va', povero untorello, - rispose colui: - non sarai tu quello che
spianti Milano.
Per fortuna, non c'era chi potesse sentire. Il convoglio era fermato sulla
sinistra del corso: Renzo prende in fretta dall'altra parte, e, rasentando il
muro, trotta innanzi verso il ponte; lo passa, continua per la strada del borgo,
riconosce il convento de' cappuccini, è vicino alla porta, vede spuntar
l'angolo del lazzeretto, passa il cancello, e gli si spiega davanti la scena
esteriore di quel recinto: un indizio appena e un saggio, e già una vasta,
diversa, indescrivibile scena.
Lungo i due lati che si presentano a chi guardi da quel punto, era tutto un
brulichìo; erano ammalati che andavano, in compagnie, al lazzeretto; altri che
sedevano o giacevano sulle sponde del fossato che lo costeggia; sia che le forze
non fosser loro bastate per condursi fin dentro al ricovero, sia che, usciti di
là per disperazione, le forze fosser loro ugualmente mancate per andar più
avanti. Altri meschini erravano sbandati, come stupidi, e non pochi fuor di sé
affatto; uno stava tutto infervorato a raccontar le sue immaginazioni a un
disgraziato che giaceva oppresso dal male; un altro dava nelle smanie; un altro
guardava in qua e in là con un visino ridente, come se assistesse a un lieto
spettacolo. Ma la specie più strana e più rumorosa d'una tal trista
allegrezza, era un cantare alto e continuo, il quale pareva che non venisse
fuori da quella miserabile folla, e pure si faceva sentire più che tutte
l'altre voci: una canzone contadinesca d'amore gaio e scherzevole, di quelle che
chiamavan villanelle; e andando con lo sguardo dietro al suono, per iscoprire
chi mai potesse esser contento, in quel tempo, in quel luogo, si vedeva un
meschino che, seduto tranquillamente in fondo al fossato, cantava a più non
posso, con la testa per aria.
Renzo aveva appena fatti alcuni passi lungo il lato meridionale
dell'edifizio, che si sentì in quella moltitudine un rumore straordinario, e di
lontano voci che gridavano: guarda! piglia! S'alza in punta di piedi, e vede un
cavallaccio che andava di carriera, spinto da un più strano cavaliere: era un
frenetico che, vista quella bestia sciolta e non guardata, accanto a un carro,
c'era montato in fretta a bisdosso, e, martellandole il collo co' pugni, e
facendo sproni de' calcagni, la cacciava in furia; e monatti dietro, urlando; e
tutto si ravvolse in un nuvolo di polvere, che volava lontano.
Così, già sbalordito e stanco di veder miserie, il giovine arrivò alla
porta di quel luogo dove ce n'erano adunate forse più che non ce ne fosse di
sparse in tutto lo spazio che gli era già toccato di percorrere. S'affaccia a
quella porta, entra sotto la volta, e rimane un momento immobile a mezzo del
portico.
CAPITOLO XXXV
S'immagini il lettore il recinto del lazzeretto, popolato di sedici mila
appestati; quello spazio tutt'ingombro, dove di capanne e di baracche, dove di
carri, dove di gente; quelle due interminate fughe di portici, a destra e a
sinistra, piene, gremite di languenti o di cadaveri confusi, sopra sacconi, o
sulla paglia; e su tutto quel quasi immenso covile, un brulichìo, come un
ondeggiamento; e qua e là, un andare e venire, un fermarsi, un correre, un
chinarsi, un alzarsi, di convalescenti, di frenetici, di serventi. Tale fu lo
spettacolo che riempì a un tratto la vista di Renzo, e lo tenne lì,
sopraffatto e compreso. Questo spettacolo, noi non ci proponiam certo di
descriverlo a parte a parte, né il lettore lo desidera; solo, seguendo il
nostro giovine nel suo penoso giro, ci fermeremo alle sue fermate, e di ciò che
gli toccò di vedere diremo quanto sia necessario a raccontar ciò che fece, e
ciò che gli seguì.
Dalla porta dove s'era fermato, fino alla cappella del mezzo, e di là
all'altra porta in faccia, c'era come un viale sgombro di capanne e d'ogni altro
impedimento stabile; e alla seconda occhiata, Renzo vide in quello un tramenìo
di carri, un portar via roba, per far luogo; vide cappuccini e secolari che
dirigevano quell'operazione, e insieme mandavan via chi non ci avesse che fare.
E temendo d'essere anche lui messo fuori in quella maniera, si cacciò
addirittura tra le capanne, dalla parte a cui si trovava casualmente voltato,
alla diritta.
Andava avanti, secondo che vedeva posto da poter mettere il piede, da capanna
a capanna, facendo capolino in ognuna, e osservando i letti ch'eran fuori allo
scoperto, esaminando volti abbattuti dal patimento, o contratti dallo spasimo, o
immobili nella morte, se mai gli venisse fatto di trovar quello che pur temeva
di trovare. Ma aveva già fatto un bel pezzetto di cammino, e ripetuto più e
più volte quel doloroso esame, senza veder mai nessuna donna: onde s'immaginò
che dovessero essere in un luogo separato. E indovinava; ma dove fosse, non
n'aveva indizio, né poteva argomentarlo. Incontrava ogni tanto ministri, tanto
diversi d'aspetto e di maniere e d'abito, quanto diverso e opposto era il
principio che dava agli uni e agli altri una forza uguale di vivere in tali
servizi: negli uni l'estinzione d'ogni senso di pietà, negli altri una pietà
sovrumana. Ma né agli uni né agli altri si sentiva di far domande, per non
procacciarsi alle volte un inciampo; e deliberò d'andare, andare, fin che
arrivasse a trovar donne. E andando non lasciava di spiare intorno; ma di tempo
in tempo era costretto a ritirare lo sguardo contristato, e come abbagliato da
tante piaghe. Ma dove rivolgerlo, dove riposarlo, che sopra altre piaghe?
L'aria stessa e il cielo accrescevano, se qualche cosa poteva accrescerlo,
l'orrore di quelle viste. La nebbia s'era a poco a poco addensata e accavallata
in nuvoloni che, rabbuiandosi sempre più, davano idea d'un annottar tempestoso;
se non che, verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da
un fitto velo, la spera del sole, pallida, che spargeva intorno a sé un barlume
fioco e sfumato, e pioveva un calore morto e pesante. Ogni tanto, tra mezzo al
ronzìo continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di
tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; né, tendendo l'orecchio, avreste
saputo distinguere da che parte venisse; o avreste potuto crederlo un correr
lontano di carri, che si fermassero improvvisamente. Non si vedeva, nelle
campagne d'intorno, moversi un ramo d'albero, né un uccello andarvisi a posare,
o staccarsene: solo la rondine, comparendo subitamente di sopra il tetto del
recinto, sdrucciolava in giù con l'ali tese, come per rasentare il terreno del
campo; ma sbigottita da quel brulichìo, risaliva rapidamente, e fuggiva. Era
uno di que' tempi, in cui, tra una compagnia di viandanti non c'è nessuno che
rompa il silenzio; e il cacciatore cammina pensieroso, con lo sguardo a terra; e
la villana, zappando nel campo, smette di cantare, senza avvedersene; di que'
tempi forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e
agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so
quale gravezza a ogni operazione, all'ozio, all'esistenza stessa. Ma in quel
luogo destinato per sé al patire e al morire, si vedeva l'uomo già alle prese
col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia
peggiorar precipitosamente; e insieme, l'ultima lotta era più affannosa, e
nell'aumento de' dolori, i gemiti più soffogati: né forse su quel luogo di
miserie era ancor passata un'ora crudele al par di questa.
Già aveva il giovine girato un bel pezzo, e senza frutto, per
quell'andirivieni di capanne, quando, nella varietà de' lamenti e nella
confusione del mormorìo, cominciò a distinguere un misto singolare di vagiti e
di belati; fin che arrivò a un assito scheggiato e sconnesso, di dentro il
quale veniva quel suono straordinario. Mise un occhio a un largo spiraglio, tra
due asse, e vide un recinto con dentro capanne sparse, e, così in quelle, come
nel piccol campo, non la solita infermeria, ma bambinelli a giacere sopra
materassine, o guanciali, o lenzoli distesi, o topponi; e balie e altre donne in
faccende; e, ciò che più di tutto attraeva e fermava lo sguardo, capre
mescolate con quelle, e fatte loro aiutanti: uno spedale d'innocenti, quale il
luogo e il tempo potevan darlo. Era, dico, una cosa singolare a vedere alcune di
quelle bestie, ritte e quiete sopra questo e quel bambino, dargli la poppa; e
qualche altra accorrere a un vagito, come con senso materno, e fermarsi presso
il piccolo allievo, e procurar d'accomodarcisi sopra, e belare, e dimenarsi,
quasi chiamando chi venisse in aiuto a tutt'e due.
Qua e là eran sedute balie con bambini al petto; alcune in tal atto d'amore,
da far nascer dubbio nel riguardante, se fossero state attirate in quel luogo
dalla paga, o da quella carità spontanea che va in cerca de' bisogni e de'
dolori. Una di esse, tutta accorata, staccava dal suo petto esausto un
meschinello piangente, e andava tristamente cercando la bestia, che potesse far
le sue veci. Un'altra guardava con occhio di compiacenza quello che le si era
addormentato alla poppa, e baciatolo mollemente, andava in una capanna a posarlo
sur una materassina. Ma una terza, abbandonando il suo petto al lattante
straniero, con una cert'aria però non di trascuranza, ma di preoccupazione,
guardava fisso il cielo: a che pensava essa, in quell'atto, con quello sguardo,
se non a un nato dalle sue viscere, che, forse poco prima, aveva succhiato quel
petto, che forse c'era spirato sopra? Altre donne più attempate attendevano ad
altri servizi. Una accorreva alle grida d'un bambino affamato, lo prendeva, e lo
portava vicino a una capra che pascolava a un mucchio d'erba fresca, e glielo
presentava alle poppe, gridando l'inesperto animale e accarezzandolo insieme,
affinché si prestasse dolcemente all'ufizio. Questa correva a prendere un
poverino, che una capra tutt'intenta a allattarne un altro, pestava con una
zampa: quella portava in qua e in la il suo, ninnandolo, cercando, ora
d'addormentarlo col canto, ora d'acquietarlo con dolci parole, chiamandolo con
un nome ch'essa medesima gli aveva messo. Arrivò in quel punto un cappuccino
con la barba bianchissima, portando due bambini strillanti, uno per braccio,
raccolti allora vicino alle madri spirate; e una donna corse a riceverli, e
andava guardando tra la brigata e nel gregge, per trovar subito chi tenesse lor
luogo di madre.
Più d'una volta il giovine, spinto da quello ch'era il primo, e il più
forte de' suoi pensieri, s'era staccato dallo spiraglio per andarsene; e poi ci
aveva rimesso l'occhio, per guardare ancora un momento.
Levatosi di lì finalmente, andò costeggiando l'assito, fin che un
mucchietto di capanne appoggiate a quello, lo costrinse a voltare. Andò allora
lungo le capanne, con la mira di riguadagnar l'assito, d'andar fino alla fine di
quello, e scoprir paese nuovo. Ora, mentre guardava innanzi, per studiar la
strada, un'apparizione repentina, passeggiera, istantanea, gli ferì lo sguardo,
e gli mise l'animo sottosopra. Vide, a un cento passi di distanza, passare e
perdersi subito tra le baracche un cappuccino, un cappuccino che, anche così da
lontano e così di fuga, aveva tutto l'andare, tutto il fare, tutta la forma del
padre Cristoforo. Con la smania che potete pensare, corse verso quella parte; e
lì, a girare, a cercare, innanzi, indietro, dentro e fuori, per quegli
andirivieni, tanto che rivide, con altrettanta gioia, quella forma, quel frate
medesimo; lo vide poco lontano, che, scostandosi da una caldaia, andava, con una
scodella in mano, verso una capanna; poi lo vide sedersi sull'uscio di quella,
fare un segno di croce sulla scodella che teneva dinanzi; e, guardando intorno,
come uno che stia sempre all'erta, mettersi a mangiare. Era proprio il padre
Cristoforo.
La storia del quale, dal punto che l'abbiam perduto di vista, fino a
quest'incontro, sarà raccontata in due parole. Non s'era mai mosso da Rimini,
né aveva pensato a moversene, se non quando la peste scoppiata in Milano gli
offrì occasione di ciò che aveva sempre tanto desiderato, di dar la sua vita
per il prossimo. Pregò, con grand'istanza, d'esserci richiamato, per assistere
e servire gli appestati. Il conte zio era morto; e del resto c'era più bisogno
d'infermieri che di politici: sicché fu esaudito senza difficoltà. Venne
subito a Milano; entrò nel lazzeretto; e c'era da circa tre mesi.
Ma la consolazione di Renzo nel ritrovare il suo buon frate, non fu intera
neppure un momento: nell'atto stesso d'accertarsi ch'era lui, dovette vedere
quant'era mutato. Il portamento curvo e stentato; il viso scarno e smorto; e in
tutto si vedeva una natura esausta, una carne rotta e cadente, che s'aiutava e
si sorreggeva, ogni momento, con uno sforzo dell'animo.
Andava anche lui fissando lo sguardo nel giovine che veniva verso di lui, e
che, col gesto, non osando con la voce, cercava di farsi distinguere e
riconoscere. - Oh padre Cristoforo! - disse poi, quando gli fu vicino da poter
esser sentito senza alzar la voce.
- Tu qui! - disse il frate, posando in terra la scodella, e alzandosi da
sedere.
- Come sta, padre? come sta?
- Meglio di tanti poverini che tu vedi qui, - rispose il frate: e la sua voce
era fioca, cupa, mutata come tutto il resto. L'occhio soltanto era quello di
prima, e un non so che più vivo e più splendido; quasi la carità, sublimata
nell'estremo dell'opera, ed esultante di sentirsi vicina al suo principio, ci
rimettesse un fuoco più ardente e più puro di quello che l'infermità ci
andava a poco a poco spegnendo.
- Ma tu, - proseguiva, - come sei qui? perché vieni così ad affrontar la
peste?
- L'ho avuta, grazie al cielo. Vengo... a cercar di... Lucia.
- Lucia! è qui Lucia?
- Č qui: almeno spero in Dio che ci sia ancora.
- Č tua moglie?
- Oh caro padre! no che non è mia moglie. Non sa nulla di tutto quello che
è accaduto?
- No, figliuolo: da che Dio m'ha allontanato da voi altri, io non n'ho saputo
più nulla; ma ora ch'Egli mi ti manda, dico la verità che desidero molto di
saperne. Ma... e il bando?
- Le sa dunque, le cose che m'hanno fatto?
- Ma tu, che avevi fatto?
- Senta, se volessi dire d'aver avuto giudizio, quel giorno in Milano, direi
una bugia; ma cattive azioni non n'ho fatte punto.
- Te lo credo, e lo credevo anche prima.
- Ora dunque le potrò dir tutto.
- Aspetta, - disse il frate; e andato alcuni passi fuor della capanna,
chiamò: - padre Vittore! - Dopo qualche momento, comparve un giovine
cappuccino, al quale disse: - fatemi la carità, padre Vittore, di guardare
anche per me, a questi nostri poverini, intanto ch'io me ne sto ritirato; e se
alcuno però mi volesse, chiamatemi. Quel tale principalmente! se mai desse il
più piccolo segno di tornare in sé, avvisatemi subito, per carità.
- Non dubitate, - rispose il giovine; e il vecchio, tornato verso Renzo, -
entriamo qui, - gli disse. - Ma... - soggiunse subito, fermandosi, - tu mi pari
ben rifinito: devi aver bisogno di mangiare.
- Č vero, - disse Renzo: - ora che lei mi ci fa pensare, mi ricordo che sono
ancora digiuno.
- Aspetta, - disse il frate; e, presa un'altra scodella, l'andò a empire
alla caldaia: tornato, la diede, con un cucchiaio, a Renzo; lo fece sedere sur
un saccone che gli serviva di letto; poi andò a una botte ch'era in un canto, e
ne spillò un bicchier di vino, che mise sur un tavolino, davanti al suo
convitato; riprese quindi la sua scodella, e si mise a sedere accanto a lui.
- Oh padre Cristoforo! - disse Renzo: - tocca a lei a far codeste cose? Ma
già lei è sempre quel medesimo. La ringrazio proprio di cuore.
- Non ringraziar me, - disse il frate: - è roba de' poveri; ma anche tu sei
un povero, in questo momento. Ora dimmi quello che non so, dimmi di quella
nostra poverina; e cerca di spicciarti; ché c'è poco tempo, e molto da fare,
come tu vedi.
Renzo principiò, tra una cucchiaiata e l'altra, la storia di Lucia: com'era
stata ricoverata nel monastero di Monza, come rapita... All'immagine di tali
patimenti e di tali pericoli, al pensiero d'essere stato lui quello che aveva
indirizzata in quel luogo la povera innocente, il buon frate rimase senza fiato;
ma lo riprese subito, sentendo com'era stata mirabilmente liberata, resa alla
madre, e allogata da questa presso a donna Prassede.
- Ora le racconterò di me, - proseguì Renzo; e raccontò in succinto la
giornata di Milano, la fuga; e come era sempre stato lontano da casa, e ora,
essendo ogni cosa sottosopra, s'era arrischiato d'andarci; come non ci aveva
trovato Agnese; come in Milano aveva saputo che Lucia era al lazzeretto. - E son
qui, - concluse, - son qui a cercarla, a veder se è viva, e se... mi vuole
ancora... perché... alle volte...
- Ma, - domandò il frate, - hai qualche indizio dove sia stata messa, quando
ci sia venuta?
- Niente, caro padre; niente se non che è qui, se pur la c'è, che Dio
voglia!
- Oh poverino! ma che ricerche hai tu finora fatte qui?
- Ho girato e rigirato; ma, tra l'altre cose, non ho mai visto quasi altro
che uomini. Ho ben pensato che le donne devono essere in un luogo a parte, ma
non ci sono mai potuto arrivare: se è così, ora lei me l'insegnerà.
- Non sai, figliuolo, che è proibito d'entrarci agli uomini che non abbiano
qualche incombenza?
- Ebbene, cosa mi può accadere?
- La regola è giusta e santa, figliuolo caro; e se la quantità e la
gravezza de' guai non lascia che si possa farla osservar con tutto il rigore, è
una ragione questa perché un galantuomo la trasgredisca?
- Ma, padre Cristoforo! - disse Renzo: - Lucia doveva esser mia moglie; lei
sa come siamo stati separati; son venti mesi che patisco, e ho pazienza; son
venuto fin qui, a rischio di tante cose, l'una peggio dell'altra, e ora...
- Non so cosa dire, - riprese il frate, rispondendo piuttosto a' suoi
pensieri che alle parole del giovine: - tu vai con buona intenzione; e piacesse
a Dio che tutti quelli che hanno libero l'accesso in quel luogo, ci si
comportassero come posso fidarmi che farai tu. Dio, il quale certamente benedice
questa tua perseveranza d'affetto, questa tua fedeltà in volere e in cercare
colei ch'Egli t'aveva data; Dio, che è più rigoroso degli uomini, ma più
indulgente, non vorrà guardare a quel che ci possa essere d'irregolare in
codesto tuo modo di cercarla. Ricordati solo, che, della tua condotta in quel
luogo, avremo a render conto tutt'e due; agli uomini facilmente no, ma a Dio
senza dubbio. Vien qui -. In così dire, s'alzò, e nel medesimo tempo anche
Renzo; il quale, non lasciando di dar retta alle sue parole, s'era intanto
consigliato tra sé di non parlare, come s'era proposto prima, di quella tal
promessa di Lucia. "Se sente anche questo, - aveva pensato, - mi fa
dell'altre difficoltà sicuro. O la trovo; e saremo sempre a tempo a
discorrerne; o... e allora! che serve?"
Tiratolo sull'uscio della capanna, ch'era a settentrione, il frate riprese: -
Senti; il nostro padre Felice, che è il presidente qui del lazzeretto, conduce
oggi a far la quarantina altrove i pochi guariti che ci sono. Tu vedi quella
chiesa lì nel mezzo... - e, alzando la mano scarna e tremolante, indicava a
sinistra nell'aria torbida la cupola della cappella, che torreggiava sopra le
miserabili tende; e proseguì: - là intorno si vanno ora radunando, per uscire
in processione dalla porta per la quale tu devi essere entrato.
- Ah! era per questo dunque, che lavoravano a sbrattare la strada.
- Per l'appunto: e tu devi anche aver sentito qualche tocco di quella
campana.
- N'ho sentito uno.
- Era il secondo: al terzo saran tutti radunati: il padre Felice farà loro
un piccolo discorso; e poi s'avvierà con loro. Tu, a quel tocco, portati là;
cerca di metterti dietro quella gente, da una parte della strada, dove, senza
disturbare, né dar nell'occhio, tu possa vederli passare; e vedi... vedi... se
la ci fosse. Se Dio non ha voluto che la ci sia; quella parte, - e alzò di
nuovo la mano, accennando il lato dell'edifizio che avevan dirimpetto: - quella
parte della fabbrica, e una parte del terreno che è lì davanti, è assegnata
alle donne. Vedrai uno stecconato che divide questo da quel quartiere, ma in
certi luoghi interrotto, in altri aperto, sicché non troverai difficoltà per
entrare. Dentro poi, non facendo tu nulla che dia ombra a nessuno, nessuno
probabilmente non dirà nulla a te. Se però ti si facesse qualche ostacolo, dì
che il padre Cristoforo da *** ti conosce, e renderà conto di te. Cercala lì;
cercala con fiducia e... con rassegnazione. Perché, ricordati che non è poco
ciò che tu sei venuto a cercar qui: tu chiedi una persona viva al lazzeretto!
Sai tu quante volte io ho veduto rinnovarsi questo mio povero popolo! quanti ne
ho veduti portar via! quanti pochi uscire!... Va' preparato a fare un
sacrifizio...
- Già; intendo anch'io, - interruppe Renzo stravolgendo gli occhi, e
cambiandosi tutto in viso; - intendo! Vo: guarderò, cercherò, in un luogo,
nell'altro, e poi ancora, per tutto il lazzeretto, in lungo e in largo... e se
non la trovo!...
- Se non la trovi? - disse il frate, con un'aria di serietà e d'aspettativa,
e con uno sguardo che ammoniva.
Ma Renzo, a cui la rabbia riaccesa dall'idea di quel dubbio aveva fatto
perdere il lume degli occhi, ripeté e seguitò: - se non la trovo, vedrò di
trovare qualchedun altro. O in Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo
al mondo, o a casa del diavolo, lo troverò quel furfante che ci ha separati;
quel birbone che, se non fosse stato lui, Lucia sarebbe mia, da venti mesi; e se
eravamo destinati a morire, almeno saremmo morti insieme. Se c'è ancora colui,
lo troverò...
- Renzo! - disse il frate, afferrandolo per un braccio, e guardandolo ancor
più severamente.
- E se lo trovo, - continuò Renzo, cieco affatto dalla collera, - se la
peste non ha già fatto giustizia... Non è più il tempo che un poltrone, co'
suoi bravi d'intorno, possa metter la gente alla disperazione, e ridersene: è
venuto un tempo che gli uomini s'incontrino a viso a viso: e... la farò io la
giustizia!
- Sciagurato! - gridò il padre Cristoforo, con una voce che aveva ripresa
tutta l'antica pienezza e sonorità: - sciagurato! - e la sua testa cadente sul
petto s'era sollevata; le gote si colorivano dell'antica vita; e il fuoco degli
occhi aveva un non so che di terribile.
- Guarda, sciagurato! - E mentre con una mano stringeva e scoteva forte il
braccio di Renzo, girava l'altra davanti a sé, accennando quanto più poteva
della dolorosa scena all'intorno. - Guarda chi è Colui che gastiga! Colui che
giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme
della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va',
sciagurato, vattene! Io, speravo... sì, ho sperato che, prima della mia morte,
Dio m'avrebbe data questa consolazione di sentir che la mia povera Lucia fosse
viva; forse di vederla, e di sentirmi prometter da lei che rivolgerebbe una
preghiera là verso quella fossa dov'io sarò. Va', tu m'hai levata la mia
speranza. Dio non l'ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l'ardire
di crederti degno che Dio pensi a consolarti. Avrà pensato a lei, perché lei
è una di quell'anime a cui son riservate le consolazioni eterne. Va'! non ho
più tempo di darti retta.
E così dicendo, rigettò da sé il braccio di Renzo, e si mosse verso una
capanna d'infermi.
- Ah padre! - disse Renzo, andandogli dietro in atto supplichevole: - mi vuol
mandar via in questa maniera?
- Come! - riprese, con voce non meno severa, il cappuccino. - Ardiresti tu di
pretendere ch'io rubassi il tempo a questi afflitti, i quali aspettano ch'io
parli loro del perdono di Dio, per ascoltar le tue voci di rabbia, i tuoi
proponimenti di vendetta? T'ho ascoltato quando chiedevi consolazione e aiuto;
ho lasciata la carità per la carità; ma ora tu hai la tua vendetta in cuore:
che vuoi da me? vattene. Ne ho visti morire qui degli offesi che perdonavano;
degli offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all'offeso: ho
pianto con gli uni e con gli altri; ma con te che ho da fare?
- Ah gli perdono! gli perdono davvero, gli perdono per sempre! - esclamò il
giovine.
- Renzo! - disse, con una serietà più tranquilla, il frate: pensaci; e
dimmi un poco quante volte gli hai perdonato.
E, stato alquanto senza ricever risposta, tutt'a un tratto abbassò il capo,
e, con voce cupa e lenta, riprese: - tu sai perché io porto quest'abito.
Renzo esitava.
- Tu lo sai! - riprese il vecchio.
- Lo so, - rispose Renzo.
- Ho odiato anch'io: io, che t'ho ripreso per un pensiero, per una parola,
l'uomo ch'io odiavo cordialmente, che odiavo da gran tempo, io l'ho ucciso.
- Sì, ma un prepotente, uno di quelli...
- Zitto! - interruppe il frate: - credi tu che, se ci fosse una buona
ragione, io non l'avrei trovata in trent'anni? Ah! s'io potessi ora metterti in
cuore il sentimento che dopo ho avuto sempre, e che ho ancora, per l'uomo ch'io
odiavo! S'io potessi! io? ma Dio lo può: Egli lo faccia!... Senti, Renzo: Egli
ti vuol più bene di quel che te ne vuoi tu: tu hai potuto macchinar la
vendetta; ma Egli ha abbastanza forza e abbastanza misericordia per impedirtela;
ti fa una grazia di cui qualchedun altro era troppo indegno. Tu sai, tu l'hai
detto tante volte, ch'Egli può fermar la mano d'un prepotente; ma sappi che
può anche fermar quella d'un vendicativo. E perché sei povero, perché sei
offeso, credi tu ch'Egli non possa difendere contro di te un uomo che ha creato
a sua immagine? Credi tu ch'Egli ti lascerebbe fare tutto quello che vuoi? No!
ma sai tu cosa puoi fare? Puoi odiare, e perderti; puoi, con un tuo sentimento,
allontanar da te ogni benedizione. Perché, in qualunque maniera t'andassero le
cose, qualunque fortuna tu avessi, tien per certo che tutto sarà gastigo,
finché tu non abbia perdonato in maniera da non poter mai più dire: io gli
perdono.
- Sì, sì, - disse Renzo, tutto commosso, e tutto confuso: capisco che non
gli avevo mai perdonato davvero; capisco che ho parlato da bestia, e non da
cristiano: e ora, con la grazia del Signore, sì, gli perdono proprio di cuore.
- E se tu lo vedessi?
- Pregherei il Signore di dar pazienza a me, e di toccare il cuore a lui.
- Ti ricorderesti che il Signore non ci ha detto di perdonare a' nostri
nemici, ci ha detto d'amarli? Ti ricorderesti ch'Egli lo ha amato a segno di
morir per lui?
- Sì, col suo aiuto.
- Ebbene, vieni con me. Hai detto: lo troverò; lo troverai. Vieni, e vedrai
con chi tu potevi tener odio, a chi potevi desiderar del male, volergliene fare,
sopra che vita tu volevi far da padrone.
E, presa la mano di Renzo, e strettala come avrebbe potuto fare un giovine
sano, si mosse. Quello, senza osar di domandar altro, gli andò dietro.
Dopo pochi passi, il frate si fermò vicino all'apertura d'una capanna,
fissò gli occhi in viso a Renzo, con un misto di gravità e di tenerezza; e lo
condusse dentro.
La prima cosa che si vedeva, nell'entrare, era un infermo seduto sulla paglia
nel fondo; un infermo però non aggravato, e che anzi poteva parer vicino alla
convalescenza; il quale, visto il padre, tentennò la testa, come accennando di
no: il padre abbassò la sua, con un atto di tristezza e di rassegnazione. Renzo
intanto, girando, con una curiosità inquieta, lo sguardo sugli altri oggetti,
vide tre o quattro infermi, ne distinse uno da una parte sur una materassa,
involtato in un lenzolo, con una cappa signorile indosso, a guisa di coperta: lo
fissò, riconobbe don Rodrigo, e fece un passo indietro; ma il frate, facendogli
di nuovo sentir fortemente la mano con cui lo teneva, lo tirò appiè del
covile, e, stesavi sopra l'altra mano, accennava col dito l'uomo che vi giaceva.
Stava l'infelice, immoto; spalancati gli occhi, ma senza sguardo; pallido il
viso e sparso di macchie nere; nere ed enfiate le labbra: l'avreste detto il
viso d'un cadavere, se una contrazione violenta non avesse reso testimonio d'una
vita tenace. Il petto si sollevava di quando in quando, con un respiro
affannoso; la destra, fuor della cappa, lo premeva vicino al cuore, con uno
stringere adunco delle dita, livide tutte, e sulla punta nere.
- Tu vedi! - disse il frate, con voce bassa e grave. - Può esser gastigo,
può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest'uomo che
t'ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà
per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Da quattro giorni è qui
come tu lo vedi, senza dar segno di sentimento. Forse il Signore è pronto a
concedergli un'ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole
che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola
preghiera, alla preghiera d'un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di
quest'uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di
compassione... d'amore!
Tacque; e, giunte le mani, chinò il viso sopra di esse, e pregò: Renzo fece
lo stesso.
Erano da pochi momenti in quella positura, quando scoccò la campana. Si
mossero tutt'e due, come di concerto; e uscirono. Né l'uno fece domande, né
l'altro proteste: i loro visi parlavano.
- Va' ora, - riprese il frate, - va' preparato, sia a ricevere una grazia,
sia a fare un sacrifizio; a lodar Dio, qualunque sia l'esito delle tue ricerche.
E qualunque sia, vieni a darmene notizia; noi lo loderemo insieme.
Qui, senza dir altro, si separarono; uno tornò dond'era venuto; l'altro
s'avviò alla cappella, che non era lontana più d'un cento passi.
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